vox
Designa propriamente il suono articolato che l'uomo emette per mezzo delle corde vocali. Nella costituzione del linguaggio, v. è l'elemento sensibile assunto come veicolo di un elemento razionale, il significato; l'insieme risultante dell'elemento sensibile e di quello razionale costituisce il segno (cfr.) linguistico.
In accezione propria l'uso del termine è nei primi capitoli del De vulg. Eloq.: vulgarem locutionem appellamus eam qua infantes assuefiunt ab assistentibus, cum primitus distinguere voces incipiunt (I I 2): il volgare, cioè, è il linguaggio appreso dai neonati non appena incominciano a distinguere voces, dove ‛ distinguere ' è assunto nel duplice senso di " identificare " i suoni e " articolarli ". Poiché fine del loqui è comunicare agli altri i concetti della mente (nostrae mentis enucleare aliis conceptum, Il 3) D. afferma che la locutio (linguaggio) è propria dell'uomo, perché solo a lui è necessaria, mentre non è necessaria agli esseri a lui superiori, gli angeli, e a quelli inferiori, o bestie (§§ 1 ss.). Gli angeli, infatti, che comunicano per intuizione intellettiva, nullo signo locutionis indiguisse videntur (§ 3).
Quanto alle bestie, D. esamina i casi di animali ‛ parlanti ' riferiti dalla tradizione, negando che in essi si sia attuato un vero e proprio linguaggio: il serpente che si rivolse a Eva nel Paradiso terrestre (Gen. 3, 1-5) e l'asina di Balaam (Num. 22, 28-30) secondo D. mossero organa sua, gli strumenti di emissione dei suoni, sotto l'azione rispettivamente del diavolo e dell'angelo, sic ut vox inde resultav[er]it distincta tanquam vera locutio, in modo, cioè, che ne risultasse una v. articolata (distincta) come se fosse vero linguaggio: in realtà l'asino non è capace d'altro che di ragliare, e il serpente, di sibilare (§ 6). Il riferimento alle gazze loquentes in Ovidio (Met. V 294 ss.), poi, secondo D. è da interpretare figurate, non in senso proprio; è falso, infatti, che la gazza (pica) o altro uccello parli, quia talis actus locutio non est, sed quaedam imitatio soni nostrae vocis; videlicet quod nituntur imitari nos in quantum sonamus, sed non in quantum loquimur. Unde si expresse dicenti ‛ pica ' resonaret etiam ‛ pica ', non esset hoc nisi repraesentatio vel imitatio soni illius qui prius dixisset (§ 7). Nell'imitatio o repraesentatio della v. umana da parte degli animali si ha dunque produzione di mero suono, senza che esso possa costituirsi come veicolo di una significazione ed essere accostato alla umana ‛ vox significativa '; in definitiva, secondo D. gli animali non hanno bisogno di linguaggio, essendo essi guidati dall'istinto, né il linguaggio servirebbe loro per comunicare con altre specie, che anzi risulterebbe dannoso (§ 5). Solo l'uomo dunque è capace di emettere suoni che siano v. articolate: guidato dalla ragione ma fornito di corpo, infatti, egli si differenzia sia dall'animale che segue l'istinto, sia dall'angelo che è di natura puramente intellettuale, per il fatto che dispone di uno strumento di comunicazione che è il linguaggio costituito di segni a due versanti, uno razionale, uno sensibile, e quest'ultimo è appunto la v. (III 2); perciò solo l'uomo è dotato di linguaggio (Soli homini datum fuit ut loqueretur, IV 1).
Con questo stesso senso il termine occorre in IV 4 (Quid... prius vox primi loquentis [Adamo] sonaverit), e in Eg II 39 (arundinea pueris pro voce laborat); in Pg XXX 17 (ad vocem tanti senis) si tratta piuttosto del ‛ canto ' del seniore che ha intonato Veni, sponsa de Libano; in Eg I 38 dedit indignatio vocem (per la locuzione ‛ dare vocem ' cfr. Ovidio Met. IX 583), ci si riferisce all'espressione vocale, ‛ in parole ', dell'indignazione.
Con valore più ampio, in uso metonimico, a designare cioè il segno linguistico nel suo intero spessore, v. occorre in Mn II V 24 si ex falsis verum quodammodo concluditur, hoc est per accidens, in quantum illud verum importatur per voces illationis; per se enim verum nunquam sequitur ex falsis, signa tamen veri beni secuntur ex signis quae sunt signa falsi; secondo D., vero e falso, per sé considerati, sono in relazione di opposizione tra loro, di modo che l'uno è negazione dell'altro; non è possibile perciò che si dia inferenza logica dal falso al vero in quanto tali; se si considerano, invece, vero e falso come proprietà di proposizioni, cioè di segni linguistici, è valida l'inferenza logica dal falso al vero; di qui l'affermazione dantesca che tale inferenza è per accidens.
L'affermazione dantesca va inquadrata nella dottrina della ‛ consequentia ' che è una proposizione complessa, risultante di due proposizioni, antecedente e conseguente; illatio è il rapporto inferenziale, l'operazione logica per cui è corretto inferire una proposizione da un'altra. La ‛ consequentia ' può essere ‛ materiale ' e ‛ formale '; questa ‛ vale ' quando l'inferenza è fondata sulla struttura (‛ complexio ') delle proposizioni; per quella il rapporto è meno stretto, non essendo valida solo quando l'antecedente è vero e il conseguente è falso. Per quanto riguarda la locuzione per accidens, cfr. Boezio De syll. bypoth., Patrol. Lat. LXIV 835 B " duobus modis conditionales fieri possunt: uno secundum accidens, altero ut habeant aliquam naturae consequentiae. Secundum accidens hoc modo, ut cum dicimus, cum ignis calidus sit, coelum rotundum est "; e R. Kilwardby In Anal. pr. II 4 " duplex et consequentia, scilicet essentialis vel naturalis, sicut quando consequens naturaliter intelligitur in suo antecedente, et consequentia accidentalis " (in I. Thomas, Maxims in Kilwardby, " Dominican Studies " VII [1954] 137; cfr. anche W.C. e M. Kneale, Storia della logica, traduz. ital. Torino 1972, 317 ss.). Lo stesso valore ha il termine in Mn I XI 19 ed Eg II 45.
In uso metaforico, v. designa il ‛ tono elevato ' della commedia in Ep XIII 30 (da Orazio Ars poet. 93) " Interdum tamen et vocem comoedia follit " (‛ tollere vocem ' [cfr. Forcellini] " est gravi stilo et grandiosioribus verbis uti "); sta per " accento ", " tono " di una supplica in I 9 (filiali voce affectuosissime supplicamus); per " eloquenza " e " arte " in Mn II V 16 (Morum omnium nomen egregium voce Tullii recalescit); per " detto ", " sentenza " in Ep VII 7, 16 (Intonet... vox illa Curionis in Caesarem) e 17 (Intonet illa vox increpantis Anubis iterum in Aeneam), Quaestio 77 (due volte); è accorata " protesta " in Ep XI 13, e " opinione " in I 2. Su citazione da Matt. 3, 3, v. è in Vn XXIV 4 Ego vox clamantis in deserto: parate viam Domini.