Zambrasi, Tebaldello de'
Fu, diversamente dal fratello Zambrasino, discendente naturale di una delle più potenti famiglie faentine, forse di origine consolare, che, muovendo dai ricchi possessi fondiari concentrati soprattutto ai confini fra le diocesi imolese e faentina, si era affermata nella vita politica cittadina del Duecento.
Tebaldello, di cui ci restano tuttora sconosciuti la data di nascita e i nomi paterno e materno, si mise in luce nella seconda metà del secolo come colui che con più tenacia e combattività seppe contendere al casato faentino dei Manfredi la funzione di guida della ‛ pars Ecclesiae ' nella sua città. La prima testimonianza a noi nota di tali rivalità risale al 1249, quando le animosità antimanfrediane dello Z. furono a stento frenate dal pur deciso intervento arbitrale del podestà faentino e dall'azione pacificatrice del cardinal legato Ottaviano Ubaldini. Ma a lungo andare gli ambiziosi programmi politici di questo irrequieto capoparte dovettero trascinarlo più in un'impulsiva e incoerente azione di disturbo degl'interessi manfrediani che non in una costruttiva ed efficace milizia politica in senso costantemente antighibellino. Egli era così destinato a divenire l'animatore di clamorosi colpi di scena nella sua Faenza che l'avrebbero reso ben presto tristemente noto e non solo entro i confini della regione romagnola. Infatti, dopo aver favorito, forse attorno al 1274, in odio ai Manfredi, l'occupazione della sua città da parte dei ghibellini forlivesi, fu l'ideatore di un ben più grave tradimento consumato ai danni dei ghibellini romagnoli e dei Lambertazzi esuli bolognesi, allora dominanti in Faenza sotto la guida del conte Guido da Montefeltro. La tradizione popolare, espressa dal Sirventese dei Lambertazzi e dei Geremei, indica in un'offesa recata allo Z. dai fuorusciti bolognesi rifugiati in Faenza la causa di questo nuovo atto proditorio di Tebaldello. Ma, con ogni probabilità, dietro quel presunto furto di un porco commesso ai danni dello Z. e mai da alcuno riparato, si deve riconoscere il perdurare di uno stato di disagio e di frustrazione in lui, relegato, forse contro ogni accordo, a una posizione di secondo piano nella vita politica della sua città, nonostante la fuoruscita dei Manfredi. Insomma, il fatto che alla prepotenza dei tradizionali rivali si fosse ora sostituita quella dei faentini Accarisi, dei Bolognesi Lambertazzi e degli altri ghibellini romagnoli non dovette certo tornare vantaggioso alle sorti di Tebaldello e della sua famiglia. Ciò, senza dubbio, contribuì a indurre gli Z. a rinsaldare col guelfismo bolognese quei vincoli di amicizia che già almeno dal 1269 risultavano stabiliti sia sul piano patrimoniale, sia su quello propriamente politico. Tali legami non tardarono a tradursi in un accordo segreto, per cui la notte del 13 novembre 1280 Tebaldello aprì le porte di Faenza ai Geremei bolognesi, desiderosi di vendetta. Venne in tal modo facilitata un'insperata rivincita del guelfismo bolognese e romagnolo, dopo tutta una serie di disastrosi rovesci militari e in un momento particolarmente critico a causa della vacanza della Sede Apostolica.
Ma, più che il fatto di aver rimesso in discussione un equilibrio politico-militare già nettamente favorevole ai ghibellini romagnoli, fu il modo doloso, anzi crudele di questa vendetta politica, che degenerò nella strage di tante persone inermi e innocenti e nella distruzione di chiese, a suscitare, già negli scrittori coevi, come Salimbene e il Cantinelli, i più infuocati e sdegnati accenti biblici di condanna di Tebaldello. D. raccolse dopo breve tempo l'eco di tale infamia e ne scolpì il ricordo nei versi Tebaldello, / ch'aprì Faenza quando si dormia (If XXXII 122-123), relegando lo Z. nella ghiaccia dell'Antenora, fra i traditori della patria.
Da quel momento i rapporti fra lo Z. e il guelfismo bolognese risultarono ulteriormente rinsaldati: egli, riparato a Bologna coi suoi familiari, si vide riconoscere la cittadinanza, il 26 gennaio 1282, dal consiglio dei Duecento della città ospite. Pochi mesi dopo la figlia Zambrasina, appena rimasta orfana, fu assunta, assieme ai suoi beni, sotto la protezione del maggiore comune guelfo.
La morte violenta dello Z., seguita a pochi mesi dal tradimento, sotto le mura di Forlì durante il sanguinoso mucchio (If XXVII 44) del 1° maggio 1282, fu dai contemporanei intesa come un provvidenziale segno di punizione di chi, come ripete Salimbene, " bis fuit proditor Faventiae civitatis suae ".
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