intersemiotico
agg. Relativo al passaggio tra sistemi di rappresentazione e di segni diversi, allo scambio tra linguaggi e forme espressive diverse. ◆ Quando si analizzi una traduzione vera e propria, da una lingua all’altra, nessuno si sognerebbe di negarsi il confronto con l’originale: e non per saggiare il grado di «fedeltà» o per scoprire eventuali «errori», ma per cogliere le diversità e gli scatti, le occasioni perdute, la capacità di compensare ciò che, soprattutto in poesia, è per definizione intraducibile. Non si vede perché criteri simili non possano, anzi non debbano, essere usati per quel tipo particolare di «traduzione» («intersemiotica», diceva [Roman] Jakobson) che è il passaggio da un’opera letteraria a un film. (Pier Vincenzo Mengaldo, Corriere della sera, 20 settembre 2000, p. 33, Cultura) • Professor Eco l’espressione «dire quasi la stessa cosa», rende bene ciò che si nasconde in una traduzione. Ma in che ordine di importanza metterebbe il «dire», il «quasi», la «cosa»? «A tutti verrebbe in mente il “quasi” perché lì sta il punto di ogni traduzione, per il fatto stesso che tenta di ridire in un’altra lingua. Ma si parla anche di traduzioni dette intersemiotiche, come la trasposizione di un romanzo in film o di una poesia in musica o balletto. Se si passa dal linguaggio verbale a quello visivo si cambia la materia stessa (dai suoni ai colori, per esempio) e “dire” rischia di diventare una metafora» [Umberto Eco intervistato da Antonio Gnoli]. (Repubblica, 5 aprile 2003, p. 35, Cultura) • Ma come si fa una traduzione intersemiotica? Si tratta di analizzare e commentare in modo comparato alcuni testi che appartengono a generi e a linguaggi diversi, per esempio i versi di una poesia, un quadro, il libretto di un’opera lirica, appartenenti ad epoche differenti ma che abbiano in comune il tema. (Anna Grittani, Repubblica, 1° marzo 2007, Bari, p. IX).
Derivato dall’agg. semiotico con l’aggiunta del prefisso inter-.