DE GIAXA (De Giasca), Vincenzo
Nato a Zara il 17 luglio 1848 da Girolamo e Vincenza Bettini, si laureò in medicina e chirurgia nell'università di Vienna nel 1870.
Nominato protomedico di Trieste, attese a tale incarico per lungo tempo, meritando una particolare onorificenza per la lotta che seppe organizzare contro l'epidemia di colera diffusasi nella città nel 1886. Nel 1887, vinto il concorso, gli fu affidata la cattedra di igiene dell'università di Pisa, che tenne per quattro anni. Nel 1891 fu nominato professore di igiene nell'università di Napoli, incarico che lasciò temporaneamente dopo soli quattro anni: nel 1895, infatti, fu chiamato alla direzione generale della Sanità pubblica, dalla quale, in seguito alla caduta del governo Crispi, era stato allontanato L. Pagliani. Tuttavia, l'impossibilità di attuare una razionale organizzazione dei servizi sanitari per le persistenti restrizioni finanziarie indusse il D. a rassegnare le dimissioni otto mesi dopo la nomina. Tornato alla cattedra di igiene dell'università di Napoli, mantenne l'incarico fino al raggiungimento dei limiti di età, dedicando ogni sua energia alla ricerca scientifica, alla divulgazione della disciplina, all'organizzazione igienico-sanitaria, con particolare riguardo a quanto era destinato a promuovere il risanamento urbano, e alle misure profilattiche.
Cultore di vari rami dell'igiene sperimentale e applicata, il D. fu autore di numerose ricerche di interesse teorico e pratico: studiò il bacillo di Koch con particolare riguardo alla sua capacità di resistere a numerosi agenti esterni, il bacillo del colera, quello della peste in relazione anche alle misure profilattiche per fronteggiarne l'azione patogena; lavorò in vari campi della microbiologia e della parassitologia; recò il suo contributo alla difesa sanitaria del patrimonio zootecnico del Mezzogiorno, riuscendo a preparare un sierovaccino efficacemente impiegato nel 1909 per combattere una epizoozia del così detto "mal barbone", che stava decimando i bufali del Salernitano. I suoi lavori più noti e di maggiore interesse furono comunque quelli sull'etiologia della pellagra.
Questa malattia, per la gravità delle manifestazioni e per la notevole diffusione, coincidente all'incirca con l'area in cui prevaleva l'alimentazione a base di farina di granturco, costituiva un antico problema sociosanitario: la prima inchiesta promossa dal ministero dell'Agricoltura dopo l'Unità d'Italia, condotta nel 1878 e pubblicata nell'80, aveva fornito dati impressionanti sulla sua incidenza, soprattutto in alcune regioni e tra le popolazioni rurali e più disagiate. Se da tempo era stato individuato il rapporto che correva tra l'alimentazione maidica e la malattia, non era però ancora chiaro il meccanismo col quale si instauravano le gravi manifestazioni cutanee, gastrointestinali e neurologiche. Soltanto nel 1938 C. A. Elvehjem poté dimostrare che la pellagra è una malattia carenziale dipendente dalla mancanza nella dieta di un fattore vitaminico, l'acido nicotinico poi chiamato vitamina PP ("pellagrapreventing factor"), dando così avvio a una serie di ricerche culminate negli anni Cinquanta con la completa soluzione del problema: la malattia si manifestava negli individui a dieta esclusivamente o prevalentemente maidica, perché nel granturco l'acido nicotinico è presente in forma non assorbibile mentre è contenuta un'abbondante quantità di un suo antagonista, la leucina, che ne ostacola l'attività biochimica. Le teorie etiopatogenetiche che nella seconda metà dell'800 apparivano più accreditabili, quella di F. Lussana, che vedeva nella povertà di principî nutritivi contenuti nel granturco la causa della pellagra, e soprattutto quella di C. Lombroso, che ne attribuiva l'origine a sostanze tossiche formatesi nel granturco avariato, sembrano, alla luce delle attuali conoscenze, non prive di una geniale intuizione.
Rifacendosi alla teoria tossica del Lombroso, il D. condusse una serie di ricerche volte a individuare la natura del fattore tossico causa della malattia: poté così dimostrare l'esaltata virulenza del colibacillo presente nell'intestino dei pellagrosi, e conseguente mente la più elevata tossicità fecale di tali soggetti rispetto a quella degli individui normali, concludendo pertanto che il granturco ingerito in grande quantità poteva offrire un ottimo pabulum alla vegetazione e alla virulentazione del germe (Contributo alle cognizioni sull'etiologia della pellagra, I, in Annali di igiene sperimentale, n. s., II [1892], 1, pp. 1-35; II, ibid., III [1893], 1, pp. 1-35; III, ibid., XIII [1903], 3, pp. 367-395). Il D. riassunse le conclusioni delle sue ricerche nella monografia La pellagra, pubblicata (monografia VII) nel VI volume, pt. 1, del Trattato italiano di igiene, diretto da O. Casagrandi, Torino 1927, pp. 1-119. La teoria dell'autointossicazione da lui sostenuta, pur se non confermata dalle successive ricerche, appariva all'epoca della sua formulazione la più idonea a spiegare la sintomatologia e le complicanze della pellagra e incontrò un largo favore.
Tra gli scritti del D. si ricordano, oltre a quelli già citati sulla pellagra: Igiene del vestiario, in Trattato italiano di igiene, diretto da O. Casagrandi, monografia XX, Torino 1926, pp. 1-150; Igiene delle città, ibid., monografia VII, vol. VII, ibid. 1930, pp. 1-392; Manuale di igiene, I-IV, Milano 1915. Membro di varie società scientifiche, il D. fondò inoltre la Società napoletana antitubercolare.
Lasciato l'insegnamento, si ritirò a Venezia, ove morì il 24 marzo 1928.
Bibl.: Necrologi, in Annali d'igiene, XXXVIII (1928), pp. 271 s.; in Annali di medicina navale e coloniale, XXXIV (1928), pp. 255 s.; in Policlinico, sez. pratica, XXXV (1928), pp. 568 s.; O. Casagrandi, in Trattato ital. di igiene, VII, Torino 1930, pp. n. n.; L. Agrifoglio, Igienisti ital. degli ultimi cento anni, Milano 1958, pp. 32 ss.; I. Fischer, Biograph. Lex. der hervorrangenden Ärzte... [1880-1930], I, p. 498. Per le notizie riguardanti l'evoluzione delle conoscenze sull'etiopatogenesi della pellagra, cfr. Enc. medica ital., 2 ed., XI, coll. 1378-81.