ZENONE di Elea
Pensatore greco del sec. V a. C. Scolaro di Parmenide, fu uno dei principali rappresentanti della scuola eleatica. Secondo Apollodoro la sua acme cadrebbe tra il 464 e il 460 a. C.; egli sarebbe quindi nato al principio del secolo (tale datazione sembra peraltro influenzata anche dalla regola, consueta agli antichi cronografi, secondo la quale, come l'acme è posta nel quarantesimo anno della vita, così un quarantennio è regolarmente interposto fra maestro e scolaro: regola che si trova infatti applicata, nella cronologia della scuola eleatica, tanto per il rapporto tra Parmenide e Z. quanto per quello tra Senofane e Parmenide). Della sua vita nulla è noto, salvo la tragica fine, variamente riferita dalle diverse fonti, in cui egli sarebbe incorso per avere cospirato contro un tiranno, che lo fece morire fra tormenti da lui coraggiosamente affrontati.
Quanto alla sua opera e alla sua dottrina, la testimonianza più antica e importante è quella contenuta nel Parmenide platonico (127 A-128 E), in cui si parla di uno "scritto" composto da Z. per "venire in aiuto" del suo maestro Parmenide. In tale scritto, dice Platone, Z. non sostiene una tesi diversa da quella di Parmenide, ma giunge alla stessa conclusione per via differente. Se infatti Parmenide mira, nel suo poema, a dimostrare che la sola realtà esente da contraddizioni è "ciò che è", l'"ente", nella sua indipendenza da ogni predicazione particolare, Z. tende a contrapporre agli argomenti del senso comune, che nel monismo parmenideo vede paradossalmente negata ogni evidenza e molteplicità fenomemca, la tesi che non minori assurdi derivano dalla stessa presupposizione di tale molteplicità.
Questa testimonianza platonica è da tener presente per intendere il significato storico delle famose argomentazioni zenoniane contro la molteplicità e il movimento, delle quali è tanto vivo il ricordo nella tradizione, quanto povera la documentazione diretta (testimonianze e frammenti sono raccolti in Diels, Die Fragmente der Vorsokratiker, I, 4ª ed., Berlino 1922, pp. 165-75: ma la silloge - rimasta sostanzialmente immutata anche nella 5ª ed., curata da W. Kranz, I, Berlino 1934, pp. 247-258 - è per alcuni lati manchevole). Risulta da essa, anzitutto, che fondamentale caratteristica della polemica zenoniana è la deduzione degli assurdi derivanti dal presupposto della molteplicità: e giacché anche i pochi frammenti originali di Z. che ci sono pervenuti si riferiscono quasi tutti a tale polemica contro la molteplicità, è metodologicamente ovvio che l'interpretazione e ricostruzione di quest'ultima debba precedere e condizionare l'intendimento di quella negazione del moto, che ci è nota quasi esclusivamente attraverso notizie e confutazioni altrui.
In questo senso, massimamente istruttivo è il fr. 3: "Se le cose son molte, è necessario che sian tante quante sono, e né più né meno di tante. Ma se sono tante quante sono, sono finite di numero. Se le cose sono molte, sono infinite: infatti in mezzo a esse ce ne sono sempre altre, e altre ancora in mezzo a queste. Così le cose sono infinite". È questo l'unico degli argomenti di Z. che sia superstite nella sua integrità, e mostra evidenti le caratteristiche tanto strutturali quanto sostanziali che dovevano contraddistinguerli. La struttura è quella della reductio ad absurdum, fondata sulla possibilità di ricavare due conclusioni tra loro contraddittorie dalla stessa premessa, e quindi intesa a dimostrare l'incongruenza della premessa medesima. Nella sua sostanza, l'argomentazione è d'altronde basata su quella che modernamente si direbbe la dialettica dell'estensione spaziale, ogni elemento della quale per un verso esclude da sé tutto ciò che da esso è altro, e per un verso lo implica invece in sé, come elemento necessario per la propria delimitazione. Così, qui, Z. scopre come una molteplicità di cose, prospettata visivamente nello spazio, sia da un lato numericamente finita, dovendo comunque essere tanto grande quant'è, e dall'altro numericamente infinita, anzi infinitamente accrescentesi, perché per essere molti è necessario essere distinti, e a tale fine occorrono realtà distinguenti, le quali d'altronde si moltiplicano all'infinito, perché anche quel che distingue dev'essere distinto da ciò che esso distingue. Sostanzialmente analoga (per quanto possa discutersi la precisa ricostruzione dell'argomento, in questo caso solo assai parzialmente conservato nei fr. 1 e 2) sembra poi anche la parallela dimostrazione, che dal medesimo presupposto della molteplicità doveva dedurre un'antinomia simile alla precedente, per quanto imperniata non più sul motivo dell'infinità numerica, nel senso della grandezza discreta (ἄπειρον κατὰ πλῆϑος), ma su quello dell'infinità estensiva, nel senso della grandezza continua (ἄπειρον κατὰ μέγεϑος).
Si vede con ciò come Z. difenda la negazione parmenidea della realtà apparente trasferendo sul piano visivo, intuitivo dello spazio quell'antinomicità che dal maestro era invece prospettata nell'ambito dell'enunciazione logico-linguistica: per Parmenide infatti la contraddittorietà delle cose singole deriva dalla circostanza che ciascuna di esse "è" quella che è in quanto "non è" altra, e quindi unisce in sé l'essere e il non essere (v. parmenide); per Z. essa deriva dal fatto che ciascuna di esse sta e non sta nel suo limite spaziale. E s'intende anche, allora, come Hegel possa poi dire che nei dilemmi di Z. è già anticipato il contenuto delle antinomie kantiane: tanto negli uni quanto nelle altre è infatti sempre sostanzialmente lo stesso principio dialettico, che, prospettato nel suo momento di antinomicità, è sentito come sintomo di assurdità o di errore. Per singolare combinazione, d'altronde, Z. è già chiamato da Aristotele "inventore della dialettica" nell'originario ed etimologico significato del termine, in quanto il suo accettare la premessa avversaria e il suo dimostrarne dilemmaticamente l'assurdo appare quale primo grande esempio dell'"arte dialettica", cioè della tecnica del "dialogare" discutendo e confutando abilmente l'interlocutore. Si può quindi dire che l'ulteriore corso della storia finisce col giustificare la definizione aristotelica di Z. "inventore della dialettica" in un più profondo senso, che non sarebbe stato inteso né da Aristotele né da Z., perché per l'uno la parola aveva un valore diverso e per l'altro non ne aveva ancora.
D'altra parte, quando Z. prospetta obiettivamente le "molte cose" per scoprirne l'assurdo, quel che egli anzitutto considera non è la loro molteplicità complessiva, ma l'elemento singolo di tale molteplicità: ed è appunto la condizione di questo elemento, costretto a essere quel singolo elemento che è ma per ciò stesso anche ad avere accanto una realtà delimitante e distinguente, che, rinnovandosi per ogni altro elemento e per le realtà che li distinguono, conduce all'antinomia della finità e infinità numerica del molteplice. Col medesimo procedimento ideale, del resto, Z. dimostra altrove un'eguale assurda compresenza di limitatezza e illimitatezza nella stessa totalità dello spazio. "Se lo spazio c'è, sarà in qualche luogo: tutto quel che c'è è infatti in qualche luogo. Ma quel che è in qualche luogo è anche nello spazio. Lo spazio sarà quindi nello spazio, e così all'infinito. Dunque lo spazio non c'è" (Simpl., Phys., p. 562, 2-4: ma è con ogni probabilità testo originale di Z., da aggiungere quindi nella serie dei frammenti). Quel che vale per il minimo vale, cioè, anche per il massimo. Ma allora tale strumento ideale può investire anche l'unica realtà verace, in quanto prende figura innanzi all'occhio del contemplante. Già in Parmenide, di fatto, alla trasposizione di "ciò che è" dalla sfera logico-linguistica in quella visivo-intuitiva segue subito la sua conformazione in realtà finita e autosufficiente, ma d'altro lato l'esclusione di ogni "non è" reagisce a tale motivo imponendo a "quel che è" la dinamica repulsione di qualsiasi alterità e limite. E in Melisso quest'ultimo motivo acquista il sopravvento, conducendo a invertire senz'altro in infinità la parmenidea finità dell'ente. Si può quindi dire che Z. dimostra contraddittorio l'apparente proprio facendo vedere che possiede insieme i caratteri del reale parmenideo e del reale melissiano.
Lo stesso atteggiamento ideale si manifesta del resto intrinseco anche agli argomenti contro il moto, per quanto almeno di genuino è dato in essi effettivamente cogliere al dilà delle interpretazioni critiche di Aristotele (essi ci sono noti infatti solo attraverso la disamina che questi ne compie nella Fisica: v. le testimonianze A 25-28 Diels-Kranz) e delle innumerevoli deformazioni seriori (incerto, per es., resta l'inquadramento polemico di tali argomenti, che, secondo alcune versioni, avrebbero dovuto far parte della generale deduzione delle antinomie derivanti dal presupposto della molteplicità, e secondo altre, invece, avrebbero dovuto costituire un'indipendente dimostrazione e contrario dell'immobilità dell'ente unico). Nel primo argomento Z. sostiene che un mobile A non potrà mai pervenire dal punto B al punto C, perché prima dovrà giungere al punto D, intermedio tra B e C, e prima ancora al punto E, intermedio tra B e D, e così via all'infinito (è l'argomento detto della "dicotomia", perché basato sulla progressiva "bipartizione" delle distanze). Nel secondo (l'"Achille") Z. sostiene che il veloce Achille non raggiungerà mai la tartaruga, se questa abbia un iniziale vantaggio: perché prima dovrà superare questa distanza, ma nel frattempo la tartaruga avrà acquistato un vantaggio nuovo, rinnovandosi quindi la situazione di prima, e così all'infinito; il vantaggio della tartaruga diminuirà sempre, con ritmo proporzionale alla differenza fra le due velocità, ma non si ridurrà mai a zero. Nel terzo argomento (la "freccia") è detto che la freccia, la quale sembra muoversi, in realtà non si muove, perché in ciascun momento del tempo si trova in un certo spazio eguale ad essa: e ciò che sta in uno spazio pari a sé, è fermo. Infine il quarto argomento (lo "stadio"), paragonato il movimento di alcuni punti rispetto a certi punti fermi col movimento che essi stessi manifestano rispetto ad altri punti che si muovono in direzione contraria, ne deduce che un certo tempo è uguale alla metà di sé stesso. Ora, se si prescinde da quest'ultimo argomento (che colpisce l'idea del moto solo in quanto se ne presupponga l'assolutezza, e cioè non si avverta la relatività dei suoi valori), è facile vedere come nelle prime due aporie l'irraggiungibilità del termine a cui il moto dovrebbe condurre sia sostenuta mercé un accrescimento all'infinito della distanza, che è analogo a quello già messo in atto nella dimostrazione dell'infinità del molteplice. E nella terza Z. cristallizza ciò che dovrebbe muoversi nella tipica immobilità spaziotemporale propria dell'ente parmenideo, che è e sta così com'è contemplato: fermata dallo sguardo in qualsiasi istante del suo percorso, la freccia zenoniana è nel νῦν, nell'"adesso", al pari dell'ente parmenideo, e chiusa in quel puro presente non ha tempo per muoversi nello spazio, non avendo spazio per muoversi nel tempo.
Il bizzarro destino di Z. è dunque quello di credere aporia esclusiva dei "molti" quella che in realtà è anzitutto l'aporia stessa dell'"uno". Scolaro di Parmenide, per cui l'attributo di ἕν designa ancora indistintamente l'essere "unico" e l'essere "unitario", e preoccupato di combattere l'antiparmenideismo corrente, che alludendo alla "realtà unica" adopera quell'attributo in modo non meno generico, egli non sa infatti ancora distinguere i diversi possibili valori dell'ἕν, e in particolare quello per cui esso indica il singolo elemento del molteplice, l'"unità discreta" del numero, da quello per cui esso invece significa l'unità-totalità, che o risolve in sé ogni molteplice o da sé affatto l'esclude. Combatte, così, per l'uno contro il molteplice, e colpisce in realtà l'uno elemento del molteplice, senza accorgersi come la contraddittorietà che rinfaccia a questo piccolo uno possa venire ugualmente rinfacciata anche a quel grande uno. S'intende allora come Aristotele, che prepara la soluzione dei problemi dell'essere distinguendo quei varî significati della sua enunciazione che convivono indifferenziati nell'ὄν parmenideo, affronti analogamente i problemi dell'unità sceverando anzitutto quei diversi valori dell'ἔν, che né Z. né gli zenoniani sono capaci di distinguere; e come poi altri più tardi interpreti, che sentono ovvia la differenza dell'uno dall'uno ma non possiedono la capacità storica di restituirsi al livello mentale di Z. e alla sua indistinzione arcaica, possano dubitare se oltre al secondo, o in luogo di esso, egli neghi il primo, e giungere alle più bizzarre asserzioni e confusioni. La paradossale situazione dello scolaro di Parmenide nei riguardi del maestro è d'altronde avvertita subito dallo spirito ironico di Gorgia, che la sfrutta mostrando, nel suo scritto Su quel che non è, come l'ente parmenideo venga annientato dagli stessi argomenti elaborati da Z. per dissolvere il molteplice. E quando più tardi i Megarici, eredi del verbo e del metodo zenoniano, muovono pericolosi argomenti contro le "idee" di Platone, questi reagisce col Parmenide rinnovandovi su piano più alto e complesso l'ironia gorgiana, e cioè facendo svolgere a Z., chiamato ad ammaestrare Socrate inesperto difensore delle "idee", un'esercitazione dialettica che procedendo col suo caratteristico metodo giunge a sommergere proprio l'ente e l'uno in uno smisurato abisso di contraddizioni. Anche la posteriore fortuna delle sue idee contribuisce quindi a far ravvisare in Z. il tipico scolaro zelante, che per difendere ad ogni patto il maestro costruisce le armi stesse che saranno rivolte contro la sua teoria. Per l'interpretazione matematica degli argomenti di Zenone, v. infinito, XIX, p. 207.
Bibl.: La bibliografia zenoniana è vastissima, dato anche il fatto che analisi e critiche degli argomenti di Z. s'incontrano spesso anche in opere non a lui espressamente dedicate. Per un primo orientamento v. le indicazioni date in Ueberweg-Praechter, Grundr. d. Gesch. d. Philos., I, 12ª ed., Berlino 1926, p. 48*. Per le interpretazioni più recenti e per la giustificazione di quella sopra esposta, v.: G. Calogero, Studî sull'eleatismo, Roma 1932, pp. 87-155; id., La logica del secondo eleatismo, in Atene e Roma, 1936, p. 141 segg.