Vicino Oriente antico. Teologia
Teologia
di Wilfred G. Lambert
Le moderne categorie di scienza, di filosofia e di religione non sono adattabili alla civiltà del Vicino Oriente antico; il bagaglio di cultura e di tradizioni di quei popoli era completamente diverso dal nostro. L'ambiente fisico, per esempio, aveva un impatto molto diretto sul loro modo di pensare e, viceversa, la maggior parte di quella che oggi sarebbe classificata come cultura religiosa esprime anche forme di scienza e di filosofia di quei popoli.
Sebbene la regione corrispondente alla parte meridionale dell'odierno Iraq fosse culturalmente omogenea, inizialmente era divisa dal punto di vista linguistico: le aree vicine al Golfo Persico erano di lingua sumerica, mentre nelle zone più a monte si parlava un idioma semitico, identico o simile a quello parlato in Assiria e in Siria, chiamato dagli studiosi moderni 'paleoaccadico'. I Sumeri costituivano la popolazione culturalmente più dinamica e proprio dalle loro città venne spesso la spinta per lo sviluppo culturale dell'intera area. Agli occhi degli antichi abitanti della Mesopotamia il mondo appariva abitato da forze sovrannaturali da cui dipendeva la vita quotidiana: una certa forza presente nei fiumi causava la piena annuale, senza la quale non ci sarebbero stati i raccolti; un'altra faceva sì che, alle giuste condizioni, i chicchi di orzo germogliassero e si moltiplicassero in modo straordinario; il calore del Sole, in cielo, maturava le coltivazioni, un'altra forza agiva sugli animali domestici perché si accoppiassero e si riproducessero. Le azioni della Natura apparivano sovrumane e meravigliose e a ognuna di queste forze, percepite o presunte, fu attribuita una personalità individuale; in questo modo si sviluppò un pantheon sumerico, arricchito anche da varie entità dotate di aura divina ma senza una diretta utilità per la razza umana.
Questi processi intellettuali risalgono sicuramente ai più remoti tempi della preistoria, ma ci sono noti soltanto nei loro sviluppi sumerici del III millennio. Il merito dei Sumeri sta nell'aver sistematizzato quel primitivo insieme, disordinato e confuso, di forze sovrumane, che chiamiamo dèi. Si pensava che tali forze potessero essere influenzate grazie ad appropriate pratiche devozionali; il culto divenne, così, la regola nei rapporti con ognuna di queste forze. In ogni città, secondo le direttive del potere centrale, sorsero templi nei quali le divinità, generalmente sotto forma di statue dalle fattezze umane, erano adorate, non soltanto per mezzo della recitazione di preghiere di lodi e similia da parte dei sacerdoti (i templi sumerici e babilonesi non erano destinati al culto pubblico), ma anche tramite la fornitura regolare di pasti quotidiani, talvolta di abiti nuovi e di tutto ciò di cui si supponeva avesse bisogno un qualsiasi ricco sumero del tempo. L'aspetto umano era ulteriormente rafforzato dal fatto che il tempio non era considerato soltanto la dimora del principale occupante, ma anche della sua famiglia e dei suoi cortigiani: un consorte divino, figli divini, servitori divini e, all'occasione, persino cani divini. L'aspetto antropomorfico, in questo modo, aveva il sopravvento sulla realtà cosmica.
La creazione di famiglie divine soddisfaceva anche un bisogno pratico; in ogni città, infatti, ideologia e tradizioni locali avevano prodotto un gran numero di divinità, maschili e femminili, di vari gradi d'importanza; il concetto di famiglia divina permise di organizzare questa molteplicità di dèi senza escludere nessuno e senza dover affrontare la spesa impossibile di un santuario distinto per ognuno. Le sistemazioni che troviamo in tempi storici furono sicuramente elaborate nel corso di secoli, con attenta riflessione e scrupolosa considerazione delle esigenze di ciascuna divinità, anche di importanza minore.
Nonostante nella regione di Sumer e nelle sue frange semitiche nordoccidentali non ci fosse un'unità politica, esisteva, però, una certa unità di culto; sembra che il tipo di organizzazione presente nei singoli templi fosse stato in qualche modo imposto in tutta l'area in tempi preistorici.
Innanzitutto, i numerosi dèi adorati nella regione si inserivano in un ordine gerarchico generalmente accettato; questa gerarchia poté variare gradualmente nel corso dei secoli, ma il principio non fu mai messo in discussione. Inoltre, ogni città, a prescindere dalla sua grandezza, ospitava un gran numero di templi e, quindi, di divinità cittadine, ma soltanto un dio particolare, o una dea, era il patrono di quella città ed era, di norma, proprietario o signore del centro urbano; di conseguenza, gli altri dèi rivestivano un'importanza minore. Infine, la gerarchia all'interno dei singoli templi e delle singole città si rifletteva nella gerarchia delle divinità protettrici di tutte le città principali e questo creava un pantheon 'nazionale', a dispetto della frammentazione politica. È significativo il fatto che tutte le divinità patrone delle città più importanti abbiano dato vita a un pantheon equilibrato; soltanto in un caso troviamo un'importante divinità protettrice di due città contemporaneamente: Utu, il dio Sole sumerico, era patrono di Larsa, nel Sud, e Shamash, il dio Sole semitico, lo era di Sippar, nel Nord-Ovest. È anche significativo che Enlil, il più importante dio sumerico, fosse patrono di Nippur, una città che non era mai stata sede di una dinastia politica e che, perciò, era neutrale. Tutto porterebbe a concludere che, in un qualche momento dell'età preistorica, si sia tenuto un concilio ecumenico in cui furono assegnate alle città divinità tutelari con il preciso scopo di assicurarsi che ogni divinità importante fosse patrona di una città.
Nel seguito, verranno analizzate le caratteristiche di alcune delle principali divinità, cercando di distinguere il culto della seconda metà del III millennio (periodo sumerico) da quello del II millennio e della prima metà del I millennio (periodo babilonese). Questo può, in alcuni casi, implicare la formulazione di ipotesi sul III millennio (periodo molto meno documentato) basate su copie di testi, presumibilmente tradizionali, redatte in epoche più tarde.
La triade 'astrale'
La Luna, elemento caratteristico dell'universo fisico, era adorata in considerazione della sua posizione predominante nel cielo notturno e la sua dimora era la città di Ur, nel profondo Sud di Sumer. Essa aveva un nome sumerico, Ashimbabbar (da leggere forse Dilimbabbar) che, però, è documentato raramente, essendo più comunemente nota come Nanna (per l'esattezza Nana, una sillaba ripetuta, un tipo di nome diffuso nel III millennio che non appartiene a nessun gruppo o tipo linguistico conosciuto) o Su'en/Sin, nome probabilmente semitico, utilizzato anche nell'Arabia preislamica. Il culto della Luna è di per sé facilmente comprensibile, ma anche il pensiero razionale giocava un suo ruolo nello sviluppo di questo come di tutti gli altri culti. Il dio Luna fu sempre un dio importante, ma, tranne, forse, nella valle della Diyala, non ebbe mai un rango molto elevato. In ogni caso, egli era più importante del dio Sole e la sua superiorità era dimostrata dal fatto che nel pantheon sumero-babilonese il dio Sole era suo figlio. I membri di questo pantheon erano per lo più legati da un tipo di relazione familiare articolata in tre generazioni, come si verifica nelle famiglie degli uomini, e l'anzianità di generazione si traduceva in una superiorità di rango. Non è difficile spiegare il motivo dell'importanza superiore del dio Luna rispetto al dio Sole: sia i Sumeri sia i Babilonesi utilizzavano, infatti, un calendario lunare, teoricamente di 12 mesi di 30 giorni ciascuno, ma in pratica non così regolare, con l'aggiunta sporadica di un 6° o 12° mese intercalare (v. cap. XIII, par. 2). Per gli antichi, questo non era soltanto un sistema comodo per dividere l'anno, e dunque controllare l'avvicendarsi delle stagioni e delle piene annuali, ma anche la chiave della prosperità; anche il culto degli dèi era regolato secondo il calendario lunare.
Dal punto di vista religioso, il primo giorno di ogni mese era il più importante del mese, mentre il primo e i successivi giorni del primo mese erano i più importanti di tutto l'anno. Gli altri giorni del mese importanti per l'osservanza del culto erano, nell'ordine, il 15° (il giorno di Luna piena) e il 7°. La mancata osservanza di questi giorni sacri avrebbe potuto provocare delle disgrazie causate dalla collera del dio in questione, chiunque egli fosse. Poiché il dio Luna regolava questo calendario per conto di tutti gli dèi, risulta ovvia la sua importanza all'interno del pantheon.
Ogni divinità importante possedeva una serie di attributi: al dio Luna erano associati i bovini, fatto significativo poiché in Sumer e in Babilonia gli animali domestici più comuni erano le pecore e le capre, che non avevano necessità di pascoli ricchi di vegetazione e potevano pascolare insieme. I bovini, invece, che avevano bisogno di pascoli rigogliosi, inesistenti per buona parte dell'anno, erano meno frequenti e rappresentavano un bene di prestigio, di solito proprietà dei templi (che erano unità economiche complete e non soltanto residenze degli dèi) o dei palazzi.
Sin era il promotore e il protettore dei bovini e il motivo è che il suo simbolo era una mezzaluna con le punte rivolte verso l'alto, che poteva assomigliare alle corna bovine. Tuttavia, un'unica interpretazione non esauriva la verità e la stessa mezzaluna poteva essere interpretata come una barca: dal momento che Sin attraversava regolarmente il cielo si pensava che egli fosse, o possedesse, una barca celeste.
Il dio Sole, come abbiamo notato precedentemente, era meno importante del dio Luna, nonostante il suo ovvio potere superiore nel cielo. Egli regolava il giorno come suo padre regolava il mese, ma le ore del giorno non erano mai precise e l'osservanza del culto si basava sui giorni del mese. È sicuro, comunque, che Utu di Larsa, o Shamash di Sippar, fosse un dio molto venerato: anche se la popolazione probabilmente non partecipava mai a nessun culto del tempio, condivideva però la sacralità di particolari giorni religiosi. Il dio Sole era anche il dio della giustizia, dal momento che nel corso del suo quotidiano passaggio attraverso il cielo osservava ogni cosa; il suo simbolo era un disco solare con i raggi, oppure una sega, forse per decapitare i criminali.
Un'altra divinità in posizione preminente nel cielo era Venere: Inanna per i Sumeri, Ishtar per i Babilonesi; entrambi i popoli interpretavano, probabilmente correttamente, il nome Inanna come "Signora del cielo". In altre regioni del Vicino Oriente antico, il pianeta era considerato maschile, ma in Sumer e in Babilonia un Ishtar maschile è attestato soltanto in alcuni documenti astrologici babilonesi. Inanna/Ishtar era protettrice della città di Uruk (la biblica Erech, odierna Warka). Alla dea erano attribuiti due ambiti principali: quello della sessualità (e della procreazione) e quello della guerra; non sappiamo come mai ambiti così diversi siano stati di pertinenza di un'unica divinità: poiché anche la greca Afrodite e la romana Venere condividevano l'attributo dell'amore, è probabile che questo aspetto fosse molto antico. Inoltre, il nome babilonese Ishtar vuol dire semplicemente 'dea' e, dal momento che nel pantheon babilonese si trovavano poche divinità femminili di una certa importanza, probabilmente era considerata la dea per eccellenza.
La presenza di questi tre importanti corpi celesti, non deve far pensare, però, a un pantheon di tipo astrale. Non tutte le stelle e nemmeno i pianeti allora noti erano divinizzati, sebbene i Babilonesi considerassero le stelle, i pianeti e le costellazioni come le sedi celesti di particolari divinità importanti.
La triade 'cosmica'
Poiché l'agricoltura rivestiva un ruolo fondamentale nella civiltà mesopotamica esistevano varie divinità a essa preposte. Il dio della tempesta (sumerico Ishkur, babilonese Adad) era una divinità relativamente minore in Bassa Mesopotamia, in cui cadeva poca pioggia; era, infatti, protettore di una piccola città poco nota: (Bit) Qarqara. In Siria invece, dove l'agricoltura dipendeva principalmente dalle precipitazioni, era un dio importante. I Sumeri avevano una dea del grano, Nisaba, che era anche dea della scrittura (anche in questo caso due sfere il cui collegamento è poco chiaro); era forse protettrice della città, non ancora localizzata, di Eresh la cui scomparsa spiegherebbe come mai, nel corso dei secoli, sebbene sia sopravvissuta fino in epoca babilonese, questa dea abbia progressivamente perso importanza. Ningirsu era il dio sumerico della coltivazione; il suo nome significa 'Signore di Girsu' e Girsu è uno dei siti che costituivano l'entità politica della città di Lagash. Nel corso dei secoli anche Lagash scomparve, ma Ningirsu sopravvisse fino in età babilonese grazie alla sua identificazione con Ninurta, "Signore della Terra", figlio di Enlil a Nippur, una città che, invece, non cadde in rovina. A Nippur egli era un dio importante, a cui si conferivano gli epiteti di 'guerriero' e 'uccisore del drago', oltre che di 'coltivatore', ma era meno importante di suo padre. Un altro dio legato all'agricoltura era Dumuzi (secondo la grafia sumerica) o Tammuz, nome che sopravvisse fino in età ellenistica e oltre. A quanto pare, egli era stato un re, in seguito divinizzato, ma la questione delle sue origini è complessa; 'Dumuzi il pastore' era un re antidiluviano della città di Bad-Tibira, mentre 'Dumuzi il pescatore' era un re di Uruk vissuto dopo il diluvio. La letteratura sumerica lo descrive soprattutto in veste di allevatore di mucche e la connessione con la città di Uruk potrebbe risalire alla sua condizione di consorte di Inanna. L'abbandono di Bad-Tibira può spiegare come mai, in tempi storici, egli non fosse patrono di nessuna città, sebbene, dal punto di vista religioso, fosse ancora molto potente. Era connesso con il mondo degli Inferi, a quanto pare in qualità di dio che muore e risorge, e si pensa fosse venerato in particolar modo dalle donne, proprio come Orfeo nell'antica religione greca; come nel caso dell'orfismo, la religione ufficiale babilonese non se ne occupava particolarmente.
Verso la fine del III millennio compare nella documentazione un consiglio superiore di divinità, il cui esame può chiarire ulteriori aspetti della religione sumero-babilonese. Tale consiglio era costituito da tre divinità maschili, Anu, Enlil ed Enki, talvolta integrati da una dea Madre, chiamata con nomi differenti, Ninkhursag, Aruru, Belet-ili e altri ancora.
Uruk (che in epoca sumerica era una città molto grande) era la dimora del dio Anu, il cui nome in sumerico significa 'cielo'; non è facile definirne il carattere, ma sappiamo che egli era, almeno nominalmente, a capo del pantheon. Questo dio è assente in alcune delle fonti più antiche ed è stato ipotizzato che fosse in origine un'astrazione teologica nata all'inizio del III millennio; la sua sfera cosmica, comunque, è chiara.
Enlil il secondo della triade, era il dio sumerico più importante in Terra e, secondo alcune fonti, egli risiedeva soltanto sulla Terra e non in cielo. La sua sfera cosmica non è del tutto chiara, ma il suo nome significa 'Signore [di] líl', in cui líl significa 'soffio', 'vapore'; molto verosimilmente questo si riferisce all'aria che si trova sulla Terra, ma i testi antichi non forniscono alcun aiuto.
Enki si chiamava propriamente Enkig, in cui en vuol dire 'signore' e kig è una parola di significato sconosciuto, mentre presso i Babilonesi era chiamato Ea. La sua sfera cosmica è indicata nelle fonti in maniera molto esplicita: si credeva che esistesse un enorme lago sotterraneo chiamato Apsû, dal quale tutte le sorgenti attingevano le loro acque e qui egli risiedeva. L'Apsû con il suo principale abitante era anche la fonte della conoscenza esoterica, in particolare quella utilizzata negli scongiuri per respingere gli attacchi dei demoni e degli spettri.
Per quanto riguarda la divinità femminile, quando compariva insieme ai tre dèi, poteva essere terza o ultima. In qualità di dea Madre era responsabile della creazione della razza umana, sia in origine sia successivamente, ma era anche concepita come la madre Terra; Ninkhursag significa, infatti, 'Signora della montagna' e la montagna rappresenta la 'montagna di terra cosmica'.
Questo consiglio a capo del pantheon, documentato dalla fine del III millennio fino quasi alla fine del II, non era stato concepito soltanto come centro di comando di un gruppo di divinità molto vario, ma esprimeva la cosmologia antica della Mesopotamia: An, 'Cielo', al vertice, sotto di lui lo spazio aperto in cui vivono gli uomini, e ancora più in basso la superficie della Terra e, in fondo, l'Apsû (v. cap. II, par. 1).
Il mondo degli Inferi non è presente in questo sistema perché fu sempre concepito come un grande golfo tra i livelli superiori dell'Universo e quelli più profondi. Vi si trovavano le ombre dei morti e gli dèi che se ne occupavano; era un luogo senza uscita a parte rare eccezioni, persino gli dèi che vi sovrintendevano di solito non abbandonavano il loro regno oscuro. In epoca sumerica, Ninazu era generalmente considerato il dio a capo degli Inferi. In età babilonese, invece, si riteneva che fosse la dea Ereshkigal, ma una tradizione differente attribuiva lo stesso ruolo al dio Nergal. Questi, curiosamente, era anche il patrono della città babilonese di Kuta, una posizione in contrasto con la concezione corrente che reputava gli Inferi separati dalle regioni cosmiche superiori; in un racconto mitologico si narra in che modo Nergal soppiantò Ereshkigal.
Rispetto a queste divinità principali l'uomo era concepito in un rapporto di totale subordinazione: era opinione unanime che la razza umana fosse stata creata appositamente per servire gli dèi (v. cap. XVI, par. 1). Questa visione dipende ancora una volta dal concetto antropomorfico di 'dio'; gli dèi avevano bisogni simili a quelli umani e l'umanità era stata creata per soddisfare questi bisogni: per costruire 'case' (lo stesso termine indicava le dimore degli uomini e quelle degli dèi) per gli dèi e per fornire loro tutto il necessario. Gli uomini avevano il compito di coltivare la terra, vivere in città e, in generale, di sviluppare la loro civiltà in modo da poter consentire agli dèi un alto tenore di vita.
Il II millennio
Il pantheon sumerico fin qui descritto aveva assorbito influssi dalla cultura semitica. Le regioni settentrionali erano di lingua semitica e una dinastia accadica semitica aveva governato tutta l'area tra il 2300 e il 2200 ca., non apportando, però, alcun cambiamento sostanziale in ambito religioso. Intorno al 2000, l'intera area della Bassa Mesopotamia, subì l'invasione e l'immigrazione degli Amorrei, nomadi provenienti dalla Siria, che discesero l'Eufrate. Essi non parlavano accadico, cioè la lingua dei Semiti già presenti nella regione, bensì un idioma semitico piuttosto simile a una forma primitiva di ebraico. Questi nuovi arrivati assunsero il comando del paese insediandosi nelle città e creando nuove dinastie in una terra ancora una volta costituita da città-stato. Di solito, essi si limitavano ad accettare il sistema religioso preesistente, importando alcune usanze proprie e, presumibilmente, equiparando i loro dèi a quelli più simili del vecchio pantheon sumerico.
La situazione cambiò durante il regno di Hammurabi, re di Babilonia (1792-1750), che gradualmente si impadronì di tutta la Mesopotamia meridionale, governandola con efficienza e insieme con giustizia. Le sue imprese politiche richiesero un mutamento religioso; fino a quel momento, infatti, Babilonia era stata una città insignificante e il suo dio tutelare, Marduk, non rivestiva un ruolo importante nel pantheon sumerico. Tuttavia, egli aveva buone possibilità di affermazione, poiché era stato già equiparato ad Asallukhi, un dio dell'area vicina al Golfo Persico, figlio di Enki/Ea della triade sumerica. Questo processo di sincretismo era stato favorito, per lungo tempo, dagli antichi teologi, i quali, infatti, si erano sforzati fin dall'inizio di dare un ordine alla pluralità di divinità dai nomi differenti ma dagli attributi molto simili. Il dio Sole Utu di Larsa era sempre stato equiparato al dio Sole Shamash di Sippar. Un'altra coppia simile era costituita da Ningirsu di Girsu/Lagash e Ninurta di Nippur.
Nel corso dei millenni i teologi continuarono questo processo di assimilazione e in tal modo fecero ordine nel pantheon, riducendo il numero totale di dèi. Si verificarono in tal modo cambiamenti nelle relazioni familiari e nei relativi status, in particolar modo tra le divinità minori. In questo contesto, Hammurabi volle elevare Babilonia al ruolo di città preminente in ambito teologico come correlativo della supremazia politica della città; perciò nel prologo del suo codice di leggi si afferma che Anu ed Enlil promossero Marduk, il più importante figlio di Enki/Ea, al rango di uno dei "grandi dèi" e gli affidarono la supremazia sugli uomini. Si trattava di un cambiamento limitato che, a quanto pare, fu accettato e risultò sicuramente duraturo. Nessuno dei suoi successori riuscì a eguagliare Hammurabi, ma Babilonia rimase la capitale della regione.
La successiva dinastia di sovrani cassiti al suo arrivo nel paese seguiva una propria religione, come era già avvenuto per gli Amorrei. I Cassiti, però, pur continuando ad adorare una loro coppia di dèi (Shuqamuna e Shimaliya), forse in un tempio all'interno del palazzo, non fecero alcun serio tentativo per modificare le istituzioni religiose esistenti. L'innovazione di Hammurabi, tuttavia, aveva spinto i teologi babilonesi a considerare la possibilità che Marduk, come patrono della capitale, potesse essere posto a capo del pantheon. Il concetto di 're degli dèi' circolava al tempo di Hammurabi, al di fuori però dei testi religiosi ufficiali ed era forse un'idea semitica più che sumerica. Durante il periodo cassita, voci non ufficiali dichiaravano Marduk 're degli dèi', ma in quell'epoca non avvenne nulla, forse perché i sovrani cassiti non erano interessati a riforme religiose.
La dinastia cassita fu cacciata nel 1150 a.C. ca. e il suo posto fu occupato da una dinastia babilonese locale, la II dinastia di Isin. Gli Elamiti dal Sud-est dell'Iran avevano dato la spinta finale per far cadere i Cassiti e la statua del dio Marduk era stata rimossa dal suo tempio, Esagila, a Babilonia e portata come bottino in Elam. La 'liberazione' dei Babilonesi fornì uno stimolo ai pensatori dell'epoca; il cambiamento dinastico era da attribuire al volere degli dèi, ma Marduk, il dio di Babilonia, per qualche ragione, si era 'assentato'. Il quarto e più fortunato re di questa nuova dinastia, Nabucodonosor I (1125-1104), ristabilì la normalità, con una campagna vittoriosa in Elam e riportò a casa la preziosa statua tra grandi festeggiamenti; in quest'occasione, Marduk venne dichiarato per la prima volta ufficialmente 're degli dèi'. Il vecchio consiglio sumerico composto da tre o quattro divinità scomparve definitivamente; questo cambiamento rivoluzionario naturalmente non fu ben accolto ovunque, in particolare non a Nippur, ma risultò duraturo. Esso dimostra quanto le realtà cosmiche rappresentate dagli dèi avessero ceduto il passo all'odium theologicum e alla politica.
Il I millennio
All'inizio del I millennio a.C. si verificò un grande afflusso di nomadi aramei nella regione, i quali s'insediarono in un primo momento fuori dalle città, ma nel corso dei secoli successivi, si integrarono con la popolazione sedentaria babilonese; i culti locali probabilmente non ne furono influenzati. La situazione religiosa creata da Nabucodonosor I perdurò sino alla fine dell'Impero neobabilonese, ma con due sviluppi, il primo dei quali vide un'espansione della supremazia di Marduk da un punto di vista puramente teologico, che non si tradusse necessariamente in un impatto sul culto. L'assimilazione di un dio a un altro era stata praticata fin dal III millennio, all'inizio semplicemente per dare ordine a un insieme piuttosto disordinato di divinità venerate nei numerosi culti cittadini, ma il processo poteva essere utilizzato come una forma di imperialismo religioso. Un dio più importante, dopo l'identificazione con un dio minore, si sostituiva a questo e ne assumeva nome e culto. Questo procedimento fu applicato a Marduk nella prima metà del I millennio a.C. e forse anche prima. Una lista identifica i principali dèi del pantheon babilonese con Marduk: "Enlil è Marduk della signoria e della consultazione, Shamash è Marduk della verità" (Lambert 1975, pp. 197-198); lo stesso procedimento è documentato in un inno babilonese a Marduk. Tutto questo rappresenta un passo in direzione del monoteismo; i principali dèi babilonesi sono, infatti, dichiarati semplici aspetti di Marduk (naturalmente sono esclusi demoni e dee). Tale sviluppo è strettamente teologico e non sappiamo in qual modo fu generalmente compreso e accettato; per esempio, i culti di Enlil e Shamash proseguirono a Nippur e a Sippar come prima.
Un secondo sviluppo, nel corso del I millennio, riguarda il dio Nabu: in origine, era forse il dio di Borsippa, una piccola città vicina a Babilonia; in età paleobabilonese, fu talvolta equiparato a Marduk, ma sopravvisse come divinità distinta, divenendo funzionario o figlio del dio di Babilonia e rimase nella tradizione religiosa con quest'ultimo attributo. Per ragioni che ignoriamo, la sua popolarità aumentò nel corso dei secoli e all'epoca dell'Impero neobabilonese (727-539) egli era considerato pari al padre. Pertanto, la lista che dichiara: "Nabu è Marduk della contabilità" (la scrittura era sempre stata un suo attributo) contrasta con la relazione di parentela ufficiale tra i due dèi conosciuta in età neobabilonese.
L'ultimo re di Babilonia, Nabonedo (555-539), provocò un sommovimento religioso; influenzato, sembra, dalla madre, egli tentò di porre il dio Luna Sin a capo del pantheon, al posto di Marduk. I sacerdoti di Marduk e anche di altre divinità, si opposero strenuamente e, in seguito a ciò, il re si allontanò per dieci anni stabilendosi in Arabia, mentre suo figlio Belshazzar assumeva la funzione di reggente. Il tentato rivolgimento ai vertici del pantheon fallì e molto presto i Persiani sotto il comando di Ciro conquistarono l'Impero neobabilonese, mentre Babilonia si avviava a un lento declino.
L'antica religione mesopotamica si è dunque sviluppata a partire da una meditazione cosmica sull'Universo; in seguito, le concezioni antropomorfiche hanno avuto il sopravvento sulle realtà cosmiche e, infine, sono prevalsi interessi teologici di ordine politico.
L'Assiria
Sebbene l'Assiria facesse parte del medesimo mondo mesopotamico, in origine presentava caratteristiche diverse. La religione assira si basava su una combinazione di divinità di ambito regionale, adorate anche altrove, con a capo un dio tipicamente assiro, Assur, il cui nome coincideva con quello dello Stato. Assur era il nome di una collina sulla riva occidentale del Tigri; a quel tempo, in Mesopotamia settentrionale e in Siria esisteva una tradizione di colline, fiumi e venti divinizzati che si estinse alla fine del II millennio.
Questi aspetti naturali non erano di norma soggetti all'antropomorfismo che caratterizzava la religione della Mesopotamia meridionale. Una delle due principali città assire era Assur, eretta sull'omonima collina (l'altra era Ninive, la cui divinità principale era Ishtar). Nella prima metà del II millennio, gli Assiri consideravano collina e dio come un'unica entità. Tuttavia, il culto di Stato richiedeva un'entità meno astratta di una collina divinizzata, pertanto si tentò di rendere il dio un essere più personale. Furono presi come modello dapprima il dio Enlil e, in seguito, Marduk; il culto di Assur e la religione assira in genere, però, non furono mai organizzati in un sistema omogeneo come la religione babilonese.
Un testo datato al regno di Sennacherib (705-681) dimostra come, persino in questo periodo tardo, si dibattesse se attribuire alla dea Sherua il ruolo di sposa o quello di figlia di Assur. In teoria, Assur era a capo dello Stato e il re governava in sua vece, ma dopo il 1400 di fatto il carattere poco definito del dio Assur si adattò all'etica dell'aristocrazia militare dominante.
La cultura della Mesopotamia meridionale era comunque più sofisticata di quella assira e, quando l'Assiria divenne più potente e ricca, iniziò a importare la cultura babilonese. Il re assiro Tukulti-Ninurta I (1245-1208 ca.) assunse uno scriba babilonese e fece comporre testi bilingui sumero-babilonesi per la propria glorificazione. Così, accanto a pratiche cultuali tipicamente assire, si sviluppò un'ideologia talmente influenzata dal pensiero babilonese da rendere difficile l'individuazione di una teologia propriamente assira. La situazione condusse, inoltre, a varie controversie; alcuni Assiri tenevano in così gran conto gli dèi babilonesi da suscitare dubbi sulla loro devozione nei confronti dei propri dèi assiri, mentre altri, considerando le divinità babilonesi come rivali e nemiche dei loro dèi, erano pronti ad agire in nome di questi ultimi. Due sovrani assiri, Tukulti-Ninurta I e Sennacherib, saccheggiarono Babilonia e portarono via la statua sacra di Marduk; Sennacherib, in particolare, perseguì un progetto teologico di sostituzione di Marduk con Assur.
La Siria
Per quanto riguarda la regione che comprende la moderna Siria, il Libano, Israele e la parte settentrionale della Giordania, essa era omogenea dal punto di vista sia linguistico sia culturale, con differenze locali; non costituì mai un'unità politica prima del 500 a.C., tranne nei momenti in cui venne inglobata nell'Impero assiro e poi in quello babilonese. Anche la sua religione si sviluppò in maniera frammentaria e non fu mai soggetta né all'organizzazione intellettuale imposta al pantheon sumero-babilonese, né al tipo di pressioni politiche che lo Stato assiro esercitava sulle proprie divinità. A causa della mancanza di testi esplicitamente religiosi provenienti dall'area, ne sappiamo relativamente poco; inoltre tratteremo soltanto il periodo che va dal 2500 al 1000 ca., perché non siamo in possesso di informazioni più antiche e perché nel 1000 a.C. un'immigrazione di Aramei nella regione modificò la situazione al punto che gli sviluppi nel I millennio a.C. in Fenicia e in Israele fanno riferimento a mondi culturali diversi (v. oltre: par. 3).
Nel periodo indicato, ogni zona e ogni città principale possedeva divinità proprie e riti tradizionali, dei quali sappiamo poco; esistevano, tuttavia, alcuni dèi venerati in tutta la regione, in santuari locali. Sono quattro le città principali di cui ci sono noti resti di edifici religiosi, artefatti e documenti. Ebla, a sud di Aleppo, fiorì nel terzo quarto del III millennio e i suoi archivi palatini hanno fornito informazioni sulle divinità adorate nella città e nella regione, a spese dello Stato: la più importante era una divinità maschile, Kura, il cui nome è sconosciuto altrove e i cui attributi sono finora altrettanto ignoti. Un'altra importante divinità era Itabal (nome che forse è da leggersi Itakul), anch'essa sconosciuta al di fuori della zona di Ebla; è possibile tuttavia che entrambi gli dèi siano documentati altrove con nomi diversi.
La seconda fonte d'informazioni è l'archivio del palazzo di Mari, una città sull'Eufrate un po' più a monte dell'attuale confine siro-iracheno, che ha fornito un gran numero di documenti amministrativi e di lettere, datati al periodo che va dal 2000 al 1700 ca. Più a nord sull'Eufrate, la città di Emar ha restituito una documentazione che risale principalmente al XIII sec. e include sia documenti amministrativi e legali sia testi con descrizioni particolareggiate di riti locali. A Ugarit, infine, sulla costa siriana, al confine settentrionale della moderna Latakia, si sono trovati testi contemporanei a quelli di Emar che comprendono documenti amministrativi, miti in forma letteraria e anche testi rituali e liste di divinità.
Nel periodo in considerazione ebbero luogo due migrazioni nell'area siriana, vale a dire quella degli Amorrei nel 2000 ca. e quella degli Hurriti, un popolo non semitico, probabilmente proveniente dal Kurdistan, tra il 1800 e il 1600 ca. Ogni gruppo possedeva la propria religione, ma pare che quella amorrea abbia avuto un impatto minore sui culti siriani preesistenti, forse a causa della somiglianza culturale tra le popolazioni sedentarie e i nuovi arrivati.
Tra le divinità principali, il dio della tempesta ‒ Adda a Ebla, Addu a Mari, Baal ('Signore') a Emar e Ugarit, Hadad o Baal tra gli Israeliti ‒ era il dio siriano forse più largamente venerato. Egli elargiva la pioggia per i raccolti e, in questo senso, era un dio della fertilità. Poiché il rombo del tuono era paragonato al muggito di un toro, il dio stesso era paragonato al toro e nella mitologia era anche il principale uccisore del drago. La dea più importante era Ashtar a Ebla, Ishtar a Mari, Astarte a Ugarit. Essa era l'equivalente siriano della babilonese Ishtar, dea della sensualità e della guerra, ma esisteva anche una dea Anat o Khanat, dai medesimi attributi, attestata per la prima volta a Mari e forse di origine amorrea. A quel tempo sembra che le due dee non fossero identificate, ma la successiva scomparsa di Anat potrebbe rappresentare il risultato di un tale sincretismo.
Un altro dio importante era Dagan, il cui principale centro di culto era Tuttul, sul basso Balikh. Egli era già ben noto a Ebla dove veniva venerato di solito con il nome di 'Signore di Tuttul'. Più o meno nello stesso periodo, il suo nome è presente in documenti provenienti dalla Mesopotamia meridionale, dove egli sarà alla fine identificato con Enlil, confermando così il suo alto rango. I suoi attributi sono piuttosto oscuri; secondo alcuni indizi, si tratterebbe forse di un altro dio della tempesta, ma si devono attendere informazioni più esplicite. Ancora più misterioso è il sommo dio El, ben noto a Ugarit dove figura come padre degli dèi. Tuttavia, egli è totalmente assente a Ebla e, a quanto pare, anche nella Mesopotamia meridionale dello stesso periodo. Potrebbe forse essere paragonato al sumerico An, 'Cielo', oscuro o assente nei tempi più antichi, ma in seguito considerato a capo del pantheon. Forse El, che è anche un nome comune col significato di 'dio', ebbe uno sviluppo simile assumendo il ruolo di capo del pantheon siriano.
di Alfonso Archi
Nella visione del mondo hittita, gli dèi erano presenti nella Natura e nei suoi fenomeni; sovrastavano l'uomo e ne condizionavano il destino favorendolo o nuocendogli. Ciò costringeva a definire le loro funzioni, a stabilirne le aree di influenza e i nessi che intercorrevano tra loro, a prendere conoscenza delle loro esigenze.
La geografia del divino va di pari passo con il grado di complessità dell'aggregazione sociale e politica; quella anatolica del XIV-XIII sec. (l'età imperiale), nonostante i rimaneggiamenti, conservava comunque la memoria della situazione antecedente all'unificazione del paese sotto la dinastia hittita. In generale ogni divinità risiedeva presso il suo centro di culto e, originariamente, ogni città o villaggio aveva almeno una divinità maschile e una femminile, spesso espressioni di forze naturalistiche; questa diade era poi completata dalle circostanti montagne (maschili) e fonti (femminili) divinizzate. È un quadro che risulta dagli inventari di culto, che si datano agli ultimi decenni del XIII sec., ma riflettono un ordinamento antichissimo.
Oltre a un tempio nella città o nel villaggio, alle divinità era dedicata anche una stele (in hittita ḫuwaši) collocata su una montagna o comunque in quei luoghi dove si riteneva che esse soggiornassero abitualmente; ogni primavera vi si conduceva in processione il loro simulacro come per reintegrarlo della forza numinosa. Presso la stele era posto un píthos dove si versava orzo durante un'analoga processione autunnale. Con la farina ottenuta da quest'orzo, conservato durante l'inverno, si preparava il pane che era distribuito per il pasto dell'assemblea, assicurando così la continuità del ciclo agricolo.
Il benessere di una comunità si fondava sulla presenza del dio, che veniva appagato con offerte ordinarie a cadenza quotidiana, mensile e annuale, e con donativi particolari. Ogni sforzo tendeva a convincere gli dèi che era per loro vantaggioso risiedere nel paese hittita: "solo quella di Khattusha è per voi una regione pura; solo nel paese di Khatti non si cessa di presentarvi sacrifici puri, cospicui, desiderabili; solo nel paese di Khatti vi sono per te templi adorni d'argento e d'oro" (Lebrun 1980, p. 143 e p. 167).
Se lo Stato si ampliava, venendo in contatto con culture differenti, occorreva recepirne gli dèi, talvolta come figure indipendenti, ma in genere assimilandoli a quelli del proprio pantheon.
La necessità di mantenere gli dèi entro il territorio della comunità è espressa nel mitologhema del 'dio scomparso', di gran lunga il più diffuso perché riferito a divinità diverse: Telipinu, che presiedeva alla prosperità della Natura, alcune ipostasi del dio della Tempesta, il Sole, le divinità personali. Questo mitologhema è espresso, per esempio, in una narrazione mitologica, parte integrante di un rituale di esorcismo, che racconta come il dio, offeso, si fosse allontanato su tutte le furie portando con sé ogni fonte di benessere; il Sole, invece, aveva sottratto semplicemente il calore. Così gli uomini e gli animali non si riproducevano più, la Natura s'inaridiva e perfino gli dèi rischiavano di morire perché mancavano loro le offerte degli uomini. Risultata vana ogni ricerca, Khannakhanna, la 'grande Madre', convince gli dèi a inviare l'ape, l'essere più piccolo, che sola è in grado di trovare lo scomparso. Ridestato dalla puntura del suo pungiglione, il dio fa per allontanarsi furibondo, ma Kamrushepa, la dea della magia, compie il rituale di riappacificazione. A questo punto il piano mitologico si confonde con quello umano, e nella recitazione la maga che celebra il rituale per esorcizzare il proprio paziente si sostituisce alla dea (Pecchioli Daddi 1990, pp. 57-108). Di origine hattica è non soltanto l'idea che il rituale sia stato fondato dalla dea (in hattico a Kamrushepa corrisponde Katakhzipuri), ma anche la dimensione cosmica che la sventura di un singolo viene ad assumere attraverso il mito. Tre versioni del mito si riferiscono a Telipinu, che è un dio hattico; e parte integrante di un altro rituale è il mito in hattico (con traduzione hittita) della 'Luna che cadde dal cielo', dove per un'altra catastrofe cosmica (appunto, la scomparsa dell'astro), si fa ancora ricorso a Katakhzipuri/Kamrushepa (ibidem, pp. 109-114).
La minaccia dell'abbandono da parte degli dèi rimarrà una preoccupazione costante. Secondo una tradizione meridionale (dal paese di Kizzuwatna), i rituali celebrati per convincere le divinità tutelari a tornare abbandonando "la morìa, l'inimicizia, la carestia" nei paesi stranieri (Lebrun 1980, p. 161), prevedevano che si preparassero nove strade con stoffe di diverso colore, in modo che il loro piede non incontrasse il minimo ostacolo (Haas 1994, p. 171).
La formazione del pantheon
Le fonti scritte provengono dalla capitale hittita, Khattusha, e coprono oltre quattro secoli (archivi provinciali, rinvenuti in anni recenti, non aggiungono molto). Lo Stato hittita si formò verso la metà del XVII sec. nutrendosi della cultura del sostrato rappresentato dagli Hatti. Oltre agli Hittiti, stanziati sull'altopiano centrale, erano di lingua indoeuropea anche i Luvii a meridione, e i Palaici a Nord-Ovest. Nell'Anatolia orientale si trovavano da tempo stirpi hurrite, provenienti dalla regione caucasica. Alcune descrizioni di feste tengono distinte (pur con qualche contaminazione) queste diverse tradizioni, quando prescrivono invocazioni agli dèi nella loro lingua di culto: 'in hattico' (ḫattili), 'in hittita' (nešili, dalla città di Kanesh/Nesha), 'in luvio' (luwili), e così via.
Al gruppo hattico appartengono il dio della Tempesta, Taru, e la dea Sole, Eshtan (talvolta rappresentata dall'epiteto Wurunzimu 'spirito/madre della Terra'). Una litania enumera una lunga lista di divinità che ricevono due nomi, il primo dei quali vale "tra gli dèi", e il secondo, in genere un epiteto, "tra gli uomini", forse un tentativo di sostituire, con una denominazione concreta e comprensibile agli uomini, dei nomi che di per sé avevano valore soltanto sul piano cosmico (Laroche 1947, pp. 187-216).
Alla testa del pantheon palaico era Zaparwa, tipologicamente un dio della Tempesta, recepito dal sostrato; la divinità solare portava invece un nome indoeuropeo: Tiyat, corrispondente al luvio Tiwat (hittita siwatt- 'giorno'; derivato dall'indoeuropeo *diēu- 'cielo'). Il dio della Tempesta luvio e hittita era Tarkhun(t) (licio trqqnt), 'Vittorioso', dalla radice tarḫ- 'vincere'.
Unificando sotto il loro dominio i centri urbani hattici, gli Hittiti fecero del pantheon una struttura ideologica adeguata al nuovo Stato. Le divinità locali furono assimilate e organizzate gerarchicamente, ponendo alla loro testa la maggiore divinità hattica, la dea Sole, che prese l'epiteto 'di Arinna' dal suo più celebre santuario. In questa figura dovette confluire l'antica credenza indoeuropea di un dio maschile del cielo e della luce (Zeus, Diēspiter). Accanto a lei fu innalzato il dio della Tempesta, il cui nome hattico fu sostituito da un epiteto trasparente; il suo maggiore centro di culto divenne Khattusha.
La commistione tra la tradizione hattica e quella hittita è verificabile già nell'iscrizione di Anitta, un principe di lingua hittita che nella prima metà del XVIII sec. estese la sua egemonia su parte dell'altopiano centrale. Le divinità che vi compaiono sono tre: il dio della Tempesta Tarkhun, la divinità solare, e Khalmashuit, il termine hattico per trono (divinizzato) col suffisso -it che ne determina il genere femminile. La dea tutelare della regalità era dunque hattica, e l'opzione di associare il dio dei fenomeni atmosferici a una divinità solare era condizionata dal fatto che Taru ed Eshtan/Urunzimu erano le due maggiori divinità hattiche. La consuetudine di scrivere taluni nomi divini con logogrammi sumerici (sumerogrammi, trascritti in maiuscolo), invece che con grafie fonetiche, può avere promosso l'identificazione di divinità simili; in questo specifico caso però ci preclude la conoscenza del nome della divinità espresso col sumerogramma per 'Sole', UTU. In particolare sfugge se si tratti di una divinità femminile o invece maschile (almeno dalla fine del XV sec. gli Hittiti venerarono anche una divinità solare maschile, la cui figura risente molto dell'influenza babilonese); a essa comunque Anitta sembra attribuire l'epiteto di 'nostro dio', šiu-šummi.
Il pantheon hittita acquisì divinità hattiche, che mantenevano sostanzialmente i loro caratteri originari. Santuari prehittiti come quelli della dea Sole ad Arinna, e del dio della Tempesta a Nerik e Zippalanda, ottennero uno statuto speciale da parte di Khattushili I. Nel rituale di lustrazione della coppia reale, il dio della Tempesta Tarkhun (equiparato a Taru) e la dea Sole di Arinna figurano come le due divinità maggiori (le altre sono la hittita Khantashepa 'il Genio che sta innanzi', e la hattica Inar). In un altro rituale, il dio della Tempesta è associato al dio hattico, Washezzili, e la dea Sole di Arinna a Mezzulla (presente in numerosi rituali antichi, e che testi posteriori qualificano come sua figlia). La festa del 'mercato', KI.LAM (la cui importanza è provata da un'ampia tradizione manoscritta), si caratterizza per un pantheon in prevalenza hattico. Anche quello palaico si costituì tramite assimilazione, dato che delle dieci divinità canoniche almeno quattro erano hattiche.
Già verso gli ultimi decenni del XVII sec., con le spedizioni nella Siria settentrionale di Khattushili I e Murshili I, gli Hittiti vennero in contatto con centri hurriti, dai quali depredarono, tra l'altro, statue di divinità che dedicarono ai propri dèi, deponendole nei loro templi; è però nei decenni tra il XV e il XIV sec. che iniziò una vera invasione culturale hurrita, la quale comportò anche l'introduzione di divinità originariamente babilonesi come Ningal, la sposa del dio Luna Sin, che è un elemento dei nomi hurriti delle regine Nikalmati e Ashmunikal, le quali si succedettero accanto ai primi re di quel periodo: Tudkhaliya I e Arnuwanda I. Una volta in contatto con la cultura accadica già verso la fine del III millennio, gli Hurriti assimilarono diverse divinità mesopotamiche, alcune delle quali furono incluse nel pantheon di Kizzuwatna, da dove gli Hittiti le recepirono. Kumarbi (bandito negli Inferi) fu equiparato a Enki/Ea mesopotamico e a Dagan dei Semiti di Siria, e il babilonese Marduk al luvio Sanda.
Alcuni rituali, come quello di purificazione per Tashmisharri, che regnò col nome di Tudkhaliya (II), e per la sua sposa Tadukhepa, sono in hurrita. Venne allora introdotto (e tradotto) anche un testo letterario complesso come l'Epos della liberazione, che nello stile si rifà a modelli babilonesi, e come il Ciclo di Kumarbi (giunto a Khattusha in quei decenni), che disegna le funzioni e i rapporti tra le divinità che mette in gioco. L'Epos ha per teatro la Siria settentrionale e Teshup, che funge da deus ex machina, cerca di liberare con l'aiuto di Ishkhara, la dea di Ebla, alcuni sovrani là prigionieri.
Notevoli acquisizioni di documenti religiosi hurriti si ebbero anche con i sovrani successivi, alcuni militarmente attivi nella Siria settentrionale, e che comunque tenevano in grande considerazione i santuari hurritizzati della regione dell'Antitauro. L'ultima ondata di importazioni hurrite è quella del tempo di Khattushili III (1275-1260), che scelse come divinità tutelare Shaushka (fatta equivalere dagli Hurriti alla mesopotamica Ishtar) e sposò Pudukhepa, la figlia del sacerdote di Khepat di Lawazantiya; a lei si devono copie di testi cultuali di Kizzuwatna fatte preparare per gli archivi della capitale.
Il pantheon
Gli dèi erano entità cosmiche (Sole, Luna, cielo), espressioni della Natura, realtà geografiche (monti, fiumi, fonti, mare), luoghi e oggetti divinizzati. Nei trattati politici, dove gli dèi sono chiamati come testimoni, non volendo escluderne nessuno, se ne conclude l'elenco invocando impersonalmente "i mille dèi di Khatti". Essi si dividono tra "grandi dèi [e] piccoli dèi"; "dèi del cielo [e] dèi della Terra", "divinità maschili [e] divinità femminili".
Mentre le feste celebravano le divinità venerate localmente, durante il regno di Shuppiluliuma I (1370-1342) fu fissato, in funzione dei trattati, un canone degli dèi principali che rimase sostanzialmente valido fino alla fine dell'impero (Gurney 1977, pp. 4-24).
Apre l'elenco il dio Sole maschile, i cui epiteti mostrano come questa figura fosse stata introdotta dalla Mesopotamia attraverso una scuola scribale siriana. Egli corrisponde al babilonese Shamash, e la sua teologia è chiarita in una preghiera tradotta dall'accadico: "Sole, mio signore, giusto signore di giustizia, re del cielo e della Terra, tu sei benigno col paese, tu solo concedi il valore, tu solo nella tua giustizia ti prendi misericordia, […] tu solo fissi i costumi e le leggi" (Lebrun 1980, p. 101).
Nei trattati con gli Stati siriani, dove comparivano anche le divinità del paese contraente, gli Hittiti non potevano non contrapporre, data la sua valenza cosmica, un dio Sole totalmente assimilabile a quello siro-babilonese (si tenga comunque presente che, invece, nella Siria del III millennio, come è testimoniato da Ebla, la divinità solare era femminile, come ancora a Ugarit in età hittita). Il Sole apre anche l'elenco degli dèi in alcune preghiere, ma è assente nei documenti di culto, e alla testa delle divinità che aiutano i re in battaglia (da Tudkhaliya I a Murshili II) compare la dea Sole di Arinna insieme al dio della Tempesta di Khatti. A questa divinità, creata sostanzialmente per una sistematizzazione teologica, le liste fanno seguire la dea Sole di Arinna, la maggiore divinità hittita, che mantiene il nome hattico (tematizzandolo in -u), Ishtanu, la quale al carattere astrale aggiungeva quello ctonio, come mostra il suo epiteto Urunzimu 'madre/spirito della Terra', forse suggerito agli hatti dall'idea (diffusa in più culture) che nella notte il Sole percorresse una via sotterranea per tornare al cielo. Mezzulla è sua figlia e il dio della Tempesta è considerato il suo sposo, forse per dare un ordinamento razionale del pantheon.
Viene poi una lunga lista di dèi della Tempesta: quello del cielo, che è un'astrazione, e tutti gli altri qualificati da luoghi di culto; il primo è il dio della Tempesta di Khatti, venerato a Khattusha e maggiore divinità maschile, poi quelli di Nerik, di Zippalanda e anche di Aleppo. Questa città, entrata stabilmente nella sfera hittita con Shuppiluliuma, era già al tempo di Ebla (XXIV sec.) sede di culto del celeberrimo semitico dio della tempesta Hadda, divenuto nei primi secoli del II millennio la divinità più importante degli Amorrei. Gli Hurriti lo identificarono con Teshup, perché di morfologia analoga, a sua volta equiparato dagli Hittiti a Tarkhun. Per questo, in certi trattati compaiono anche i tori Sheri e Khurri, che trascinavano il carro celeste di Teshup, le montagne Namni e Khazzi, a lui sacre, e la sua sposa Khepat, originariamente paredra di Hadda (il nome significa 'la Dama di Aleppo').
Taluni dèi tutelari sono indicati col sumerogramma KAL: quelli di Khatti, dello scudo, della campagna (vale a dire della Natura incontaminata, il cui animale sacro era il cervo). Altri col nome proprio: Zitkhariya e Karzi o la dea Khapantaliya (l'elemento -šepa/-zipa formava diversi nomi divini riferiti a geni tutelari, come Miyatanzipa 'genio tutelare della crescita', o Daganzipa 'genio della Terra'; in epoca tarda anche KAL equivaleva a genio, e una lista elenca decine di questi geni: 'della salute', 'della conciliazione', 'dell'arco', 'della faretra', e così via); Telipinu, un dio della Vegetazione di origine hattica, nelle tre ipostasi di Tawiniya, Turmitta e Khankhana, suoi centri di culto; la coppia Pirwa (il cui animale sacro era il cavallo) e Ashkashepa (il genio tutelare della porta); la hurrita Shaushka (equiparata a Ishtar) con le due paredre Ninatta e Kulitta; Arma (il dio Luna) e la dea Ishkhara (di origine siriana), ambedue protettori dei giuramenti; il gruppo degli dèi della guerra, espressi dal sumerogramma ZABABA, ai quali appartengono anche Yarri, Zappana e talvolta Khashameli, la divinità invocata dagli eserciti in territorio nemico per le sue proprietà di rendere invisibili.
A questo punto è inserito Ea con la sua sposa Damkina, del quale gli Hittiti presero conoscenza attraverso i miti hurriti; oltre che essere il dio della saggezza, secondo la concezione sumero-accadica egli assicurava la perennità delle acque dolci, e risiedeva nelle profondità della Terra. Per attrazione, le liste enumerano accanto a lui Allatum che sta per Lelwani (le due grafie si alternano). Mentre Allatum era per i Babilonesi la regina degli Inferi, Lelwani, che pur faceva parte del gruppo di divinità del mausoleo reale, garantiva salute e lunga vita, ritardava insomma la discesa nell'aldilà. Si ha poi un gruppo di divinità locali: Khantitashshu (un epiteto che significa 'Il più forte'), Apara, Kattakhkha (in hattico 'Regina'), nelle sue diverse ipostasi determinate dai luoghi di culto, Ammamma, e altre ancora. Si aggiungono gli dèi di truppe mercenarie di origine straniera: i Lulakhkhi e i Khapiri.
Infine si hanno le divinità del mondo sotterraneo introdotte da Ereshkigal, la regina degli Inferi dei Sumeri, che qui sta per l'anatolica dea Sole della Terra (i due nomi si alternano, mentre Allatum, che in Mesopotamia corrisponde a Ereshkigal, in Khatti, come si è visto, è la grafia accadica per Lelwani). Si tratta di dodici 'divinità primigenie' i cui nomi sono deformazioni di nomi divini sumerici, a parte due remoti dèi del pantheon mesopotamico, con le loro paredre: Anu (il Cielo) e Antu, Enlil (il padre degli dèi sumerico) e Ninlil. In chiusura vengono le montagne, i fiumi (il trattato con lo Stato hurrita di Mitanni include anche il Tigri e l'Eufrate), le sorgenti, il Grande Mare, il cielo e la Terra, i venti e le nuvole.
Se questa lista offre una sistematizzazione del pantheon su base funzionale, una lunga preghiera di Muwatalli (1310-1280) elenca gli dèi secondo un ordinamento geografico che include decine di località (Singer 1996, pp. 171-177). La parte iniziale dell'invocazione riflette comunque l'ideologia religiosa di uno Stato che ormai includeva stabilmente ampie regioni hurritizzate. Si tratta di una preghiera da recitare "in caso di necessità", vale a dire per qualsiasi situazione di emergenza, e ciò ne può spiegare l'ampiezza; in altre preghiere con finalità definite la lista è molto ridotta.
Due preghiere più antiche (da datare a Shuppiluliuma I) sono rivolte soltanto alla dea Sole di Arinna e "agli dèi" (Gurney 1940). Una di Murshili I mostra la già profonda influenza hurrita: per primo è nominato il dio Sole del cielo (come nella lista dei trattati); seguono la dea Sole di Arinna con la figlia Mezzulla e la nipote Zintukhi; gli dèi della Tempesta di Khatti e Zippalanda; Teshup di Aleppo con i tori Sheri e Khurri, e la sua sposa: Khepat di Kummanni (che prende il nome dalla capitale sacra di Kizzuwatna) (Sürenhagen 1985, pp. 6-7). Sono gli stessi dèi che introducono la grande lista nella preghiera di Muwatalli, ed è chiaro come il dio Sole del cielo sia semplicemente il riflesso della dea Sole hattico-hittita, poiché in apertura, nel descrivere la preparazione delle offerte, si dispongono due tavole "di fronte al Sole": "una per la dea Sole di Arinna" (considerata dunque la divinità suprema) e "l'altra per gli dèi virili"; poi però si recita: "Dio Sole del cielo e dea Sole di Arinna, mia signora, regina" (Singer 1996, p. 31).
La speculazione teologica vedeva nella dea Sole di Arinna la sposa del dio della Tempesta; il fatto che questi fosse stato identificato con Teshup di Aleppo, la cui consorte era Khepat, portò poi all'equiparazione delle due dee, anche se in genere appaiono elencate singolarmente. Per la regina Pudukhepa il sincretismo stava in questi termini: "Dea Sole di Arinna, mia signora, regina di tutti i paesi, nel paese di Khatti tu porti il nome di dea Sole di Arinna, ma in quello che per opera tua è il paese dei cedri [= la Siria], tu porti il nome di Khepat!" (Lebrun 1980, p. 336).
Nelle descrizioni di feste invece, i pantheon di Khattusha e degli altri centri di culto dall'Anatolia centrale rimangono sostanzialmente quelli della tradizione hattico-hittita, pur accogliendo divinità hurrite come Ishtar/Shaushka e Khepat. Mentre Pudukhepa introduceva riti hurriti, Khattushili, che pur aveva scelto come divinità personale Shaushka di Shamukha, restaurava il santuario hattico del dio della Tempesta di Nerik. Con la generazione seguente, quella di Tudkhaliya, loro figlio, il culto hurrita trova il suo pieno riconoscimento anche nella capitale. Il pantheon, che numerosi testi descrivevano come diviso in una cerchia maschile e una femminile, fu raffigurato nel santuario rupestre di Yazilikaya (nelle adiacenze di Khattusha), vero monumento della religione di Stato. Qui ciascuna divinità è determinata con un nome hurrita espresso in scrittura geroglifica. La scena centrale presenta Teshup e Khepat affrontati; accanto a ciascuno di essi è il loro figlio Sharruma, che Tudkhaliya scelse come sua divinità tutelare. Il corteo maschile è composto da Tashmishu "il fratello amato di Teshup", Kumarbi, "il padre degli dèi" che fu detronizzato da Teshup, il dio della saggezza Ea, Shaushka nella sua forma maschile, seguito da Ninatta e Kulitta, il dio Luna e il dio Sole del cielo e infine, dopo altri ancora, i dodici dèi degli Inferi. In quello femminile, a Khepat seguono le dee del destino, una serie di paredre e dee minori (Bittel 1975).
Dèi e uomini
Gli dèi hanno, antropomorficamente, un corpo e un'anima e, pur abitando il cielo sempre che non siano dei genii locorum, hanno come residenza il tempio per ricevere gli atti di culto. Agli uomini è concesso di accostarsi attraverso i riti agli dèi che, puri e dotati di vitalità, pretendono uno stato di purezza. La visione delle relazioni tra gli uomini e gli dèi si modellava sui rapporti sociali:
Forse che la disposizione dell'anima degli dèi è diversa da quella degli uomini? Per nulla! Questa disposizione è la stessa. Quando un servo si presenta al padrone, è lavato, vestito con abiti puliti, e gli offre da mangiare o da bere. […] Se invece un servo provoca l'ira del suo padrone, allora o lo si uccide, oppure lo si mutila del naso, degli occhi, degli orecchi, e così anche con la sua famiglia. (Dal testo Istruzioni per i sacerdoti, Sturtevant 1935, p. 149)
Un rito particolare metteva in comunione il re e la regina con la divinità: bevendo vino dalla coppa del dio, essi "bevevano il dio". Il re era il rappresentante sulla Terra del dio della Tempesta e della dea Sole di Arinna; perché vi fosse unità di intenti, si auspicava che come le essenze di due bevande mescolate si fondono in una, "così si uniscano l'anima e il cuore della dea Sole degli dèi e del Labarna [=il re]" (Kammenhuber 1971).
Poiché anche gli dèi avevano la necessità di nutrirsi, essi dipendevano dagli uomini come questi dagli dèi. In rappresentanza del loro popolo, "il re tiene il falcetto e la regina la macina: in eterno preparano pane e bevande [per gli dèi]" (Otten 1969, p. 29). Anche il mito riecheggia questa dipendenza reciproca: per sconfiggere le forze del male, personificate dal serpente Illuyanka, il dio della Tempesta deve far ricorso agli uomini, generando un figlio che reintegra il dio ottenendo con l'inganno gli organi a lui sottratti, o (secondo un'altra versione) stringendo alleanza con un uomo al quale la dea Inar aveva concesso i suoi favori (Pecchioli Daddi 1990, pp. 39-55).
Le offerte, i donativi, l'istituzione delle fondazioni di culto rispondevano alla logica del do ut des, talvolta un vero e proprio scambio di cose commensurabili. Per la vita del suo sposo, Pudukhepa ricorreva a questi voti: "Se tu, o dea [= Lelwani] mia signora, manterrai in vita per lunghi anni e in salute la maestà […] ti darò anni d'argento e anni d'oro, mesi d'argento e mesi d'oro, giorni d'argento e giorni d'oro […] e coppe […] e pecore" (Otten 1965, p. 17).
Gli dèi erano i garanti della giustizia: "cercavano [la vendetta per] il sangue" degli uccisi e punivano chi non rispettava i giuramenti. Gli uomini retti erano invece fiduciosi del favore divino: "Dea Sole della Terra, considera con benevolenza il re e presta attenzione al tuo servo […] che il paese prosperi […] che la giustizia sia con te!" (Lebrun 1980, pp. 86-87). Talvolta non si comprendeva pertanto la ragione di certe afflizioni:
Dio mio, da quando mia madre mi fece nascere, sei tu che mi hai fatto crescere […] e io ho riconosciuto la clemenza e la saggezza del mio dio in ogni cosa. […] Mai ho nominato invano il mio dio, mai ho violato un giuramento. […] E se ora dovessi ristabilirmi, non sarebbe grazie alla tua parola? […] La vita è legata alla morte e la morte alla vita. L'uomo non è eterno, ma gli anni della sua esistenza sono contati. Se un uomo vivesse in eterno, e gli sopravvenisse una crudele malattia, che vantaggio ne avrebbe? Che ora il mio dio mi apra il suo cuore e la sua anima, e mi sveli la mia colpa! (Lebrun 1980, p. 116)
Poiché dal punto di vista etico si era giudicati sulla base del proprio operato, il principio della corresponsabilità familiare era come invalidato: "Se suo padre, sua madre, suo fratello ti ha oltraggiato [o dea], tu non tenerne conto". L'evidenza della realtà costringeva però talvolta ad assumersi anche le colpe del padre: "È vero: si pecca. Mio padre ha peccato e ha infranto la parola del dio della Tempesta di Khatti. Io però non ho commesso alcuna colpa! Ma la colpa del padre ricade sul figlio" (Lebrun 1980, pp. 86, 213).
Affrontare una battaglia era come sottoporsi a un giudizio divino; però anche i nemici avevano i loro dèi, che naturalmente stavano dalla parte dei loro protetti, e dunque nutrivano sentimenti malvagi. Se si perdeva un processo significava che si era stati abbandonati a un dio malvagio, quello dell'oppositore.
L'essenza divina è denotata da uno stato di forza e di giustizia sovrannaturale, denominato para handandatar, che a guisa di provvidenza si impone anche tra gli uomini. Strumento ne è il sovrano, che, secondo le narrazioni annalistiche, compie le sue imprese su comando e per conto degli dèi. Khattushili III, che aveva usurpato il trono sottraendolo al nipote, giustifica la sua azione descrivendo l'erede legittimo come indegno della regalità. La sua vittoria sul rivale è presentata come il provvidenziale dispiegarsi della volontà della dea Ishtar: "Di Ishtar voglio narrare la grazia divina [para handandatar], e l'umanità ascolti. E in futuro, il figlio, i nipoti, i discendenti della maestà abbiano, tra tutti gli dèi, particolare venerazione per Ishtar!" (Otten 1981, p. 5).
Questa di avere come dio personale una particolare ipostasi di una divinità maggiore è una concezione che s'era già formata almeno con Muwatalli, il quale venerava come suo dio personale il dio della Tempesta del fulmine. Un rilievo di Yazilikaya, nel luogo destinato ad accogliere l'urna con le ossa di Tudkhaliya IV, rappresenta il re con Sharruma (il figlio di Teshup e Khepat), che, in segno di protezione nel viaggio nell'aldilà, gli passa un braccio attorno alle spalle.
di Lester L. Grabbe
La Bibbia raffigura la religione israelitica come pura, monoteista e differente dai falsi culti praticati da tutti gli altri popoli e nazioni: questa è almeno l'immagine di superficie, ben conosciuta da tutti. D'altra parte, qualora si voglia assumere un punto di vista più ampio, prendendo in considerazione anche i dati forniti dall'archeologia, la pratica religiosa israelitica appare ben inserita nel contesto delle altre religioni semitiche, in particolare quelle della regione semitica nordoccidentale. Con ciò non si vuole negare che la religione israelitica abbia avuto caratteristiche uniche e che si sia nettamente distinta dalle altre religioni; tuttavia questo richiese molto tempo. Lo studio della visione ebraica della divinità, ossia la teologia ebraica, ha come oggetto un processo di sviluppo lungo e interessante e non un'entità statica.
Il dio Yahweh
La divinità associata più frequentemente e fortemente all'antico Israele è Yhwh; non si conosce la precisa pronuncia di questo nome, tuttavia essa è spesso ricostruita come Yahweh ‒ e a quest'uso ci uniformeremo ‒ poiché appare, nei testi posteriori greci e latini, come Iáō (Diodoro Siculo, Bibliotheca, I, 94, 2; Varrone in I. Lydus, De mensibus, 4, 53), e anche per via della forma in cui il nome appare nei nomi teofori contenuti nelle vocalizzazioni masoretiche del testo biblico (-yāhû). Il nome Yahweh è attestato, oltre che dal testo biblico, dalla stele di Mesha, re di Moab, che risale al IX sec. a.C. Le righe 14-18 dell'iscrizione affermano che Mesha prese Nebo da Israele (Yśr῾l) e dedicò i "ricettacoli di Yahweh" (kly Yhwh) al suo dio Kemosh. Nelle iscrizioni di Khirbet Beit Lei, che risalgono circa al 600 a.C., è presente un riferimento a Yahweh, che sembra essere il dio di Gerusalemme (le parole "Yahweh dio di" [Yhwh ῾lhy] e "Gerusalemme" sono chiaramente visibili). Il nome è anche presente in un sigillo dell'inizio dell'VIII sec. a.C., ritrovato probabilmente a Gerusalemme, nel quale è scritto: "Miqneyaw servo di Yahweh" (Mqnyw ῾bd Yhwh). Gli óstraka di Arad, che risalgono al 600 a.C., contengono un gran numero di benedizioni e di invocazioni nel nome di Yahweh (16 : 3; 18 : 2; 21 : 2; 40 : 3); in essi è anche presente un riferimento alla "casa di Yahweh" (byt Yhwh) che è probabilmente il tempio locale (18 : 9). Gli óstraka di Lachish, che risalgono anch'essi evidentemente agli ultimi giorni del regno di Giuda, contengono un gran numero di invocazioni che fanno uso del nome di Yahweh ("possa Yahweh dare salute/buone nuove"; "come vive Yahweh", cfr., per es., i numeri 2 1-2, 5; 3 2-3, 9; 4 1; 5 1, 7; 6 1, 12).
I dati di tipo linguistico che attestano il culto di Yahweh provengono da quelli che furono sia il regno settentrionale (regno di Israele) sia il regno meridionale (regno di Giuda). Sembra che Yahweh sia stato un dio nazionale o etnico, proprio come Kemosh era dio dei Moabiti, Qaus degli Edomiti, Dagan dei Filistei, e così via (cfr. I Re, 11, 33). Ciò non implica che Yahweh fosse l'unica divinità venerata in questi regni, come vedremo, ma sembra che egli sia stato il principale oggetto di devozione: il nome di Yahweh è infatti quello più diffusamente attestato.
L'origine di Yahweh è stato argomento di accesa discussione per molti decenni, durante i quali si è affermato di aver riscontrato il nome a Ugarit, in Mesopotamia, e persino a Ebla. Nessuna di queste affermazioni, letta alla luce di un'attenta critica, è sembrata impeccabile. Tuttavia, alcune iscrizioni egizie del II millennio (ossia della tarda Età del Bronzo) menzionano un nome Yahweh, che potrebbe essere un nome geografico, riferendosi alla "terra degli Shasu di Yahweh" (tʒ šʒśw yhwʒ). Sembra che gli Shasu fossero un gruppo di genti della Palestina meridionale dedite alla pastorizia. Sebbene il nome Yhwʒ sembri essere un nome di luogo, è possibile che esista un legame con la divinità Yahweh, forse nel senso che la regione dava il nome al dio che in essa veniva venerato, o persino che il dio dava il nome alla regione. Molti studiosi hanno sostenuto che Yahweh sia nato nel contesto del culto di El, il che non esclude l'ipotesi dell'origine geografica, poiché è possibile combinare le due teorie, ma ne evidenzia le difficoltà.
Si è discusso a lungo per quanto riguarda l'etimologia del nome Yahweh. Sarebbe impossibile fornire un panorama e un commento di tutte le varie ipotesi che sono state avanzate a tale riguardo negli ultimi due secoli; vi sono però due teorie ancora attuali che meritano di essere analizzate. Molti passaggi della Bibbia associano il nome Yahweh al verbo hyy/hyw, ossia 'essere'; questa etimologia, per cui il nome risulta una forma del verbo essere, è largamente accettata. Tuttavia permane una controversia: alcuni studiosi, infatti, considerano il nome come una semplice asserzione ('egli è', 'egli esiste'), mentre altri lo interpretano come un causativo ('egli fa essere', ossia 'egli crea'). Dato che è assai difficile conoscere l'esatta vocalizzazione e forma del nome diventa un problema scegliere fra queste due teorie; la questione non si risolve anche qualora si assuma che il nome sia da vocalizzare come Yahweh, poiché esso può essere sia la forma base del verbo (Qal) sia un causativo (Hiphil). Secondo l'altra teoria il rapporto col verbo essere è da escludere e il nome Yahweh proviene piuttosto dal verbo 'soffiare' (hwy), il che riflette la funzione originale di Yahweh, quella di divinità della Tempesta. Se questa ipotesi è corretta, la connessione del nome con il verbo essere presente nei testi biblici sarebbe un'etimologia popolare, o persino dovuta agli scribi. Una presa di posizione riguardo all'etimologia del nome può avere forti ripercussioni su ogni teoria che indaghi l'origine del culto di Yahweh.
Quando ci rivolgiamo al testo biblico dobbiamo tener presente che abbiamo a che fare con una letteratura tradizionale di origini incerte, che si sviluppò in un lungo periodo di tempo e che fu per larga parte redatta in varie versioni e ritoccata prima di assumere la forma finale, poco prima dell'era cristiana, o forse anche all'inizio di questa. I dati presenti nel testo si riferiscono probabilmente a periodi di tempo differenti ed è una questione di grande rilevanza comprendere se qualcuno di questi dati possa essere proiettato nel periodo anteriore alla monarchia israelitica. Ciononostante, per quanto i dati biblici possano essere problematici, sarebbe una follia non volerli considerare.
La Bibbia utilizza abbondantemente il nome Yahweh fin dal primo capitolo della Genesi. Esso compare frequentemente nei primi capitoli della Genesi e nelle storie dei patriarchi, ed è il nome con il quale il dio di Israele si rivela a Mosè nell'Esodo. Eppure, un esame più attento rivela la presenza di alcune anomalie.
In primo luogo, un gran numero di nomi personali sono nomi teofori che contengono elementi divini, come ῾El, 'dio', inclusi alcuni nomi come ῾Ab, 'padre', ῾Aḥ, 'fratello' e simili, che si ritengono ora in rapporto con la divinità, forse concepita come padre divino, fratello divino e così via, o anche essere un riferimento a un vero e proprio antenato deceduto, che in seguito è stato divinizzato. Eppure, prima del racconto di Mosè non è presente nessun nome formato da una parola composta con Yahweh. Il primo nome è Giosuè, che è in effetti una trasformazione di Osea (Numeri, 13, 16). In nessuna delle genealogie della Genesi compaiono nomi connessi a Yahweh e non è detto che qualcuno dei contemporanei di Mosè avesse un nome di questo tipo. Il nome Yahweh compare nei nomi presenti nel testo biblico soltanto durante l'ultimo periodo della vita di Mosè.
In secondo luogo, il testo dell'Esodo suggerisce che Yahweh sia stato rivelato a Mosè e non prima del suo tempo. In Esodo, 3, 6 (che nell'ipotesi documentaria ‒ v. cap. V, par. 4 ‒ è assegnato di solito alla fonte E) il dio che appare a Mosè s'identifica con il dio ancestrale di Abramo, Isacco e Giacobbe. Il testo continua dicendo che questo dio è chiamato "Io sono" (῾ehyeh, una forma simile a Yahweh) e immediatamente collega questo nome a "Yahweh, dio dei tuoi padri, dio di Abramo, dio di Isacco e dio di Giacobbe" (Esodo, 3, 13-16). Esodo, 6, 3 (usualmente assegnato alla fonte P) asserisce che Dio apparve ad Abramo, a Isacco e a Giacobbe col nome di El Shaddai (Dio onnipotente), e che essi non lo conoscevano con il suo nome Yahweh. Così, se questi passaggi hanno qualche valore, essi suggeriscono che il nome di Yahweh non era noto in Israele prima del tempo di Mosè.
Questa è soltanto una semplice analisi del testo biblico, che può risultare persino semplicistica; essa, infatti, ignora del tutto la questione dell'esistenza di Mosè e le relazioni fra le tradizioni bibliche e il vero insediamento del popolo di Israele nella sua terra. Possiamo chiederci fino a che punto il testo biblico rifletta un'effettiva memoria della situazione religiosa nella Israele del primo periodo, precedente alla monarchia. Tuttavia, si possono fare due osservazioni: in primo luogo, il testo biblico è in accordo con gli altri dati, indipendenti dalla Bibbia stessa, e, in secondo luogo, esso richiama la memoria di un tempo in cui Yahweh non era noto agli Israeliti e in cui fu introdotto a essi per la prima volta. Immaginare un periodo in cui Yahweh non era conosciuto sarebbe assai sorprendente per uno studioso, posto che tutti ritengono che Yahweh fosse noto agli Israeliti fin dall'inizio. Così, possiamo affermare, basandoci sui dati più attendibili a nostra disposizione, che Yahweh ebbe origine in Palestina e che il suo culto era confinato ai popoli della Palestina.
Oggi è generalmente accettata l'idea che le prime iscrizioni egizie che menzionano Yhwʒ si riferiscano in effetti al nome Yahweh e che il culto di Yahweh non abbia avuto origine in Israele, ma che sia stato accolto in un momento del periodo precedente all'insediamento o nel periodo stesso dell'insediamento.
In ogni modo, sono state recentemente trovate in un testo di Hamath prove della presenza del culto di Yahweh in Siria. È stato anche suggerito, sulla base di questo testo, che Yahweh non apparteneva esclusivamente a Israele e a Giuda, ma che era piuttosto una divinità comune a una gran parte della Siria e della Palestina. Anche se il riferimento sembra essere certo, non vi è nessuna prova che avvalori l'ipotesi secondo la quale Yahweh era parte di un culto esteso a tutta la regione. È assai più verosimile che il culto di Yahweh sia stato trapiantato in qualche modo dalla Palestina, forse da una famiglia reale che si era spostata anch'essa dalla regione palestinese, oppure con qualche altro mezzo, e che rimase però isolato, o confinato a una minoranza. In tutte le iscrizioni e in tutti i reperti linguistici provenienti dalla regione circostante non vi è nulla che provi che il culto di Yahweh fosse diffuso in tutta la regione.
Le altre divinità e gli altri culti
Nel testo biblico i riferimenti al dio d'Israele non contengono solamente il nome Yahweh; in effetti, sono presenti molti altri nomi e titoli. Spesso essi sono trascurati, poiché in molte traduzioni della Bibbia si tenta di tradurli piuttosto che renderli come sono in ebraico. Per esempio, il nome ῾El è usato per indicare il dio d'Israele, ma significa anche 'dio' in senso generale. Questo fatto è in linea con l'uso comune a gran parte dei Semiti nordoccidentali, per i quali ῾el (o la forma precedente ῾ilu) poteva indicare sia il dio posto al vertice del pantheon (il dio El), che la parola 'dio', o 'divinità', in generale. Anche il nome El-Shaddai (oppure Shaddai da solo) è usato in numerosi passaggi della Genesi (17, 1; 28, 3; 35, 11; 48, 3; 49, 5). Esso è anche il nome divino più frequente nel libro di Giobbe e sembra essere stato la divinità fondamentale per l'autore del nucleo centrale del libro, dato che Yahweh compare in Giobbe soltanto nella cornice del testo. Genesi, 14, 18 attesta l'esistenza della divinità El-Elyon ("dio altissimo"), altrimenti sconosciuta. Bisogna osservare che alcuni studiosi dubitano dell'accuratezza del testo in questo passaggio, sebbene il nome Elyon, preso a sé, compaia in Numeri, 24, 16, Deuteronomio, 32, 8 e Isaia, 14, 14, mentre l'equivalente di Ugarit (῾ly) è applicato a Baal (Keilalphabetischen Texte aus Ugarit, 1.16.3.6, 8).
Altri testi biblici suggeriscono anche che vi sia stato un tempo in cui Yahweh era non solamente una divinità a fianco di altre divinità, ma che forse era persino subordinato a El. Gli studiosi si sono a lungo chiesti se il testo ebraico di Deuteronomio, 32, 8 (che recita: il dio Elyon "stabilì i confini delle nazioni secondo il numero degli angeli di Dio") non fosse l'oggetto di una successiva interpolazione, poiché il testo della Settanta sembrava presupporre un testo ebraico differente. L'idea di un'altra versione ebraica più originale sembra ora essere stata confermata da un manoscritto ebraico trovato a Qumran (4QDeutj = 4Q37), che recita: "[secondo il numero dei] figli di Dio" (bny ῾lhym). Il brano prosegue dicendo che Giacobbe è la porzione di Yahweh (32, 9). Tutti questi dati suggeriscono che la versione originale del brano si avvicinasse a ciò che segue: "Quando Elyon diede le eredità alle nazioni/ quando separò i figli di Adamo [= dell'uomo]/ stabilì i confini dei popoli/ secondo il numero dei figli di El./ Poiché la parte di Yahweh è il suo popolo/ e Giacobbe è la porzione della sua eredità".
Ciò suggerisce che Yahweh, in quanto era uno di questi figli di El, avesse ereditato Israele come porzione specifica che gli apparteneva.
Una situazione di questo tipo, in cui Yahweh è solamente uno dei figli di El nell'assemblea divina si trova nel Salmo 89, 7-8, che recita alla lettera: "Chi infatti è uguale a Yahweh nei cieli?/ Chi è simile a Yahweh fra i figli degli Elim [= dèi]/ El è tremendo nel concilio dei Santi./ Egli è grande e incute timore in quanti lo circondano".
In questo passo Yahweh è un figlio di El, insieme ad altri figli, anche se si dice che egli è incomparabilmente superiore agli altri figli di El. Allo stesso modo, Salmo 82, 1 parla di Dio che giudica fra gli dèi.
Il concetto di assemblea divina o di consiglio degli dèi è assai diffuso nei pantheon semitici. Forse uno degli esempi più chiari in cui Yahweh stesso è a capo di un consiglio divino si trova in I Re, 22, 19-22, dove egli presiede le "schiere del cielo" (ṣĕbā῾ haššāmayim). Successivamente questo consiglio divino fu interpretato come un consiglio di angeli che circondavano Yahweh; tuttavia, nella tradizione israelitica gli angeli non rivestono un ruolo importante fino al periodo posteriore all'esilio. La parola ebraica per angelo è mal῾ak, che significa 'messaggero' e può essere usata per indicare sia i messaggeri umani sia quelli celesti. Gli studi sui pantheon dei Semiti nordoccidentali hanno rivelato che gli dèi erano collocati a vari livelli, il più basso dei quali era quello di dio messaggero: questi messaggeri parlavano per gli dèi che li inviavano. Analogamente, gli angeli della Bibbia parlano in nome di Yahweh: per esempio, in Esodo, 3, 2-5 si dice che "il mal῾ak Yhwh" apparve a Mosè, tuttavia il brano continua dicendo "Yahweh disse". Così, nell'ebraismo successivo gli dèi messaggeri del pantheon originale dei Semiti nordoccidentali furono ridotti ad angeli, insieme forse ad altre divinità; tuttavia fu mantenuta la struttura di base del vecchio consiglio divino politeistico, sebbene i compilatori finali della tradizione fossero monoteisti.
In numerosi altri passaggi è data una raffigurazione di tipo mitico di Yahweh, la quale è assente nella maggior parte dei testi biblici. Questi passaggi ricordano uno dei miti riguardanti Baal, noto dai testi ugaritici, e sembrano recare tracce persino della sconfitta di Tiamat a opera di Marduk, dal cui corpo questi creò il cielo e la Terra. Al contrario di Genesi, 1, questi passaggi suggeriscono che Dio operò la creazione sconfiggendo vari mostri del Caos, che sembrano essere entità soprannaturali. Per esempio, in Isaia, 27, 1, Yahweh prende la sua spada e sconfigge "Leviatano (lwytn), il serpente guizzante (brḥ), Leviatano, il serpente strisciante (῾qltwn), e ucciderà il Tannin (tnyn) nel mare". È possibile comparare questo brano ai testi ugaritici affermanti che Baal sconfisse questi mostri. Uno dei più importanti miti di Baal descrive la vittoria di Baal sul dio del mare Yam (Keilalphabetischen Texte aus Ugarit, 2). Un altro passaggio allude a battaglie per le quali fino a ora non si sono trovati riscontri in testi dettagliati. Keilalphabetischen Texte aus Ugarit, 1.3.3.37-42 racconta di altri mostri del Caos sconfitti da Baal: "Non ho io distrutto Yam, il prediletto di El/ non ho posto fine a Nathar, il grande dio?/ Non fu il drago (tnn) catturato e sconfitto?/ Io ho distrutto il serpente strisciante (῾qltn)/ il tiranno con sette teste".
Keilalphabetischen Texte aus Ugarit, 1.5.11.1-3 afferma analogamente: "a causa di ciò, tu hai colpito Leviatano, il serpente guizzante (ltn.bṯn.brḥ)/ e hai posto fine al serpente strisciante (῾qltn) […]/ il tiranno con sette teste?" (v. anche Keilalphabetischen Texte aus Ugarit, 1.5.1.27-30).
I testi ebraici e quelli ugaritici non soltanto hanno un tema simile, ma condividono anche lo stesso vocabolario di base. È importante osservare subito che questi passaggi sono residui isolati di credenze più antiche che sono state cancellate o reinterpretate secondo la concezione monoteistica di Yahweh, che era dominante e che ha controllato la redazione finale del testo biblico. Eppure, alcuni versi sfuggirono ai redattori, confermando ciò che ora noi sappiamo dalle iscrizioni, ossia che Yahweh era concepito in origine come un dio fra molti, e forse anche come un subordinato e un figlio di El. Egli aveva operato la creazione combattendo e uccidendo vari mostri del Caos, come Leviatano, Tannin e Rahab, proprio come aveva fatto Baal nei testi ugaritici. Quando il monoteismo divenne dominante queste concezioni più antiche furono eliminate, o in certi casi furono reinterpretate in modo da non creare imbarazzo alle concezioni monoteistiche.
Anche i nomi biblici suggeriscono l'esistenza di una pletora di divinità. I nomi contenenti 'El' sono troppo numerosi per essere menzionati tutti (Israele, Elia, Elisha, Samuele, e via di seguito). Più significativi sono i nomi che contengono 'Shaddai' (per es., in Numeri, 1, 5-6 Sedeur e Surishaddai, in Numeri, 1, 12 Ammishaddai). Forse, però, i nomi più interessanti sono quelli che contengono Baal. Considerando l'atteggiamento ostile della Bibbia contro Baal, non ci si aspetterebbe di trovare siffatti nomi, eppure essi si rinvengono in contesti sorprendenti. Il nome di uno dei figli di Saul era Is-Baal ('uomo di Baal'); il figlio di Gionata si chiamava Merib-Baal. Questi nomi sono spesso trascurati, poiché i testi di Samuele, in effetti, sostituiscono a essi alcuni surrogati composti dalla parola "vergogna" (Is-Boshet [II Samuele, 2, 8]; Mefiboshet [II Samuele, 21, 7]); tuttavia essi sono correttamente preservati in I Cronache, 8, 33-34; 9, 39-40.
Gli óstraka ritrovati durante gli scavi di Samaria offrono un quadro simile. Vi sono documenti di vario tipo che elencano i nomi di coloro che hanno portato beni al palazzo. Nei testi che sono noti fino a ora si trova una gran varietà di nomi teofori: di questi, undici sono nomi composti con Yahweh e sei con Baal. Non vi è modo di rilevare alcuna distinzione sociale in questi nomi: si ha l'impressione che essi fossero nomi comuni, ordinari, dei quali le persone normali non avrebbero pensato nulla di particolare se non forse in un contesto di culto. Da questi dati sembra che Yahweh e Baal fossero venerati fianco a fianco senza problemi.
Alcune scoperte recenti sembrano essere ancora più indicative. Fra il 1975 e il 1976 è stata trovata a Kuntillet Ajrud, nel Negev, un'iscrizione che è stata datata all'VIII sec. a.C., che recita: "Vi ho benedetto da parte di Yahweh di Samaria e dalla sua Asherah". A Khirbet el-Qom, vicino a Hebron, è stata trovata un'altra iscrizione simile, datata al VII sec. a.C., che è di lettura assai difficile, anche perché alcune lettere sembrano essere state duplicate. Essa è stata interpretata in vari modi. Il curatore originale, André Lemaire, l'ha tradotta in questo modo: "Che Uriah sia benedetto da Yahweh e [dalla sua Asherah], egli lo ha salvato dai suoi nemici". L'epigrafista Joseph Naveh la legge in questo modo: "Che Uryhahu sia benedetto da Yahweh, mio guardiano e dalla sua Asherah". Ziony Zevit l'ha interpretata invece così: "Ho benedetto Uryahu per YAHWEH / O Asherata, salvalo".
Questi ritrovamenti hanno sollevato un intenso dibattito, poiché questa è la prima volta in cui si è presentata una prova diretta dell'esistenza del culto di una divinità femminile, dato che persino negli óstraka di Samaria non compaiono nomi di dee. Naturalmente, si è discusso se il termine Asherah fosse riferito a un oggetto di culto o a una divinità. Ciò è dovuto in parte al problema grammaticale relativo alla possibilità, nelle lingue semitiche settentrionali, di apporre un suffisso pronominale a un nome proprio. Dopo un lungo periodo di disaccordo ci si sta orientando generalmente nel ritenere che esistesse una consorte di Yahweh, una divinità femminile chiamata Asherah, anche se non tutti concordano con questa ipotesi. Se così fosse, si tratterebbe di una situazione analoga a quella di Ugarit, dove El, posto a capo del pantheon, aveva come consorte Athirat, corrispondente alla Asherah ebraica. Per molti aspetti non si tratterebbe di una rivelazione sorprendente, per due ragioni: in primo luogo, lo stesso Antico Testamento suggerisce in molti passaggi l'esistenza del culto di una divinità femminile, e, in secondo luogo, i papiri di Elefantina hanno già fatto sospettare, molti decenni or sono, che potesse esistere un culto di questo tipo.
Anche il testo biblico fa riferimento ad Asherah, sebbene a volte esso sembri designare un oggetto di culto, in particolare nei casi in cui compare nella forma plurale maschile 'Asherim'. Eppure vi sono numerosi passaggi che sembrano riferirsi in maniera chiara a una divinità femminile. In I Re, 15, 13 si menziona l'oggetto di culto costruito per Asherah. Ciò accadde presumibilmente nel tempio: in effetti II Re, 23, 4-7 menziona i ricettacoli di Asherah (fra gli altri) e il personale di culto dedicato ad Asherah nel tempio di Gerusalemme, e anche II Re, 21, 7 parla di un'immagine di Asherah nel tempio. I Re, 18, 19 parla dei "profeti di Asherah", a fianco dei profeti di Baal, il che può essere solamente un riferimento a una dea. Così, lo stesso testo biblico offre la dimostrazione che Asherah era venerata, persino nel tempio di Gerusalemme, assai probabilmente come una consorte di Yahweh.
Un'altra indicazione è fornita da un'iscrizione di Sargon II su un prisma di pietra che narra la caduta di Samaria, avvenuta intorno al 722 a.C. Il prisma di Nimrud afferma quanto segue: "Con il potere dei grandi dèi, miei signori, contro di essi io ho combattuto. 27.280 persone con i loro carri e gli dèi in cui essi credevano, come spoglie io ho contato" (col. IV, righe 29-33).
Gli Assiri usavano normalmente rimuovere le immagini divine dei popoli che conquistavano, spesso fondendole per ricavarne il metallo. L'interpretazione più ragionevole in questo contesto è che in questi passaggi si faccia riferimento alle immagini degli dèi della Samaria: ossia, il tempio, o i templi, dei Samaritani contenevano immagini di più di una divinità e gli Assiri le portarono via come spoglie, come era loro abitudine.
La colonia militare ebraica di Elefantina era certamente prepersiana e probabilmente era stata fondata durante il periodo neobabilonese o forse anche assiro, prima della caduta di Gerusalemme, avvenuta fra il 587 e il 586 a.C. La comunità aveva il proprio tempio dedicato a Yhw (che veniva probabilmente pronunciato Yahu o Yaho) fino a che fu distrutto da qualche egiziano locale (AP 30-32); non sappiamo se esso fu mai ricostruito. Tuttavia, una lista di coloro che contribuivano al culto indica che esistevano anche altre divinità: sono elencati specificamente Eshem-Bethel, Anat-Bethel (TAD C.3.15:127-128=AP n. 22: 124-125) e Anat-Yahu (TAD B.7.3: 33=AP n. 44: 3).
È stata avanzata l'ipotesi che si trattasse soltanto di ipostasi di Yahweh, ma ciò sembra improbabile per molte ragioni: in primo luogo, perché la nostra è l'interpretazione più diretta del testo, e i tentativi di reinterpretarlo spesso sono accompagnati da una qualche sorta di ricostruzione del modo in cui la religione ebraica si è sviluppata; in secondo luogo perché, sebbene gli scrittori ebrei più tardi, come Filone, facciano uso del concetto di ipostasi, è dubbio che esso si fosse già sviluppato; in terzo luogo perché la scoperta di iscrizioni che sembrano indicare l'esistenza di una consorte di Yahweh rendono assai più plausibile la presenza a Elefantina della figura di una divinità femminile.
Per certi versi non dovremmo essere stupiti di ciò; il testo biblico non mostra, dopo tutto, che Israele aveva una tendenza ad allontanarsi dalla vera fede, per cadere nell'idolatria, nel paganesimo e nel culto di altre divinità? Vi sono numerosi riferimenti agli Asherim (I Re, 14, 15), concepiti di solito come oggetti di culto, ma che in ultima istanza indicano la dea Asherah. Il culto della "schiera del cielo" di cui parla II Re, 17, 16; 21, 3; 23, 4-5 è confermato dai simboli solari ritrovati in numerosi sigilli israeliti. Geremia (Geremia, 44, 17-19; 25) menziona il culto della "regina del cielo", che era probabilmente Asherah o Anat o forse persino una fusione delle due dee. Eppure, anche se il testo presenta questi come atti di apostasia, esso non sembra suggerire che all'epoca questo culto fosse criticato od osteggiato, e le critiche eventualmente mossegli, probabilmente provenivano da un movimento minoritario, forse un 'movimento per l'unicità di Yahweh'.
Si potrebbe a ragione ricordare come il culto di Baal fosse osteggiato al tempo di Elia. Tuttavia, non è del tutto chiaro se le cose fossero così semplici come appaiono, poiché il Baal di Gezabele era più verosimilmente un dio fenicio, e quindi un culto straniero, introdotto in Israele. Esso rappresentava una regina straniera e perciò sarebbe stato osteggiato da alcuni tradizionalisti. Il fatto che tutti i devoti di Baal riuscissero a essere contenuti nel piccolo tempio di Baal, come si evince da II Re, 10, 18-28, dimostra che il culto di Baal non era un'alternativa diffusa a quello di Yahweh. È possibile trovare ulteriori indicazioni nei nomi della famiglia di Acab e delle persone che lo circondavano. Il suo maggiordomo si chiamava Abdia ("servo di Yahweh": I Re, 18, 3), i nomi dei suoi due figli erano connessi a Yahweh (Ocozia e Ioram) e i profeti che egli consultò erano profeti di Yahweh (I Re, 22, 5-28). Sebbene il testo lo accusi di venerare Baal (I Re, 16, 31-32) a nostro avviso non vi è alcuna prova effettiva che egli abbia promosso il culto di Baal oltre al culto regale specificamente stabilito per sua moglie. L'opposizione di Elia e degli altri era probabilmente un'opposizione politica a Gezabele, sebbene fosse mascherata da purezza religiosa; lo stesso Acab, secondo tutte le fonti, era devoto a Yahweh.
Recentemente è stato messo in luce un altro fattore che indica la presenza del politeismo, ossia il culto dei morti come fenomeno diffuso nell'antico Israele, che è attestato sia dal testo sia dall'archeologia. Questo culto può assumere varie forme e avere diverse connotazioni, una delle quali considera gli antenati defunti come esseri deificati, che si uniscono ai Refaim. Sebbene, in alcuni passaggi, il testo biblico consideri i Refaim come i primi abitanti di Canaan, alcuni testi di Ugarit e della Fenicia e lo stesso Antico Testamento (Giobbe, 26, 5; Salmo 88, 11-13, Isaia, 26, 14-19; Proverbi, 9, 18) indicano che i Refaim erano associati ai morti. La pratica della negromanzia, ossia la divinazione effettuata consultando i morti, evidentemente era praticata assai diffusamente nell'antico Israele (Deuteronomio, 18, 9-14; Samuele, 15, 22-23: Ezechiele, 21, 26-27). Il testo, nella forma che ci è pervenuta, condanna ovviamente queste pratiche, ma attesta ugualmente la loro diffusione.
Un altro culto associato ai morti e agli Inferi era l'adorazione di Moloc. È ancora poco chiaro se Moloc fosse una divinità o solamente un sacrificio, ma in ogni modo sembra che esso fosse un culto ctonio connesso agli Inferi e al culto dei morti. Si può discutere sul suo grado di diffusione in Palestina, ma è certo che esso esistette, persino a Gerusalemme.
Infine, vi sono i terafim menzionati in numerosi passaggi (I Samuele, 15, 22-23; II Re, 23, 24; Ezechiele, 21, 26-27; Osea, 3, 4; Zaccaria, 10, 2). In alcuni studi recenti sui terafim si sostiene che questi non fossero che un altare comune dedicato agli antenati, tenuto in casa. Persino il futuro re David ne aveva uno, che sua moglie collocò nel suo letto per confondere gli uomini di Saul, affinché egli potesse fuggire (I Samuele, 19).
Lo sviluppo del monoteismo
In quale epoca si sia sviluppato il monoteismo è una questione assai dibattuta, anche se oggi si ritiene generalmente che ciò si sia verificato piuttosto tardi. Alcuni individuano 'tendenze monoteiste' fin dai primi tempi, sebbene, se così fosse, tali tendenze non sarebbero proprie di Israele. Si è voluto per lungo tempo vedere nel secondo Isaia (Isaia, 40-55) la prima chiara affermazione del monoteismo; probabilmente questo è attualmente il punto di vista più comune, sebbene alcuni studiosi discutano oggi persino riguardo alla presenza del monoteismo esclusivo nel Deutero-Isaia. Il Deuteronomio può essere considerato per la maggior parte monoteistico, anche se il 'primo comandamento' (Deuteronomio, 5, 6-7) è solamente enoteistico, come abbiamo osservato in precedenza. La forma finale del testo di molti libri porta l'impronta di quelli che erano apparentemente monoteistici. Le varie altre entità divine maschili sono equiparate a Yahweh, fatta eccezione per Baal, che è raffigurato come impegnato in una lotta per la vita con Yahweh.
Un vivace dibattito si è acceso sulla questione dell'aniconicità del culto del dio di Israele. In numerosi testi biblici è proibito l'uso delle immagini nel culto, come nel 'secondo comandamento' (Esodo, 20, 4; Deuteronomio, 5, 8), e le immagini sono schernite (Isaia, 40, 18-20; 44, 9-20; 46, 1-2, Geremia, 10, 2-10). Sappiamo dai testi biblici posteriori che l'uso delle immagini o di qualsiasi tipo di forme viventi nel culto era aborrito e rifiutato con forza (Sapienza, 13, 15; Liber Antiquitatum Biblicarum, 44; Testamento di Giobbe, 2-5; Apocalisse di Abramo, 1-8; v. anche il passo di Ecateo citato oltre). Alcuni studiosi hanno sostenuto che il culto di Yahweh era aniconico fin dall'inizio, ossia che fin dai primi tempi una delle caratteristiche del culto di Yahweh sia stata quella di non far uso di immagini. Tuttavia troviamo numerose indicazioni sul fatto che immagini erano usate nei culti delle divinità in Giuda e in Israele. Una di queste indicazioni è il brano sopra citato da Sargon II; un'altra è il ritrovamento, da parte degli archeologi, in tutta la Palestina di numerose immagini di Astarte. Questi reperti non dimostrano in sé che si usassero degli idoli per rappresentare Yahweh, poiché i passaggi ora menzionati potrebbero riferirsi ad altre divinità; è però ragionevole inferire, partendo dai dati che abbiamo presentato, che, in una certa fase, un'immagine di Yahweh potesse essere presente nel tempio di Gerusalemme.
Oltre al testo biblico, la cui interpretazione è spesso oggetto di dibattito, una delle prime e più efficaci indicazioni di un culto monoteista e aniconico è offerta da Ecateo di Abdera, un greco che scriveva intorno al 300 a.C. Egli descrive gli Ebrei della Palestina in un lungo paragrafo che in quel periodo fu espunto e citato da Diodoro Siculo (40.3.4). Il passaggio significativo asserisce: "egli [=Mosè], però, non aveva immagini qualsivoglia di dèi fatte per loro, poiché riteneva che Dio non ha forma umana; piuttosto il Cielo che circonda la Terra è da solo divino, e governa l'Universo".
Gli scrittori greci e romani affermano universalmente che gli Ebrei veneravano un solo dio. Sebbene questo dio venga spesso identificato con Giove (Varrone in Agostino, De consolatione Evangelica, 1, 22, 30; 1, 23, 31; 1, 27, 42) o persino con Dioniso (Plutarco, Quaestiones conviviales, 6, 2; Tacito, Historiae, 5, 5), le fonti insistono sempre sulla diversità degli Ebrei dagli altri popoli ed esprimono uno stupore speciale riguardo all'assenza di immagini nel culto da loro praticato (Varrone in Agostino, De civitate Dei, 4, 31; Strabone, 16.2.35; Livio, Scholia in Lucanum, 2, 593; Dione Cassio, 37, 17, 2-3).
di Gherardo Gnoli
Da quanto possiamo desumere dalle fonti di cui disponiamo, la visione del mondo prevalente nell'Iran antico ‒ nel periodo compreso tra il VI sec. a.C. e il III sec. d.C. ‒ è stata quella dello zoroastrismo o del mazdeismo zoroastriano, ossia di quella religione fondata da Zoroastro, o Zaraθuštra, che propugnava la fede in un dio sommo, supremo campione del bene, Ahura Mazdā (letteralmente 'Signore Saggio'), contro Angra Mainyu (letteralmente 'Cattivo Spirito'), principe delle forze malefiche. In Zoroastro (nelle lingue occidentali si è imposta la forma ellenizzata Zōroástrēs) si deve vedere una figura storica di riformatore religioso che tra la fine del VII e la metà circa del VI secolo a.C. diffuse il suo messaggio nel mondo iranico orientale.
Caratteri essenziali dello zoroastrismo sono la venerazione di un dio supremo, creatore, onnisciente, al vertice di un sistema di entità tra divine e angeliche, nonché la lotta, etica e rituale, delle forze del bene contrapposte a quelle del male, in un dualismo che pervade l'intera concezione del mondo e della vita. Alle origini, nel pensiero di Zoroastro quale si riflette nelle Gāθā ('Canti') a lui attribuite, la concezione di dio era essenzialmente monoteistica e il dualismo era eminentemente morale: elementi politeistici e ritualistici emersero in fasi successive. In tutti i periodi della sua lunga storia ‒ gli zoroastriani si contano oggi in più di 120.000 adepti e la loro è la più antica delle religioni fondate da un personaggio storico ‒ lo zoroastrismo è stato caratterizzato da un forte senso morale, che si traduce nell'osservanza della regola espressa dalla formula tradizionale "buoni pensieri, buone parole, buone azioni" e che ha origine nel concetto di 'scelta'. L'uomo è responsabile delle sue azioni e la dignità dell'essere umano consiste proprio nella sua libertà morale; nel creato egli è anche il protagonista della lotta che porterà al trionfo del bene sul male.
Il dualismo zoroastriano ha una duplice natura, etica e metafisica: la prima è dovuta alla presenza di due spiriti (mainiiu) di uguale potere, uno benefico e incrementante e l'altro malefico e distruttivo; la seconda è dovuta alla dottrina che distingue tra due stati o livelli dell'essere (ahu) o dell'esistenza, definiti nelle Gāθā l'uno "mentale" o "del pensiero" e l'altro "ossoso", con riferimento alla struttura fisica dell'essere. Questi due livelli non vanno confusi, però, con idee estranee alla concezione zoroastriana, quali 'spirituale' e 'materiale', ma devono piuttosto intendersi come 'invisibile', 'celeste' l'uno e come 'visibile', 'terrestre' l'altro, oppure, con un significato non pienamente filosofico, rispettivamente come 'trascendente' e 'fenomenico'. Questi due stati dell'essere sono legati da un rapporto di causa ed effetto, cosicché si può affermare che le buone azioni sono frutto di buoni pensieri: essi non si contrastano e non sono connotati eticamente, come l'uno buono e l'altro cattivo.
L'identificazione delle due polarità del dualismo etico con quelle del dualismo metafisico, per cui il buono è il trascendente e il cattivo è il fenomenico, non è zoroastriana e si afferma in Iran col manicheismo e col mazdachismo, cioè, in epoca sasanide. Per lo zoroastrismo la creazione materiale è opera divina: il male può soltanto contaminarla, inquinarla, corromperla.
Religione eminentemente morale, lo zoroastrismo prescrive di credere in un'esistenza dopo la morte e in una ricompensa o in una punizione proporzionate alle azioni compiute e alle scelte fatte in vita; vi è quindi un giudizio individuale delle anime dei defunti e vi sono un 'paradiso' e un 'inferno', oltre a una zona intermedia. Si crede anche nella resurrezione dei morti e in un giudizio finale che porrà termine alla situazione di confusione tra bene e male, caratteristica dell'esistenza terrena e dovuta all'assalto sferrato da Angra Mainyu contro la creazione di Ahura Mazdā, che darà inizio a una nuova fase della vita umana e universale. La storia del mondo è, infatti, suddivisa in tre grandi periodi: nel primo, l'originario, i due spiriti sono separati l'uno dall'altro e si fronteggiano; nel secondo, quello presente, i due spiriti sono mischiati e il potere del male si insinua nella creazione divina; nel terzo, quello futuro, il potere di Angra Mainyu sarà definitivamente annientato.
Lo zoroastrismo, religione affermatasi nell'occidente del mondo ario o indoiranico, si differenzia profondamente dalla religione dell'India vedica per tutti quei tratti che lo avvicinano sia al cristianesimo sia all'Islam, ossia un tendenziale monoteismo, un accentuato dualismo etico, la resurrezione finale e l'immortalità sia dell'anima sia del corpo. Esso rispecchia pertanto, in modo esemplare, la posizione storica, oltre che geografica, della civiltà dell'Iran antico tra Oriente e Occidente, tra il politeismo magico-religioso degli antichi indoari e il mondo religioso del Vicino Oriente antico, culla di vari monoteismi. Nella 'miscela religiosa' successiva a Zoroastro, il vecchio politeismo indoiranico è riemerso in nuove spoglie insieme ad alcuni aspetti dell'antico ritualismo ario, quali il sacrificio animale e l'uso dello haoma, il soma iranico, bevanda sacrificale forse originariamente provvista di facoltà inebrianti e allucinogene.
Il dualismo etico
Il tratto più caratteristico e originale del pensiero di Zoroastro è senza dubbio la concezione che contrappone i due spiriti, Spǝnta Mainyu ("Spirito Benefico") ad Angra Mainyu, lo Ahriman dei testi zoroastriani più tardi o lo Areimanios dei Greci. Nelle Gāθā essi sono rappresentati come due distinti poteri personalizzati, definiti come i due "spiriti primordiali" (Yasna, 30, 3; 45, 2), in tutto simmetricamente contrapposti, come se fossero due 'gemelli', l'uno ostile all'altro ma entrambi dotati di autonoma volontà. I loro modi di pensare, di parlare e di agire esprimono rispettivamente il bene e il male: né i loro pensieri, né le loro spiegazioni, né le loro intelligenze, né le loro scelte, né i loro detti, né i loro atti, né le loro coscienze, né le loro anime vanno d'accordo. Il loro confronto determina, all'inizio, la vita e la non-vita, cosicché, alla fine, ai seguaci dello spirito malefico sarà data in sorte una "esistenza pessima", mentre ai seguaci della verità (aṣ̌a) sarà assegnato l'"ottimo pensiero", ossia, rispettivamente, l'inferno e il paradiso. Le scelte dei due spiriti hanno quindi un evidente valore paradigmatico per l'essere umano, che deve seguire l'insegnamento rivelato da Ahura Mazdā a Zoroastro.
Il monoteismo è salvo, ma è reso accettabile perché è fornita una spiegazione razionale dell'esistenza del male che è nel mondo: il dio creatore ha dato vita a un'esistenza per sua natura buona, che però è inquinata dall'opera distruttiva di un avversario il quale ha il suo regno in un livello trascendente, in uno stato ideale o mentale che influenza il mondo fenomenico. In un certo senso, quindi, il monoteismo zoroastriano è corretto dalla concezione dualistica; esso non è un monoteismo assoluto, incapace di dare una risposta al problema del male, ma ‒ si potrebbe dire ‒ un 'monoteismo dualistico'. Lo zoroastrismo è stato pertanto interpretato come una protesta contro il monoteismo, quasi fosse appunto una risposta polemica a una religione che professava la fede in un dio unico incapace di dare una spiegazione convincente dell'origine del male. Non mancano indizi per ritenere che il messaggio di Zoroastro si sia diffuso in un ambiente già tendenzialmente monoteistico; il mazdeismo, quale religione monoteista, è infatti verosimilmente anteriore alle Gāθā e si trova probabilmente rispecchiato in una parte dell'Avesta relativamente arcaica, il cosiddetto Yasna dei sette capitoli. D'altra parte, l'insegnamento di Zoroastro può comunque essere definito monoteistico, visto che con questo termine s'intende un'opposizione al politeismo e non al dualismo e anche sulla base della considerazione che non esistono dei meri diteismi; in ogni dualismo il potere benefico è soltanto quello divino e l'avversario è sempre concepito come diabolico, anche se provvisto di un immenso e terribile potere.
Nella storia dello zoroastrismo e delle religioni dell'Iran antico il dualismo non è concepito staticamente, ma subisce un'evoluzione sotto l'influsso di nuove idee determinate, almeno in parte, dall'incontro con le altre fedi e con le altre culture religiose. In particolare, un'importanza fondamentale ha avuto l'incontro con Babilonia e con la sua religione astrale, da cui ha preso le mosse lo zurvanismo, caratterizzato dall'idea dominante del tempo-destino. Mentre il dualismo di Zoroastro, nelle Gāθā, è basato, come già detto, sulla formula dei due spiriti gemelli ‒ Spǝnta Mainyu versus Angra Mainyu ‒ sovrastati dalla figura di Ahura Mazdā, il dualismo quale si riflette nelle fonti greche e, in parte, anche nell'Avesta, consiste nel contrasto diretto di Horomasdes e Areimanios. A essi, in modi più o meno espliciti, si sovrappone la figura del Tempo quale entità personificata, una sorta di principio universale che è all'origine di uno svolgimento della vita cosmica che inevitabilmente si riassorbirà, con la sua consumazione, in una eternità perfetta e illimitata.
Il dualismo metafisico
Un altro aspetto caratteristico della visione zoroastriana del mondo è la concezione dei due livelli di essere o di esistenza: già nello Yasna dei sette capitoli si parla di "ambedue le esistenze" e tale idea è presente pure nelle Gāθā. L'essere, l'esistenza, è un concetto correlato sia al "pensiero", ossia la mente (manah) e lo spirito (mainiiu), sia a ciò che è "provvisto di ossa" (astuuant), ossia alla corporeità che cade sotto i sensi fisici (tanu). L'idea, che in Iran ha avuto particolari sviluppi, è originariamente indoiranica; nell'India vedica, infatti, manas e tanu sono i due elementi distinti che concorrono a costituire il principio vitale.
Esiste quindi un ahu ('essere') del pensiero o mentale e un ahu "ossoso": l'uno si riferisce al livello trascendente dell'essere e l'altro a quello fenomenico. Le due esistenze pertanto non sono soltanto quelle della vita e del post mortem, ma hanno un significato più ampio, poiché esprimono il concetto di un'intrinseca duplicità dello ahu anche nella vita terrena. La tradizione zoroastriana resterà fedele a questa dottrina e la elaborerà notevolmente, distinguendo sempre due stati dell'essere (sti): il mainiiauua e il gaēiθiia o gaēθiia (letteralmente 'vitale'), e cioè rispettivamente il mēnōg e il gētīg della letteratura teologico-filosofica del IX secolo.
È particolarmente significativo il fatto che il polo del dualismo metafisico che può essere definito 'fenomenico' sia reso tanto nella lingua dell'Avesta quanto in quella dei testi del IX sec. ('pahlavico' dei libri zoroastriani) con un termine che si collega al verbo jī ("vivere"). L'essere propriamente 'vitale' non è quello celeste o trascendente, ma quello fenomenico, che è il frutto della creatività dell'essere allo stato mentale o ideale; e quest'ultimo è il germe o il fondamento del fenomenico o 'vitale' che, come tale, non può essere altro che l'effetto o il prodotto dell'opera dello spirito benefico e incrementante, il quale dà la vita e non la morte, è fecondo e non sterile e distruttivo. Lo spirito malefico e mortifero, per sua natura, non può produrre nulla di vitale e non è quindi all'origine del creato; la sua 'creazione' ‒ se così si può definire ‒ è una sorta di orribile aborto, che non riesce a manifestarsi in un'esistenza concreta ma che dà luogo a una schiera di entità negative, quali mostri, chimere o fantasmi, in grado di esercitare il proprio potere demoniaco anche sull'esistenza fenomenica o vitale, ma soltanto aggredendola dall'esterno. Di questa peculiare forma di dualismo, che la tradizione zoroastriana ha fedelmente conservato, si hanno tracce sicure già nell'Avesta e nelle stesse Gāθā.
L'escatologia e la concezione del tempo
Lo zoroastrismo è una religione di salvezza, nel senso che il messaggio di Zoroastro è interamente rivolto a salvare la creazione ‒ il cui apice è rappresentato dall'essere umano ‒ dal male che la insidia, tramite l'opera nefasta dello spirito malvagio e delle potenze che sono al suo servizio: la Menzogna (Druj), il Furore (Aēšma), il Cattivo Pensiero (Aka Manah) e i daēuua (originariamente "dèi", ma poi "demoni") che ne sono la progenie (Yasna, 32, 3). Anzi, in una siffatta prospettiva la creazione nel suo insieme è lo strumento che dio escogita, nella sua onniscienza, per annientare in un tempo determinato il potere di Angra Mainyu. In alcuni passi delle Gāθā ricorrono allusioni alla dottrina che concepisce il fuoco (ātar) e il metallo fuso (xšusta aiiah) come gli strumenti di un giudizio finale, simile a una grande ordalia, nella quale i buoni saranno divisi dai cattivi; inoltre, l'espressione "rendere splendida (o idonea) l'esistenza" (Yasna, 30, 9; 34, 15) e il sostantivo frašō.kǝrǝti (l'"atto di rendere splendida l'esistenza") si riferiscono a una sorta di grande trasfigurazione finale in uno stato perfetto, grazie a un vero e proprio rinnovamento dell'esistenza.
L'idea di una fine, di un "ultimo giro" (apǝma uruuaēsa) dell'esistenza (Yasna, 51, 6) fa parte del pensiero di Zoroastro, a cui risale anche l'immagine di uno scontro tra due eserciti, fra loro incompatibili, verosimilmente concepito in senso escatologico (Yasna, 44, 15). Se si passa all'escatologia individuale il discorso non cambia; le Gāθā fanno spesso riferimento alla sorte dell'anima (uruuan) dopo la morte, con la metafora del ponte delle anime, il ponte del "Separatore" (cinuuaṇt), e con l'immagine di daēnā (che letteralmente significa "visione", ma che in contesti escatologici acquista il significato di "coscienza"), una giovane donna psicopompa (che guida le anime verso l'aldilà). Il motivo del ponte, sicuramente molto antico, esprime l'idea di un passaggio dall'esistenza terrena a quella dell'aldilà ed è concepito secondo un immaginario che ha avuto grande fortuna anche fuori dell'Iran: i giusti lo attraverseranno agevolmente per raggiungere il paradiso, mentre i malvagi non riusciranno nella prova (per loro diventerà sottile come il filo di una lama) e precipiteranno nell'abisso infernale. La daēnā che va incontro all'anima del defunto è la somma dei suoi pensieri, delle sue parole e delle sue azioni, e assume le forme di una fanciulla splendida o di un'orribile strega, a seconda se questi ha compiuto il bene o il male. Il termine daēnā può anche avere il significato secondario di "religione" e si può spiegare mediante il valore che finiscono con l'assumere, collettivamente, tutte le daēnā in quanto coscienze individuali di coloro che ‒ quali seguaci dello stesso insegnamento religioso ‒ sono uniti dagli stessi buoni pensieri, dalle stesse buone parole e azioni.
Con la sua insistenza sulla fine, individuale o universale, lo zoroastrismo professa una concezione lineare del tempo. Esso è proteso verso una trasfigurazione finale, opera dei saos̆iiaṇt (salvatori venturi; letteralmente "coloro che faranno prosperare [l'esistenza]"), sui quali il pensiero religioso dell'Iran antico elaborerà un vero e proprio mito escatologico (Yas̆t, 19, 95-96). Tale concezione del tempo ha dato luogo all'idea di un eone di 12.000 anni, in cui si consuma l'intera vicenda dell'Universo; idea che, elaborata in fonti più recenti, risale verosimilmente al periodo achemenide (VI-IV sec. a.C.).
Elementi di cosmologia e di antropologia
L'Avesta ‒ principale fonte per la ricostruzione del pensiero religioso dell'Iran antico ‒ non è un trattato di teologia; pertanto non vi si trovano idee organiche e sistematiche sui temi e sugli argomenti fondamentali per una visione complessiva del mondo e dell'uomo, quali la cosmologia e l'antropologia.
L'eredità tradizionale indoiranica si riflette, in particolare, nel tema della montagna cosmica che, quale axis mundi, è situata al centro della Terra. Gli Iranici collocavano al centro del mondo il picco della catena montuosa della "alta Harā" (Harā bǝrǝzaitī, da cui il moderno oronimo Alburz), proprio come gli Indiani vi ponevano il monte Meru (il Sumeru della cosmografia buddhista), la vetta più alta della catena Lokāloka. La cima dell'Harā e il monte Meru si trovavano, per giunta, ambedue al centro di una regione centrale, Xvaniraθa in Iran o Jambūdvīpa in India, a sua volta circondata da altre sei regioni, considerate come sei grandi porzioni circolari (kars̆uuar in Iran, dvīpa in India) in cui era suddivisa la Terra (Yas̆t, 10, 15). Già questi dati da soli dimostrano con sufficiente chiarezza l'esistenza di una comune eredità aria nelle concezioni cosmologiche e cosmografiche; ma oltre a questi vi è anche un albero miracoloso piantato a sud della montagna cosmica, che rafforza il legame delle antiche cosmologie dell'Iran e dell'India; tale eredità aria si trasmise allo zoroastrismo, come dimostra un'allusione contenuta nelle Gāθā (Yasna, 32, 3) a una settemplice suddivisione della Terra.
Per quanto riguarda l'antropologia, in un antico inno avestico (Yas̆t, 13, 149) il composto umano è suddiviso in ahu ("vita"), daēnā ("coscienza"), baoδah ("percezione"), uruuan ("anima") e frauuaṣ̌i ("preferenza"; in realtà una sorta di 'doppio animico'), mentre in un altro passo dell'Avesta (Yasna, 55, 1) è attestata una suddivisione in gaēθa ("essere vivente"), tanu con ast, e cioè "corpo" con "ossa", us̆tāna ("anima vitale"), kǝhrp ("forma visibile"), tǝuuīs̆ī ("vigore fisico"), baoδah, uruuan e frauuaṣ̌i. A ben vedere, si tratta di liste che comprendono a un tempo organi e facoltà dell'essere umano che in alcuni casi preesistono all'esistenza terrena, come frauuaṣ̌i, e in altri casi le sopravvivono, come daēnā, uruuan e la stessa frauuaṣ̌i.
Un'antica concezione iranica connette inoltre la razza umana al Sole, in una sorta di mito astrobiologico che distingue tra il mondo animale, correlato alla Luna, e quello vegetale, correlato alle stelle. Essa è probabilmente rispecchiata nella nozione dello xvarǝnah ("splendore"), caratteristica del mondo religioso iranico e oggetto di molteplici studi e interpretazioni: nella sua funzione di componente dell'essere umano lo xvarǝnah ha la valenza di una forza al tempo stesso luminosa e seminale.
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