MORANI, Vincenzo
MORANI (Morano), Vincenzo. – Nacque il 12 luglio 1809 a Polistena, secondogenito di Fortunato, prolifico decoratore e scultore, e di Pasqualina Mamone.
Fortunato (Soriano Calabro 1768 - Polistena 1836), appartenente a una famiglia di decoratori attiva nel Catanzarese già nel corso del XVIII secolo, trasferì la sua bottega a Polistena ove fu partecipe del clima di rinnovamento culturale e artistico che caratterizzò il contesto vibonese dopo il terremoto del 1783 e che animò la cerchia di artisti riunitasi intorno all’archeologo ed erudito Vito Capialbi. Tra le sue opere si ricorda il ciclo di stucchi nella chiesa di S. Leoluca a Monteleone realizzati attorno al 1818 su disegni di Emanuele Paparo, in cui sono evidenti i riferimenti alla scultura di Antonio Canova e Bertel Thorvaldsen e, in particolare, ai bassorilievi eseguiti dall’artista danese fra il 1805 e il 1807 per il fonte battesimale dell’abbazia di Brahetrolleborg.
Accanto al padre, attivo prevalentemente come stuccatore a Polistena, a Monteleone e in altri centri del Reggino, avvenne la prima formazione di Vincenzo, che condivise con i fratelli Francesco, Domenico e Giovanni l’avviata attività della bottega di famiglia. Ottenuta così una buona preparazione artistica nel contesto locale, si trasferì a Napoli all’inizio degli anni Venti, grazie anche a una pensione del Comune; abitò all’albergo dei poveri, poi a casa del medico compaesano Francesco Rocca che lo presentò al generale Vito Nunziante e grazie alla cui intercessione ottenne una pensione di 9 ducati al mese (Napier, 1855, p. 44). Nel 1827 poté quindi iscriversi al Real Istituto di belle arti di Napoli, dove ebbe come maestri Costanzo Angelini, Joseph Franque e Camillo Guerra.
La capitale del Regno rappresentò una tappa centrale nella formazione di Morani come per molti artisti provenienti dalla Calabria tra Sette e Ottocento, offrendo al contempo il riferimento di una importante istituzione accademica e l’occasione di un pubblico e di un mercato internazionali. I molteplici linguaggi figurativi della produzione artistica contemporanea, promossi, a vari livelli, nella città di Francesco I di Borbone, influenzarono l’opera di Morani che si mostrò, sin dai suoi esordi, interessato a praticare, oltre che la pittura di storia, anche generi minori, molto apprezzati dalla committenza locale, come il paesaggio, la ritrattistica e la pittura di soggetto popolare.
Nel 1830 partecipò all’esposizione della Biennale borbonica con una tempera, la Veduta di un tempio. Allo stesso anno risale anche la prima, importante, committenza: tra il 1830 e il 1832 i benedettini lo incaricarono di dipingere un affresco nel refettorio dell’abbazia della SS. Trinità di Cava de’ Tirreni raffigurante Urbano II mentre si reca alla Cava accompagnato da Ruggero principe di Salerno. Durante l’esecuzione dell’affresco, nel 1832, incontrò Walter Scott, giunto in visita all’abbazia per ammirare le miniature dei codici longobardi ivi conservate: Morani eseguì, in quell’occasione, oltre alle copie delle miniature anche un ritratto dal vero dello scrittore inglese intento a leggere i manoscritti. Il disegno, apprezzato dai contemporanei per la vivida naturalezza, fu subito riprodotto in litografia.
Acquisita una certa notorietà in ambito accademico grazie anche alla medaglia d’argento ottenuta nell’esposizione della Biennale borbonica del 1833 con la presentazione di tre disegni con ritratti d’uomo e del bozzetto dell’affresco di Cava, e per l’apprezzamento dell’opera espresso anche dalla stampa romana (Il Tiberino, 1833, n. 32, pp. 125 s.), nel 1834 Morani vinse la borsa di studio per il pensionato nella capitale pontificia, con il dipinto La morte di Archimede (Napoli, Galleria dell’Accademia), tela che si rifà alla maniera di Vincenzo Camuccini. Anche durante i primi anni del pensionato romano, partecipò con costanza alle Biennali borboniche testimoniando, con le opere inviate, il suo progressivo orientamento verso le istanze della cultura accademica pontificia sia nei soggetti sia nella scelta delle fonti figurative: tra il 1837 e il 1839 inviò, tra l’altro, una copia de La creazione di Adamo dall’affresco di Michelangelo nella cappella Sistina (1837) e il Davide ritorna vittorioso (Napoli, Museo di Capodimonte); lo studio sull’opera di Buonarroti continuò anche nell’anno successivo, data in cui eseguì una copia in acquerello dalla Tentazione di Adamo ed Eva, tratta sempre dall’affresco sistino (già mercato antiquario, Bonhams Chelsea, 28 novembre 2000, lotto 383); nel 1839 dipinse e inviò a Napoli una Venere reca le armi ad Enea e S. Giovanni Battista, Erode ed Erodiade (Napoli, Museo di Capodimonte), dipinto, quest’ultimo, che riscosse un grande successo (D’Aloe, 1853, pp. 47-49).
Concluso il pensionato, stabilì la propria residenza a Roma, entrando nella cerchia di Tommaso Minardi e dei puristi ma mantenendo, al contempo, proficui rapporti con la committenza nobiliare napoletana e con la corte borbonica. Nel 1840 completò il dipinto raffigurante L’incoronazione di Ester (Roma, Galleria nazionale d’arte moderna) per il colto collezionista principe Vincenzo Ruffo duca di Antimo: con questa grande tela di soggetto biblico, raffinata scena di ambientazione orientaleggiante, si guadagnò il plauso della critica coeva.
A segnare il definitivo radicamento di Morani nel milieu artistico romano, fu la committenza da parte del duca Marino Torlonia di un ciclo di affreschi per la cappella del palazzo di famiglia in piazza Venezia, cui seguì la commissione da parte del conte Alessandro, fratello di Marino, di dipingere un Apollo che riceve doni e omaggi dalle muse per la medesima residenza. La partecipazione al cantiere decorativo di palazzo Torlonia, uno dei più importanti e impegnativi della Roma dell’epoca, rappresentò per Morani non solo l’occasione di una committenza prestigiosa ma anche la possibilità di un confronto diretto con i maggiori protagonisti della scuola romana del tempo impegnati nel rinnovamento in senso classicista e purista della pittura decorativa e di storia, i quali avevano lavorato alla decorazione della residenza sin dal 1835 (Francesco Podesti, Francesco Coghetti, Nicola Consoni, tra gli altri).
Una descrizione della decorazione della cappella, perduta con la demolizione dell’edificio, si ricava da un articolo pubblicato ne L’Album nel 1842, data in cui l’opera risulta conclusa: sulla volta era rappresentato il «Padre eterno che mostra il suo potere su tutto il creato», circondato da lunette in cui erano raffigurati «angioli, che tenenti musici stromenti in mano, osservi assorti come in estasi, a quelle grate armonie » (p. 197); nei pennacchi angolari erano dipinti «i profeti maggiori col loro simbolo» e, in quattro lunette a monocromo, le Storie di Mosè. Nell’abside, infine, era raffigurato il Salvatore adorato dagli angeli, riprodotto in incisione nel 1842, decorazione in cui Morani sembra aver assimilato pienamente la lezione del purismo minardiano, richiamando, come elogiavano i contemporanei, sia nella tecnica – quella dell’affresco, recuperato proprio nell’ambito della scuola di Minardi – sia nello stile, «il bel secolo della pittura italiana» (ibid.).
In seguito al successo della decorazione in palazzo Torlonia, le committenze di Morani sia a Napoli sia a Roma si incrementarono ulteriormente: nel 1845 eseguì per il principe romano Cosimo Conti un dipinto raffigurante Psiche rapita da Zefiro in lode del quale Gaetano Righi pubblicò nel 1845 un poemetto in rima; nel 1846 Francesco II, re delle Due Sicilie, acquistò una Sacra Famiglia presentata l’anno prima all’Esposizione borbonica (Napoli, Museo di Capodimonte). Nel 1847 terminò e inviò a Napoli, la tela raffigurante La Crocifissione commissionatagli da Ferdinando II per la chiesa del cimitero Nuovo di Poggio Reale.
Il dipinto fu magnificato dalla critica come uno dei più riusciti di Morani «per la severità dello stile e il purgato disegno sì nel nudo di Cristo che nei panneggiamenti e nelle figure nelle quali è abbandono facile, naturalezza, grazia » per «il colorito delle carni e delle vesti armoniosamente intonato» e per la disposizione «della luce e delle ombre ben sentita e largamente compresa» (L’Album, 1847, p. 131).
Oltre che ai modelli del Cinquecento romano, già mediati attraverso le opere di Camuccini e Minardi, Morani guardò, a partire dagli anni Cinquanta, alle fonti della pittura del romanticismo storico filtrate attraverso la maniera di Giuseppe Mancinelli e Podesti. In quest’ambito va collocato il dipinto raffigurante Pietro Bembo che visita Raffaello Sanzio nella villa Farnesina, esposto alla Mostra borbonica del 1851 e acquistato dal duca di Terranova, principe di Gerace; inoltre, con l’opera, di qualche anno successiva, Tasso alla corte ferrarese del duca Alfonso II (Napoli, Biblioteca naz. Vittorio Emanuele III), Morani mostrò un debito evidente nei confronti di uno dei dipinti più fortunati di Podesti, Torquato Tasso che declama la Gerusalemme liberta alla corte estense, fornendo, però, del soggetto una versione più naturalistica, con la scena immersa in un paesaggio. L’opera venne anche esposta nel 1867 alla Mostra degli amatori e cultori di Roma.
Tra il 1852 e il 1863 ricevette un nuovo incarico dai benedettini che gli commissionarono la decorazione della chiesa abbaziale di Cava de’ Tirreni.
Si tratta di un ciclo piuttosto ampio che Morani realizzò in due fasi: tra il 1852 e il 1856 inviò da Roma tre tele: La Deposizione, S. Placido in atto di accomiatarsi da s. Benedetto e, nel 1856, il Martirio di s. Felicita e dei suoi figli, opera anch’essa lodata dalla critica romana. Negli anni successivi completò la decorazione con un ciclo di affreschi sulle pareti e sulle volte della chiesa (nel coro, La visione di s. Alferio, Principali insegnamenti della regola e I quattro dottori dell’Ordine; nel transetto sinistro, L’Ascensione di Cristo, S. Pietro e s. Paolo con gli angeli, Mosè Davide ed angeli con i simboli della Passione; nel transetto destro, La morte di s. Benedetto, S. Romualdo e s. Brunone con angeli e Le Quattro badesse dell’Ordine; nella cupola, I ventiquattro vecchi dell’Apocalisse e il Trono di Dio, nei peducci i Quattro dottori dell’Ordine).
Con la nomina a professore onorario del Real Istituto di belle arti di Napoli, Morani fu definitivamente riconosciuto come uno dei maestri più apprezzati in ambito accademico: Francis Napier nel 1855 ricordava il successo dei suoi dipinti presso la committenza napoletana per «la composizione piacevole, il tono ricercato, il disegno corretto, il colore fuso e armonico» (pp. 47 s.), mentre il suo studio in S. Andrea delle Fratte a Roma venne registrato nel 1858 nella guida di Filippo Bonfigli, a testimonianza del riscontro raggiunto anche presso i committenti della capitale pontificia.
Tra gli anni Cinquanta e Sessanta continuò la sua cospicua produzione nell’ambito della pittura religiosa sia per il rinnovamento delle chiese del Regno borbonico (nel duomo di Capua, dieci tele per la navata con Santi vescovi capuani, 1856- 1858, disperse durante la seconda guerra mondiale; nel Reggino, nella chiesa madre di S. Giorgio Morgeto, alcune tele per la cappella maggiore con Profeti, 1861), sia nei cantieri patrocinati da papa Pio IX all’interno dello Stato pontificio (basilica di S. Paolo fuori le Mura, affresco della navata con Paolo e Sila martiri nella città di Filippi, 1859) e anche fuori dai suoi confini: nel 1861 inviò due dipinti raffiguranti S. Gregorio Illuminatore e il Pontefice s. Leone invia i suoi legati a presiedere il concilio calcedonese per la nuova chiesa dell’Assunzione a Costantinopoli.
A tale produzione affiancò, con successo, quadri di genere (Pranzo in campagna, 1858, Roma, Museo di Roma in Trastevere) e opere di soggetto storico: nel 1862 inviò, per l’Esposizione universale di Londra un episodio tratto dal II canto del Paradiso (Dante e Beatrice incontrano Piccarda e la regina Costanza) insieme a una Scena in costumi romani. In occasione dell’Esposizione romana d’arte cristiana del 1870 fu insignito della medaglia d’oro con la tela I discepoli di Gesù Cristo abbandonati in una barca dai giudei e miracolosamente giunti salvi a Marsiglia.
Molto apprezzati furono, inoltre, i suoi ritratti in cui, dall’iniziale adesione a modelli davidiani, si orientò progressivamente verso uno stile purista di derivazione nazarena (Ritratto maschile, Almese, Torino, collezioneGiulio Jerace, ripr. in La pittura napolletana dell’Ottocento, p.n.n.; Adelaide Ristori in costume di Francesca da Rimini e Fanny Cerrito nel ballo fantastico La fata del lago, Roma, collezione privata; Ritratto di gentildonna con bambina, 1842, Roma, palazzo Taverna (cit. in Caduto, 1993); Francesco Florimo, Napoli, Conservatorio di S. Pietro a Majella.
Morì a Roma il 15 giugno 1870.
Il fratello più grande, Francesco, del quale non è nota la data di nascita, proseguì l’attività della bottega paterna, avviando una vasta produzione di opere devozionali, sculture e decorazioni in stucco e legno per le chiese del Reggino (Polistena, chiesa di S. Francesco di Paola, chiesa del SS. Rosario). Alla scuola di Francesco si formarono, fra gli altri, il nipote Francesco Jerace e Giuseppe Renda. Morì a Polistena nel 1878.
Il terzogenito di Fortunato, Domenico, nacque a Polistena nel 1824. Si trasferì a Roma al seguito di Vincenzo; fu allievo di Canova e Pietro Tenerani e si specializzò nella produzione di sculture sia in gesso sia in marmo di impronta purista. Nel 1843 eseguì per il teatro della villa Torlonia due sculture raffiguranti rispettivamente Menandro e Hendel. Nella chiesa dei Ss. Apostolì si conservano due Angeli in marmo (1859). Nel 1861 espose a Firenze la statua Silvia l’amante di Aminta. A Napoli (Conservatorio di S. Pietro a Maiella) si conserva un suo Busto di Vincenzo Bellini. Morì a Roma nel 1870.
Fonti e Bibl.: S. D’Aloe, Un quadro storico, in Foglio settimanale, 20 luglio 1839, pp. 222-224; L’Album, 20 agosto 1842, pp. 197 s.; G. Righi, Psiche rapita da Zeffiro, ibid., 21 giugno 1845, pp. 130 s.; F. Savi, Lettera del sign. don Luigi Scovazzi di Napoli sopra un dipinto di V. M., ibid., 19 giugno 1847, pp. 130 s.; S. D’Aloe, in Albo artistico napoletano, Napoli 1853, pp. 47 s.; F. Napier, Pittura napoletana dell’Ottocento (1855), ed. ital. a cura di S. D’Ambrosio, Napoli 1956, pp. 44-48; F. Bonfigli, The artistical directory or guide to the studios in Rome, Roma 1858, p. 73; Giornale di Roma, 11 ottobre 1861; L’Album, 3 maggio 1862, pp. 97 s.; G. Ceci, M., V., in U. Thieme - F. Becker, Kunstlerlexikon, XXV, Leipzig 1931, p. 121; R. Cioffi, Pittura e scultura (1782-1860), in Storia del Mezzogiorno, a cura di G. Galasso - R. Romeo, XI, Aspetti e problemi del Medioevo e dell’Età moderna, Napoli 1991, pp. 549 s.; S. Gnisci, M., V. in La pittura in Italia. L’Ottocento, a cura di E. Castelnuovo, Milano 1991, II, p. 928; A. Caruso, La famiglia Morani di Polistena, in Calabria letteraria, XL (1992), 7-9, pp. 99 s.; U. Campisani, V. M. da Polistena, ibid., XLI (1993), 1-3, pp.104 s.; P. Caduto, M., V., in F.C. Greco - M. Picone Petrusa - I. Valente, La pittura napoletana dell’Ottocento, Napoli 1993, p. 147; M.T. Sorrenti, Artisti calabresi all’Accademia di belle arti di Napoli: V. M., Angelo Mazzia e Achille Martelli, in I Borbone e la Calabria: 1734-1861, a cura di R.M. Cagliostro, Roma 2000, pp. 107- 114; E. di Majo, in Galleria nazionale d’arte moderna. Le collezioni. Il XIX secolo, Milano 2006, p. 87.