DELLA BARBA, Zanobi
Nulla o quasi sappiamo di questo cantimbanco attivo a Firenze nel secondo decennio del Cinquecento, la cui sottoscrizione di editore, intesa l'espressione nel senso più ampio, appare in una trentina di opuscoli di carattere popolaresco stampati a Firenze, quasi tutti adorni di belle xilografie.
Sebbene la sua fama come "canterino" debba essere stata notevole nella Firenze del primo Cinquecento, è essenzialmente proprio dagli scarsi dati che il D. ha lasciato nelle sottoscrizioni, e dagli stessi testi che fece stampare, che occorre prendere le mosse per cercare di precisare i contorni della sua figura. L'espressione "Zanobi da Barberino" che appare in un colophon e che prosegue "che mai in casa non ha un fiorino" fa sospettare una deformazione scherzosa dovuta alle esigenze della rima piuttosto che una dichiarazione esplicita d'origine; così pure sembra ammiccare scherzosamente agli ascoltatori, fra i quali è popolare, con lo "Zanobi Barbetta" con cui si sottoscrive nella Rappresentatione d'uno peregrino, come pure, forse, con i sonanti appellativi "messere" e "maestro" dei quali gratifica se stesso in molte sottoscrizioni. Sembrano anche rientrare in questo quadro di petulante autoironia i frequenti richiami alla propria povertà: "a petizione del poverino maestro Zanobi della Barba", "... Zanobi poverino che a sua posta non ha mai un fiorino", "...Zanobi della Barba poverino che non ricoglie né pan né vino", "mastro Zanobi della barba... poverino... spera per virtù di questi santi quattro danar haver da tutti quanti".
Il "canterino" e il cantimbanco dovettero essere ottimi clienti dei tipografi perché, dopo aver cantato dall'alto del palco poemi cavallereschi e vite di santi, canzonette politiche o satiriche, avevano la necessità di diffonderne i testi fra i loro ascoltatori. Il cantimbanco può quindi essere considerato l'"editore" delle stampe popolaresche e i tipografi, che quasi mai sottoscrivevano le edizioni, non mancavano di ricordarne il nome nel colophon a seguito delle parole "a petitione di" o "ad istantia di". È questa spesso l'unica notizia tramandata dell'esistenza di una di quelle celebrità di fiera e di piazza che lasciarono tuttavia così labile traccia della grande popolarità che ebbero ai loro tempi in città e paesi d'Italia.
In definitiva la figura del D., non solo come libraio-editore, ben curioso, di stampe popolari ma anche come cantastorie, può essere chiarita, sia pure con una certa approssimazione, solamente attraverso gli opuscoli che egli fece stampare e dei quali fu spesso anche autore.
Le edizioni conosciute sono oltre trenta, ma rappresentano certo solo una parte della sua produzione che, come tutta la letteratura del genere, sarà andata in maggioranza perduta. Si tratta, infatti, nella totalità, di edizioni in volgare di contenuto che si suole definire "popolare": oltre il cinquanta per cento è costituito da opere di carattere religioso, vite di santi, sacre rappresentazioni, laudari; un buon terzo poi è costituito da composizioni di contenuto moraleggiante o satirico, per quanto una certa vena satirica non manchi spesso neppure negli opuscoli di contenuto religioso. Sembrano gettare infine una qualche luce sulla figura pubblica del D. alcuni componimenti poetici, tutti anonimi, che si discostano dai temi di tutto il resto della sua produzione editoriale e che sembrano collocarlo politicamente nel partito mediceo: la Vittoria e acquisto del ducato d'Urbino, che si riferisce agli avvenimenti del 1516 quando i Medici conquistarono Urbino ai Della Rovere, due raccolte di versi per il ritorno dei Medici a Firenze, ornate di una xilografia con le armi del cardinale Giovanni de' Medici, i Sonetti morali bellissimi per la morte dei duchi d'Urbino. Arguire da questa stampa che egli fosse un partigiano dei Medici è probabilmente ardito, ma forse cantare, e far stampare, versi in loro lode deve essere sembrato al "poverino maestro Zanobi" un buon mezzo per procurarsi qualcuno di quei fiorini che i Medici facevano distribuire con tanta generosità nei giorni del loro ritorno a Firenze. ì
Molti dei testi che il D. faceva stampare sono attribuiti ad autori ben identificati: Gherardo da Prato, Antonio di Guido, Bernardo Accolti, Castellano Castellani, Bernardo Davanzati; alcune opere se le attribuisce direttamente lo stesso D., ad esempio La istoria di San Cosimo et Damiano; la gran parte però delle sue edizioni non reca indicazioni che valgano ad individuarne gli autori. Così che non sembra assurdo supporre che anche per queste del D. sia stata non solo l'opera di scelta e di raccolta dei versi da stampare, ma anche quella di composizione, o almeno di adattamento e rifacimento di testi preesistenti, secondo una pratica diffusa nell'ambito dei componimenti popolari.
Il D. evidentemente non fu tipografo in proprio. Le sue sottoscrizioni sono chiare in proposito, egli "fece stampare" da altri tipografi e in questo senso si presenta propriamente nelle vesti di editore degli opuscoli che apparivano sotto il suo nome. L'opera tipografica vera e propria, non eccelsa perché tutti gli opuscoli rivelano una tecnica alquanto spicciativa, come in tutta l'editoria del genere, fu svolta da impressori che non ritennero, data la modestia dell'impegno, di dovervi apporre mai il proprio nome. Essi saranno da identificare con alcuni dei tipografi operanti a Firenze nel periodo di attività del D., nel quale solo due date possono identificarsi con certezza e dentro limiti assai ristretti: una fra il 16 sett. 1512 e l'11 marzo 1513 (Parlamento che rese ai Medici la Signoria ed elezione del cardinale Giovanni al papato: Canzone e sonetti in laude della casa de' Medici), l'altra è il 4 maggio 1519 (morte di Lorenzo duca d'Urbino: Sonetti morali bellissimi della morte...).
Dovette certo collaborare col D. Gian Stefano di Carlo, tipografo attivo a Firenze tra il 1507 e il 1521, il cui carattere di stampa è riconoscibile nella Rappresentazione di Lazer riccho & Lazero povero;stamparono per lui anche Antonio Tubini e Andrea Ghirlandi, in attività fino al 1519 e oltre, ai quali possono essere attribuite almeno tre edizioni, in una delle quali, i Septe peccata mortali, aggiunsero anche la propria marca tipografica, il dragone sormontato dalle iniziali, A A, dei loro nomi. Una marca editoriale del D. è stata ipoteticamente riconosciuta nello scudo gentilizio che appare nei Sonetti della morte, ma è più probabile che si tratti di una xilografia con semplici intenti di ornamento, come le molte altre che accompagnano quasi tutte le sue edizioni, in qualche modo arricchendone la modestissima veste tipografica.
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