VIDEOARTE.
– Origini e sviluppi della videoarte. Le trasformazioni dei primi anni Duemila. Bibliografia
Origini e sviluppi della videoarte. – La v. è nata come uso creativo dell’oggetto televisore, ‘deviato’ dall’uso domestico verso una collocazione artistica (Wolf Vostell, Nam June Paik) fra la fine degli anni Cinquanta e gli inizi degli anni Sessanta del Novecento. Fin dagli inizi è stata caratterizzata da quest’uso installativo, plastico e scultoreo del monitor, ma anche dalla scoperta del carattere astratto e mutevole dell’immagine televisiva e del potere espressivo e performativo della diretta, con il suo effetto spiazzante di simultaneità. È nata con un forte approccio musicale e plastico, nell’alveo del movimento Fluxus, e ha portato spesso le sue opere (per quanto diverse esse siano) a rifuggire dallo strapotere della parola e dei dialoghi per costruire percorsi creativi di ricerca sonora oltre che visiva; e ha fatto appello alle metamorfosi incessanti del segnale elettronico per creare effetti, forme e colori non realistici. Gli artisti contemporanei hanno spesso usato il video anche per documentare le proprie performance, o per prolungare con il nuovo mezzo la propria attività: si tratta di un segmento particolare, definito video d’artista, della produzione in elettronica. La v. ha dialogato con la televisione (il video nasce dalla tecnologia elettronica televisiva) e ha ereditato dal cinema utopie ed esperimenti d’avanguardia che in pellicola non potevano avere quella agilità di effetti e metamorfosi così connaturati all’immagine video, campo di impulsi e segnali luminosi in perenne formazione. Nello stesso tempo, si è distinta sia dalla televisione sia dal cinema: ha infatti preso le distanze dall’intrattenimento televisivo, dai classici generi che caratterizzano la TV e dalla natura politico-economica degli apparati televisivi; e dalla narratività di un cinema strutturato anch’esso in generi e caratterizzato dallo star system, dall’intreccio, dai dialoghi, dalla finzione.
Storicamente, gli anni Settanta hanno visto l’esplorazione artistica delle potenzialità stesse della tecnologia video, diventata accessibile anche fuori dagli studi TV grazie alla commercializzazione dei sistemi portatili di videoregistrazione; mentre gli anni Ottanta sono stati caratterizzati da alcune esperienze di diffusione anche televisiva, con una fioritura di forme miste, in cui i videoartisti dialogavano con riferimenti teatrali, cinematografici, figurativi, letterari e documentaristici (interessante negli anni Ottanta la rappresentazione dei primi otto canti della Commedia di Dante da parte del regista inglese Peter Greenaway in Gran Bretagna). Negli stessi anni in Italia ha visto un’importante fioritura il videoteatro, con la presenza del monitor nello spettacolo, con forme narrative legate al circuito chiuso televisivo e con l’invenzione di effetti scenografici impossibili sulla scena; della videopoesia è stato un riconosciuto pioniere, anche a livello internazionale, il poeta e videoartista italiano Gianni Toti. In Francia, Paese in cui la ricerca televisiva già negli anni Sessanta aveva visto programmi d’avanguardia anticipatori della creatività videoartistica (Jean-Christophe Averty), negli anni Ottanta sono state trasmesse dalla rete pubblica opere come quelle di Robert Cahen, uno dei pionieri della v. internazionale, attento a una resa poetica e pittorico-musicale del paesaggio e delle diverse temporalità dell’immagine, spesso rallentata e cesellata. La produzione di questo tipo, definita monocanale, è stata affiancata a quella di videoinstallazioni e videosculture (Fabrizio Plessi), pensate per spazi specifici, per gallerie d’arte, per luoghi pubblici. Il miglioramento delle tecniche di videoproiezione nel corso degli anni Ottanta ha consentito di superare l’esclusiva forma di presentazione della v. (anche nei festival) su piccolo schermo – scatola luminosa e versatile come un modulo scultoreo, ma di piccole dimensioni – e di avvalersi anche di superfici di visione più ampie. Questo fenomeno ha suscitato l’interesse per la forma installativa anche da parte di cineasti, con lo spostamento del film in spazi diversi da quel li della sala. È il fenomeno del ‘cinema esposto’ (o cinema installato, v. videoinstallazione), che ha assunto caratteristiche delle videoinstallazioni (v.) mantenendo il dispositivo della classica proiezione oppure moltiplicando e articolando gli spazi e le cornici della visione. Ma il cinema e la fotografia sono diventate anche ispirazione per una serie di opere di v. e installazioni (Christian Marclay).
Le trasformazioni dei primi anni Duemila. – Nel 21° sec. la v. vive grandi mutazioni, in parte dovute al contesto culturale e storico, e in parte legate alle modificazioni del panorama mediatico e delle tecnologie di riproduzione dell’immagine e del suono. Già negli anni Novanta il progressivo affermarsi del digitale, diventato pervasivo agli inizi del nuovo millennio, aveva provocato profondi mutamenti nel campo della realizzazione videoartistica e della sua diffusione.
La civiltà informatica, con la conversione dei segnali visivi e sonori in dati numerici, e con l’avvento della tecnologia video digitale, ha portato a un’estrema miniaturizzazione degli apparecchi di ripresa (si pensi al videofonino), a un perfezionamento della qualità dell’immagine e a un’accessibilità prima impensabile delle modalità di montaggio, grazie ai programmi disponibili anche per i computer domestici e individuali. Il digitale, e in particolare Internet, ha modificato profondamente anche la promozione, distribuzione e condivisione delle opere, che prima potevano contare solo su festival specializzati o sulla rara diffusione di alcune reti TV. Alle qualità della videoproiezione, sempre più competitive con quelle del cinema, si è affiancata la tecnologia degli schermi televisivi ultrapiatti, che consente nuove modalità anche nell’esposizione di opere di videoarte. Il digitale ha consentito inoltre di mettere a punto, nel caso delle videoinstallazioni, dispositivi di interazione che trasformano lo spettatore in visitatore che attiva o trasforma con la propria azione suoni e immagini, grazie a una serie di sensori; è il caso degli ‘ambienti sensibili’ del gruppo di Studio Azzurro in Italia, in cui le tecnologie informatiche (volutamente inavvertibili e nascoste) a partire dagli anni Novanta hanno creato percorsi audiovisivi che reagiscono a gesti, suoni, passaggi dei visitatori. Le tecniche di computer grafica e di simulazione consentono inoltre a una serie di artisti la creazione di mondi fantastici e virtuali con cui lo spettatore-visitatore interagisce, modificandoli; mentre per altri artisti il corpo stesso del visitatore attiva, per es., con il battito del cuore o con il gesto, movimenti o segni grafici; a sua volta la pittura digitale, creata in diretta dall’artista, diventa oggi una forma espressiva all’interno di performance videoteatrali (Michele Sambin) mentre il circuito chiuso e la videoproiezione consentono la creazione durante lo spettacolo di scenografie elettroniche astratte in movimento (Giacomo Verde). La virtualità entra anche nel campo della danza, con programmi che consentono di creare movimenti che sarebbero impossibili a un danzatore reale. Anche le recenti tecniche 3D usate da alcuni videoartisti (come Giuliana Cunéaz) tendono a un’immersività in mondi spesso astratti, lontani da logiche realistiche o classicamente narrative. La v. è insomma sempre più un’arte ibrida, difficilmente confinabile in uno steccato disciplinare. Dialoga, fin dagli inizi, con le altre arti, ma anche con i media, e ancor più lo ha fatto in questo inizio di millennio, proprio grazie alle novità e alle connessioni consentite dal digitale.
Attraverso la creazione di videoinstallazioni per spazi pubblici o in complesse e grandi costruzioni, la v. si è relazionata anche con l’architettura e l’urbanistica. Questa tendenza ha assunto nel nuovo millennio caratteristiche di spettacolarità e monumentalità, attraverso il fenomeno del videomapping urbano che (anche grazie al digitale, con sofisticati sistemi di progettazione e potenti strumenti di proiezione) consente di ‘rivestire’ case, palazzi, muri, edifici importanti o comuni con immagini in movimento di grande suggestione la cui fruizione collettiva ripropone in nuovo modo la condivisione corale e la meraviglia che hanno caratterizzato il cinema e anche il precinema: fantasmagorie che brillano nella notte adattandosi alle superfici architettoniche e foderandole di apparizioni astratte, azioni coreografiche, rappresentazioni di azioni e di forme cangianti (come quelle realizzate dal gruppo tedesco degli Urbanscreen). Tracce di v. sono evidenti in parte della produzione videomusicale d’autore (v. video: Videoclip) e in parte del cinema recente: un cinema che infrange le regole narrative tradizionali, usa creativamente il suono, ma soprattutto adotta effetti pittorici di alterazione delle immagini o modificazioni della temporalità largamente praticati dalla videoarte. In questo senso è spesso difficile distinguere nettamente il cineasta dal videoartista e dall’artista contemporaneo (è il caso dell’opera di Matthew Barney). Tracce di v. si trovano anche in spettacoli multimediali e in recenti ambientazioni museali ed espositive che ricorrono all’interattività e a una concezione dell’immagine non piattamente riproduttiva, ma evocativa (ancora Studio Azzurro, in Italia). A loro volta, i videoartisti usano il digitale non solo per la creazione di opere e di installazioni, ma anche per la stampa ad alta definizione di immagini tratte dai propri video (Irit Batsry, Peter Callas) che trovano un circuito nelle gallerie d’arte; e per la condivisione e promozione in rete, tramite i siti personali e i social network, del proprio lavoro. Queste profonde modifiche nel panorama dei media, che portano a contaminazioni e a slittamenti fra le arti potenziando l’originaria vocazione ‘indisciplinata’ della v., inducono gli studiosi a interrogarsi su cosa rimanga, oggi, di quest’arte, che – una volta di nicchia e d’avanguardia – sembra essersi diluita ed estesa in tante e diverse manifestazioni audiovisive, espositive, urbane, spettacolari, con indubbi esiti sul piano di un consenso e di una conoscenza più diffusi e vasti. Un’arte pienamente adulta, se si considera che ha compiuto cinquant’anni nel 2013 (prendendo come data simbolica la mostra alla Galleria Parnass di Wuppertal, in Germania, nel 1963, in cui Nam June Paik espose una serie di monitor con l’immagine televisiva distorta). Un’arte ormai conosciuta e diffusa in vari ambiti, a cui si affacciano anche artisti provenienti da Paesi e continenti finora meno presenti in festival e mostre; oggetto di prestigiosi riconoscimenti e seguita dall’attenzione della critica e dall’adesione di pubblici vasti. Due soli esempi che riguardano avvenimenti recenti in campo videoartistico sono stati l’imponente e affollatissima mostra al Grand Palais (2014) a Parigi dedicata all’ormai pienamente affermato artista statunitense Bill Viola, con le sue riflessioni sui grandi temi dell’umanità e gli echi della tradizione figurativa; e la grande mostra all’Hangar Bicocca (2014) di Milano dedicata a Joan Jonas, versatile artista che rappresenta gli Stati Uniti (al cui padiglione è stato assegnato il Leone d’oro) alla Biennale internazionale d’arte di Venezia nel 2015. Due omaggi a indiscussi pionieri e protagonisti della v. e, in generale, dell’arte del nostro tempo.
Bibiliografia: S. Lischi, Visioni elettroniche, Roma 2001; M. Rush, Video art, London 2003; Le pratiche del video, a cura di V. Valentini, Roma 2003; Le storie del video, a cura di V. Valentini, Roma 2003; S. Bordini, Arte elettronica, Firenze 2004; C. Elwes, Video art. A guided tour, London-New York 2005; C. Meigh-Andrews, A history of video art, Oxford-New York 2006; «Bianco e nero», 2006, 1-2, nr. monografico: Cinema, arti elettroniche, intermedialità, a cura di M. Gazzano; P. Dubois, La question vidéo. Entre cinéma et art contemporain, Crisnée 2011; Corpo elettronico. Videoarte italiana tra materia, segno e sogno, a cura di A. La Porta, G. Marziani, Milano 2012; A. Amaducci, Videoarte. Storia, autori, linguaggi, Torino 2014.