MICHIEL, Vitale. –
Nacque presumibilmente a Venezia nei primi anni del secolo XII; i genealogisti moderni lo vogliono figlio del doge Domenico (che abdicò nel 1129-30), ma nulla prova questa relazione. Il fatto che i discendenti del M. abitassero nella parrocchia di S. Giuliano induce a ritenere più probabile che egli fosse legato al ramo della famiglia stabilitosi in quella zona a partire dal giudice Andrea, detto «Maior», morto verso il 1125.
In base a queste considerazioni non è possibile individuare con certezza il ramo dei Michiel cui appartenne il M., né ricostruire la sua vita in base alla documentazione anteriore alla sua elezione a doge, nella quale peraltro compare un solo Vitale, sottoscrittore di un atto commerciale a Costantinopoli nel 1147.
Sono invece meglio conosciute le vicende patrimoniali sue e dei suoi eredi dopo quella data: dal 1157 sono attestati prestiti concessi dal M. a privati in cambio di garanzie costituite da terre e saline, in gran parte nella zona di Chioggia. In alcuni casi i prestiti non furono rimborsati e il M. entrò in possesso dei beni in questione, ampliando nel Sud del Ducato il suo patrimonio, costituito da terre coltivate e interi fondamenti di saline. Questi possedimenti, cui si aggiunsero anche beni già di proprietà privata o pubblica regolarmente acquistati, dopo la morte del M., passarono intatti nelle mani dei suoi eredi maschi.
Il M. succedette al doge Domenico Morosini, scomparso nel febbraio 1155. Il primo atto di governo noto del M. fu il rinnovo, nel 1155, di una concessione, accordata dal suo predecessore, a un consorzio di privati riguardante lo sfruttamento di beni di proprietà del Comune di Venezia a Costantinopoli in cambio di un canone in denaro, regolarmente corrisposto nel 1156.
Nello stesso anno però l’imperatore Manuele I Comneno concesse importanti privilegi commerciali ai Genovesi, tentando di controbilanciare il peso divenuto eccessivo dei Veneziani nelle attività economiche dell’Impero bizantino. Venezia si accostò allora per la prima volta al Comune di Pisa, per avviare una collaborazione in funzione antigenovese che per il momento non diede però frutti.
Il M. aveva ereditato dal Morosini una serie di questioni irrisolte. In primo luogo quella della Dalmazia, suddivisa fin dagli anni Trenta del XII secolo in un’area settentrionale controllata da Venezia, una centrale soggetta al dominio ungherese e una meridionale facente capo a Ragusa ancora sottoposta almeno virtualmente all’Impero bizantino. A ciò si aggiungeva il conflitto tra le sedi vescovili di Zara e di Spalato, sottoposte a sovranità politiche diverse, che aspiravano entrambe al ruolo di metropoli dell’intera Dalmazia. Già papa Anastasio III nel 1154 aveva elevato Zara al rango di arcivescovato, e aggregato le diocesi di Arbe e Ossero alla Chiesa gradense. Nel 1155 il successore Adriano IV sottopose la sede zaratina alla giurisdizione metropolitana di Grado e conferì al patriarca Enrico Dandolo il titolo di primate della Dalmazia, con diritto di consacrare l’arcivescovo, riservando al papa il conferimento del pallio. Il provvedimento attribuiva di fatto alla Chiesa veneziana il controllo ecclesiastico della Dalmazia centrosettentrionale, con la sola esclusione della meridionale Ragusa. Il Regno d’Ungheria non accettò la nuova situazione e fomentò una rivolta a Zara che portò i suoi sostenitori a impadronirsi della città, cacciando il governatore veneziano, Domenico Morosini, che la reggeva con il titolo di conte. Il M. reagì subito, intervenendo nel 1156. Le fasi della campagna sono poco note, ma sembrerebbe che le forze veneziane fossero respinte dal contingente ungherese (chiamato a presidiare Zara) e costrette a rinunciare al loro proposito. Il M. però inviò a Roma il Dandolo per sollecitare l’appoggio papale e nel 1157 Adriano IV scrisse direttamente al M., confermandogli la supremazia della Chiesa gradense sulla sede zaratina. Al tempo stesso il papa però si raccomandava che il patriarca fosse accolto onorevolmente al suo ritorno in patria, ponendo fine ai contrasti protrattisi per quasi un decennio fra il patriarcato e il Comune per ragioni interne; tuttavia il controllo ecclesiastico veneziano sulla Dalmazia rimaneva nominale, mentre quello civile era solo un’aspirazione.
Il M. progettò allora una nuova spedizione contro Zara, in vista della quale nel novembre 1158 intimò ai veneziani presenti nell’Impero bizantino di rientrare in patria entro la Pasqua (12 aprile) 1159 e a quelli che si trovavano negli Stati crociati di fare lo stesso entro il settembre del medesimo anno. L’ordine fu disatteso da coloro che erano troppo impegnati nei loro traffici per potervi obbedire. Di conseguenza, costoro, fra i quali rientrava anche il celebre mercante Romano Mairano, furono condannati a una pena pecuniaria. Nell’autunno 1159 i Veneziani tornarono però in forze in Dalmazia, Zara fu presa d’assalto e il presidio ungherese fu costretto a ritirarsi; gli abitanti dovettero rinnovare il giuramento di fedeltà a Venezia, accettando che il loro governo fosse affidato a un veneziano, cioè a Domenico Morosini. Probabilmente nello stesso tempo o poco dopo, il M. designò alla guida delle isole di Cherso e Lussino il figlio Leonardo e di quella di Arbe il figlio Nicolò, entrambi con il titolo di conte. Venezia impose così un controllo diretto, sia pure formalmente rispettoso delle prerogative locali, nei centri strategici della costa dalmata e delle isole del Quarnaro, completando poi l’opera nel 1163, quando il M. concesse a Bartolomeo e Guido, figli del defunto conte Doimo, il comitato di Veglia, affinché lo reggessero in qualità di vassalli di Venezia.
Sul versante italiano, è degno di rilievo il deciso appoggio concesso dal M. a papa Alessandro III, eletto nel 1159, e alla Chiesa di Roma nella lotta contro l’imperatore Federico I Barbarossa. Il sostegno alla causa pontificia, che si concretizzò anche nel rifugio offerto da Venezia agli ecclesiastici fedeli al nuovo papa, procurò alla città l’inimicizia del sovrano tedesco e comportò come ritorsione prima un blocco commerciale, che lasciò aperte solo le vie marittime, poi una vera e propria azione militare condotta per ordine di Federico dalle città dell’entroterra legate all’Impero, per sottomettere Venezia.
All’inizio del 1162, le forze coalizzate di Padova, Verona e Ferrara costrinsero alla resa la guarnigione del castello veneziano di Cavarzere, ma poi una squadra navale veneta, risalito il Po, mise in fuga gli aggressori, rioccupò il castello e s’impadronì di Adria e Ariano e le saccheggiò. Probabilmente nel corso dello stesso anno Ulrico di Treffen, patriarca di Aquileia, pose l’assedio a Grado. La reazione del M. fu immediata: tutte le navi disponibili furono inviate alla volta della città e gli equipaggi, sbarcati a terra, sconfissero gli invasori, facendo numerosi prigionieri, tra cui il patriarca e alcuni nobili al suo seguito. Al ritorno, la squadra respinse un attacco condotto su Caorle dai Trevigiani. Il patriarca rimase per qualche tempo prigioniero a Venezia e fu poi rilasciato dietro pagamento di un tributo annuale.
Fallita l’opzione militare, il Barbarossa cercò l’appoggio di Pisa e Genova, alla quale ultima consentì espressamente di molestare i traffici veneziani fino a che Venezia non avesse riacquistato la sua amicizia. Il M. rispose con un’azione diplomatica che staccò alcune città venete dal partito imperiale.
Nel 1164, su iniziativa veneziana, si costituì la Lega veronese, cui aderirono Verona, Padova e Vicenza, e poi anche Treviso e Comuni minori dell’entroterra veneto. Venezia si schierò al fianco dei Comuni ribelli, assicurando il sostegno finanziario, per garantire il quale nel giugno 1164 il M. dovette cedere per undici anni le entrate del mercato di Rialto ad alcuni cittadini facoltosi, che avevano prestato al Comune 1150 marche d’argento, sotto forma di mutuo volontario. Nel 1167, alcuni fra i maggiori Comuni lombardi e gli appartenenti alla Lega veronese costituirono la Lega lombarda. In questo modo fu superato il momento più critico per i Veneziani in Occidente. Negli anni successivi non si giunse mai a uno scontro militare diretto tra il M. e il Barbarossa e fino al 1177 Venezia non assunse iniziative di rilievo nella lotta fra Impero, Comuni e Papato; con quest’ultimo furono mantenuti eccellenti rapporti, tanto che nel 1165 Alessandro III ringraziò concretamente il M. per il suo sostegno e, su sua richiesta, confermò all’Opera di S. Marco le chiese intitolate al santo patrono di Venezia, a San Giovanni d’Acri e a Tiro, con le loro pertinenze, cedute l’anno prima dal M. all’Opera. Nel 1167, anche Boemondo III di Antiochia concesse privilegi ai mercanti veneziani che frequentavano il suo dominio. Erano così garantiti gli interessi di Venezia nei principali scali marittimi del Regno di Gerusalemme e del Principato antiocheno.
L’aggressiva politica italiana di Manuele I Comneno, la mancata partecipazione veneziana alla guerra scatenata dall’imperatore contro l’Ungheria e il sostegno bizantino ad Ancona, principale concorrente commerciale di Venezia nell’Adriatico, inasprirono inevitabilmente i rapporti fra Venezia e Bisanzio. Alla fine del 1167 il M. respinse le richieste di alcuni ambasciatori bizantini giunti appositamente a Venezia per sollecitarne l’aiuto militare se fosse scoppiato un nuovo conflitto con i Normanni di Sicilia. Anzi, poco dopo, probabilmente nel 1168, il M. promosse, in funzione chiaramente antibizantina, il matrimonio fra il figlio Leonardo, conte di Ossero (capoluogo di Cherso e Lussino), con una principessa serba, figlia di Desa «gran zupano» della Rascia, fuggito nel 1166 alla corte ungherese per sottrarsi al dominio di Bisanzio, mentre l’altro figlio Nicolò, conte di Arbe, sposò una principessa ungherese, figlia di re Stefano III. Nello stesso 1168 il M. condusse inoltre una spedizione punitiva contro Ancona, alleata di Bisanzio. Non si giunse però ancora a una rottura definitiva, se il M. poté continuare a concedere privilegi a chiese e monasteri detentori di beni e diritti nell’Impero bizantino.
Il 12 marzo 1171 Manuele I ordinò all’improvviso l’arresto dei cittadini di Venezia presenti in Romania e la confisca dei loro beni. I veneziani furono colti di sorpresa e imprigionati in gran numero. Si salvarono solo i pochi che riuscirono a sfuggire alla cattura in varie località dell’Impero e quelli che a Costantinopoli si imbarcarono sulla nave di Romano Mairano, che fece vela per San Giovanni d’Acri sfuggendo alle unità imperiali.
Le ragioni dell’episodio che fu la rovina economica di molti piccoli mercanti – non ancora risarciti, molti anni dopo, dei danni subiti – non sono del tutto chiare. Secondo la versione veneziana, Manuele I avrebbe agito con premeditazione per vendicarsi del rifiuto del M. di aiutare Bisanzio nel 1167 e per avidità, volendo impadronirsi dei beni dei veneziani. La versione bizantina evidenzia l’arroganza di Venezia verso l’Impero, il numero esorbitante dei veneziani residenti che comportava gravi problemi sociali e il rifiuto a rifondere i danni arrecati in un assalto da essi compiuto al quartiere genovese di Costantinopoli nel 1170.
La notizia giunse rapidamente a Venezia, dove, malgrado un’iniziale intenzione di procedere con cautela inviando un’ambasceria a Costantinopoli, prevalse il partito della guerra. Nel settembre 1171 una flotta di 100 galee al comando del M. salpò diretta in Oriente.
Durante il tragitto, la squadra fu rafforzata da altre 10 galee fornite dai sottoposti istriani e dalmati; 30 di esse furono dirottate su Traù, fedele al Comneno, che fu presa, saccheggiata e le cui mura parzialmente demolite. Le rimanenti navi proseguirono per Ragusa, che fu assediata e in pochi giorni costretta alla resa accettando un governatore veneziano. La flotta, penetrata nell’Egeo, raggiunse l’isola di Eubea e assediò la capitale Calcide. Il locale comandante bizantino, per evitare il peggio, assicurò al M. la restituzione dei beni confiscati se fosse stata inviata un’ambasceria a Costantinopoli. Il M. inviò come ambasciatori il vescovo di Iesolo, Pasquale, che conosceva il greco, e Manasse Badoer. Nel frattempo, tolto l’assedio a Calcide, l’armata veneziana occupò Chio, dove trascorse l’inverno, conducendo ripetute incursioni contro città costiere dell’Impero. I due ambasciatori, giunti nella capitale, non riuscirono a conferire con Manuele I e furono richiamati, pur avendo ottenuto assicurazioni sulla possibilità di concludere la pace. Con loro era un rappresentante imperiale che sollecitò l’invio di una nuova ambasceria. I due precedenti ambasciatori, con un terzo, si diressero nuovamente nella capitale. Mentre era in corso questa seconda missione, fra gli equipaggi veneziani scoppiò un’epidemia che causò in breve la morte di un migliaio di uomini. Intanto, una flotta imperiale si avvicinava a Chio e, nei primi giorni di aprile 1172, gli occupanti lasciarono la loro posizione per raggiungere l’isola di Panagia, dove però il morbo non accennò a scemare e continuò a fare vittime. A Panagia arrivarono i tre ambasciatori partiti da Chio ma, come in precedenza, tornarono a mani vuote, portando con loro un nuovo incaricato dell’imperatore che consigliò l’invio di una nuova ambasceria. Questa volta furono Enrico Dandolo e Filippo Greco a prendere la via di Costantinopoli. Nel frattempo, l’epidemia mieteva vittime e i Veneziani si spostarono a Lesbo per raggiungere l’isola di Lemno, ma le cattive condizioni del mare li costrinsero ad approdare a Sciro dove trascorsero la Pasqua (16 aprile) 1172. A quel punto però, la mancanza di successi tangibili e l’incertezza di conseguire risultati concreti alimentarono una generale insofferenza fra i componenti della spedizione, al punto da indurre il M. a ordinare la ritirata. La flotta pertanto fece vela per Venezia, inseguita e molestata dalle navi bizantine.
La grande armata salpata l’anno prima rientrò in patria umiliata e di fatto sconfitta, decimata dall’epidemia che, non ancora debellata, si diffuse per la città provocando altre vittime. Lo scontento fu così grande che pochi giorni dopo il rientro, il 28 maggio 1172, durante un’assemblea pubblica, il M., fatto oggetto di pesanti critiche per la condotta delle operazioni e abbandonato dai suoi consiglieri, fu colpito da un facinoroso, Marco Casulo o Casolo (poi giustiziato), e morì di lì a poco per le gravi ferite presso la chiesa di S. Zaccaria.
Il M. fu sepolto a S. Zaccaria; gli successe nella carica Sebastiano Ziani, il primo dei dogi a diventare tale non per designazione ma tramite elezione.
Intanto, la terza ambasceria inviata a Costantinopoli si risolse in un fallimento come le precedenti. Un’errata tradizione sostiene che in questa occasione il futuro doge Enrico Dandolo fu fatto accecare dall’imperatore.
Il M. aveva sposato una Maria, di cui non è noto il casato, ed ebbe due figlie: Agnese, andata sposa a Giovanni Dandolo, e Richelda, ricordata abitualmente con il titolo di contessa in quanto sposata a un membro della famiglia comitale di Padova. Fin dal 1159 sono inoltre ben documentati i due figli maschi del M.: Leonardo e Nicolò, che il M. mantenne a lungo legati economicamente e giuridicamente a sé, secondo una tradizione radicata nelle famiglie di antica origine come i Michiel, fino al febbraio 1171, quando provvide a emanciparli e ad assegnare loro parte dei suoi beni immobili.
Il più noto dei due è Leonardo che, nel 1165, ebbe una vertenza con Domenico Morosini conte di Zara, il quale reclamava il possesso di metà del comitato di Ossero, cedutogli dal di lui padre, il doge omonimo, mentre Leonardo rivendicava il comitato per un’investitura perpetua del Michiel. Quest’ultimo, col consenso dei giudici al suo seguito, diede ragione al figlio in quanto questi, a differenza del contendente, dimostrò di aver versato una somma adeguata al Comune per l’investitura. Leonardo mantenne fino alla morte il controllo di Cherso e Lussino. Come già detto, sposò in prime nozze una principessa serba, figlia di Desa, secondo la volontà del Michiel.
Nel 1171 assunse il governo di Venezia fino a che il M. fu impegnato nella spedizione navale contro l’Impero bizantino. In tale circostanza incorse nell’errore di autenticare in forma solenne un falso placito attribuito a un doge inesistente del X secolo presentatogli dai monaci di S. Felice di Ammiana nell’ambito di un contrasto fra costoro e il vescovato di Torcello. Ceduto l’incarico al ritorno del M., alla morte di lui vennero meno anche le ragioni del suo matrimonio, che fu verosimilmente sciolto, ed egli sposò Adelasina, di Isnardino da Lendinara, dell’influente famiglia capitaneale veronese che prendeva nome dal castello omonimo. Il contratto nuziale fu redatto a Verona il 1° dic. 1172, alla presenza di alcuni maggiorenti della città, fra i quali il conte Sauro, mentre fra i veneziani comparivano il fratello di Leonardo e il futuro doge Enrico Dandolo. La moglie portava in dote, fra l’altro, una proprietà situata a Zevio sull’Adige, dove da lungo tempo erano presenti interessi del monastero veneziano di S. Zaccaria, al quale era tanto legato il ramo dei Michiel a cui appartenevano il doge e i figli.
Nel 1174 i due fratelli sciolsero la compagnia commerciale della quale erano partecipi e divisero i beni mobili e immobili che avevano tenuto fino ad allora indivisi. Leonardo partecipò a un’ambasceria inviata nel 1175 dal doge Sebastiano Ziani a Costantinopoli nell’inutile tentativo di trovare una composizione con Manuele I, ed è anche fra i testimoni di un privilegio concesso dal Barbarossa al monastero di S. Giorgio Maggiore nel 1177.
Nell’agosto 1184 Leonardo fece testamento, nominando propria esecutrice testamentaria la badessa del monastero di S. Zaccaria a cui cedette gran parte dei suoi beni. Morì prima del dicembre 1184. Il fratello Nicolò gli sopravvisse circa un decennio.
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