Voci e immagini della fede: radio e tv
L’annuncio del messaggio evangelico ha marcato l’intera storia della Chiesa, rendendola sensibile nei secoli verso le eterogenee forme e le diverse strategie di comunicazione religiosa (dai viaggi di evangelizzazione alle missioni ad gentes, dall’aneddotica all’iconografia fino alle immagini in movimento). Nonostante questo, la società dei media che fa capolino nel secolo XX comincia già dalla fine dell’Ottocento a dare la misura dei suoi effetti imprevisti, problematizzando il rapporto tra Chiesa e modernità e cambiando così i rapporti secolari che si erano instaurati tra centro e periferia, tra chiese locali e Roma, tra papa e fedeli, tra Chiesa e masse cattoliche.
Se la condanna del modernismo ha certo attirato la riflessione sul rapporto della Chiesa con il mondo moderno, in realtà questo aspetto non esaurisce la sua reale complessità1. Nonostante la ferma condanna della civiltà moderna e del progresso nella quale si trovava ad agire e l’intransigentismo come chiave di lettura della storia recente, tuttavia questa contrapposizione non comporta l’equivalenza del rifiuto di tutti i prodotti della società moderna.
Tra Ottocento e Novecento si può ben a ragione parlare di una vera e propria ‘modernizzazione ecclesiale’2. I primi tentativi di impiegare fin dalla loro nascita i moderni mezzi di comunicazione e in un certo senso anche di piegarli ad un ‘uso cristiano’ – tanto da poter parlare di ‘modernizzazione pastorale’3 – sono un chiaro esempio di apertura alla modernità e di accettazione di questi strumenti, usati (o col dovere di usarli) anche in chiave antimoderna o adattati a particolari fini pastorali4.
Ad una modernizzazione ad extra con il fine non celato di raggiungere ‘tutte’ le masse nella società moderna, si affianca però anche una modernizzazione più interna e profonda, che si esplica sotto varie forme. È possibile dunque ritrovare nell’impegno del mondo cattolico in campo cinematografico prima e successivamente in quello radiofonico e televisivo questo processo di modernizzazione ad intra.
La cornice infatti in cui situare il rapporto tra Chiesa, cattolici e media radiotelevisivi è proprio quella del rapporto tra Chiesa e modernità, «alla luce della scelta, peculiare alla Chiesa occidentale, di controllare, indirizzare e talvolta contrastare la ‘modernità’ attraverso la modernità stessa»5.
«L’impegno nei mass media [...] non ha solo lo scopo di moltiplicare l’annunzio: si tratta di un fatto più profondo, perché l’evangelizzazione stessa della cultura moderna dipende in gran parte dal loro influsso. Non basta, quindi, usarli per diffondere il messaggio cristiano e il magistero della Chiesa, ma occorre integrare il messaggio stesso in questa “nuova cultura” creata dalla comunicazione moderna»7.
Giovanni Paolo II nell’enciclica Redemptoris missio del dicembre 1990, scritta in occasione del XXV anniversario del decreto conciliare Ad gentes, esprimeva così la sua partecipata attenzione all’universo dei media, segnando una tappa importante all’interno del magistero. Il mondo delle comunicazioni era infatti diventato per Wojtyla il «primo areopago del tempo moderno» che, citando la celebre espressione coniata da Marshall McLuhan, stava «unificando l’umanità rendendola – come si suol dire – “un villaggio globale”».
Gli anni del pontificato di Giovanni Paolo II hanno mostrato quanto la Chiesa fosse ormai entrata nell’agenda dei media e con quale forza lo stesso pontefice ne avesse di fatto beneficiato, tanto da potersi parlare di una vera e propria «rivoluzione comunicativa»8. Se tuttavia la figura di Giovanni Paolo II tende a catalizzare ogni riflessione sul rapporto tra Chiesa e media, è anche vero che daLeone XIII, il primo a sperimentare le potenzialità insite nelle immagini in movimento, tutti i pontefici sono stati sotto lo sguardo sempre più indiscreto della cinepresa prima e delle telecamere poi. La televisione darà infatti fin dalle sue origini spazio e risalto in modo preminente proprio alla figura del papa.
La Chiesa e il mondo cattolico, con modi e finalità differenti, hanno seguito l’affermarsi di queste nuove tecnologie (cinema, radio, televisione, e ora internet e i new media9) fin dalle loro fasi aurorali, anche in anticipo rispetto ad altri soggetti, come la storiografia ha mostrato10 rivelando che la preoccupazione per «un’azione dannosa del cinema usato senza riguardo ai canoni della verità e della legge morale»11 non ha mai prevaricato o esaurito l’analisi su questi nuovi mezzi di comunicazione.
Il rigore censorio e le campagne moralizzatrici, simbolicamente incarnate nelle inflessibili segnalazioni del Centro cattolico cinematografico (Ccc), hanno infatti monopolizzato per lungo tempo un’opinione collettiva che pensava alla Chiesa come alla regina della crociata contemporanea contro il cinema.
Lo scenario che progressivamente si sta disvelando sotto la patina un po’ approssimativa della ‘repressione’, rivela invece, altri e ben più complessi strati, offrendo una panoramica più completa non solo per quanto riguarda il cinema stesso, ma anche per tutti gli altri strumenti che il concilio Vaticano II ha chiamato le «comunicazioni sociali».
Sebbene in questo saggio ci si concentri in particolare sulla radio e sulla televisione, appare chiaro come le prove generali per questi due media vengano fatte sulla base dell’esperienza maturata con il cinematografo. Lo snodo importante nel rapporto tra Chiesa e immagini audiovisive per capire il prima e il dopo è infatti rappresentato dall’enciclica Vigilanti cura di Pio XI del 29 giugno 1936, il primo documento ufficiale di un papa interamente dedicato al cinema; esso racchiude un pensiero del magistero della Chiesa che sopravvive tuttora ed è utile per comprendere anche l’atteggiamento mantenuto verso il mezzo radiofonico e quello televisivo.
In realtà la prassi e le esperienze concrete rendono il quadro più complesso e variegato; tuttavia questo approccio magisteriale ha di fatto attraversato ‘indenne’ tutto il Novecento. Passando dal magistero di sei pontefici diversi, con le dovute sfumature, e attraverso le indicazioni della Cei, ha oscillato lungo queste «due linee principali d’intervento pastorale»: una più difensivistica, volta a mantenere vigile l’attenzione su un mezzo potenzialmente in grado di influenzare negativamente un pubblico ancora inesperto e giovane; l’altra più propositiva, in cui, se correttamente usato, si riconoscono al cinema qualità educative e culturali, rendendolo così un moderno mezzo di apostolato che i cattolici dovevano saper sfruttare, studiandolo e organizzandosi12.
Il cinema, la radio e la televisione hanno imposto un profondo cambiamento dei tradizionali metodi dell’apostolato cattolico, come d’altra parte hanno richiesto le radicali trasformazioni che hanno attraversato la società dalla fine dell’Ottocento ad oggi13.
La continuità del magistero nel campo degli audiovisivi viene arricchita però dalle esperienze concrete: prima di arrivare alle dirette televisive che culmineranno nella mondovisione occorre, infatti, soffermarsi su alcuni episodi che marcano e si costituiscono come veri e propri prodromi di quello che sarà evidente in seguito.
È in particolare ravvisabile un ‘prima’ anteriore ai documenti del magistero sugli audiovisivi degli anni Trenta scandito da due date precise: 1896 e 1898. Il 13 marzo 1896 è la data ufficiale in cui anche in Italia arrivò il Cinématographe Lumière. Solo pochi mesi dopo, Vittorio Calcina, che ottenne un apparecchio dai fratelli francesi diventando l’agente generale per l’Italia, chiese a papa Leone XIII di poterlo filmare con la macchina da presa, realizzando così la pellicola Sua Santità Papa Leone XIII.
L’incontro cinepresa-pontefice si ripeté due anni più tardi, nel dicembre del 1898, perché, su richiesta lungimirante dei vescovi statunitensi, William Kennedy Laurie Dickson, un collaboratore di Edison, concorrente dei fratelli Lumière, entrò nei giardini vaticani e impresse su pellicola la figura del pontefice immerso nella sua regale quotidianità14.
La fonte visiva (è chiaramente senza sonoro) svela dunque un primo incontro tra Chiesa e immagini in movimento quarant’anni prima dell’ufficialità dell’enciclica di Pio XI. Questa documentazione è tuttavia eloquente anche per altri aspetti. La benedizione papale davanti alla cinepresa marcò inequivocabilmente un incipit, sdoganandone di fatto l’utilizzo e anticipando scenari futuri di cui solo la forza e la pervasività della televisione avrebbero fatto capire la consistenza: per la prima volta l’immagine del papa venne resa ‘esportabile’, come lo stesso Dickson ebbe a dire al pontefice per convincerlo a non sottrarsi all’occhio della cinepresa, rendendo così vicina e visibile la benedizione papale a migliaia di fedeli in America. Questa era d’altra parte anche l’intenzione degli stessi vescovi statunitensi che avevano dato mandato all’operazione e che in modo lungimirante colsero quanto potesse essere importante per i fedeli lontani da piazza S. Pietro poter vedere il papa in effigie.
Il linguaggio audiovisivo caricava il gesto della benedizione di una pluralità di significati e implicazioni: la benedizione dell’apparecchio si trasformava nella benedizione di quegli spettatori che in un altro luogo e in un altro tempo avrebbero riguardato quella sequenza. Si fondava l’«archetipo di un immaginario cinematografico religioso», aprendo anche la strada a una nuova costruzione dell’immagine del pontefice, che diventava una vera e propria icona15.
Fino ad allora, l’unica possibilità per i fedeli di vedere il papa era stata attraverso l’iconografia ufficiale, le immagini fotografiche che cominciavano allora a circolare o le immagini devozionali. Pochi erano quelli che potevano affrontare un viaggio lungo e costoso a Roma. Entra quindi in scena un nuovo veicolo di propagazione della fede con cui tutti i pontefici dovranno confrontarsi e che, in modi diversi, utilizzeranno.
La copertura crebbe in modo proporzionale ai progressi tecnologici e alle trasformazioni socioculturali: in Italia dal 1924 si affiancò al cinematografo, ormai in fase di istituzionalizzazione16, un ente che sarebbe diventato un altro grande produttore di immagini audiovisive: l’Unione cinematografica educativa, più generalmente conosciuta con l’acronimo «Luce».
Insieme con la radio costituiva il più importante veicolo di informazione culturale di quegli anni, nonché elementi chiave della «cultura popolare moderna»17.
L’Istituto Luce nacque sì come «strumento di informazione e istruzione di massa»18, piegato ai voleri e ai desiderata mussoliniani (non sempre riuscendoci), ma nei suoi cinegiornali, che per legge dovevano precedere la proiezione dei film, trovava spazio anche la Chiesa cattolica, il più delle volte compendiata nell’immagine del suo rappresentante massimo, il pontefice.
A partire dalla grande guerra e in misura maggiore negli anni a seguire, il visuale iniziava infatti a imporsi con forza in ogni settore: cartoline, manifesti, locandine, fotografie, proiezioni e immagini in movimento diventavano «veicoli di una propaganda di massa», elevando così le rappresentazioni iconografiche a «uno dei linguaggi essenziali nello spazio pubblico»19.
Cominciavano a delinearsi e soprattutto a vedersi, sia dalle foto – che trovavano spazio in modo regolare sui giornali –, sia dai cinegiornali, due tipi di folle: le adunate laiche in piazza richiamate dal dux terreno e quelle religiose dei fedeli che si assiepavano in piazza S. Pietro per le celebrazioni di Pio XI o di papa Pacelli. Il fascismo e la Chiesa cattolica in Italia furono i primi infatti a cogliere la necessaria modernità dei mezzi di comunicazione: per il primo era propaganda politica, per la seconda propaganda fide.
È soprattutto durante il pontificato di Pio XII che si assiste a una trasformazione dell’immagine del pontefice, da subito sotto i riflettori nel filmato Conclave ed elezione (Luce, 1939).
Se dopo la Rivoluzione francese la Chiesa si era stretta attorno alla figura del papa, in un climax di cui il concilio Vaticano I rappresenta un punto di conferma, durante il pontificato di Pio XII fra il papa e i fedeli si saldò tuttavia un rapporto mai conosciuto fino ad allora. Pio XII era il papa delle masse, non solo di quelle cattoliche, un pontefice che godette di una popolarità di cui solo le sequenze in bianco e nero dei filmati d’epoca riescono a restituire la forza e l’imponenza. Il suo ruolo di defensor civitatis, di autorità morale di una società dilaniata dalla guerra, è racchiusa nei brevi secondi di una pellicola di repertorio del 1943 che lo riprende in mezzo ai romani, dopo il bombardamento sul quartiere di S. Lorenzo. Uscito a piedi dal Vaticano, lo si vede a braccia aperte, tra i feriti e le macerie, con il bianco e nero cinematografico che stempera la macchia rossa di sangue sulla veste bianca, oppure nelle immagini dei romani che affollano piazza S. Pietro all’indomani della Liberazione.
La sua volontà di azione diretta sulla coscienza degli uomini in una società di massa lo spinse a servirsi di ogni mezzo per far arrivare il messaggio della Chiesa, appoggiando così il suo magistero anche sul sostrato che avevano ormai creato i nuovi mezzi di comunicazione: rafforzò la Radio Vaticana, accolse le prime sperimentazioni sul mezzo televisivo20, accettò soprattutto di essere l’attore di se stesso in un film. Nel 1942 uscì infatti Pastor Angelicus, la pellicola sulla sua vita che il Ccc, diretto da Gedda, presidente della Gioventù di Ac, realizzò per celebrare il suo giubileo episcopale, segnando una svolta nella rappresentazione e costruzione visiva della figura del pontefice. Assieme a Diego Fabbri, Gedda operò un vero e proprio rilancio dell’azione cattolica nel cinema e negli audiovisivi, passando a un impegno produttivo che fino ad allora era mancato e facendone un’arma per l’elevazione spirituale delle masse21; maturò così esperienze che lo stesso Gedda offrirà a Badoglio nell’agosto del 1943, perché l’apporto del cattolicesimo avrebbe potuto ricoprire un ruolo fondamentale per sostenere la cinematografia nazionale22.
La mobilitazione verso un maggiore impegno nella fase di produzione di pellicole squisitamente cattoliche trovava spiegazione nell’idea che «limitarsi a giudicare se i film potessero essere proiettati o meno nelle sale parrocchiali, mi sembrava ben poco in un’epoca in cui non esisteva la televisione e urgeva la necessità di fornire di una rappresentazione visiva della vita della Chiesa»23.
Il Pastor Angelicus rappresenta dunque una tappa importante nella storia tra Chiesa e audiovisivi perché con esso si realizzò «una grande udienza aperta a tutto il mondo»24, che non mancò di suscitare la preoccupazione del Minculpop; il Ministero della Cultura Popolare si attivò infatti per boicottarne la circolazione, dopo aver dato in precedenza il suo benestare nella fase di preparazione per l’evidente propaganda che avrebbe fatto all’Italia come grande paese cattolico (l’Istituto Luce era entrato infatti nella produzione fornendo il materiale di repertorio). Le due propagande visive che fino ad allora avevano convissuto non senza tensioni entravano ora in evidente conflitto. Come ha scritto Falconi,
«la segreta intenzione del CCC e soprattutto del suo presidente nel varare la pellicola su Pio XII era soprattutto quella di dar voga al mito di papa Pacelli per distaccare gli italiani dal mito, subito per vent’anni, del duce fascista […]. Nel Pastor Angelicus l’Italia neoguelfa del dopoguerra avrebbe dovuto riconoscere non solo il suo Salvatore, ma addirittura il suo Restauratore e la sua nuova Guida»25.
Prova ne è stata che in un anno particolare come il 1948 i Comitati civici organizzarono proiezioni speciali del documentario in numerose città d’Italia.
Molti hanno enfatizzato come la Chiesa, in campo radiofonico, sia stata pioniera, grazie alla lungimiranza di Pio XI che aveva personalmente voluto la costruzione di una radio in Vaticano. Quando venne inaugurata, il 12 febbraio 1931, lo stesso mondo cattolico non si era fatto cogliere impreparato. Poteva vantare infatti già da alcuni anni una certa esperienza nel settore, soprattutto a livello internazionale. Fu però verso la fine degli anni Venti che l’impiego del mezzo radiofonico cominciò a imboccare una più sistematica e precisa ‘via cattolica’: il 19 maggio 1928 venne fondato a Colonia il Bureau International de la Radiophonie Catholique con lo scopo di raggruppare i responsabili dei programmi religiosi di tutti i paesi e facilitarne gli scambi (dal 1945 prese il più famoso nome latino di Unda), mentre nel giugno del 1929 si celebrò il primo congresso cattolico internazionale della radio a Monaco di Baviera.
Risalgono infatti a questi anni i primi due documenti del Sant’Uffizio relativi alla radio: con il primo (1927) si proibiva l’uso del mezzo nelle chiese, richiamando quello delle immagini proiettate del 1912, e con il secondo (1928) veniva dichiarato un ‘abuso’ il fatto di trasmettere i canti liturgici della messa attraverso la radio26. Sono documenti che, al di là dei divieti che imposero, sanzionarono evidentemente una pratica che si stava pian piano diffondendo nelle varie realtà locali in modo sempre più consistente. Monteleone lega questi negativi pronunciamenti vaticani ad una comunicazione culturale ancora molto vicina a tradizionali modelli ottocenteschi e a iniziative che si avvicinavano più ai legami interpersonali, «come ad esempio il rapporto tra parroco e i suoi fedeli: un rapporto religioso ed educativo al tempo stesso, dominato dall’egemonia ecclesiastica»27. Da qui lo stretto controllo e l’attenzione particolare verso l’uso di questi nuovi mezzi di comunicazione di massa, che potevano sganciarsi da questi binari e imboccare strade più libere e più anarchiche. Le pagine dell’«Osservatore romano» ospitarono in questo periodo una serie di articoli in cui, se si salvava il mezzo in quanto invenzione «prodigiosa», si condannava tuttavia proprio l’uso che ne veniva fatto: «indegno, veicolo di errore, di immoralità, di profanazione». Erano tempi in cui la riflessione di Marshall McLuhan con il suo «il medium è il messaggio» doveva ancora arrivare e ben si separava il mezzo dal suo uso: un uso cristianamente accettabile che si contrapponeva a un uso «immorale, da fuggire» e quindi da condannare28.
Il discorso pronunciato il 15 dicembre 1928 da Pio XI al Consiglio nazionale degli uomini di Ac fu il primo riferimento alla radio di un pontefice, in linea con gli accenni successivi fatti nelle encicliche Divini illius magistri e nella Casti Connubii, in cui, accanto al cinema, furono inserite anche le «audizioni radiofoniche», accusate di aumentare «le occasioni di naufragio morale e religioso per la gioventù inesperta», rendendo dunque necessaria «una più estesa ed accurata vigilanza»29.
Come per la radio pubblica, anche la Chiesa dovette aspettare il fascismo, e soprattutto la stipula dei Patti Lateranensi, con il quale lo Stato italiano riconobbe ufficialmente alla Città del Vaticano la possibilità (anzi il diritto) di istituire con altri Stati servizi telegrafici, telefonici, radiotelegrafici e radiotelefonici, provvedendo ad allacciare la Santa Sede alla rete nazionale di cavi.
L’indipendenza dall’Italia garantita dal Concordato e l’installazione di un impianto per la trasmissione radio misero ufficialmente la Città del Vaticano in potenziale contatto con tutte le genti del mondo, trasformando così le parole pronunciate da Pio XI nel primo radiomessaggio della storia della Chiesa in una «grandiosa udienza generale» (12 febbraio 1931). Mai la benedizione finale urbi et orbi fu più vera nel senso stretto del termine. Il breve messaggio papale Noi che per arcano disegno, pronunciato in latino e ritrasmesso in italiano, francese e inglese (l’allora monsignor Spellman si occupò della traduzione, e il segnale ricevuto dalla Nbc fu poi ritrasmesso da oltre 150 radio affiliate al circuito Cbs e Nbc30), e diffuso quattro giorni dopo anche in tedesco, spagnolo, polacco e russo, portò infatti la Chiesa nel mondo in un modo inedito: «Universale la Chiesa, universale la diffusione delle onde della Radio»31. Le nuove tecniche diffusive diventavano reali ed efficaci forme di apostolato moderno, supportate anche per questo dalle collette dei fedeli italiani e dei vari episcopati, a cui la Santa Sede faceva ricorso come forma di raccolta fondi per nuovi investimenti sulle naturali evoluzioni tecnologiche.
Per la prima volta inoltre i fedeli in ascolto poterono sentire la vera voce del papa nella lettura del pronunciamento, con tutte le caratteristiche fonetiche, gli abbellimenti emotivi e timbrici, l’inflessione, il ritmo e la cadenza.
Il mezzo radiofonico, unico tra tutti i media, arrivò inoltre dove altri media non ebbero la possibilità di giungere. La radio può vantare infatti la fondazione di una nuova espressione del magistero, quella propriamente del radiomessaggio che, dal 1931 in poi, venne usata dai pontefici come uno degli strumenti privilegiati, inaugurando una tradizione e fondando un «genere omiletico-espositivo ormai codificato»32.
Il fascismo, dopo la radio e il cinema, investì energie e uomini anche nella realizzazione di una tv di regime. D’altra parte già la Germania nazista stava cominciando a mostrare i benefici offerti dalla possibilità dei collegamenti in diretta in chiave di propaganda e di pathos, e Mussolini cercò di emulare a ogni costo l’alleato.
Anche alla Santa Sede, tuttavia, non sfuggirono le potenzialità e lo scenario che le sperimentazioni televisive ormai in numerosi Stati stavano mostrando, concentrandosi in particolare su quello che per molti anni è stato inteso come lo ‘specifico’ televisivo, ovvero la diretta. Già nel 1936 «La Civiltà cattolica» ospitava infatti un articolo in cui si rendeva familiare il funzionamento tecnico della ‘tele-visione’ e l’anno prima, nel 1935, «L’Illustrazione vaticana» aveva scritto sulle sue pagine che
«Si prevede che uno dei lati che offrirà un grande interesse sarà quello concernente la trasmissione delle attualità [...]. Una funzione papale in S. Pietro potrà essere televisionata, dopo poche ore, in tutte le parti più lontane del mondo e vista dai fedeli nelle loro case entro la stessa giornata»33.
A differenza di quello che era successo per il cinema, non si coglie per la televisione un’evidente differenza temporale tra la prassi e i pronunciamenti magisteriali, tra l’impegno diretto di pochi lungimiranti o di alcune avanguardie tecnologiche cattoliche e l’attenzione delle autorità religiose. L’interessamento e la partecipazione nei confronti del piccolo schermo coinvolsero infatti fin da subito non solo i singoli cattolici, ma anche i vescovi, i cardinali e lo stesso pontefice, che già in occasione della Pasqua del 1949 accettò di farsi riprendere e registrò un discorso da trasmettere alla televisione per i cattolici francesi e per quelli americani.
I telespettatori riuscirono in questo modo a vedere la figura e ad ascoltare la voce del papa direttamente dal salotto delle loro case. Nel giorno della Risurrezione, ricordando il 12 febbraio 1931, quando la radio aveva portato le parole di Pio XI «fino agli estremi confini del mondo», Pio XII si compiaceva di come il progresso tecnologico rendesse i messaggi papali «non più esclusivamente affidati alle fredde pagine della stampa»34.
Sempre dalla Francia arrivò l’altra grande iniziativa che lasciò un segno nello sviluppo della televisione religiosa e che incise nell’atteggiamento rivolto poi a quella italiana: il 13 maggio del 1949 «La Croix» pubblicava la lettera dell’Assemblea dei cardinali e degli arcivescovi di Francia nella quale si rendeva noto il progetto di offrire un trasmettitore televisivo al pontefice in occasione dell’Anno Santo. Paul Claudel venne nominato presidente del Comitato nazionale francese istituito ad hoc per seguire l’iniziativa. Dopo le prime sperimentazioni di trasmissione tra Vaticano e Castelgandolfo, la sera del 24 dicembre, sei anni prima dell’inizio della programmazione regolare della tv pubblica italiana, il Vaticano riuscì a trasmettere le immagini dell’apertura della Porta Santa. La nuova stazione televisiva, installata al primo piano della basilica, mise il Vaticano nella posizione di essere uno dei primi Stati in Europa a usufruire di questa nuova tecnologia di comunicazione e allo stesso tempo a rendere familiare questo medium ai giovani ecclesiastici35. Il pontefice seguì così sullo schermo televisivo l’uscita dei fedeli giunti a Roma per assistere alla solenne Cappella papale in S. Pietro.
Dopo questa fase l’impegno non fece che crescere anno dopo anno: per la Pentecoste del 28 maggio 1950 le telecamere poterono varcare per la prima volta la soglia di S. Pietro e il 24 giugno trasmettere la canonizzazione di Maria Goretti, con la ripresa della benedizione urbi et orbi, fino alla diretta – questa volta della Rai – della canonizzazione di Pio X in piazza S. Pietro nel maggio del 1954. La Rai-Tv aveva infatti da pochi mesi inaugurato le trasmissioni ufficiali (3 gennaio 1954), dopo alcuni anni di fasi sperimentali, sotto l’attenta e vigile osservazione da parte della Chiesa: due giorni prima, l’1 gennaio, Pio XII inviò una sua esortazione ai vescovi dove cominciava dicendo che
«I rapidi progressi, a cui è ormai avviata in molti Paesi la Televisione, sempre più mantengono desta la Nostra attenzione su questo meraviglioso mezzo offerto dalla scienza e dalla tecnica all’umanità, prezioso e pericoloso a un tempo»36.
Ritorna in questo modo anche per la televisione quella duplicità di atteggiamento che aveva contraddistinto in passato gli altri media.
Il rito della benedizione degli impianti da parte dei vescovi delle principali sedi italiane iniziato già nel 1952 (Micara per Roma, Fossati per Torino, Dall’Acqua per Milano, Dalla Costa per Firenze), ripreso e trasmesso nella programmazione di quei primi giorni, sintetizzava la presenza costante della Chiesa su quel mezzo. Fin dalla sua nascita la Rai detiene dunque il monopolio visivo sull’immagine della Santa Sede, per lo meno fino alla nascita del Centro televisivo vaticano (Ctv).
Con Pio XII e con papa Giovanni XXIII la televisione, che dal 1958 avrebbe avuto anche una patrona, s. Chiara d’Assisi, entrò definitivamente nel magistero pontificio: dalla fine del 1954 la Pontificia commissione per la cinematografia diventava la Pontificia commissione per il cinema, la radio e la televisione e importanti documenti (l’enciclica Miranda Prorsus, il motu proprio Boni Pastoris) coglievano il ruolo dei media nella società moderna.
È interessante notare il doppio filo che lega alcuni momenti della storia della televisione italiana con la figura del pontefice e con alcuni eventi religiosi. La Rai domenica 6 giugno 1954, per il suo primo allacciamento con la Televisione europa – così era chiamato il circuito dell’eurovisione – aveva infatti portato le proprie telecamere nella Città del Vaticano e nella sala del Concistoro dove Pio XII pronunciò un messaggio e impartì la benedizione ai fedeli e telespettatori degli otto paesi europei allacciati, tanto da far scrivere a «Le Monde» che «ci congratuliamo con i tecnici di tutti i paesi, ma soprattutto con la Televisione italiana per la sua brillante realizzazione»37. Ugualmente avvenne in occasione del lancio del satellite Telstar nel luglio del 1962, per la prova generale del collegamento in diretta con gli Stati Uniti. Tra i servizi da mandare in onda, che avrebbero dovuto rappresentare simbolicamente l’immagine del paese, vennero scelte, tra le altre, anche alcune sequenze sul Vaticano e sulla Cappella Sistina. Anche in questo caso, il «miracolo delle comunicazioni» – come venne definito – nacque sotto la benedizione di sequenze religiose, continuando una tradizione ben consolidata, ulteriormente confermata l’11 ottobre di quello stesso anno.
L’era della mondovisione, intesa come servizio reso ai telespettatori, venne infatti ufficialmente inaugurata con la trasmissione oltreoceano delle immagini della giornata di apertura del Vaticano II. Alle 13,50 si aprì il collegamento da Roma e il segnale venne ricevuto in tutta l’America settentrionale. Una fortunata coincidenza volle che a quell’ora il pontefice si affacciasse alla finestra per salutare i fedeli accorsi in piazza S. Pietro. Gesto che replicò alla sera e su cui le telecamere della Rai ancora una volta si fecero trovare pronte, registrando e consegnando alla storia il celebre Discorso della Luna. Un concilio, per la prima volta nella storia, subiva così la risemantizzazione del racconto televisivo per essere ritrasmesso da 66 organismi radiotelevisivi. «L’Osservatore romano», in modo lungimirante, già nel dicembre del 1961, aveva fatto i calcoli del pubblico potenziale che l’evento avrebbe raggiunto, arrivando a scrivere che grazie alla diretta «ciascun singolo individuo si troverà nelle condizioni di uno spettatore di prima fila, o meglio, di un ospite privilegiato che si trovi a fianco dei protagonisti dell’eccezionale avvenimento»38.
La televisione pubblica italiana smetteva così momentaneamente di concentrarsi solo sulla figura del pontefice, per allargare lo sguardo al variegato corpo della Chiesa che arrivava a Roma da tutto il mondo, attraverso dirette, rubriche settimanali, programmi di approfondimento storico-teologico e interviste. Quelli che trovarono spazio e voce davanti alle telecamere e ai microfoni della radiotelevsione italiana furono i teologi, i vescovi, i laici, i cardinali, i singoli sacerdoti, gli episcopati, i rappresentanti del mondo ortodosso e protestante, e i non cattolici, che dal 1962 al 1965, per quattro sessioni, animarono la discussione conciliare.
Già l’evento in sé incise in modo radicale sull’informazione religiosa, producendo un vero e proprio «tournaunt historique» come lo ha definito il mariologo René Laurentin39, con l’entrata in scena di una nuova figura di giornalista, quella del vaticanista, e la costituzione dell’Ufficio stampa del concilio, che ebbe il compito di rapportarsi con i giornali, le radio e le televisioni di tutto il mondo, e che dopo il 1965 venne trasformato nella Sala stampa vaticana. Tuttavia, nella Rai a doppio canale questo cambiamento si rivelò in maniera più incisiva ed evidente, offrendo ai propri telespettatori un resoconto puntuale e una ricchezza di punti di vista mai più eguagliata.
Il servizio pubblico entrò nella fase della sua maturità proprio durante il pontificato giovanneo, il primo che si svolse interamente sotto la copertura del mezzo televisivo40; le telecamere della Rai seguirono papa Giovanni XXIII nelle sue prime uscite dal Vaticano, nelle visite pastorali ai quartieri romani, ai carcerati, agli ammalati, nei discorsi improvvisati, segnando così in modo evidente la distanza nel modo di ‘fare il papa’ di Roncalli rispetto a Pacelli. Le riprese Rai rivelano infatti «la decadenza dell’immagine di onnipotenza del papa»41, dando risalto a ciò che Roncalli riteneva essenziale: il primato pastorale. Cambia così il rapporto con le masse cattoliche e non, si riduce la distanza tra i fedeli e il papa, tra i romani e il loro vescovo, ma anche tra il mondo laico e il pontefice, testimoniata dall’apprensione con cui il mondo intero seguì la malattia di papa Giovanni nelle ultime settimane prima della morte42. La Rai dedicò ogni sera uno spazio privilegiato nei suoi notiziari all’aggiornamento sulla sua salute, inaugurando così un rito tra il sacro e il profano in un climax di attenzione che trova il compimento nella lunga diretta sull’agonia di papa Giovanni Paolo II, tra i mesi di marzo-aprile 2005, seguita dall’intero ‘arco mediatico’.
Dopo il viaggio/pellegrinaggio di papa Giovanni XXIII dell’ottobre 1962 attraverso tre regioni italiane per giungere ai santuari di Loreto e Assisi che finalmente interrompeva la tradizionale autosegregazione papale scaturita dalla presa di Roma quasi un secolo prima, è Paolo VI ad inaugurare i viaggi extraeuropei, trasformati poi da Wojtyla in uno strumento di magistero. Le telecamere della Rai iniziarono così a seguire il papa ovunque, preparando i telespettatori con reportage e approfondimenti che culminavano spesso nella diretta in eurovisione o mondovisione. I viaggi papali, trasferiti nel campo dei media, vengono trasformati dunque da semplici eventi religiosi in grandi eventi mediatici. I telespettatori possono partecipare a quelle celebrazioni dal salotto di casa, compiendo un vero e proprio «pellegrinaggio in poltrona»43.
Nel campo propriamente magisteriale, i principali atti riguardanti i media durante il pontificato montiniano sono il frutto della recezione del Vaticano II: con il motu proprio In Fructibus multis (2 aprile 1964) venne istituita la Pontificia Commissione per le comunicazioni sociali a cui fu affidata anche l’esecuzione delle direttive e delle norme esposte nell’Inter mirifica e che, sette anni dopo, pubblicò l’istruzione pastorale Communio et progressio, sviluppando e completando molte delle questioni sollevate dal decreto conciliare. Il 7 maggio 1967 si inaugurarono inoltre le Giornate mondiali delle comunicazioni sociali, offrendo un importante corpus di documenti che, in senso diacronico, forniscono elementi per uno studio sull’adeguamento del pensiero della Chiesa rispetto all’evoluzione delle tecnologie (le più recenti dedicate al mondo digitale e al web).
Nel 1978 fu ancora il mezzo televisivo a sintetizzare meglio di qualsiasi altro il succedersi degli eventi di quei mesi e il passaggio di pontificato: le sequenze dell’orazione funebre di Paolo VI nel funerale senza salma di Aldo Moro furono anche le ultime immagini dello stesso pontefice, che lasciarono un vuoto visivo colmato solo nel momento del conclave di agosto (il primo trasmesso a colori) con l’elezione di Albino Luciani. Il suo pontificato, seppur breve, venne interamente documentato dalle riprese delle telecamere Rai44. Sebbene il mezzo televisivo avesse amplificato quei trentatré giorni, mostrando i piccoli ma incisivi cambiamenti introdotti da papa Luciani (uso della prima persona singolare, abbandono della sedia gestatoria), fu tuttavia il suo successore ad operare una vera e propria rivoluzione nel campo della comunicazione religiosa: Wojtyla si servì infatti «del potere della televisione per raggiungere un pubblico di dimensioni mondiali»45. Non solo le prime immagini trasmesse dal circuito della mondovisione documentarono novità significative nel porsi di quel giovane papa polacco46, ma il carisma, il modo inedito di relazionarsi al sistema mediatico (ha segnato la storia della televisione italiana la sua telefonata in diretta durante il talk show Porta a Porta, il 13 ottobre 1998, scendendo «nel cuore di quella Tv popolare e generalista che sembra negare ogni presenza del sacro»47) e la sua volontà di comunicazione utilizzando tutti gli strumenti possibili fecero sì che la televisione gli offrisse una visibilità superiore a qualsiasi altro suo predecessore, rendendolo «il primo papa pienamente televisivo della storia»48.
La Chiesa entrò dunque in una fase di maggiore maturità nel suo rapporto con i media, tanto che nel 1983 venne fondato il Centro televisivo vaticano – uno «dei simboli del rapporto particolarissimo che intercorse tra Karol Wojtyla e i mass media»49 con il compito proprio di documentare in modo integrale le attività della Santa Sede (Angelus, cerimonie liturgiche, viaggi pastorali) e delle conferenze episcopali.
Proprio gli anni Ottanta segnarono l’inizio e lo sviluppo di una nuova stagione del rapporto tra comunicazione e Chiesa, in cui assunse un ruolo sempre più rilevante la stessa Cei, da cui non sono estranei né il nuovo ‘approccio comunicazionale’ di Giovanni Paolo II né il suo programma di pontificato50.
I convegni ecclesiali di Loreto del 1985 e di Palermo del 1995, grazie anche alle entrate dell’otto per mille frutto degli accordi concordatari del 1984, posero le basi per rilanciare di fatto l’invito «a considerare la comunicazione sociale non come un accessorio ma come un elemento portante dell’azione pastorale della Chiesa»51 e fornirono le linee d’azione della Cei in campo radiotelevisivo per una nuova missione evangelizzatrice. Venne dato un ruolo essenziale all’Ufficio Nazionale per le Comunicazioni Sociali e durante la XLII Assemblea generale straordinaria della Cei (1996) venne deciso di investire in un canale satellitare, anche per valorizzare l’informazione locale nelle diocesi52.
Durante la guida della diocesi ambrosiana, il card. Martini, attento come pochi all’aspetto della comunicazione dei media a cui ha dedicato alcuni importanti interventi, aveva infatti scritto nella lettera pastorale Il lembo del mantello che
«i media non sono più uno schermo che si guarda, una radio che si ascolta. Sono un’atmosfera, un ambiente nel quale si è immersi […]. La Chiesa deve dire e predicare la comunicazione, deve promuovere una mentalità aperta e più disponibile all’informazione, deve svolgere principalmente un ruolo profetico ed educativo, non cercare di impadronirsi dei media»53.
Tra pontefici e piccolo schermo si instaura dunque un rapporto sempre più stretto e pervasivo, coinvolgendo la stessa Chiesa cattolica in una più ampia riflessione sui media. Tuttavia, se finora si è osservato l’oggetto dal punto di vista strettamente ecclesiastico, occorre ora considerare l’altro soggetto in campo, non meno importante, costituito dalle iniziative del movimento cattolico.
Nel parlare dei moderni mezzi di comunicazione, accanto alla preoccupazione morale e dunque alla «santa crociata» contro gli abusi negli spettacoli cinematografici, le gerarchie avevano sempre accompagnato l’appello a tutti i cattolici «che hanno una partecipazione a questa industria» di intervenire direttamente in questo campo, usando la loro «ingerenza ed autorità», come riportato nella Vigilanti cura. Come era naturale, il primo punto di riferimento per questo impegno si trovava evidentemente nell’Azione cattolica. Nel 1934 lo stesso Pacelli, allora Segretario di Stato, aveva indirizzato al presidente dell’Ocic una lettera considerata la magna charta della presenza dei cattolici in campo cinematografico54.
Se il cinema poté vantare dunque numerose iniziative da parte dei cattolici italiani, alcune molto importanti che anticiparono le stesse indicazioni pontificie (il Consorzio Utenti Cinematografici Educativi, la «Rivista del cinematografo», il Ccc e altri) anche nel campo radiofonico e televisivo l’associazionismo cattolico fu da subito presente, sotto l’egida dell’Azione cattolica.
Dopo il Ccc, nato dal Segretariato centrale per il cinematografo, ramo dell’Ac, nel 1940 venne fondato il Centro cattolico radiofonico (Ccr), su suggerimento di monsignor Montini, assorbendo e portando a compimento alcuni tentativi precedenti di dare una forma più organizzata e stabile a un interessamento delle forze cattoliche nel campo radiofonico sorti fuori dal raggio dell’associazione. Si sentiva infatti l’esigenza di una collaborazione con la radiofonia pubblica (l’Eiar) che andasse al di là della mera preoccupazione morale o della semplice propaganda religiosa, sganciandosi dall’atteggiamento che aveva caratterizzato i tentativi degli anni Trenta. Fino ad allora la presenza cattolica in radio era stata abbastanza limitata e ci si era dovuti accontentare della trasmissione delle funzioni domenicali, dei quaresimali, di alcune celebrazioni solenni e poc’altro, anche in considerazione del fatto che la radio in quel periodo era sotto il controllo del regime fascista, che ne aveva scoperto il ruolo di potente macchina di propaganda e dunque allontanava qualsiasi forma di concorrenza nel progetto educativo e morale. Ben diversa, invece, la situazione nella Radio vaticana, che dava spazio e voce al mondo cattolico.
Se «l’interesse dei cattolici italiani per la radio fu tardivo e lento ad affermarsi»55, è nell’esperienza del Ccr che si trovano le forme più interessanti di partecipazione a questo mezzo. Qualche mese prima della sua ufficiale costituzione, l’Ac si era già resa protagonista di una particolare iniziativa: approfittando di un’inchiesta dell’Eiar che sondava gli umori del proprio pubblico sulle trasmissioni in onda, l’assistente generale monsignor Evasio Colli chiese all’episcopato italiano di intercedere presso i fedeli per sollecitarli a scrivere che si sentiva l’esigenza di avere una maggiore presenza di programmi religiosi.
Il Ccr iniziò quindi una collaborazione con il servizio pubblico, gestendo alcuni spazi nella programmazione, ritagliandosi ruoli di consulenza e intervenendo direttamente nella produzione di alcuni contenuti, soprattutto nel dopoguerra, quando si riaccese l’interesse per il mezzo e cominciarono a incidere l’attivismo e la mobilitazione geddiana, che si tradussero anche in una maggiore presenza cattolica nelle commissioni di vigilanza per un controllo preventivo di ciò che andava in onda.
La propaganda in chiave anticomunista operata dai Comitati civici e dalle organizzazioni democristiane, attuata con estrema spregiudicatezza, faceva ricorso ai più disparati mezzi che la modernità metteva a disposizione, non ultimo appunto la radio, dove l’oratoria e l’irruenza di p. Lombardi, espressa nei suoi Quaresimali radiofonici, lo portarono a essere definito il «microfono di Dio»56.
L’interesse verso il nuovo mezzo si tradusse tuttavia in quegli anni soprattutto nella corsa all’occupazione dei posti di controllo da parte della politica; si accantonavano la riflessione e l’ideazione di nuove proposte comunicative, lasciando a singole personalità il compito di garantire la presenza della cultura cattolica e diminuendo così indirettamente l’incisività del Ccr che dal 1946, assieme al Ccc e al Cct (Centro Cattolico Teatrale), confluì nell’Ente dello Spettacolo.
Se l’impegno cattolico nella radio si sganciò parzialmente dalle forme organizzate del Ccr, per prendere vie diverse, soprattutto nel postconcilio e dopo la scelta religiosa operata dall’Ac di Bachelet, il nascente mezzo televisivo cominciava ad egemonizzare ogni iniziativa in campo cattolico.
Fin dall’esortazione all’episcopato italiano dell’1 gennaio 1954, Pio XII, infatti, richiamandosi all’esperienza dei cattolici nei paesi in cui la televisione si era imposta già da tempo, si pronunciò speranzoso sul fatto che la televisione riservasse «un posto proporzionato all’importanza che il Cattolicesimo occupa nella vita nazionale», rivolgendosi a «coloro specialmente che la Chiesa chiama nell’Azione cattolica a fianco della Gerarchia», perché «comprendano la necessità di intraprendere opportune iniziative [...] prima che sia troppo tardi»57. Non solo le forze politiche democristiane, ma anche lo stesso movimento cattolico non si fecero trovare impreparati58, sensibilizzati dalle prove con il cinematografo e la radio, ma anche dalle stesse esperienze vaticane degli anni precedenti, non senza qualche celebre rigetto sia tra le gerarchie, sia tra i singoli sacerdoti (si pensi per esempio alle critiche avanzate da don Milani sul possesso dell’apparecchio televisivo da parte del sacerdote o sul suo uso da parte dei ragazzi)59. Già nelle prime settimane del 1954 il periodico dei Comitati civici «Collegamento» invitava a polarizzare l’attenzione su questo mezzo, perché capace di fare «tanto bene» se correttamente guidato.
Seguendo i voleri pontifici venne dunque creato il Centro Cattolico Televisivo in seno all’Ac, affiancando i Centri già esistenti. Le responsabilità del Cctv erano sia di carattere morale, con il controllo della programmazione tramite il servizio delle segnalazioni preventive nella Guida del telespettatore che veniva pubblicata sui quotidiani cattolici (in questo senso va letta la proposta dei Tele-Club, commissioni composte da laici di Ac che dovevano giudicare il valore delle trasmissioni in onda e la costituzione dell’Aiart, l’Associazione Italiana degli Ascoltatori Radiofonici e Telespettatori), sia organizzative e propositive: dalla ripresa televisiva della messa (stabilendo i luoghi della ripresa, la scelta delle persone e il commento) alle telecronache dei principali avvenimenti religiosi, dalla cura e realizzazione delle trasmissioni speciali alle rubriche settimanali, fino alla promozione di giornate di studio. Importante, per esempio, fu il ruolo che il Cctv svolse durante gli anni del concilio, che videro la Rai impegnata a seguire l’evento per tutta la sua durata, attraverso numerose iniziative.
L’intervento dell’Ac nei campi radiofonico e televisivo fungeva in questo modo da spinta e incentivo ad una maggiore attenzione alla moralità e agli aspetti educativi; tuttavia, come è stato fatto notare, rappresentò solo una fase della parabola della presenza delle forze cattoliche nella radio e nella televisione, che si esaurì sia perché il piccolo schermo si impose come il mezzo per eccellenza, provocando così uno spostamento e un accentramento di interesse a scapito degli altri media, sia perché, in un secondo momento, entrò in crisi il modello stesso dell’associazionismo che aveva dominato fino ad allora60.
Non sono sottovalutabili nemmeno le forme di impegno che si manifestarono attraverso un’intensa attività editoriale: la «Rivista del cinematografo», il periodico più antico nel settore fondato nel 1928 ed edito dall’Ente dello Spettacolo, cominciò infatti a dare uno spazio crescente alla televisione, come le riviste dei Gesuiti milanesi, «Letture» e «Aggiornamenti sociali», non sempre in linea con quella romana; «L’Osservatore romano» dedicò una rubrica curata da Ludovico Alessandrini – Momenti delle telecamere – proprio all’analisi e alla critica della programmazione; «La Civiltà cattolica», soprattutto tramite la penna di Enrico Baragli, approfondiva e aggiornava la riflessione sulle comunicazioni sociali. Se queste riviste rappresentarono e anticiparono teorizzazioni che all’estero stavano pian piano prendendo piede, per l’Italia bisognò attendere la Settimana Sociale dei Cattolici Italiani del 1962, dedicata all’incidenza dei mezzi audiovisivi, per assistere a una riflessione compiuta sui media da parte cattolica.
È tuttavia con la riforma radiotelevisiva del 1975 e con la sentenza n. 202 del 1976 della Corte Costituzionale61 che si assistette a un vero e proprio rinascimento dell’iniziativa cattolica nel campo dei media, più libera e privata, meno istituzionalizzata rispetto al passato. Le libertà di antenna
«riproponevano al mondo cattolico italiano l’attualità del documento Inter mirifica e l’urgenza di una sua realizzazione, non per via politica e garantista ma con ampia partecipazione e presenza di contenuti autenticamente cristiani»62.
Quando si parla di «media cattolici» occorre infatti distinguere quelli ufficiali della Santa Sede (Radio Vaticana, «L’Osservatore romano», Ctv) da quelli che fanno riferimento alle conferenze episcopali nazionali e da quelli che invece possono essere emanazione di congregazioni religiose, movimenti, associazioni, o espressione di realtà diocesane, parrocchiali o interparrocchiali63. Appartengono al secondo gruppo, per esempio, l’«Avvenire», Sat2000 (Tv2000 dal 2009) e BluSat2000; al terzo, tra i più importanti, il CO.RA.L.LO, Radio Maria, TelePadre Pio (che ha lanciato anche un’applicazione per iPhone), TelePace e Nova Tv. Queste ultime realtà costituiscono una costellazione che per quantità si presenta di difficile mappatura64. L’arcipelago delle emittenti locali – quasi tutte passate dai primi anni del 2000 sul satellite o sul web – costituisce però una realtà non sottovalutabile, sia dal punto di vista economico e degli investimenti, sia dal punto di vista della «nuova evangelizzazione» proposta da Wojtyla e portata avanti dalla Cei.
Nel 1981, sull’onda dell’etere libero, nacque il Consorzio Radio Televisioni Libere Locali – dal 2001 Associazione CO.RA.L.LO – che riunisce appunto emittenti di area cattolica, in stretto contatto con l’Ufficio nazionale per le comunicazioni sociali della Cei, al fine di promuovere e porsi come punto di riferimento per tutte quelle emittenti locali e private portatrici dei principi cristiani. La rete delle emittenti associate, circa 230 radio e 66 televisioni, può così ritrasmettere all’interno dei loro palinsesti notiziari sulla vita della Chiesa (Ecclesia), servizi informativi e culturali, dirette sugli eventi e servirsi anche dei contenuti prodotti dalle emittenti radiofoniche e televisive satellitari della Cei. Come si legge nella presentazione della loro associazione, «[f]in dal nascere dell’emittenza che una volta amava definirsi libera e locale e che oggi definiamo “privata”, i cattolici italiani hanno guardato a questo strumento come ad una possibilità nuova di presenza nel tessuto civile e sociale italiano» mossi dal «desiderio di rendere incontrabile l’annuncio cristiano nel linguaggio del mondo»65. Nelle prime forme in cui nascono possono essere definite anche radio di servizio ai fedeli e alle comunità (poi radio comunitarie): trasmettono la messa, la recita del rosario e offrono un filo diretto con gli ascoltatori.
Con questi intenti venne fondata nel 1982 in provincia di Como Radio Maria, una emittente parrocchiale che dava particolare spazio e attenzione a Medjugorje e alle apparizione mariane66. Nel 1987, con la costituzione dell’Associazione Radio Maria, l’emittente cambiò volto, rendendosi indipendente dall’ambito locale nel quale era nata, per avviare un programma di evangelizzazione su più larga scala («evangelizzazione sistematica», per usare le parole del suo direttore, padre Livio Fanzaga), fino ad arrivare a una copertura nazionale del territorio, pari solo alla Rai per numero di ripetitori, e internazionale. Sull’esperienza di quella italiana emittenti simili sorsero anche all’estero, dove la matrice eccessivamente conservatrice se non fondamentalista che le accomuna ha suscitato critiche e polemiche all’interno dello stesso mondo cattolico.
I tentativi delle televisioni private sono stati spesso effimeri, durati pochi anni e con risultati qualitativamente molto disparati. Diversa è invece l’esperienza delle emittenti che fanno diretto riferimento alla Cei: nel 1998 si decise di dare vita all’emittente televisiva Sat2000 e al canale/agenzia radiofonica satellitare BluSat2000 che fornisce programmi a più di 200 radio cattoliche, entrambe promosse dalla «Fondazione Comunicazione e cultura» della Cei, che dal 2000 pubblica anche una rivista, «Osservatorio Comunicazione e Cultura», espressione del servizio nazionale per il progetto culturale.
Queste emittenti segnarono la discesa in campo della Cei nell’ambito del più ampio progetto avviato dal card. Camillo Ruini sull’informazione cattolica, coinvolgendo cattolici d’esperienza nel settore, come Emmanuele Milano e Pupi Avati. Ruini fu infatti l’artefice e l’ideatore di questa «tv dei vescovi» la cui gestione venne poi affidata a Dino Boffo, già direttore dell’«Avvenire», fino alle sue dimissioni nel 2009.
Sat2000 è un canale in chiaro ora ricevibile sul digitale terrestre (da qui il cambio della testata in TV2000, come sancito dal comunicato finale della XLIX Assemblea generale dei vescovi italiani dedicata alla questione educativa, nel maggio 2009), tramite antenna parabolica e in streaming sul web, ma ritrasmesso anche da numerose emittenti locali in analogico. Si differenzia da tutte le altre emittenti cattoliche perché il suo palinsesto è generalista e dal 2005 trasmette per le intere 24 ore67: pur dando attenzione all’attività del pontefice (con dirette e telecronache) in collaborazione con il Ctv, agli eventi ecclesiali più importanti, alla Chiesa e alla religione in generale all’interno dei suoi notiziari e rubriche, trovano una loro rilevante collocazione anche altri generi, come la fiction, i talk show, film, musica e documentari, con un’attenzione particolare verso le problematiche sociali, culturali e religiose.
Anche la radio pubblica italiana, come già la Radio Vaticana, sorse ufficialmente sotto il fascismo, il 27 agosto del 1924, con il nome di URI, Unione Radiofonica Italiana, passando poi all’acronimo EIAR (Ente Italiano Audizioni Radiofoniche) nel 1938 e al ben più noto Rai il 26 ottobre 1944 (sinonimo prima di Radio Audizioni Italia e dal 1954 di Radiotelevisione Italiana).
I cattolici avevano sperimentato le prime forme di impegno radiofonico nel servizio pubblico, ma, come già detto, con scarsi risultati. Gli anni del fascismo avevano portato però a una maggiore consapevolezza dell’importanza della radio e in particolare di un genere, quello dell’informazione. Negli anni della ricostruzione del paese, questo medium rappresentava dunque un’occasione unica per il partito cattolico. Fu infatti con la costituzione della Rai, che il controllo democristiano cominciò a essere più incisivo, in particolare con la non riconferma del suo primo presidente, Arturo Carlo Jemolo. Una esclusione in cui alcuni hanno visto a posteriori la rappresentazione simbolica «dell’abbandono di certi concetti ispiratori di una corretta gestione radiofonica, su cui egli aveva impegnato la sua presidenza»68. Il nuovo presidente, Giuseppe Spataro, che veniva dal partito popolare ed era stato segretario della Dc durante la clandestinità, assieme al direttore generale Salvino Sernesi aprirono così la nuova fase dell’emittenza pubblica e il nuovo impegno del partito cattolico in campo radiofonico, con una strategia volta al controllo e all’occupazione dei posti dirigenziali attraverso uomini propri, che si riprodusse poi in modo simile per la televisione.
La linea politica espressa nel paese si era riflessa così anche in Rai: chiuso il periodo resistenziale dell’emittente pubblica, si avviò un processo di normalizzazione che si tradusse di fatto nella restaurazione dei vecchi dirigenti dell’Eiar – vicini al fascismo – e nella continuazione del vecchio modello legislativo e organizzativo ideato in epoca fascista, con una divisione dei compiti che rimase immutata per alcuni anni: ai vecchi dirigenti dell’azienda l’ideazione e la realizzazione dei programmi di cui il partito cattolico si disinteressò, all’Iri il controllo finanziario e alla Dc quello politico, che si trasformò poi in una vera e propria egemonia con la vittoria delle elezioni politiche del 1948. Le affinità tra i vecchi dirigenti e quelli democristiani si trovavano nella propugnazione del «modello retorico-nazionalistico di tipo scolastico alimentato nell’orizzonte della famiglia piccolo-borghese»69; se questo accomunò la produzione di cultura di massa dal 1935 al 1955, come scrive Monteleone, il partito cattolico ne diventò il vero interprete dal dopoguerra in poi.
Tuttavia, le tensioni che attraversavano il terreno politico, non solo nello scenario italiano, si riversavano anche nel servizio pubblico: da una parte le forze partitiche laiche in Rai «si vennero a trovare in crescenti difficoltà per la progressiva discriminazione»70, dall’altra, si mostrava sempre più evidente il vassallaggio in forme diverse dell’ente nazionale all’esecutivo democristiano, che stava preparando contemporaneamente l’arrivo della televisione. Se Andreotti non aveva tardato a chiedere in modo formale alla Rai «più oculata riservatezza»71 nell’informare sulla politica interna, i casi di censura (chiamata «severa opera di autodisciplina»), di faziosità o di notizie inventate create ad hoc per una propaganda in chiave anticomunista o per un eccessivo scrupolo moralista caratterizzarono di fatto la gestione di quegli anni, dalla radio alla televisione. Brancati sintetizzò così quel clima nel 1952: «La radio è talmente dominata da questa regola del Vangelo, che i nomi Gesù, Signore e Dio vengono tagliati da tutti i copioni quando abbiano un tono esclamativo, sia pure riverente»72.
Nei primi anni Cinquanta iniziarono infatti le prime interpellanze da parte di alcuni deputati, volte a denunciare «il vergognoso asservimento della radio ai fini della propaganda governativa e clericale»73 – si ignoravano gli scioperi dei dipendenti pubblici, si dava enfasi solo a certe notizie, vi era una netta sproporzione in termini di spazio verso i politici democristiani – che si acuiva in occasione delle campagne elettorali. Significativi alcuni articoli apparsi su «L’Unità» a proposito dell’informazione-propaganda sulla legge truffa – «L’americanismo si fondeva con le antiche e mai rinnegate tradizioni dell’“aedo senza fili” dell’era fascista»74 – o su «Rinascita», dove non si mancava di definire la Rai come «il massimo strumento di propaganda governativa, cioè della propaganda anticomunista» e «attualmente diretta da fedelissimi della Democrazia cristiana, dell’Azione cattolica e del Vaticano»75. Questi commenti sono tra l’altro la cartina di tornasole di un atteggiamento che attraversava in modo trasversale quasi tutto il sistema partitico, incapace di andare al di là delle critiche e delle accuse, vittima della stessa diffidenza – in alcuni casi vera snobberia o disprezzo – verso le forme moderne della comunicazione di massa.
Anche la televisione non fu esente da queste tendenze, a partire dalle celebri «veline» governative che arrivavano alla redazione del telegiornale con l’indicazione su come dare certe notizie. Vennero redatte sotto l’amministratore delegato Filiberto Guala (1954-1956), non senza le pressioni vaticane, le Norme di autodisciplina per le trasmissioni televisive, una circolare all’inizio segreta che però, in via del tutto ufficiosa, diventò un vero e proprio instrumentum censurae76, sotto al quale passavano in modo preventivo o cautelativo tutte le scalette di quei programmi ritenuti critici e che, a detta del censore, potevano ledere l’onore della famiglia o arrecare offesa agli ordinamenti civili e religiosi (che offendevano la sacralità di Roma, si diceva spesso), con una lista delle parole impronunciabili: se «cosce» si poteva dire solo in riferimento al pollo, e la perifrasi «scioglimento del vincolo coniugale» sostituiva la proibita «divorzio», il moralismo imposto sul piano del costume provocava anche ostracismi veri e propri sulle persone (per alcuni anni, per esempio, verso Mina perché aveva avuto un figlio fuori dal matrimonio o verso Nilla Pizzi perché viveva separata dal marito), o sugli eventi (il silenzio sul caso Montesi, uno dei primi scandali sessuali della Repubblica che aveva coinvolto alcuni esponenti della classe politica democristiana).
Questo atteggiamento censorio si abbatté con maggiore forza sulla satira, in special modo se politica o volta a ironizzare sulle autorità religiose: un’imitazione di Fanfani fatta da Noschese nel 1960 costò al conduttore del programma, Enzo Tortora, un allontanamento dal video che toccò anche alla coppia Raimondo Vianello e Ugo Tognazzi, rei di aver ipotizzato una barzelletta su Giovanni XXIII, in tempi in cui ridere imitando il pontefice era proibito e perseguibile77. In anni più recenti, durante il festival di Sanremo del 1980 – nonostante un profondo cambiamento dei costumi sociali – l’epiteto «Wojtylaccio!» con cui Roberto Benigni apostrofò Giovanni Paolo II, sdoganando la satira papale e religiosa, costò al comico toscano una denuncia, mentre una bestemmia, la prima nella storia della televisione italiana, scappata a Leopoldo Mastelloni nel 1984, durante un’intervista al programma domenicale Blitz, portò all’allontanamento dal video sia dell’attore, sia della giornalista che lo stava intervistando.
Quando arrivò in Italia, la televisione si appoggiò dunque su un humus di esperienze e pratiche da parte del cattolicesimo sperimentate negli anni precedenti, a livello politico, amministrativo e, non da ultimo, di rigoroso controllo morale.
La nomina ad amministratore delegato di Guala – vicino a Fanfani, che aveva conosciuto ai tempi del gruppo di Civitas Humana, e affine alla spiritualità di uomini come Giuseppe Dossetti e il card. Lercaro, tanto da entrare in una trappa, una volta lasciata la Rai – era l’espressione dei nuovi cambiamenti che attraversavano il paese, la Dc e la stessa televisione, a cui veniva applicata l’ideologia della «democrazia guidata» cara ai gruppi della sinistra cattolica. Per gli uomini chiamati e per gli intenti che si prefiggevano, molti osservatori non hanno mancato di osservare come la televisione pubblica delle origini fosse molto vicina al gruppo legato al dossettismo78.
Al di là delle sterili considerazioni che leggono a senso unico lo stretto rapporto tra Rai e Dc fino ad «una isteria ipercritica»79 di certa pubblicistica, e dello scontro tra democristiani e massoni torinesi legati alla vecchia dirigenza Eiar, che secondo alcuni portò alle dimissioni dello stesso Guala80, ciò che è vero è che il progetto portato avanti nei suoi due anni di amministrazione era quello di rompere la continuità di un modello aziendale ormai consolidato per trasformare la Rai in una vera industria culturale di massa. Per usare le parole di un suo stretto e importante collaboratore, Pier Emilio Gennarini, anch’egli molto vicino ideologicamente e culturalmente alla corrente dossettiana (nel 1962 portò Lercaro in tv per una serie di commenti al Vangelo di Luca),
«Guala non voleva una tv fatta solo di cattolici: aveva in mente che la tv italiana dovesse assumere uno stile che rispecchiasse, a livello popolare di comunicazione di massa, la tradizione storica e culturale e, in questa tradizione, la ricca eredità cristiana della nazione. Con una espressione d’oggi, fu suo il tentativo di cominciare a rimarginare la frattura fra Vangelo e cultura in Italia»81.
Elemento cardine di questo progetto furono le celebri «selezioni corsare», dirette proprio da Gennarini, chiamate così perché i vincitori di quei primi concorsi Rai passavano attraverso i corsi di formazione, per fornire all’azienda nuove forze, portando a un vero rinascimento il linguaggio televisivo. Fu così che entrarono giovani di diversa formazione ed estrazione politica, tra cui Gianfranco Bettetini, Adriano De Zan, Emmanuele Milano, Fabiano Fabiani, Virgilio Melchiorre, Umberto Eco, Gianni Vattimo, Furio Colombo, Raffaele Crovi, molti dei quali provenienti dal mondo cattolico o dal bacino dell’associazionismo bianco (Università Cattolica, Centro S. Fedele, Fuci, Movimento laureati, Ac).
Uscito di scena Guala nel 1956, l’altra importante fase che si aprì nella televisione italiana fu quella di Ettore Bernabei, democristiano di lungo corso, ex direttore del «Giornale del Mattino» di Firenze e del quotidiano «Il Popolo», organo ufficiale della Dc, nonché «da sempre fanfaniano»82. Negli anni del suo mandato (1961-1974), secondo Chiarenza, si rese «più incisivo il potere della corrente fanfaniana nella direzione dei programmi informativi e giornalistici, passando da una gestione genericamente democristiana a un’altra rigorosamente finalizzata ai disegni del leader integralista»83.
La gestione Bernabei – «Opus Bernabei», come la definisce Grasso nella sua periodizzazione della storia della televisione italiana enfatizzando l’accentramento decisionale, la lunghezza del mandato e la vicinanza al movimento di Escrivá de Balaguer – marcò in modo indelebile la Rai, tanto da far parlare di un vero e proprio «modello culturale della televisione bernabeiana». Il progetto fanfaniano sulla televisione pubblica stava così gettando le fondamenta: come nella politica, anche in Rai si avviava il passaggio da una televisione centrista a una più marcatamente di centrosinistra. Il nuovo direttore generale, più scaltro di Guala nel non contrapporsi frontalmente alla vecchia dirigenza, ebbe il compito di orientare la televisione pubblica italiana (dalla fine del 1961 a doppio canale) verso le nuove prospettive politiche, mantenendo sì la Dc in una posizione egemonica e dando alla Chiesa una garanzia sulla gestione del mezzo (Bernabei andava a trovare ogni settimana il sostituto alla Segreteria di Stato, monsignor Angelo Dell’Acqua84), ma anche aprendo alle diverse forze culturali e politiche presenti nel paese. Se dunque riuscì a far uscire la Rai dal suo periodo d’infanzia per farla entrare nella fase della maturità, fece della lottizzazione la caratteristica principale di quella televisione.
Da un umanesimo liceale espressione della gestione laica della prima dirigenza Eiar e poi Rai si era passati ad un umanesimo cristiano della fase Guala, per arrivare alla Rai di Bernabei, che la portò ad essere uno dei più importanti centri di produzione culturali in Italia. La politica fanfaniana di centrosinistra si rifletteva infatti nel modello culturale che Bernabei imponeva alla televisione: informare, divertire, educare. Uno dei punti di forza della sua gestione fu proprio quello di dare centralità e attenzione particolare alla realizzazione dei programmi, fino ad allora trascurata. Sotto la sua direzione nacquero trasmissioni che avrebbero fatto storia. Se l’informazione tendeva a essere sempre filogovernativa e a rimanere sotto il suo stretto e diretto controllo (nonostante qualche apertura, come l’offerta della direzione del Tg1 a Enzo Biagi), continuando, anzi aumentando, la strategia degli omissis o del decentramento delle notizie scomode, Bernabei puntò su due generi in particolare, il varietà e la fiction, ritenuti i veri settori che influivano sui comportamenti, diffondendo e promuovendo determinati modelli nella società.
Il modello televisivo bernabeiano esaurì la sua spinta innovativa verso la fine degli anni Sessanta, sulla scia dei cambiamenti politici, sociali e culturali che stavano attraversando il paese. La sconfitta al referendum sul divorzio nel 1974 – in cui la Rai era scesa in campo con una martellante propaganda in difesa della sacralità della famiglia – e il sorgere di una emittenza libera e privata furono i segnali che anticiparono la fine di un’era, sancita formalmente dall’entrata in vigore della legge di riforma Rai del 1975, con cui si confermava il regime di monopolio statale della radiotelevisione, ma si sottraeva la televisione pubblica al controllo dell’esecutivo per passarlo al parlamento.
Finiva in questo modo l’esclusivo dominio governativo in favore di un’apertura a tutte le componenti politiche e partitiche. Il consiglio di amministrazione formato da 16 membri rispecchiava il pluralismo degli attori in campo secondo questa spartizione: 7 democristiani, 3 socialisti, 2 socialdemocratici, 2 comunisti, un liberale e un repubblicano. Quando entrò in scena la terza rete televisiva, nel 1979, la spartizione delle reti, in concorrenza tra di loro, fu tale per cui Raiuno, canale istituzionale per definizione, fu in quota cattolica, Raidue venne affidata ai socialisti e Raitre ai comunisti. Ogni partito aveva dunque il suo feudo televisivo o il suo dirigente di riferimento.
Con la riforma del 1975 il partito cattolico perse quindi quell’egemonia che aveva avuto per più di due decenni sulla Rai; questo non significò tuttavia l’esaurirsi del progetto cattolico sul mezzo televisivo. Fino all’inizio degli anni Novanta, la Dc e in seguito i vari partiti cattolici continuarono a mantenere posizioni strategiche nella gestione della televisione pubblica e la Chiesa esercitò indirettamente una sua influenza, che si estese non solo sulla televisione pubblica ma anche su quella privata.
Tuttavia dalla regolamentazione del sistema radiotelevisivo affrontata alla fine degli anni Settanta si cominciò ad osservare una più visibile non uniformità dell’atteggiamento dei politici cattolici85, che si accentuò dopo la crisi della Dc e la conseguente fine dell’unità politica dei cattolici, ripercuotendosi ed estendendosi – non solo a causa dei naturali scontri interpartitici e infrapartitici – anche in una differente visione sulle strategie della programmazione e sui contenuti della stessa offerta televisiva.
La strategia cattolica sulla televisione, per lo meno quella pubblica, si è maggiormente concentrata sull’occupazione di posizioni strategiche piuttosto che su un impegno costante nel processo ideativo e produttivo dei programmi; anche quando si è investito nella realizzazione e nella presenza di trasmissioni, poco o nulla si è fatto in termini di riflessione e orientamento sul lungo periodo a livello di televisione pubblica, sulle forme che può assumere la comunicazione religiosa e sulla natura di tale servizio86. Per esempio, nonostante fin dagli anni della sperimentazione televisiva trovi spazio in palinsesto la trasmissione della messa domenicale – più per iniziale continuità con una tradizione radiofonica che altro –, la programmazione strettamente religiosa non vanta particolari momenti d’oro, se si esclude il periodo del Vaticano II. In quell’occasione (1962-1965) la Rai, in stretta collaborazione con il Cctv e la segreteria del concilio, organizza infatti numerose rubriche (Diario del concilio), inchieste (Chi è il vescovo?, Due millenni: Maria e i popoli), programmi di approfondimento storico-teologico (La Chiesa a concilio, 1962 Anno del concilio), con i quali dà spazio e voce ai maggiori studiosi dei concili (Giuseppe Alberigo, Paolo Prodi e il gruppo bolognese vicino a Dossetti) e agli esponenti più importanti della riflessione teologica che il Sant’Uffizio aveva condannato negli anni precedenti, con un occhio particolare anche alle voci non cattoliche.
La religione cattolica trova massima visibilità in palinsesto in particolare attraverso la figura del pontefice e in occasione di grandi eventi, che la radio e la televisione seguono con collegamenti in diretta (dall’Anno Santo del 1950 all’anno mariano del 1954; dalle beatificazioni fino al giubileo del 2000, attraverso una struttura creata ad hoc, Rai Giubileo87, dal 2003 trasformatasi in Rai Vaticano col compito di seguire tutte le trasmissioni di carattere religioso e, grazie a un accordo con la Santa Sede, collegata 24 ore su 24 con il Vaticano, per garantire una copertura in diretta delle eventuali emergenze), offrendo una discreta documentazione anche ad alcuni momenti importanti della vita interna del cattolicesimo (dal concilio ai sinodi, dalle diverse fasi dei conclavi alla benedizione dalla loggia del neo eletto papa). Sebbene a livello quantitativo si riscontri sempre una discreta attenzione verso questo tema, la qualità informativa è invece molto discontinua.
Le trasmissioni dedicate alla confessione cattolica sono infatti presenti fin dalle origini del mezzo radiofonico e, in particolare a partire dagli anni Trenta, cominciano a diffondersi in tutti i paesi inserendosi all’interno di una programmazione regolare e periodica, creando così nuove forme di apostolato moderno. In Italia, previa dispensa vescovile, partono le conversazioni religiose di padre Vittorino Facchinetti a Milano con il ciclo La gioia del pensiero francescano. Soprannominato «frate microfono», aveva esordito nel 1926 con la celebrazione del VII centenario francescano e, sulla base del successo riscosso, curò poi altre rubriche, diventando celebre per il commento al Vangelo e per i quaresimali, dal 1928 sulla radio pubblica, nonché l’emblema della vicinanza di posizioni tra una parte della Chiesa e il regime fascista88. Si alternarono ai microfoni della radio – dal 1946 in collegamento con la Radio Vaticana – diversi commentatori, che segnarono in modo indelebile l’omiletica radiofonica: padre Domenico Franzè, padre Giocondo Fino, monsignor Pietro Barbieri, monsignor Salvatore Garofalo, l’abate Giuseppe Ricciotti, padre Raimondo Spiazzi, padre Francesco Pellegrino, padre Cornelio Fabro. Alla stazione radiofonica genovese venne chiamato anche Lercaro per alcuni commenti radiofonici ai Vangeli nel 1946, che rifece sul secondo canale televisivo nel 1962.
Dal 1944, ovvero dopo la caduta del fascismo, nella radio pubblica cominciarono a trovare spazio anche alcune rubriche di altre confessioni: accanto a Notiziario dal mondo cattolico, in onda dopo la messa e il commento delle Scritture, come rubrica settimanale di aggiornamento sugli avvenimenti cattolici, vennero inseriti in palinsesto momenti dedicati alla vita e alla cultura ebraica (Ricorrenze religiose ebraiche, ora Sorgente di vita, in onda su Raidue a cura dell’Unione delle comunità ebraiche italiane) e al protestantesimo. Il programma radiofonico Culto evangelico, per esempio, dapprima a livello locale, dal 1967 fu gestito a livello nazionale dalla Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia (Fcei), che, attraverso il Servizio Stampa Radio e Televisione, cura l’informazione sul protestantesimo. Ogni puntata presenta una predicazione, commenti e notizie dal mondo evangelico.
Questa tradizione si consolida successivamente anche in televisione: dal 1973 il secondo canale inizia a trasmettere infatti ogni due domeniche la rubrica Protestantesimo, facendosi promotore della fede riformata e promuovendo il dialogo ecumenico. Interessante è la scelta del canale: la maggior parte delle rubriche dedicate al cattolicesimo (ad esclusione di Sulle vie di Damasco) vanno in onda su Raiuno, canale istituzionale per eccellenza; mentre le trasmissioni dedicate alle altre confessioni cristiane e alle altre religioni si inseriscono nella programmazione di Raidue in tarda serata89.
Il volto televisivo della fede cattolica è stato rappresentato per decenni da padre Mariano e dal motto francescano con cui era solito chiudere la trasmissione: «Pace e bene a tutti!». Dopo aver maturato esperienza in radio con diverse rubriche (Quarto d’ora di serenità, Sorella radio), nel 1955 gli venne affidato Sguardi sul mondo e dal 1959 al 1967 la trasmissione La posta di padre Mariano, assieme ad altre due rubriche, In famiglia e Chi è Gesù. Padre Mariano ogni domenica appariva in video con saio e barba francescani inserendosi pienamente nel progetto pedagogico della paleotelevisione, comunicando «anche fisicamente […] il volto più rassicurante della Chiesa»90 e dunque incarnando, per Grasso, un modello di evangelizzazione televisiva meno interessante rispetto ad altri, «perché avviene secondo modelli rassicuranti, di mantenimento (secondo la formula del «convertire i già convertiti»), che stingono ben presto nella scontatezza»91.
Anche il gesuita Nazzareno Taddei fu uno dei primi animatori della programmazione religiosa: la sua rubrica, L’imitazione di Cristo, andava in onda dopo il collegamento in diretta con la funzione domenicale già negli ultimi mesi del 1953, durante la fase televisiva sperimentale.
La religione cattolica trovò dunque fin da subito una sua collocazione, seppur modesta, all’interno del palinsesto quotidiano tramite rubriche speciali, assestandosi e continuando senza modifiche per alcuni decenni, formalizzata poi nella convenzione tra Rai e Cei.
Anche i semplici dati lo confermano: se nel 1953 andarono in onda dieci messe teletrasmesse, otto puntate della rubrica religiosa di padre Taddei, più alcune dirette o approfondimenti particolari, già nel 1954, invece, la trasmissione della funzione domenicale si assestò sulle 52 volte, con 28 puntate di varie rubriche religiose e le tradizionali dirette.
In conclusione le trasmissioni, ancora oggi, ruotano tutte attorno alla preparazione della liturgia domenicale e ben poche (ci ha provato, riuscendoci, la trasmissione radiofonica di Radiotre Uomini e profeti, nata nel 1982)92 escono dal tracciato del mero approccio catechetico per affrontare i nodi attuali e storici che hanno attraversato e attraversano il cattolicesimo e più in generale la cristianità intera93.
La trasmissione della messa domenicale, assieme ai servizi giornalistici, è tra i programmi più longevi del servizio pubblico radiotelevisivo. Quando prendono il via le trasmissioni ufficiali della televisione, nel gennaio 1954, la messa ha già un posto all’interno del palinsesto Rai, continuando una tradizione radiofonica decennale, anche come «graziosa concessione alla credulità delle folle non ancora desacralizzate»94. Sono gli anni Trenta che segnano l’entrata dei microfoni delle radio nelle chiese un po’ in tutti i paesi europei. La prima messa in Italia fu infatti trasmessa per radio domenica 1 novembre 1931, alle ore 10,00; nemmeno lo scoppio della guerra e il difficile biennio 1943-1945 fermarono questo servizio, che dal 1946 venne realizzato in collegamento con la Radio Vaticana95. In tv, invece, la messa anticipò di fatto l’ufficialità del 3 gennaio 1954, perché le telecamere ripresero la celebrazione domenicale già nella fase di sperimentazione (tra cui quella officiata dal card. Schuster nel duomo di Milano il 1 novembre 1953), a cui poi si aggiunse un altro appuntamento tradizionale della domenica televisiva: la trasmissione dell’Angelus, iniziata con Pio XII e consolidata da Giovanni XXIII.
Dopo una collaborazione con l’Ente dello Spettacolo, la Rai stipulò una convenzione direttamente con la Cei, chiamando in causa l’Ufficio delle comunicazioni sociali e pubblicando nel 1973 le Norme per la trasmissione televisiva della messa96. La Rai mette a disposizione i mezzi e il personale, mentre sono sotto la responsabilità della Cei l’organizzazione e la regia, ossia la gestione della comunicazione liturgica e di quella mediale, da sempre elementi cardine del dibattito teologico su «messa e televisione».
Sebbene sia stata consuetudine ininterrotta, la ripresa e la trasmissione di immagini e di suoni relativi a una celebrazione liturgica hanno posto e continuano a porre non pochi problemi, alcuni dei quali volti a indagare la stessa legittimità e i limiti di tale relazione97. Il problema teologico-pastorale si è presentato fin dagli inizi. I primi divieti pubblicati da «L’Osservatore romano» nel 1928 sulla trasmissione dei canti liturgici della messa attraverso la radio si trasformarono in seguito in autorizzazioni da parte vaticana alla trasmissione radiofonica e poi televisiva dell’intera funzione – rigorosamente in diretta – vista come servizio offerto per coloro i quali avevano impedimenti gravi nell’osservazione del precetto (infermi e ammalati in particolare), come ribadito anche dal Direttorio sulle comunicazioni sociali nella missione della chiesa del 2004. L’accettazione della prassi però non ha risolto le questioni poste, e celebri furono le ferme opposizioni di importanti teologi, come Rahner, Metz, Guardini che, richiamandosi a una tradizione ecclesiale antica, la disciplina arcani, negavano la possibilità della ripresa televisiva del momento eucaristico perché rendeva accessibile e visibile a tutti qualcosa che invece appartiene al nucleo più intimo della religione98. Negli ultimi anni, al fine di migliorare il servizio offerto dopo anni di piatta indifferenza, si è invece cominciato ad indagare i due tipi di linguaggi coinvolti, quello liturgico e quello televisivo, e dunque il processo di detestualizzazione e ritestualizzazione che subisce l’evento liturgico, con un’attenzione particolare alle trasformazioni avvenute nei linguaggi del medium stesso.
L’affermarsi in Italia delle televisioni commerciali non ha solo prodotto la rottura del regime di monopolio televisivo, ma ha segnato anche la perdita da parte della Rai dell’esclusiva sulla teletrasmissione della messa. Dal 15 settembre 1996 Rete 4 ha infatti iniziato a offrire ai propri telespettatori questo servizio domenicale, trasformandolo «in strumento di competizione dentro la logica commerciale del sistema»99. Mediaset ha collocato strategicamente la trasmissione alle 10,15, in anticipo rispetto a quella di Raiuno che va in onda alle 11,00. Nel periodo ottobre-maggio 2005-2006 ha raggiunto un ascolto medio di 1.044.000 spettatori a fronte dei 2.013.000 della Rai, dati difficilmente raggiungibili per quella fascia oraria domenicale, a cui vanno aggiunti i benefici dell’effetto traino verso i programmi successivi, confermando così che la messa per una rete «è un programma ‘pagante’»100.
Nella logica della concorrenza è entrata anche la spiegazione dei testi sacri. Raiuno, all’interno della rubrica A sua immagine del sabato ha scelto negli ultimi dieci anni padre Raniero Cantalamessa, francescano nonché predicatore della Casa Pontificia, da poco sostituito da padre Ermes Ronchi, coltivando così la figura classica del telepredicatore inaugurata in Rai da padre Mariano. Canale 5 invece, all’interno della rubrica domenicale Le frontiere dello Spirito (in onda dal 1984 e dal 1988 con monsignor Ravasi), fa una scelta che solo apparentemente è simile: affida la lettura e il commento dei testi sacri – sganciati dalle letture domenicali – all’affabulazione di monsignor Ravasi, che, dalla Chiesa di Santa Croce in Gerusalemme a Roma, riesce a ricreare in modo originale la potenza evocatrice della Parola, grazie a riprese minimaliste, una cornice essenziale e un’attenta cura alla grafica che non fanno altro che enfatizzare la «lettura viva» della Bibbia101. La basilica è stata inoltre protagonista di un altro grande evento mediatico-religioso (La Bibbia giorno e notte), relativo alla lettura continua della Bibbia per sette giorni e sei notti, in diretta televisiva. Papa Benedetto XVI ha dato il via alla lettura, con il passo della Genesi, dopo il quale si sono succeduti 1.250 lettori, tra i quali Hilarion, del patriarcato di Mosca, Domenico Maselli, presidente della Federazione delle Chiese evangeliche, e Roberto Benigni.
I due grandi macrogeneri che hanno sempre caratterizzato il linguaggio televisivo sono stati, come li ha chiamati la terminologia anglofona, il «factual» e la «fiction». Se la liveness, la ripresa in diretta, per decenni è stata considerata lo «specifico televisivo» – e le dirette sui grandi eventi hanno ampiamente mostrato l’incidenza del potenziale tecnologico –, tuttavia anche il racconto finzionale ha trovato un suo spazio fin dalle origini, inserendosi pienamente nel progetto pedagogico della paleotelevisione e nelle radici umanistiche della cultura italiana102.
I racconti biblici e la storia religiosa sono stati da sempre un bacino narrativo da cui attingere idee e narrazioni. Il cinema lo ha fatto da subito: il primo film italiano sulla vita di Cristo è del 1900, per la regia di Topi e Crisofari. Così è stato anche per il piccolo schermo, attraverso forme diverse a seconda delle evoluzioni dei generi: il teleteatro, lo sceneggiato, il racconto a episodi, la lunga serialità, la soap, fino alla fiction storica e in costume degli ultimi anni.
Tra gli sceneggiati storici andarono in onda, per esempio, Il cardinal Lambertini (1962) con Gino Cervi, Processo a Gesù (1962), Francesco d’Assisi (1966) di Liliana Cavani, Atti degli Apostoli (1969) di Roberto Rossellini, Mosè (1974) di Gianfranco De Bosio, il fine e ricercato lavoro di Bettetini su Ambrogio da Milano (1976), per arrivare alla trasposizione televisiva de I Racconti di Padre Brown (1970) – tratto dall’opera di Gilbert Keith Chesterton, nonché antesignano della più recente serie Don Matteo – , a ricostruzioni della storia più recente, come Il caso don Minzoni (1973) e a biopic come Don Luigi Sturzo (1981), con risultati tra loro diversi e non sempre convincenti. Anche le televisioni commerciali si cimentarono quasi subito con questo genere, tra cui spicca Un bambino di nome Gesù (Canale 5, 1988) sceneggiato attingendo ai vangeli apocrifi.
Occorre inoltre ricordare il Gesù di Nazareth di Franco Zeffirelli (cinque episodi, 1977), che riscosse un successo internazionale, incidendo la figura del suo Gesù rinascimentale (interpretato da Robert Powell) nell’immaginario collettivo, non senza qualche critica, sia per la vasta oleografia di alcune sequenze, sia per il devozionismo di alcune ricostruzioni103.
In un’analisi diacronica della fiction religiosa, Simonelli osserva che proprio la messa in onda della fiction di Zeffirelli può essere presa come data spartiacque, per il suo «ruolo di definitività»104: in quegli anni si affievolisce infatti fino a chiudersi la fase sperimentale d’autore che aveva caratterizzato i decenni passati, per inaugurarsi il torpore ideativo e creativo della fiction religiosa degli anni Settanta e Ottanta. Occorre attendere il fervore giubilare di metà anni Novanta per osservare il ritorno della fiction religiosa domestica nella comunicazione televisiva.
Se le rappresentazioni finzionali a contenuto religioso hanno sempre ottenuto un discreto successo, come hanno fatto notare gli studiosi dei media, è solamente a partire dalla seconda metà degli anni Novanta che si può infatti parlare – in termini di favore e accoglienza di un pubblico generalista – di vero e proprio rinascimento della fiction religiosa, sia pur talvolta di dubbia qualità, non riscontrabile comunque negli altri paesi europei105. Questo boom del genere, e in particolare di quello religioso, che ha coinvolto non solo la Rai, ma anche le reti commerciali, ha fatto parlare di un’«età dell’abbondanza» per quanto riguarda l’offerta di fiction italiana106.
Sono nate nuove case di produzione (Taodue, Rizzoli Audiovisivi), tra cui spicca la Lux Vide di Ettore Bernabei, che hanno instaurato logiche di competizione forti, accese dagli alti ascolti, e innescato massicci investimenti. La Lux Vide, per esempio, inizia con la produzione di un grande progetto dedicato alla Bibbia (l’episodio della Genesi vede alla regia Ermanno Olmi) a cui segue il ciclo Storie dei santi e quello sul XX Secolo. Vengono così trasposte sul piccolo schermo e inserite nella programmazione Rai e Mediaset biopic sulle vite dei santi come Maria Goretti, padre Pio, s. Antonio da Padova, Rita da Cascia, s. Francesco, s. Chiara, su Lourdes e Fatima o su religiosi come don Zeno, don Gnocchi, don Milani o don Di Liegro, con un occhio particolare per i pontefici del Novecento in odore di santità: da papa Giovanni XXIII a Luciani, da Wojtyla a Paolo VI fino a Pio XII.
La rappresentazione/consacrazione della vita di alcuni personaggi, in alcuni casi, si concretizza nella doppia fiction (come ad esempio è avvenuto per padre Pio, papa Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II). Questa concorrenza tra canali pubblici e privati coglie il grado di devozione popolare del rappresentato, misurato, in termini profani, dai risultati dell’audience, spesso molto gratificanti per le reti. Il record assoluto è stato rappresentato dal Papa Giovanni della Lux Vide, in onda su Raiuno nel 2002, che ha toccato quasi 15 milioni di spettatori nella seconda puntata, mentre uno dei maggiori insuccessi rimane la fiction su don Di Liegro, che, in onda su Canale 5, è stata declassata sulla più marginale Rete 4, segno abbastanza evidente di come non basti alle narrazioni il cappello del religioso a garanzia di successo.
Nonostante qualche eccezione, questa produzione fa spesso leva sull’immaginario collettivo nazionale della «vita esemplare», tradendo molto spesso la reale complessità di una esistenza spesa a servizio della fede, investendo troppo poco nel processo di scrittura e concedendo troppo a una narrazione di taglio agiografico.
Se, però, nella televisione delle origini, si teneva ben distinto ciò che era ‘fiction’ da ciò che era ‘ factual’, ora tutto diventa più labile, e i piani della realtà e della rappresentazione tendono a sovrapporsi o a essere interdipendenti, anche sulle tematiche religiose. Il caso di madre Teresa è un tipico esempio di ibridazione dei generi: la diretta sulla cerimonia di beatificazione, trasmessa in mondovisione il 19 ottobre 2003, ha fatto da traino alla miniserie a lei dedicata e pensata strategicamente per i telespettatori italiani. Questa «doppia incoronazione»107 televisiva ha così innescato processi di sacralizzazione della fiction e di fictionalizzazione della liturgia, tipici della neotelevisione, dando così forma a un nuovo metagenere del religioso televisivo.
1 Cfr. D. Menozzi, La Chiesa e la modernità, «Storia e problemi contemporanei», 26, 2000, pp. 7-24; G. Alberigo, Dal bastone alla misericordia. Il magistero nel cattolicesimo contemporaneo (1830-1980), «Cristianesimo nella storia», 2, 1981, pp. 487-521.
2 F. De Giorgi, Note sulla modernizzazione ecclesiale, «Rivista di storia contemporanea», 1-2, 1994-1995, pp. 194-208; Santi, culti, simboli nell’età della secolarizzazione (1815-1915), a cura di E. Fattorini, Torino 1997. Cfr. anche M. Lagrée, La bénédiction de Prométhée. Religion et technologie, Paris 1999.
3 F. De Giorgi, Note sulla modernizzazione ecclesiale, cit. p. 200. Cfr. in questo senso Il giornalismo moderno ed il nostro programma, «La Civiltà cattolica», 1, 1850, pp. 5-24.
4 F. Monteleone, Storia della radio e della televisione in Italia. Costume, società e politica, Venezia 1992, 20065, p. 233. Cfr. C. Curci, Il congresso cattolico di Malines e le libertà moderne, «La Civiltà cattolica», 4, 1863, p. 141.
5 A. Ferrari, Fra pulpito e video, in Milano e la Rai un incontro mancato?, Milano 2002, pp. 206-207.
6 Pio XI, Ai parroci e quaresimalisti di Roma. Quattro deprecabili mali, in Discorsi di Pio XI, edizione italiana a cura di D. Bertetto, II, Torino 1960, p. 486.
7 Giovanni Paolo II, Redemptoris missio, in AAS, LXXXIII, 1991, p. 249.
8 A. Fumagalli, Una rivoluzione comunicativa, in Karol Wojtyła, un pontefice in diretta. Sfida e incanto nel rapporto tra Giovanni Paolo II e la tv, a cura di G. Mazza, Roma 2006, pp. 81-89.
9 Cfr. per esempio il convegno promosso dall’Ufficio nazionale per le comunicazioni sociali servizio informatico Roma, (19-20 gennaio 2009), i cui atti sono confluiti nel volumi Chiesa in Rete 2.0, Cinisello Balsamo 2010.
10 Cfr. Attraverso lo schermo. Cinema e cultura cattolica in Italia, a cura di R. Eugeni, D.E. Viganò, 3 voll., Roma 2006; D.E. Viganò, Un cinema ogni campanile. Chiesa e cinema nella diocesi di Milano, Milano 1997; E.G. Laura, L’anima religiosa del cinema. Le iniziative dei cattolici, in Cento anni di Biennale cinema. La presenza della Chiesa, a cura di A. Piersanti, Roma 1996, pp. 75-89.
11 Cfr. l’analisi dell’enciclica che fa il cardinale Siri: G. Siri, A vent’anni dalla «Vigilanti cura», «La rivista del cinematografo», 6-7, 1956, p. 3.
12 Cfr. De Berti, Introduzione a D. Viganò, Un cinema ogni campanile, cit., p. 7.
13 Cfr. gli Atti della X settimana di aggiornamento pastorale (Venezia 1960), Le tecniche diffusive delle idee e la comunità cristiana, Milano 1961.
14 Cfr. E. Mosconi, Un potente maestro per le folle. Chiesa e mondo cattolico di fronte al cinema, in Attraverso lo schermo, a cura di R. Eugeni, D.E.Viganò, cit., I, pp. 148-149.
15 Cfr. E. Mosconi, Un potente maestro per le folle, cit., pp. 145, 148.
16 Cfr. F. Casetti, S. Alovisio, Il contributo della Chiesa alla moralizzazione degli spazi pubblici, in Attraverso lo schermo, a cura di R. Eugeni, D.E.Viganò, cit., I, pp. 97-127; cfr. anche E. Mosconi, L’impressione del film. Contributi per una storia culturale del cinema italiano 1895-1945, Milano 2006.
17 Cfr. F. Casetti, S. Alovisio, Il contributo della Chiesa alla moralizzazione degli spazi pubblici, cit., p. 98.
18 G. D’Autilia, Il fascismo senza passione. L’Istituto Luce, in L’Italia del Novecento. Le fotografie e la storia, a cura di G. De Luna, G. D’Autilia, L. Criscenti, I/1, Il potere da Giolitti a Mussolini (1900-1945), Torino 2005, p. 92. Per la storia del Luce, cfr. E.G. Laura, Le stagione dell’aquila. Storia dell’Istituto Luce, Roma 2004.
19 M. Ridolfi, Gli spazi della vita pubblica, in L’Italia del Novecento. Le fotografie e la storia, II, La società in posa, a cura di G. De Luna, G. D’Autilia, L. Criscenti, Torino 2006, p. 28.
20 Cfr. D. Verdegiglio, La Tv di Mussolini, Roma 2003.
21 «Il cinema come vero, grande mezzo d’apostolato non sarà realizzato se non quando disporremo di una nostra produzione», scriveva in un editoriale sulla «Rivista del cinematografo» che può essere letto come il suo manifesto per una linea d’azione dei cattolici nel campo cinematografico. Cfr. L. Gedda, Pensiamoci, «Rivista del cinematografo», 12, 1941, p. 161.
22 T. Sala, Un’offerta di collaborazione dell’ACI al governo Badoglio, «Rivista di storia contemporanea», 4, 1972, ora anche in R. Eugeni, E. Mosconi, Il cinema e la politica culturale cattolica tra le due guerre. Il caso de “L’Osservatore Romano”, in Attraverso lo schermo, a cura di R. Eugeni, D.E.Viganò, cit., II, p. 142.
23 L. Gedda, 18 aprile 1948. Memorie inedite dell’artefice della sconfitta del Fronte Popolare, Milano 1998, p. 73.
24 L. Gedda, Pastor Angelicus, «Rivista del cinematografo», 1942, 11-12, p. 121.
25 C. Falconi, La Chiesa e le organizzazioni cattoliche in Italia (1945-1955), Torino 1956, p. 268.
26 Cfr. doc. 356 e 362 in E. Baragli, Comunicazione, Comunione e Chiesa, Roma 1973.
27 F. Monteleone, Storia della radio e della televisione, cit., p. 41.
28 E. Baragli, Comunicazione, Comunione e Chiesa, cit., doc. 982.
29 Pio XI, Divini illius magistri (31 dicembre 1929), in AAS, XXI, 1929, p. 756.
30 Cfr. Pope’s Voice Clear on New York Radio, «New York Times», February 13th, 1931.
31 F. Farusi, G. Bosca, La Radio Vaticana, in Radiotelevisione per Cristo, Catania 1961, p. 10.
32 A. Zambarbieri, Il nuovo papato. Sviluppi dell’universalismo della Santa Sede dal 1870 ad oggi, Milano 2001, p. 56.
33 M., La televisione in pratica, «L’Illustrazione vaticana», 1935, ora in A. Grasso, Storia della televisione italiana, Milano 1992, 20043, p. 8.
34 Cronaca contemporanea, «La Civiltà cattolica», 2, 1949, p. 342.
35 J. Arbois, La radiotelevisione francese, in Radiotelevisione per Cristo, cit.
36 Pio XII, I rapidi progressi, in AAS, XXXXVI/II, 1954, p. 18.
37 Cfr. Batte in Europa il cuore d’Italia, «Radiocorriere Tv», 25, 1954, pp. 3-4.
38 G., La televisione e il Concilio, «L’Osservatore romano», 29 dicembre 1961, p. 6.
39 R. Laurentin, L’information au concile, in Le deuxième concile du Vatican (1959-1965), Roma 1989, p. 363.
40 F. Ruozzi, L’icona Giovanni XXIII, in L’ora che il mondo sta attraversando. Giovanni XXIII di fronte alla storia, a cura di G.G. Merlo, F. Mores, Roma 2009, pp. 47-102.
41 A. Riccardi, Il potere del papa. Da Pio XII a Giovanni Paolo II, Bari 1993, p. 173.
42 Cfr. E. Galavotti, Processo a Papa Giovanni, Bologna 2005, pp. 41-56.
43 Cfr. il saggio di D. Dayan, E. Katz, P. Kerns, Il pellegrinaggio in poltrona, in La narrazione del carisma. I viaggi di Giovanni Paolo II in televisione, a cura di G. Guizzardi, Torino 1986, pp. 171-185.
44 Cfr. F. Ruozzi, «Un papa più mostrato che dato?» Albino Luciani e le fonti televisive, in Albino Luciani dal Veneto al mondo, a cura di G. Vian, Roma 2010, pp. 479-530.
45 La narrazione del carisma, a cura di G.Guizzardi, cit., p. 172.
46 Cfr. G. De Carli, I primi cento giorni: preludio di un sisma spirituale, in Karol Wojtyła, un pontefice in diretta, a cura di G. Mazza, cit., pp. 119-121.
47 A. Grasso, Benedizione per la televisione popolare, «Corriere della sera», 17 ottobre 1998, p. 16.
48 A. Fumagalli, Una rivoluzione comunicativa, in Wojtyła, un pontefice in diretta, a cura di G. Mazza, cit., p. 83.
49 Cfr. l’intervento di E. Rossi in ibidem, p. 29.
50 Cfr. D.E. Viganò, La Chiesa nel tempo dei media, Roma 2008, pp. 143-273.
51 Cfr. comunicato del 27 maggio 1997, durante la XLIII Assemblea generale.
52 Cfr. ECEI 1996-2000, a cura di E. Lora, VI, Bologna 2002, p. 238.
53 C.M. Martini, Il lembo del mantello (31 luglio 1991), in Parola alla Chiesa, Parola alla Città, Bologna 2002, p. 801.
54 D.E. Viganò, Cinema e Chiesa. I documenti del magistero, Torino 2002, p. 220.
55 A. Monticone, Radio, in DSMC, I, 1, p. 309.
56 G. Zizola, Il microfono di Dio. Pio XII, padre Lombardi e i cattolici italiani, Milano 1990.
57 Pio XII, I rapidi progressi, cit.
58 Per un approfondimento, cfr. F. Pierini, Società e chiesa verso l’era tecnologica, in Storia della Chiesa, a cura di M. Guasco, E. Guerriero, F. Traniello, XXIII, I cattolici nel mondo contemporaneo, Cinisello Balsamo 1991, pp. 697-726; M. Olmi, Televisione, in DSMC, I, 1, pp. 317-319; La DC dal fascismo al 18 aprile, a cura di M. Isnenghi, S. Lanaro, Padova 1978; G. Vecchio, L’arrivo della televisione in Italia: diffidenze e illusioni dei cattolici, in Democrazia e cultura religiosa. Studi in onore di Pietro Scoppola, a cura di C. Brezzi, C.F. Casula, A. Giovagnoli, et al., Bologna 2002, pp. 401-420.
59 Cfr. L. Milani, Esperienze Pastorali, Firenze 1958.
60 Cfr. F. Bonini, Tv e cultura di massa, in La nazione cattolica. Chiesa e società in Italia dal 1958 a oggi, a cura di M. Impagliazzo, Milano 2004, p. 373.
61 La sentenza sdoganò il mercato delle televisioni locali e delle radio libere.
62 A. Monticone, Radio, cit, p. 316.
63 Cfr. L. Gentili, I media cattolici, in Dizionario della comunicazione, a cura di D.E. Viganò, Roma 2009, p. 940.
64 Irene Pivetti fa le sue prime esperienze di giornalista a Radio A, la radio della curia milanese.
65 www.corallo.org
66 Cfr. E. Fattorini, Il culto mariano tra Ottocento e Novecento: simboli e devozione, Milano 1999, pp. 92-95.
67 Cfr. «Osservatorio Comunicazione e Cultura», 2, 2005, p. 16.
68 F. Chiarenza, Il Cavallo morente. Storia della Rai, Milano 2002, p. 30.
69 F. Monteleone, Storia della Rai, Roma-Bari 1980, p. 158.
70 F. Chiarenza, Il Cavallo morente, cit., p. 34.
71 Cfr. F. Monteleone, Storia della Rai, cit., p. 160.
72 V. Brancati, Ritorno alla censura, Bari 1952.
73 «L’Unità», 19 maggio 1951. Anche in F. Monteleone, Storia della Rai, cit., p. 161.
74 P. Spriano, La Rai voce nemica, «L’Unità», 27 giugno 1953.
75 La radio in balia dell’oscurantismo, «Rinascita», 8-9, 1954, p. 623.
76 M. Caroli, Proibitissimo! Censori e censurati della Radiotelevisione italiana, Milano 2003, pp. 30-38.
77 M. Caroli, Proibitissimo!, cit., p. 128.
78 Cfr. G. Guazzaloca, Il governo della televisione o la televisione del governo? Il rapporto tra TV e sistema politico in Italia (1954-1975), in Governare la televisione? Politica e Tv in Europa negli anni Cinquanta-Sessanta, a cura di G. Guazzaloca, Reggio Emilia 2007, pp. 106-149.
79 A. Ferrari, Milano e la Rai un incontro mancato?, cit., p. 149.
80 Come scrive la Ferrari, «il disegno di Guala era, probabilmente, più vicino a Dossetti nell’evidente interesse alla costruzione di una grande enciclopedia popolare in grado di sanare i deficit identitari della nazione che non a Fanfani, prontissimo a intuire potenzialità e utilità del nuovo mezzo ma anche incline a risolverle in prospettive sostanzialmente politiche», Ibidem, p. 15.
81 Cfr. l’intervento di P.E. Gennarini, in Televisione: la provvisoria identità italiana, Torino 1985, p. 121.
82 Come afferma lo stesso Bernabei. Cfr. E. Bernabei, G. Dell’Arti, L’uomo di fiducia, Milano 1999, p. 18.
83 F. Chiarenza, Il cavallo morente, cit., p. 102.
84 Lo racconta lo stesso Bernabei a Dell’Arti. Cfr. E. Bernabei, G. Dell’Arti, L’uomo di fiducia, cit., pp. 159-163.
85 F. Iseppi, Rai: la mano sulla tartaruga, in Chiesa in Italia. Annale de Il Regno 2003, p. 139. Cfr. Gabriele La Porta intervista Ettore Bernabei, Roma 2003.
86 Cfr. F. Lever, Programmi religiosi alla radio e in televisione in Italia, in I programmi religiosi alla radio e in televisione, a cura di F. Lever, Torino 1991, pp. 89-127.
87 La Rai era il broadcaster di tutti gli eventi giubilari. Per un approfondimento, cfr. S. Martelli, Il giubileo “mediato”, Milano 2003; L. Mauri, S. Laffi, Narrare il Giubileo. L’Anno Santo, gli italiani e i mass media, Roma 2000.
88 N. Verna, s.v. Facchinetti padre Vittorio, in L’Enciclopedia della Radio, a cura di P. Ortoleva, B. Scaramucci, Milano 2003, pp. 288-289.
89 Giorgio Spini ricordava come il pregiudizio antiprotestante in Italia si presenta anche «sotto la forma di una rimozione sistematica, specie da parte dei mass media. Pur di non pronunziare certe brutte parolacce, come “protestante” o “evangelico” i nostri giornalisti fanno sforzi incredibili. Se il presidente Clinton, una domenica, va in Chiesa, le nostre TV raccontano che è “andato alla messa” e magari che ha incontrato “un sacerdote”. Un bel guaio sarebbe se gli italiani si accorgessero che oltre alla messa cattolica esiste anche il culto evangelico e che uno dei capisaldi della Riforma fu per l’appunto la distinzione della barriera tra “sacerdoti” e “laici”! Se hanno da fare la cronaca delle festività natalizie, le nostre TV mostrano esclusivamente chiese cattoliche. Che anche i protestanti celebrino la nascita di Cristo è bene tacerlo pudicamente. Ci mancherebbe altro che qualcuno si accorgesse che si può essere cristiani anche senza il Papa e senza i sacerdoti!». Cfr. la prefazione di G. Spini, in Ebrei e protestanti nella storia d’Italia, a cura di A. Castelnuovo, G. Pons, G. Rustici, Milano 1996, p. 12.
90 F. Morandi, La via dell’Inferno. Il progetto cattolico nella storia della televisione italiana, Bologna 2009, p. 58.
91 A. Grasso, Indagare la complessità. Religione e Tv da padre Mariano a Lost, «Link», 9, 2010, p. 69.
92 Dal 1993 è divisa in due parti: nella prima, Le fedi e il Mondo, si cerca di riflettere sulle diverse problematiche che si intersecano con la dimensione religiosa; nella seconda (ora, Leggere la Bibbia) ci si propone, invece, un’analisi delle Scritture delle diverse tradizioni.
93 Cfr. G. Ravasi, Volto e Parola. La «via autentica» a Dio per mezzo della Tv, «Link», 9, 2010, pp. 58-65.
94 P.E. Gennarini, in Televisione: la provvisoria identità italiana, cit., p. 121.
95 Per un approfondimento, cfr. N. Verna, s.v. Santa Messa, in Enciclopedia della Radio, cit., pp. 769-770; F. Lever, s.v. Messa e televisione, in La comunicazione, cit., pp. 734-744. Una bibliografia aggiornata in F. Lever, Per una bibliografia generale sulla trasmissione della Messa alla radio e alla televisione, «Rivista liturgica», 84, 1997, 1, pp. 121-144.
96 Norme per la trasmissione televisiva della messa (14 giugno 1973), in ECEI 1973-1979/2, a cura di A. Arrighini, E. Lora, G. Mocellin, II, Bologna 1985, pp. 114-119.
97 Cfr. per esempio P. Ghekas, «Messa e televisione» tra problematiche teologiche e attese pastorali, «Rivista liturgica», 96, 2009, 1, pp. 97-117; Telecamera sulla Messa, ibidem, 84, 1997, 1, nr. monografico; Liturgia in tv. Problemi e prospettive, ibidem, 87, 2000, 1, nr. monografico.
98 Per un approfondimento, cfr. D. Mosso, La messa teletrasmessa. Problemi teologici e pastorali, Bologna 1974.
99 Le trasmissioni radiotelevisive delle celebrazioni liturgiche. Linee guida e raccomandazioni, «Quaderno Cei», 35, 2007, p. 12.
100 Ibidem, p. 13. I dati riportati vengono ripresi da questa pubblicazione.
101 Cfr. l’intervento di A. Grasso, Piccolo schermo troppo piccolo per Dio?, al convegno Dio oggi. Con lui o senza di lui cambia tutto, 10-12 dicembre 2009, organizzato dal Comitato del progetto culturale.
102 A. Grasso, M. Scaglioni, Che cos’è la televisione, Milano 2003, pp. 150-174.
103 Cfr. D.E. Viganò, Gesù e la macchina da presa. Dizionario ragionato del cinema cristologico, Roma 2005.
104 G. Simonelli, La fiction religiosa tra ricerca d’autore e scrittura popolare, in Dizionario della comunicazione, cit., pp. 926-930.
105 Cfr. A. Fumagalli, Filmare l’ineffabile. Spiritualità e audience nelle fiction a contenuto religioso, in Destini del sacro. Discorso religioso e semiotica della cultura, a cura di N. Dusi, G. Marrone, Roma 2008, p. 202.
106 La posta in gioco. La fiction italiana, l’Italia nella fiction. Anno diciannovesimo, a cura di M. Buonanno, Roma 2008, pp. 7-15.
107 M. Buonanno, L’età della televisione. Esperienze e teorie, Roma-Bari 2006, pp. 48-70.