partitinocrazia
(partitino-crazia), s. f. Lo strapotere di movimenti e partiti politici di scarsa consistenza numerica. ◆ questa continua frantumazione e ricomposizione dei gruppi, questa che il politologo [Gianfranco] Pasquino felicemente definisce la «partitino-crazia» induce ad azzardare immagini meno abitudinarie. Un naufragio con le sue zattere strapiene, certo. Ma anche le istituzioni rappresentative ridotte a desolante terra di nessuno, come l’Italia tra il XIV e XV secolo, percorsa da compagnie di ventura, eserciti mercenari, cavalieri di nobiltà minore, soldataglia sbandata disposta a sfidare qualsiasi sorte. (Filippo Ceccarelli, Stampa, 24 febbraio 1999, p. 9, Interno) • Per disegnare il Partito Democratico di domani (a proposito: dov’è finito l’Ulivo?), senza farne il calco del centrosinistra di ieri, conviene, dunque, partire dalle primarie. Oggi. Uscendo, senza equivoci, dal dilemma fra partitocrazia, anzi partitinocrazia viste le attuali dimensioni delle forze in campo, e retorica dell’impolitica che, da dieci anni, continua a riproporsi. Sarebbe imperdonabile. E, questa volta, irrimediabile. (Ilvo Diamanti, Repubblica, 6 novembre 2005, p. 1, Prima pagina) • I poteri di governo, pur nel contrasto fra partiti e presidenti che [Mauro] Calise ritiene, correttamente, oramai entrato a far parte della dialettica politico istituzionale italiana, ci sarebbero. Quello che manca è la capacità dei dirigenti politici di esercitarli nella babele e nel labirinto della «partitinocrazia» (immediatamente identificata da Ilvo Diamanti). (Gianfranco Pasquino, Sole 24 Ore, 5 febbraio 2006, p. 35, Economia e Società).
Composto dal s. m. partitino con l’aggiunta del confisso -crazia.