COLONNA, Vittoria
Nacque nel 1490 nel castello di Marino, antica residenza feudale dei suoi, sui colli Albani, da Fabrizio Colonna signore di Paliano e gran conestabile di Napoli e da Agnese di Montefeltro figlia minore del duca Federigo d'Urbino e d'una Sforza di Pesaro. Anche perché essa fu alienissima dal parlare di sé, poco si conosce della sua prima età, trascorsa in quegli anni torbidi e difficili in cui s'accaniva contro il dominio della sua casa la prepotenza dei Borgia. Ebbe educazione raffinata, ma non forse quella sistematica iniziazione umanistica che non mancò ad altre insigni donne del suo tempo, anche se la genialità e la forza d'intuito singolarissime la fecero più tardi supporre in lei. "Piena di riverenza e di dottrina più tosto infusa crederò io, che con arte acquistata" la dice un contemporaneo. Re Ferdinando di Napoli per assicurarsi la fedeltà dei Colonna favorì il matrimonio della diciassettenne figlia di Fabrizio col discendente di una delle principali famiglie spagnole stabilitesi nel reame: Ferdinando Francesco D'Avalos, marchese di Pescara (v.). Sottoscritti i patti matrimoniali nel 1507, le nozze fastosissime furono celebrate nel 1509 nell'isola d'Ischia. Ma l'idillio fra i due giovani sposi fu breve: nel 1511 il marchese, battendosi alla battaglia di Ravenna, cade prigioniero dei Francesi. Liberato, torna a Napoli, ma poco tempo può dedicare a V.: tutto preso dalle sue ambizioni politiche e militari, coinvolto bene o male (non è chiarissimo) nella congiura milanese del Morone contro Carlo V, vede balenare sul suo capo perfino la speranza della corona di Napoli. Ma, sfinito dalle fatiche delle guerre e dalle contrattevi infermità, si spegne nel 1525 a Milano. La notizia coglie Vittoria a Viterbo, mentre affretta il viaggio per andare ad assisterlo, e la prostra. Ella che, fin qui, pur con animo restio e da una penombra discreta, aveva partecipato, temperandole, alle aspirazioni e ambizioni del marito, da quel giorno rinuncia quasi del tutto agli splendori mondani e cerca pace. Errante per l'Italia al richiamo di affini inquietudini spirituali (vagheggia a un certo punto anche un passaggio in Terra Santa), preferisce l'ospitalità dei monasteri (ai quali allora non era difficile accedere anche senza voti); a Roma l'accoglie prima quello di S. Silvestro; in Orvieto quello di S. Paolo; quello di S. Caterina a Viterbo; nel 1544 torna a Roma e prende stanza nel monastero delle Benedettine di Sant'Anna, donde nel 1547, appressandosi la fine, viene trasportata nel vicino palazzo della famiglia Cesarini. Muore il 2 febbraio 1547 e viene sepolta, probabilmente senza onore di lapide, secondo il rito monacale. La sua fama rinverdisce in un canzoniere per il quale la nota autobiografia tien desto un interesse che l'arte da sola non sempre basterebbe a giustificare. Pochi versi in vita, molti sonetti in morte del Pescara; e in questi il lamento e il rimpianto s'imprimono ognor più dell'ansia mistica e religiosa che resta in ultimo unica nota. Il modello petrarchesco è certo presente, ma soltanto nei suoi caratteri e modi più ideali e più eterei, sicché l'amor sacro non scaturisce dal profano ma piuttosto vi si sovrappone. Non è da aspettarsi, dunque, una vera storia d'amore: neppure si riesce ad intendere chiaro, a dir vero, se fosse proprio il dolore a disingannarla così delle cose terrene, o se piuttosto quel lutto non avvivasse in lei un remoto bisogno ascetico forse già vivo tra gli splendori del mondo e della corte a cui la traevano i suoi doveri di sposa. "Venga a quietarsi meco" aveva sospirato del Pescara vivo in prosa; e in versi: "assai mi fia se il mio marchese - meco quieto nel suo stato giace...". Portando il suo bisogno di Dio per un'Italia ansiosa di riformarsi cattolicamente e tutta corsa dai pur vani germi della riforma oltremontana, V. conobbe e praticò Giovanni Valdés, Bernardino Ochino, Pietro Carnesecchi e Giulia Gonzaga e Renata di Francia e tante anime in pena. E se pure con esse cautamente sperò sanate le piaghe della chiesa, nella difesa della sua ortodossia fu inflessibile e serena. Sicché, anche per questo rispetto, la sua anima gemella rimane Michelangelo. Fra tanto platonismo amoroso (amore scala a Dio) messo di moda dal petrarchismo e ogni giorno tradito dai petrarchisti, V., che viveva come scriveva e saliva così spontaneamente al cielo dal suo rimpianto terreno, parve una rivelazione. Il fascino di questa rivelazione nessuno sentì così forte come Michelangelo, che, tanto travagliato dal peso della propria umanità e tanto ansioso di bellezza spirituale, aveva sempre cercato invano in terra la sua Beatriae.
Opere: Colonna, Rime, Bergamo 1760; Rime e Lettere, Firenze 1860; Rime, Milano 1882; Carteggio, a cura di Ferrero e Müller, Torino 1889, con supplemento di D. Tordi, Torino 1892 e di P. Tacchi-Venturi, in Studi e doc. di st. e dir., XXII (1901), pp. 173-179, 307-314.
Bibl.: A. Reumont, V. C. ecc., Torino 1883; A. Luzio, in Riv. stor. mantovana, 1855, pp. 1-52; B. Zumbini, in Studi di letteratura ital., Firenze 1894, pp. 1-31; Amy A. Bernardy, La vita e l'opera di V. C., Firenze 1927; P. Tacchi-Venturi, in Studi e doc. cit., XXII (1901), pp. 149-172; id., in Collectanea franciscana, 1931, pp. 28-58.