BUONDELMONTI, Zanobi
Figlio di Bartolomeo e di Alessandra di Guglielmo de' Pazzi, nacque a Firenze il 5 apr. 1491. Tutte le notizie sul primo periodo del B. risalgono al processo istruito contro di lui e contro i suoi compagni in seguito alla congiura del 1522 contro il cardinale Giulio de' Medici. A questa data il B., secondo quanto risulta dagli atti del processo, era titolare di una ditta "ratione battiloris", in società con Ugolino Mazzinghi, e di una azienda commerciale "in ratione di pecore et pelle" in società con Piero di Bernardo Gondi: quest'ultima compagnia con succursale in Lione, affidata alla gestione di Antonio e Bernardo Gondi. Altrettanto scarne le notizie intorno alla sua educazione: lo si dice spesso discepolo di Francesco Cattani da Diacceto, ma non è possibile stabilire se egli ne avesse frequentato i corsi nello Studio fiorentino, o solo ne avesse ascoltato gli insegnamenti nelle adunanze degli Orti Oricellari, delle quali l'uno e l'altro furono tra i protagonisti più assidui.
Certo è che il B. godeva di molte amicizie tra i letterati, non soltanto fiorentini: l'Ariosto, per esempio, fu più volte suo ospite, nello splendido palazzo che il B. possedeva in piazza Santa Trinita. Ma soprattutto il B. contava le proprie amicizie nella raffinata schiera dei frequentatori di Cosimino Rucellai, dal Cattani a Filippo Nerli, da Antonfrancesco degli Albizzi e da Antonio Brucioli a Iacopo Nardi e a Luigi Alamanni, da Giovambattista della Palla a Niccolò Machiavelli.
Grande, particolarmente, fu l'intimità del B. con quest'ultimo, e non pare dubbio che il giovane mercante e banchiere fosse tra coloro dai quali, come ricorda il Nardi (II, p. 12), "Niccolò era amato grandemente... e anche per cortesia sovvenuto, come seppi io, di qualche emolumento". Questa congettura sembra autorizzata anche dalla dedica dei Discorsi, nella quale il Machiavelli si scusa col B. e con il Rucellai se l'omaggio dell'opera "non corrisponde agli obblighi che io ho con voi" (Il Principe e Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, p. 121). Comunque fu certamente una affettuosa amicizia e il Machiavelli dovette esserne assai confortato nel suo triste ritiro dalle incombenze politiche, come traspare da certe lettere del segretario in disgrazia.
Ma certamente la solida base di quella amicizia doveva essere costituita dal comune interesse alle "lezioni dell'istorie". Ovvio che in questo Niccolò dovesse essere un ascoltato maestro; e certamente il B. fu il più attento e intelligente degli allievi: sicuramente non fu soltanto per "gratitudine de' beneficii ricevuti" che il Machiavelli gli dedicò, oltre ai Discorsi, anche la Vita di Castruccio Castracani (congiuntamente a Luigi Alamanni), e lo introdusse tra gli interlocutori dell'Arte della guerra. Ché anzi il B. non mancava, all'occasione, di polemizzare con l'amico: come nella lettera del 6 sett. 1520, scritta in risposta all'invio fattogli da Niccolò della Vita di Castruccio, la quale, pure giudicata "cosa buona et ben detta", gli dispiaceva in "certi luoghi i quali, se bene stanno, bene si potrebbono non di meno migliorare; come è quella parte ultima dei ditterii et del tratti ingegnosi et acuti detti del detto Castrucci". E di altre parti dell'opera si riprometteva di "parlare a bocha con più piacere assai" (Machavelli, Lettere, p. 177). Ecerto, se il Machiavelli si dedicò sempre più, negli ultimi anni della vita, alle sue opere storiche e politiche, non fu senza impulso del B., che, a proposito del progetto delle Istorie fiorentine, esortandolo a dedicarsi "con ogni diligentia a scrivere questa hystoria", si prodigò assai per ottenergliene l'incarico e la retribuzione, da parte del cardinale de' Medici.
Ma soprattutto, come era naturale, dominava la piccola accademia nata in casa Rucellai (che continuò con la stessa assiduità anche dopo la morte di Cosimino, nel 1519) il magistero politico del Machiavelli: e non meraviglia se con quell'ispiratore tutti i suoi amici finissero per sentirsi, quale più quale meno, grandi capacità di uomini di Stato. Né è senza significato che alla richiesta pressoché provocatoria fatta dal cardinale Giulio de' Medici di proposte di riforma dello Stato fiorentino rispondesse, con lo stesso Machiavelli e con Alessandro de' Pazzi, anche il B.: il suo memoriale purtroppo si è perduto, ma l'episodio è indicativo delle ambizioni che gli si agitavano nella mente. Del resto il Machiavelli non era abbastanza cauto - lui che rinchiesta per la congiura (1513) di Pietro Paolo Boscoli aveva lasciato tutt'altro che immune da sospetti e che pertanto era tenuto a grande prudenza - da valutare quanto potessero sull'animo dei giovani amici i suoi infiammati discorsi e scritti politici.
Né era un invito a moderare le ambizioni politiche la dedica dei Discorsi al B. e al Rucellai, a tutto vantaggio dei quali affermava di aver voluto scegliere come destinatari dell'opera "non quelli che sono principi, ma quelli che per le infinite buone parti loro meriterebbono di essere..." (Il principe e Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, pp. 122 s.). Sicché se, come appare sicuro, il Machiavelli non ebbe parte diretta e consapevole nella congiura organizzata dai suoi amici nel 1522, pure appare chiaro il motivo per il quale, secondo la testimonianza del Nardi, "de' pensamenti e azioni di questi giovani anche Niccolò non fu senza imputazione" (Istoriedella città di Firenze, II, p. 72).
A torto però qualche studioso ritiene che l'opposizione al governo mediceo fosse una delle caratteristiche essenziali delle adunanze degli Orti Oricellari: se così fosse stato non soltanto non vi si sarebbe esposto, se non altro per ragioni di prudenza, il Machiavelli, ma non vi avrebbe sicuramente preso parte un partigiano dichiarato dei Medici come Filippo Nerli. In realtà alcuni di coloro che parteciparono alla congiura erano stati sino a poco tempo prima se non partigiani dei Medici, almeno in buone relazioni con loro: come il B., appunto, che contava di potere influire su Giulio de' Medici perché al Machiavelli fossero commissionate le Istorie;o come Giovambattista della Palla, che proprio nella protezione di Leone X aveva a lungo sperato per una brillante carriera ecclesiastica.
All'idea della congiura, alla stessa ostilità al governo mediceo, si arrivò in effetti lentamente: alcuni per ragioni personali, come il della Palla, o come, forse, lo stesso B., del quale si disse che non aveva potuto perdonare al cardinale Giulio de' Medici di esserglisi mostrato avverso in un contrasto con il cugino Benedetto Buondelmonti. Ma certo, più che questi motivi, contò il lento maturare dei classicheggianti ideali di libertà che si respiravano nell'insegnamento del Machiavelli, e lo stesso irrigidirsi dell'egemonia medicea e, infine, gli errori di troppa astuzia di Giulio de' Medici.
O perché contasse effettivamente su una restaurazione sia pure parziale dell'antica Signoria in vista di una sua elezione al pontificato, o perché volesse al contempo raffrenare e scoprire gli avversari del potere mediceo, il cardinale era andato diffondendo ad arte l'impressione di una sua intenzione di operare una riforma dello Stato fiorentino per restituirlo alle antiche "libertà": perciò ostentava l'amicizia del savonaroliano Girolamo Benivieni, perciò non si stancava di chiedere pareri sulla riforma dello Stato e "mostrava farne gran capitale", come riferisce il Nerli nei suoi Commentarii a proposito delle memorie presentate al Medici dal Machiavelli e dal Buondelmonti (p. 137).Ma se, come pare estremamente probabile, il futuro Clemente VII non aveva altra intenzione che di sondare gli animi dei Fiorentini, non calcolò abbastanza le conseguenze pericolose che potevano derivare dall'alimentare quelle illusioni, tanto più quando all'esterno si venivano rafforzando, intorno al cardinale Francesco Soderini, i progetti di mutamento violento dello Stato fiorentino. Spingendo il suo gioco sino alle estreme conseguenze, Giulio de' Medici lasciò persino correre la voce che a calendimaggio del 1522 sarebbe stato promulgato un bando con le promesse riforme: ovvio che non se ne facesse niente, altrettanto ovvio che l'alternanza di speranze e di delusioni finisse per provocare i più esasperati.
In questa atmosfera e con queste suggestioni, inevitabilmente in gran parte letterarie, ma che tuttavia solo attraverso molte mediazioni si possono far risalire ai dibattiti degli Orti Oricellari, nacque il complotto per assassinare il giorno di Corpus Domini, 19giugno 1522, il cardinale Giulio de' Medici.
Che il B. fosse, in Firenze, il principale animatore della congiura risulta chiaro da quella che è, tra le tante rimaste, la più circostanziata e, tutto sommato, la più veridica relazione della congiura: la deposizione di uno dei congiurati, Niccolò Martelli, nel secondo processo fattogli a Civitavecchia nel 1526. Con il B. erano vari frequentatori degli Orti Oricellari, Luigi Alamanni, Iacopo da Diacceto, Giovambattista della Palla, un cugino ed omonimo dell'Alamanni, Luigi di Tommaso, Antonio Brucioli. Pare che il B. avesse in animo di invitare nel complotto anche il Machiavelli, ma ne fu dissuaso dal Martelli con la considerazione che il Machiavelli avrebbe immediatamente destato sospetti "per non essere amico della illustrissima casa" (Documentidella congiura..., p. 244).Dalla medesima deposizione appare evidente che l'idea della congiura nacque in modo autonomo nel B. e nei suoi amici per poi innestarsi, come era naturale che avvenisse, nella più vasta iniziativa antimedicea alimentata dal cardinale Soderini e dalla corte di Francia. Perché in questo almeno l'insegnamento del Machiavelli era servito: al Martelli che gli proponeva di avvelenare Giulio de' Medici, somministrandogli il tossico in "un piatto di huova ripiene", il B. replicava "che non era il proposito, et che a voler mutar lo stato di Firenze non bisognava solo la morte del cardinale de' Medici, ma etiam era oportuno gli aiuti d'un pocho di exercito et favor del re, per poter obstare alle forze della casa de' Medici" (ibid., p. 242).
A questo fine il della Palla era stato inviato alla corte di Francia, allora a Digione, per sollecitare un efficiente aiuto militare dall'esterno. Si delineò così il piano di una contemporanea rivolta, con relativa uccisione del Medici, a Firenze, e contro il governo filomediceo del Petrucci a Siena, mentre Renzo da Ceri, con genti francesi e del cardinale Soderini, avrebbe dovuto invadere la val di Chiana e poi spingersi sino a Firenze; inoltre una squadra navale genovese avrebbe dovuto irrompere su Livorno e le genti del duca di Ferrara, pure informato della congiura, avrebbero dovuto entrare nel territorio fiorentino attraverso la Garfagnana ed il Frignano, "affine che tanti moti da ogni banda a un tratto insieme colla coniura disegnata havessi a sbigottir in Firenze el populo, et dargli causa di tirarli alla volta loro, et mutar lo stato" (ibid., pp. 244 s.).
Dalla stessa deposizione del Martelli si ricava il piano delle riforme politiche che il B. e i suoi amici avrebbero voluto realizzare dopo il successo della congiura, esplicitamente esemplate nelle soluzioni istituzionali della Repubblica di Venezia.
Il successo dell'iniziativa era affidato in gran parte alle virtù militari di Renzo da Ceri; ma fu proprio il condottiero viterbese a mancare alle aspettative generali dei congiurati e dei fuorusciti, sebbene a questi, e in specie ai Senesi, risalga la responsabilità di non aver fiancheggiato adeguatamente l'impresa approvvigionando come era necessario le milizie di Renzo. Questo, impantanatosi nella Maremma, dopo avere invano assalito Chiusi, Siena e Orbetello, "fu forzato risolversi per fame" (ibid., p. 249).In conseguenza del fallimento di questa spedizione, né le galere genovesi né le milizie estensi tennero fede al loro impegno e i congiurati fiorentini si guardarono bene dallo scoprirsi.
Tuttavia la cattura di un corriere rivelò al governo mediceo l'intero complotto. Il B. riuscì a mettersi in salvo con la fuga, insieme con Luigi Alamanni, mentre il cugino di quest'ultimo, l'omonimo Luigi di Tommaso, e Iacopo da Diacceto furono imprigionati. Nel processo che subito ne seguì, il Diacceto confessò i propositi dei congiurati. Fu condannato, insieme con il compagno, alla decapitazione, eseguita il 7 giugno 1522.Al B. e all'Alamanni l'11 giugno fu ordinato di presentarsi entro tre giorni, sotto pena di essere dichiarati ribelli e della confisca di tutti i beni. Poiché naturalmente i due non obbedirono, contro di loro, riconosciuti colpevoli di "tractatum, seditionem et coniurationem contra presentem pacificum statum, liberum, tranquillum et guelfum civitatis Florentie" (ibid., p. 137) e "contra reverendissimum etillustrissimum cardinalem de Medicis" (ibid., p. 139), fu stabilita una taglia di 500 ducati d'oro. Ai soci del B., inoltre, il Mazzinghi e i Gondi, sia a Firenze sia a Lione, si imponeva "che per l'avenire in modo alcuno non paghino né dieno, né pagare né dare faccino a Zanobi di Bartolomeo Buondelmonti, o suo mandato, o altri per lui, sopra alcuna ragione del decto Zanobi" (ibid., p. 132).
Insieme all'Alamanni il B. trovò dapprima rifugio a Lucca, subito dopo in Garfagnana, presso l'Ariosto. L'ospitalità del poeta, tuttavia, non dovette prolungarsi a lungo, ché lo avrebbe compromesso agli occhi del duca di Ferrara, non incline in quel momento a peggiorare i propri rapporti con i Medici. I due partirono poi alla volta di Venezia, donde il 21 luglio l'Alamanni assicurava Giovambattista della Palla, allora alla corte di Francia, che si trovavano non soltanto "sicurissimi, ma molto et honorati et accharezzati", presso un gentiluomo veneto, Carlo di Francesco Cappello. Erano tuttavia desiderosi "di non dimorare qui molto lungamente, anzi di venire una volta anchor noi in coteste parti" (ibid., p. 142). Cosa che fecero abbastanza presto, perché nell'agosto seguente erano già a Lione. In Francia li spingeva non tanto il desiderio di maggiore sicurezza, quanto quello di partecipare all'organizzazione della spedizione italiana di Francesco I.
Il re infatti fece subito uso dei due fuorusciti fiorentini affidando loro, in vista della spedizione, una missione a Venezia sulla cui natura tuttavia non si hanno notizie. Del resto la cosa non ebbe esecuzione, perché il B. e l'Alamanni, passando nel settembre attraverso la Svizzera diretti a Venezia, furono catturati e imprigionati, "fra Lusana et Ginevra da certo capitano Vallese, chiamato signor Francescho di Ciuron", come essi stessi scrivevano al della Palla (ibid., pp. 145 s.), dal quale furono liberati dopo alcuni giorni di prigionia a istanza dello stesso Francesco I.
Ritornarono quindi a Lione e di qui si trasferirono presso la corte, donde ristabilirono i contatti con i repubblicani fiorentini, inviando in Italia il Martelli, perché informasse a Firenze Antonfrancesco Albizzi e Alfonso Strozzi dell'imminente spedizione francese e li esortasse "al non esser pigri, et a far di modo che quel che non era riuscito prima riuscissi allora" (ibid., p. 252).
Da allora il B. e l'Alamanni seguirono le oscillanti vicende di tutti gli altri fuorusciti italiani, in specie fiorentini e milanesi, che avevano trovato rifugio alla corte di Francia, prendendo parte, nell'esercito francese, alle operazioni militari del 1523 e dell'anno seguente in Italia, continuando a fantasticare di colpi di mano contro i Medici: come quell'ennesimo complotto, di cui parla il Martelli, secondo il quale i cardinali francesi riuniti in conclave per eleggere il successore di Adriano VI avrebbero dovuto avvelenare Giulio de' Medici e contemporaneamente i fuorusciti avrebbero dovuto far ritorno a Firenze e indurre la città alla rivolta, con l'aiuto del solito Renzo da Ceri. Le vicende della guerra, sfavorevoli ai Francesi, costrinsero il B. a rimanere nell'attesa abbastanza passiva (ma non priva di contatti con gli amici di Firenze) di un corso migliore degli eventi politici e militari. Sino alla fine del 1524 lo vediamo così dedicarsi ad attività commerciali tra Lione e Torino (probabilmente per l'intervento del governo francese aveva potuto riprendere possesso di quanto gli spettava sulla azienda commerciale di Lione).
Ma nel 1526 la stipulazione della lega di Cognac, che riavvicinava Clemente VII a Francesco I, pose fine alle speranze dei fuorusciti di poter rientrare in Firenze con l'aiuto francese. Il B. si trasferì quindi a Siena, dove da due anni la rivolta dei noveschi contro il Petrucci aveva liberato la città dalla tutela medicea. Qui, insieme a Giovambattista della Palla. il B. divenne l'anima dei rinnovati tentativi degli esuli contro il governo fiorentino. Così si dovette a lui se uno dei più prestigiosi uomini politici fiorentini del tempo, Filippo Strozzi, strettamente imparentato con i Medici, passò decisamente dalla parte dei repubblicani. Nell'aprile 1527, approfittando della carestia scoppiata a Firenze per l'improvvida politica annonaria, il B. provocò un decreto del governo senese che prometteva di inviare soccorsi notevoli di grano nel caso di una rivolta popolare o Medici, e gli dava la massima diffusione, esortando i Fiorentini con un manifesto a recuperare "la salute, la libertà, la habundantia" (Roth, p. 42). Ma ormai il B. si era andato convicendo che soltanto la protezione degli imperiali avrebbe potuto recuperare Firenze alla sua antica "libertà". E a questo fine, oltre che per continuare nelle trattative con lo Strozzi, si portò nel maggio successivo a Napoli, insieme a Giovambattista della Palla, per guadagnare Ugo di Moncada alla causa dei fuorusciti. Finalmente, estromessi il 16 maggio del 1527 - dieci giorni dopo il sacco di Roma, che segnò anche in Firenze il crollo del partito mediceo - il cardinale arcivescovo Silvio Passerini, Alessandro e Ippolito de' Medici, il B. poté rientrare in patria, dove subito prese nel governo della città quella posizione che gli competeva: assieme all'Alamanni, a Niccolò Capponi, a Tommaso Soderini egli fu tra gli interlocutori del dibattito che si svolse tra i maggiori esponenti del nuovo regime, per decidere la posizione di Firenze nei confronti della contesa franco-imperiale. Invano sostenne appassionatamente la necessità di ottenere l'appoggio di Carlo V: finì per prevalere, in assurdo omaggio alle tradizioni della città, la posizione filofrancese del Soderini: così, appena restaurata, la libertà fiorentina cominciava a morire.
Appena tornato a Firenze, il B. aveva potuto riprendere a frequentare il Machiavelli e, insieme all'Alamanni, tentò invano di sostenerlo nel suo proposito di recuperare l'antico impiego nella cancelleria. Con il Nardi, l'Alamanni, Filippo Strozzi e Francesco del Nero fu tra gli amici che assistettero alla sua morte.
Quando due inviati imperiali, Lodovico da Lodrone e Bartolomeo Gattinara, che si recavano a prendere possesso di Parma e Piacenza in nome di Carlo V, benché provvisti di un salvacondotto della Repubblica furono assaliti e depredati a Barga, nella Garfagnana fiorentina, il B. vi fu inviato come commissario per sanare la situazione, restituendo la libertà ai due messi imperiali e punendo i colpevoli dell'incidente. Mentre era intento a questa pratica fu colpito dalla peste che imperversava in tutto il territorio fiorentino. Morì nel novembre del 1527.
Aveva sposato Maria di Luca degli Albizzi, dalla quale ebbe Alessandra, andata sposa a Iacopo Ginori; Cosimo, che mantenne lo stesso atteggiamento antimediceo del padre e fu pertanto dichiarato ribelle dal duca Cosimo il 22 maggio del 1543; Bartolomeo, sul quale non si hanno notizie; Costanza, sposata a Francesco de' Pazzi e, in seconde nozze, nel 1552, a Giorgio Dati.
Fonti e Bibl.: Documenti della congiura fatta contro il cardinale Giulio de' Medici nel 1522, a cura di C. Guasti, in Giorn. stor. degli archivi toscani, III (359), pp. 121-150, 185-232, 239-267; I. Pitti, Apologia de' Cappucci, in Arch. stor. ital., IV (1853), 2, p. 327; F. Nerli, Commentarii de' fatti civili occorsi dentro la città di Firenze..., Augusta 1728, passim; B.Varchi, Storia fiorentina, in Opere, a cura di A. Racheli, I, Trieste 1858, passim; I.Nardi, Istorie della città diFirenze, a cura di A. Gelli, Firenze 1888, II, pp. 67, 72-74, M. Sanuto, Diarii, XLV, Venezia 1896, col. 226; N. Machiavelli, Il Principe e Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, a cura di S. Bertelli, Milano 1960, p. 116; Id., Lettere, a cura di F. Gaeta, Milano 1961, pp. 383, 389, 391, 394 ss.; Id., Arte della guerra e scritti politici minori, a cura di S. Bertelli, Milano 1961, passim;Id., Istorie fiorentine, a cura di F. Gaeta, Milano 1962, pp. 3, 9, 49; P. Villari, Niccolò Machiavelli e i suoi tempi, II, Firenze 1881, p. 281; III, ibid. 1882, passim;F-T. Perrens, Histoire de Florence depuis la domination des Médicisjusqu'à la chute de la République (1434-1530), III, Paris 1890, pp. 85, 91, 158 (alle pp. 239, 320, 323, 343 confonde il B. con Zanobi Bartolini); O. Tommasini, La vita e gli scritti di Niccolò Machiavelli nella loro relazione col machiavellismo, II, Roma 1911, pp. 90, 253, 259, 320, 590, 900; C. Roth, L'ultima repubblica fiorentina, Firenze 1929, pp. 39, 42, 69 n., 103 s., 110, 120; R. Ridolfi, Vita di Niccolò Machiavelli, Roma 1954, passim; M.Catalano, Vita di Ludovico Ariosto ricostruita su nuovi documenti, Genève 1931, I, pp. 396, 502, 552; P.Litta, Le fam. celebri italiane,sub voce Buondelmonti, tav. XI.