peccato
s. m. [lat. peccatum, der. di peccare «peccare»]. – 1. a. In generale, trasgressione di una norma alla quale si attribuisce un’origine divina o comunque non dipendente dagli uomini: il concetto di peccato si colloca sempre in ambito religioso, nella sfera del sacro, e si specifica secondo le varie forme di civiltà e in rapporto a connessi concetti di divinità, colpa, norma e ordine. Nella tradizione ebraica si definisce soprattutto in relazione all’idea di alleanza o patto fra Dio e il suo popolo, come infrazione o abbandono delle leggi che ne sono il fondamento, quindi anche violazione dell’ordine voluto da Dio; il cristianesimo eredita questa nozione ma la reinterpreta secondo la nuova etica dell’amore e della speranza, ritrovando l’origine del peccato nella coscienza malvagia, in un orizzonte dove Satana si costituisce come il tentatore per eccellenza, nemico di Dio e dell’economia della salvezza; nel Nuovo Testamento, in partic. nell’epistolario paolino, si definisce altresì la distinzione fra i peccati (al plurale) come trasgressioni della legge e il peccato (gr. ἁμαρτία) come offesa alla divinità, negazione dell’amore di Dio e dei fratelli. Particolare gravità assume, nella Genesi (2, 8 - 3, 24), il p. originale, infrazione compiuta da Adamo ed Eva di una interdizione divina, da cui è derivata la perdita del paradiso terrestre, come luogo di giustizia e di pace, e l’infelicità, il dolore e la morte per l’uomo; la nozione di peccato originale assume importanza decisiva nelle lettere di s. Paolo (in partic. Rom. 5, 12-21; 1 Cor. 15, 21 segg.) che ha visto nel peccato di Adamo l’origine di una condizione di iniquità intrinseca alla condizione umana tale da rendere tutti gli uomini incapaci di conseguire da soli la giustizia e la salvezza; di qui la necessità del sacrificio di Cristo (nuovo Adamo) per il riscatto dell’umanità dalla colpa originaria. L’espressione p. originale (lat. peccatum originale) è introdotta da s. Agostino, il quale ha fortemente accentuato il vizio radicale che esso ha introdotto in tutti gli uomini, divenuti per la colpa di Adamo «massa dannata». La manualistica teologica, soprattutto cattolica, ha sviluppato varie distinzioni e tipologie di peccato, entrate anche nel linguaggio comune: p. attuale, l’atto in sé di una colpa, in contrapp. al p. abituale, consistente nel persistere per lungo tempo nella colpa, ripetendone con maggiore o minore frequenza gli atti (con altro sign., in contrapp. al p. originale, è detto p. attuale qualsiasi peccato commesso dall’uomo nella vita terrena); a seconda della gravità, si distingue tra p. veniale (v. veniale) e p. mortale (v. mortale, n. 3); un’altra distinzione è fatta tra il p. di commissione, consistente nel porre effettualmente in essere un’azione colpevole, e il p. di omissione, che consiste nel non fare ciò che invece si dovrebbe fare; specificando ulteriormente: p. di pensiero, di opere, di desiderio; e con riguardo alla natura, al carattere della colpa: p. carnale o della carne, quello connesso con la sfera sessuale; p. contro natura, onanismo, sodomia, pratiche omosessuali in genere; nell’antica tradizione teologica, p. (o vizio) capitale, ognuno dei sette peccati (superbia, avarizia, lussuria, ira, invidia, gola, accidia) considerati come principio e causa di innumerevoli altre colpe. In senso generico, fare, commettere p., cadere in p., peccare; vivere in p., in stato di p.; cogliere qualcuno in p., mentre sta peccando; non è p. tornare indietro, pentirsi d’una promessa fatta alla Madonna? (Manzoni); sentire il rimorso del p.; pentirsi di un p.; espiare, scontare un p.; assolvere da un p.; uscire di p., liberarsene, non commetterne più; al plur.: Orribil furon li peccati miei; Ma la bontà infinita ha sì gran braccia, Che prende ciò che si rivolge a lei (Dante); piangere per i proprî p., soffrire per le colpe commesse; fare penitenza dei proprî p.; lavarsi dei p., con riferimento al peccatore, liberarsene mediante la confessione; rimettere i p., con riferimento al sacerdote, dare l’assoluzione nel sacramento della penitenza; fare qualcosa in sconto dei proprî peccati (anche in senso scherz., riferito al fatto di accettare o sopportare qualcosa di particolarmente molesto o sgradevole); è proprio dell’uso ant. un plur. che conserva la forma neutra del latino: L’Agnel di Dio che le peccata tolle (Dante). b. Locuzioni e frasi prov.: chi è senza p. scagli la prima pietra, frase del Vangelo (Giovanni 8, 7: qui sine peccato est vestrum, primus in illam lapidem mittat, parole di Cristo ai farisei che chiedevano se, secondo la legge, dovessero lapidare l’adultera), divenuta proverbiale a significare che soltanto chi è privo di colpe e di difetti può permettersi di giudicare gli altri; p. confessato è mezzo perdonato, il riconoscimento dei proprî torti da parte di chi li ha commessi rende più indulgente chi li deve giudicare; dire il p. e non il peccatore, riferire un fatto delicato o riprovevole senza nominare, per discrezione, la persona che vi è coinvolta; fare il p. e la penitenza, fam., esser punito col proprio danno nel momento stesso in cui si fa qualcosa di male; con altro sign., chi ha fatto il p. faccia la penitenza, bisogna sopportare le conseguenze dei proprî errori; non averci né colpa né p., non essere responsabile di qualche cosa; (esser) brutto come il p., bruttissimo, detto generalmente di persona: una cugina ce l’ho, ma brutta come il p. (Cassola). 2. Con riferimento ai peccati riguardanti l’àmbito sessuale, condizione di vita peccaminosa; in partic., relazione amorosa che avviene fuori del rapporto matrimoniale: vivere nel p.; volete che vostra figlia non si mariti? Volete lasciarla nel peccato? (Verga); donna del p., prostituta; figlio del p. (o della colpa, o anche, eufemisticamente, dell’amore), chi è nato fuori del matrimonio. Queste e altre espressioni simili, fortemente datate, sono ormai cadute in desuetudine, soprattutto in conseguenza della trasformazione dei costumi, e delle concezioni morali, di cui sono un riflesso. 3. a. Colpa più o meno grave, errore che comporta conseguenze negative: Ché ’l furor de lassù, gente ritrosa, Vincerne d’intelletto, Peccato è nostro, e non natural cosa (Petrarca), è colpa nostra e non un fatto naturale che la barbarie nordica superi noi d’intelligenza; acciò che in parte per me s’amendi il p. della fortuna (Boccaccio); lo punzecchiavano per la negligenza del vestiario e il disordine sullo scrittoio, ch’erano i suoi soli peccati (Borgese). In tono scherz., peccato, e più spesso al plur. peccati, di gioventù, errori commessi a causa dell’inesperienza e dell’esuberanza tipiche dell’età giovanile, quindi da considerarsi con indulgenza; in senso fig., opera artistica, letteraria e sim. che l’autore, in età più matura rispetto a quella in cui l’ha composta, rifiuta o giudica con sufficienza. b. In senso fig., pecca, difetto, menda: p. di lingua, di stile; anche, errore, imprecisione: spero ch’Ella ... mi avrà perdonato i miei p. mortali di lingua inglese (Fogazzaro). 4. Dell’uso com. l’espressione essere (un) p., usata come predicato di un infinito o di una proposizione soggettiva, costituire cosa inopportuna, spiacevole, o comunque tale da recare pregiudizio: dorme così bene che sarebbe un p., un vero p., svegliarlo; è p. sprecare il denaro; è un p. fare del bene a certa gente, non ne vale la pena; frequente l’uso ellittico, senza il verbo essere e spesso anche senza l’art. un, per esprimere disappunto o vivo rammarico: sua sorella è molto carina, p. che abbia le gambe storte; in espressioni ellittiche: la festa era bella, p. quella pioggia improvvisa; e in esclamazioni: pensare che potevi vincere tu: peccato! 5. ant. Sentimento di pena, di compassione per qualcuno o qualche cosa, in espressioni come avere peccato di, prendere peccato di o che ..., e sim.: Poi madonna l’ha visto, Megli’è ch’eo mora in quisto: Forse n’avrà peccato (Guinizzelli), poiché la mia donna s’è accorta [del mio amore], è meglio ch’io muoia subito: forse lei avrà compassione [di me]; Non hai peccato Del meschin che more? (Giustinian); il sign. è ancora vivo oggi in qualche dialetto (per es., nel veneto pecà), soprattutto nelle locuz. avere peccato di qualcuno, averne compassione, e fare peccato, destare compassione. ◆ Dim. peccatino, peccatùccio, peccatuzzo; pegg. peccatàccio: s’è pentito de’ suoi peccatacci, e vuol mutar vita (Manzoni); accr. peccatóne.