fisco
Come lo Stato preleva tasse dai contribuenti
In origine il fisco era un cesta (dal latino fiscus "cesta"), ma oggi in questa cesta entrano le imposte e le tasse che lo Stato richiede ai contribuenti. Il fisco rappresenta quindi quel ramo dell'amministrazione pubblica che si preoccupa di raccogliere i fondi di cui lo Stato ha bisogno per soddisfare le proprie funzioni: fornire servizi pubblici e ridistribuire i redditi. Il fisco è fisicamente rappresentato da un ministero o da un'agenzia pubblica incaricata di gestire le entrate dello Stato. Per fisco si può intendere anche quel complesso di leggi e norme che stabiliscono quali e quante imposte dobbiamo pagare, come, dove e quando
Gli agenti del fisco non hanno mai goduto di buona fama. Al solo pronunciarla, la parola fisco evoca prepotenze e oppressione. Storicamente questo è dovuto al fatto che le imposte (sostantivo) sono, appunto, imposte (participio passato del verbo imporre): quando una comunità decise di mettere assieme le proprie risorse e creare servizi pubblici ‒ per esempio, costruire uno steccato per difendere il villaggio dagli assalti ‒ si rese subito conto che i contributi (o tributi) necessari alla bisogna non potevano essere volontari.
Perché? Perché il bene pubblico (lo steccato) è un bene indivisibile (finanza): quando è costruito protegge tutti, sia quelli che lo volevano sia quelli che magari ne avrebbero fatto a meno. Se protegge tutti, tutti devono pagare per costruirlo. E le regole che sovrintendono al pagamento, così come gli agenti preposti a riscuotere questo tributo, si chiamano fisco.
Quando si dice di qualcuno che è un tipo pignolo e meticoloso si usa talvolta l'aggettivo fiscale. Perché? Perché riscuotere i soldi dai contribuenti è una cosa seria e deve essere fatta con tutte le regole. Dato che nessuno è contento di pagare le imposte, ognuno cercherà tutti i cavilli per pagare di meno, e quindi le regole che sovrintendono a questi pagamenti devono essere molto precise: appunto, fiscali.
C'è quindi una naturale contrapposizione fra fisco e contribuenti. Un ministro delle Finanze francese, Jean-Baptiste Colbert (17° secolo), disse che l'arte del fisco è quella di "spennare l'oca facendole meno male possibile". Ecco che allora esiste un fisco 'buono' (per quanto lo può essere) e un fisco 'cattivo'. Il fisco buono è quello che crea un sistema d'imposte che i cittadini riconoscano come giusto e soprattutto, un sistema di regole semplici, che facilitano la comprensione di quanto si debba pagare e rendono agevole il pagamento stesso. Il fisco cattivo è invece quello che crea regole vessatorie e complicate, e, quel che è peggio, costringe anche a fare le code quando si tratta di pagare.
Quando il fisco è cattivo, i contribuenti cercano di sottrarsi al dovere tributario e si crea un fenomeno che si chiama evasione fiscale. Si ha evasione quando i contribuenti vengono meno, in modo fraudolento, al dovere di pagare le imposte. Ma naturalmente, non c'è bisogno di un fisco 'cattivo' perché si verifichi l'evasione. Vi sono anche i 'cattivi' contribuenti, che imbrogliano le carte per non pagare o pagare di meno. A questo venir meno del dovere tributario il fisco reagisce con la lotta all'evasione: inasprendo i controlli e le sanzioni.
Un tempo gli agenti del fisco battevano città e campagne per sorvegliare la corretta applicazione dei tributi. Oggi, nell'era dell'informatica, i controlli avvengono per lo più in modo automatico attraverso l'esame incrociato dei dati, reso possibile dai computer. Se, per esempio, negli elenchi dell'ENEL figura una famiglia o un'impresa che consuma elettricità e quel nome non figura nell'elenco dei contribuenti, il fisco può andare a vedere come stanno le cose. Se, poi, un contribuente presenta, per avere un vantaggio fiscale, la ricevuta di un dentista, il fisco può andare a controllare se il dentista ha denunciato quei redditi.
Per fare tutto questo esiste un ente pubblico, che può essere un ministero, o un'agenzia pubblica apposita, che gestisce la corretta applicazione dei tributi, emana norme e regolamenti, dà pareri e costituisce la controparte dei contribuenti quando questi contestano le posizioni dell'agenzia: il disaccordo tra fisco e contribuenti viene regolato da speciali procedure che costituiscono il contenzioso.
Quando due parti non sono d'accordo si va a finire in tribunale. Ma i tribunali che decidono in materia di imposte non sono quelli normali. Dato che la materia tributaria è altamente tecnica, ci vuole una magistratura specializzata, per decidere con cognizione di causa.
In Italia il contenzioso tributario si articola in diversi livelli di giudizio: ci sono le Commissioni tributarie provinciali dapprima, e le Commissioni tributarie regionali come secondo livello. Da qui si può ricorrere in Cassazione, ma non per problemi di merito; solo se chi protesta invoca vizi di legittimità, cioè di corretta applicazione delle procedure.
Così come in medicina è sempre meglio prevenire che curare, la stessa cosa avviene per la patologia tributaria. Meglio risolvere i problemi prima di spendere tempo e denaro con una causa tributaria. Seguendo questo sano principio il fisco ha introdotto strumenti come l'interpello, che è una specie di parere preventivo chiesto dal contribuente nei casi in cui il comportamento da seguire non è chiaro. Altri strumenti permettono al contribuente di correggere errori, dimenticanze o violazioni minori senza arrivare alla fase più pesante del contenzioso: questi strumenti sono il concordato, la conciliazione giudiziale o il ravvedimento operoso.
Nella trilogia romanzesca Il mulino del Po (1938-40) lo scrittore Riccardo Bacchelli racconta l'incendio di un mulino, appiccato da chi, disperato, cercava di evitare di essere preso in castagna dal fisco, che sorvegliava l'applicazione della famosa tassa sul macinato. Per calcolare la tassa il fisco aveva messo su ogni mulino un contatore, legato ai giri delle pale. E i mugnai cercavano di togliere le corde appena possibile, per fermare la conta dei giri, soggetti sempre alle ispezioni improvvise della Finanza, che arrivava sul fiume con barche veloci per controllare le corde.
La famiglia Scacerni aveva due mulini sul Po, il San Michele e il Paneperso. Cecilia Scacerni, con il primogenito Princivalle e altri cinque figli, era sempre sul chi vive: dopo essere stata una prima volta ammonita, era minacciata di sequestro e rovina. Fino alla notte fatidica ("una notte d'autunno tempestosa con il fiume in piena") in cui fu troppo tardi. E preferirono dare fuoco a uno dei due mulini, piuttosto che subire l'ispezione della Finanza.