Vicino Oriente antico. Ceramica e vetro
Ceramica e vetro
La ceramica si afferma nelle società neolitiche mature, che elaborano, dopo un’intensa pratica di agricoltura, forme diverse di trasformazione e conservazione degli alimenti. Fortuna e rapida diffusione sono assicurate alla ceramica dall’economicità della produzione, che unisce a bassi costi tecnici, cioè relativi ai tempi e ai modi di lavorazione e di ubiquità della materia prima, i benefici di un prodotto finale resistente alle temperature, impermeabile ai liquidi, praticamente inalterabile, ma anche fragile e, dunque, destinato a un frequente ricambio. Il procedimento prevede una prima preparazione dell’argilla, che è depurata e sgrassata con componenti vegetali o minerali, fino a ottenere un composto plastico e malleabile; questo è poi plasmato e montato con tecniche diverse, a blocchi o a cordoli avvolti a spirali (‘colombini’), in modo da dare forma ai vasi, che sono prima essiccati e poi cotti in fornaci predisposte. È dunque comprensibile come proprio questa tecnica ‘povera’, presa in prestito dalla pratica di modellare figurine animali e antropomorfe, abbia presto sostituito le produzioni con legno, paglia e pietra, ma anche tecniche sofisticate, come quella a calce bianca, diffusa nel Natufiano (8000- 6500). Le prime ceramiche di un centro neolitico quale Ganj Dareh negli Zagros (7200-6900) costituiscono vasi da mensa e da conservazione di un repertorio morfologico essenziale, destinato nel tempo ad ampliarsi e a ripetersi secondo i gusti alimentari ed estetico-formali delle società produttrici. Nelle società calcolitiche (6000-4000), che attuano le prime esperienze di centralizzazione economica e sociale, proprio il vasellame, per la sua importanza nel ciclo alimentare, diviene, con le sue forme e decorazioni, non soltanto bene di consumo domestico ma anche oggetto di prestigio.
Un primo sviluppo tecnologico nella produzione ceramica è dettato dalla necessità di migliorarne le proprietà termiche e di contenimento, adottando metodi di rifinitura delle superfici esterne. L’aumento o la riduzione della porosità e della permeabilità delle pareti sono pratiche complementari alla conservazione e alla trasformazione degli alimenti solidi e liquidi. Per incrementare l’elasticità della massa di fondo e quindi la resistenza al calore dei vasi da fuoco, si può arricchire la superficie di corrugamenti, incisioni, rugosità; per favorire l’evaporazione e la condensazione, in modo da raffreddare i liquidi contenuti, si può regolare la porosità delle pareti dei vasi; al contrario, per assicurare la tenuta e limitare la dispersione dei liquidi, si può migliorare l’impermeabilità delle superfici, rivestendole, al caso, con un sottile strato di sostanza coprente.
Sistemi differenti di rifinitura si sviluppano allora regionalmente in margine a diverse variabili, quali le qualità sia dei prodotti alimentari sia delle materie prime impiegate, tra combustibile, argille e sue componenti. I prodotti, con le loro selezioni di tipi e di forme, delineano una geografia che rispecchia i caratteri delle società produttrici e le loro pratiche alimentari. L’abbondanza di combustibile oppure la presenza di componenti ferrose o silicee nelle argille determinano ugualmente alcune tendenze regionali, stabilizzatesi sulla lunga durata: il Levante si specializza nelle ceramiche ingubbiate nere o rosse, l’Anatolia in quelle brunite rosse o nere, l’Iran in quelle dipinte. Ceramiche speciali, dipinte o ingubbiate, sono anche destinate a una circolazione di élite e a funzioni cerimoniali.
Forme specializzate si creano in rapporto alla diffusione di determinati alimenti o al loro uso conviviale; un uso rituale di alimenti nel culto sviluppa un ricco repertorio di vasi ripetenti forme animali (teriomorfi) e umane (antropomorfi) per bruciare aromi ed essenze. La consumazione del vino comporta la diffusione, nelle aree del Levante, di forme con beccuccio; per gli oli e le essenze si creano bottiglie e ampolle. La distribuzione di alimenti su lunga distanza, a dorso d’asino o per natante, porta a sua volta a sviluppare affusolate giare da trasporto, a siluro.
In Anatolia (Çatal Höyük VIII) e in Siria nel VII millennio (Amuq A-B, Ras Shamra VA-B), a Biblo e poi in Palestina nel VI (Wadi Rabah), si adottano tecniche di brunitura mediante utensili dalla superficie non ruvida che lisciano e compattano le superfici, in modo da produrre un vasellame brillante nero e rosso. Il vasellame nero è ottenuto con l’aggiunta di sostanze carboniose nell’impasto e, successivamente, mediante cottura in atmosfera riducente, ricca di gas quali l’idrogeno e l’ossido di carbonio, i quali riducono l’ossigeno libero presente nell’argilla e, al caso, applicando sui vasi o nella fornace sostanze fumogene, come grassi animali o vegetali, oppure materiale organico, come il letame. Il vasellame rosso si ottiene da una cottura in atmosfera ossidante, cioè ricca di ossigeno, che provoca l’ossidazione dei composti di ferro presenti nell’argilla.
A queste tecniche di rifinitura si aggiungono pratiche decorative diverse, a incisione o impressione, come impronte di conchiglie, di canne, incisioni, graffiature, digitature, forse per incrementare, aumentando la superficie, le proprietà termiche e di porosità dei vasi. La pittura come complemento decorativo e rifinitura delle superfici trova ampio sviluppo nelle aree orientali, come in Iran e in Mesopotamia. Inizialmente i motivi riproducono forme elementari o imitano l’intreccio dei canestri, poi si creano repertori decorativi dalla diffusione regionale o temporale limitata, che ci permettono di denominare e riconoscere le culture neolitiche di Umm Dabaghiya, Hassuna, Samarra (Mesopotamia), Khazineh (Khuzistan), Tepe Siyalk I (Kashan), Togolok, Jeitun medio (Transcaucasia), Deh Luran (Tepe Sabz) (7000- 5700).
Gli sviluppi sociali ed economici della fase calcolitica si riflettono in un progressivo aumento della produzione ceramica, con conseguente impiego del vasellame come bene di consumo quotidiano. Nelle fasi calcolitica antica e media, rappresentate da una serie di culture regionali (Siria e Mesopotamia: culture di Halaf e Obeid; Anatolia: Çan Hasan 2 B-A e Hacilar I; Azerbaijan: Hajji Firuz II; Turkmenistan: Anau IA, Chakmakli Depe, Namazga I; Luristan: Giyan VA-B; altopiano iranico: Tepe Siyalk II, III1-4, Ismailabad; Khuzistan: Mehmeh; Solduz: Dalma), la ceramica costituisce un bene di prestigio e di identità sociale ed economica, come mostrano la diffusione di alcune forme da mensa e la creazione di un repertorio di motivi dipinti a carattere simbolico. A questo processo si associa un incremento tecnologico collegato all’adozione di fornaci fisse, che consentono di controllare accuratamente la cottura dei vasi; queste fornaci presentano un focolare separato interrato e una camera di combustione coperta da una cupola. Con il Calcolitico tardo, come risposta a una crescente domanda di contenitori, a un diffuso miglioramento di condizioni igieniche nella conservazione degli alimenti e a pratiche di distribuzione di razioni alimentari, si avvia una consistente trasformazione dei modi di produzione. Si adottano, allora, procedimenti di lavorazione economici e in serie, per ottimizzare tempi di produzione e quantità di combustibile. La ruota lenta e lo stampo velocizzano la costruzione di forme essenziali da mensa e da distribuzione; gli impasti a sgrassanti vegetali facilitano la coesione e la cottura di alcune categorie di recipienti di larghissimo uso, come le giare o le ciotole.
Gli sviluppi successivi s’iscrivono in tendenze sociali ed economiche dai caratteri più ampi. La trasformazione delle società urbane gerarchizzate (cultura di Uruk) impone un repertorio ricco e specializzato di forme da travaso, mensa, distribuzione, conservazione e trasporto, per attività differenziate. Con le culture del Bronzo Antico, Medio e Tardo, nel III e II millennio, la tendenza alla normalizzazione del repertorio formale e tipologico si accompagna a una standardizzazione delle procedure di lavorazione con esiti di produzioni regionali massificate; la diffusione di forni fissi e l’uso della ruota veloce portano gradualmente alla definitiva affermazione di ceramiche ossidate, con impasti a leganti minerali (Tav. I). L’elevata specializzazione artigianale si riflette ormai nella formazione di quartieri di ceramisti, ubicati spesso in aree appartate, in prossimità oppure al di fuori delle mura, per ragioni di inquinamento e di accessibilità dei materiali (Abu Salabikh, Lagash, Tell Khuera, Megiddo, Sarepta, Gerusalemme, Tell Leilan) o in centri limitrofi (Umm el-Hafriyat, vicino a Nippur; un villaggio citato nei testi di Nuzi; Khirbet Qasrij in Assiria).
Tra il II e il I millennio la standardizzazione e la serialità nei metodi di produzione portano comunque a una diffusa normalizzazione delle fabbriche e del repertorio formale. Non mancano, in periodi di trasformazione tecnologica ed economica e di apertura ad ambienti esterni – come nel Bronzo Tardo II e nel Ferro I del Levante – prodotti diversi, importati e imitati, che stimolano un certo rinnovamento tecnico e formale; in genere, però, le fabbriche locali si adeguano alle richieste di un mercato non selettivo e impongono tipi standardizzati di uso comune.
Fritta, vetro e faïence costituiscono tre prodotti ottenuti da uno stesso procedimento di sofisticata tecnica del fuoco, attraverso limitate variazioni nelle componenti di base e nel grado e carattere della cottura o fusione. Creati in origine per riprodurre pregiate pietre semipreziose, si affermarono dopo la metà del II millennio attraverso un gradua - le sviluppo tecnologico. Con il termine francese faïence – corrispondente al l’italiano ‘faenza’ – s’intende, nei ma - teriali vicino-orientali, un materiale composito consistente in un corpo cristallino costituito da una struttura stratificata di quarzo sinterizzato e una eventuale invetriatura superficiale. Il corpo cristallino era ottenuto attraverso un processo di sinterizzazione, vale a dire una fusione parziale, a una temperatura tra 800 e 1000 ºC, di una miscela in polvere composta di silicati, provenienti da sabbie quarzifere o quarzo macinato, fondenti alcalini, come il carbonato o bicarbonato di potassio o natron, e stabilizzanti, come la calce; tale miscela è detta ‘fritta’. L’invetriatura superficiale consisteva in un’invetriatura alcalina (con fondenti alcalini) o di piombo, colorata con l’aggiunta di pigmenti inorganici, come ossidi metallici di ferro o antimonio (rosso e giallo), o di rame (blu, azzurro, verde) e cobalto, stagno (bianco) e una eventuale cottura riducente o ossidante. La faïence poteva essere invetriata in modi diversi: per applicazione di una vetrina, tramite immersione o aspersione di una fritta o di una polvere di quarzo e successiva cottura; oppure mediante due procedimenti meccanici nella produzione della stessa faïence, migliorando, cioè, l’efflorescenza, ossia l’affioramento in superficie dei sali alcalini misti (carbonati, solfati, cloriti di sodio, potassio, natron o ceneri vegetali), attraverso un ragionevole essiccamento del prodotto prima della cottura; oppure ancora con la cementazione, nota anche come ‘tecnica di Qom’ (Iran), una reazione ottenuta ponendo il corpo in faïence durante la fusione in una polvere vetrosa, che reagisce vetrificandone la superficie.
Le botteghe di lavorazione spesso coincidevano con le fonderie dei metalli, con le quali condividevano le tecniche, gli strumenti di fusione, i crogioli, il combustibile e alcuni componenti, come gli ossidi metallici, spesso residui da scarti di lavorazione. Anche la tecnica di formazione degli oggetti coincideva; essendo, infatti, la faïence poco plastica, usualmente era modellata a stampo o intorno a un nucleo.
L’invetriatura, o ‘vetrina vetrosa’, poteva coprire materiali anche diversi, come la ceramica o i mattoni cotti o la pietra, attraverso un rivestimento alcalino (carbonato di sodio o potassio) o di rame. Una trasformazione, forse occasionale, per contatto tra pietre diverse esposte al calore, come la malachite con la steatite bruciata, fu forse all’origine del procedimento. L’Egitto predinastico, la Mesopotamia e l’Iran del periodo Obeid 3 (5400-4300) hanno restituito i primi grani di collana e amuleti invetriati su pietre, come la steatite, i cui silicati reagiscono con le sostanze alcaline, e il cristallo di rocca. Con la fine del IV millennio in Mesopotamia (Tell Brak, Gawra) e in Iran (Susa) è documentata una produzione di oggetti di faïence: ornamenti personali (presenti spesso in corredi funerari), elementi decorativi e vasellame. Agli inizi del III millennio i sigilli cilindrici di ‘steatite bruciata’ costituiscono una produzione massificata e standardizzata diffusa tra Iran e Mesopotamia; di faïence sono ancora realizzati i sigilli di fase gutea, non diversamente da grani di collana di quarzo invetriato e di faïence (Ninive, bead layer). La fortuna di questi oggetti personali raggiunge le lontane regioni del Golfo Persico, dell’Oman e della valle dell’Indo, stimolandovi pro - dotti locali.
Con la metà del III millennio si creano oggetti diversi, figurine a stampo e tessere di mosaico (Nippur). Nel II millennio, a una consistente presenza di faïence egizie in Palestina e in Fenicia, corrisponde l’avviarsi di un fiorente artigianato in Siria e Anatolia (Ebla, Kültepe). Nella seconda metà del II millennio lo sviluppo del vetro determina un ulteriore progresso. Si creano decorazioni policrome, incise e modellate, per nuove classi di oggetti di prestigio, specie negli ambienti mitannico (Nuzi), assiro (Assur) ed elamita (Choga Zanbil): pendenti a maschere femminili, forse funerarie, calici antropomorfi a volto femminile, figurine femminili nude, parti di mobilio, tessere e rosette per decorare vesti, coppe a motivi di petali, mazze rituali. Infine, le produzioni siriane e assire nel I millennio imporranno un vasto repertorio di oggetti, tra amuleti di tipo egizio e vasi policromi.
Il vetro presenta una struttura omogenea, non cristallizzata, ottenuta da un composto di silice e carbonato di sodio, fuso a lungo ad alta temperatura (1400 ºC) fino a trasformarsi in un fluido viscoso, che può essere lavorato aumentandone, con il raffreddamento, la viscosità poco prima di divenire solido. Lo stadio iniziale del procedimento prevedeva una prima reazione solida, ottenuta da un composto di sabbia e fondenti calcinati, fusi a basse temperature, con un risultato di corpo policristallino, privo di superficie vetrosa, detto ‘fritta’; questo materiale grossolano poteva essere successivamente macinato in un impasto più fine e fuso nuovamente per produrre il vetro. Pani di fritta erano conservati, come nella bottega di Tell el-Amarna del XIV sec., per essere usati come componente nella produzione del vetro. Un composto particolare era il cosiddetto Egyptian blue, una fritta blu consistente in un silicato di rame e di calcio, simile al minerale naturale cuprorivarite, prodotta in Egitto a partire dalla IV dinastia e occasionalmente documentata in altre aree, come in Iran nel I millennio (Hasanlu), in Fenicia, Assiria e Babilonia, sia per intarsi sia per pregiati oggetti in miniatura.
I primi grani di collana di vetro, tra gli inizi e la metà del III millennio, provengono dalla Siria (Tell Judeideh), dalla Mesopotamia (Tell Brak, Nuzi, Nippur, Eridu, Ur) e dall’Egitto della V dinastia. È soltanto verso la metà del II millennio che la lavorazione del vetro opaco si specializza e si stabilizza, adottando diverse tecniche di costruzione: per fusione intorno a un nucleo, a stampo, con il procedimento a cera persa, o per modellatura di un blocco. Alla stessa epoca risalgono alcuni testi babilonesi sulla produzione del vetro (v. oltre Tav. II). Queste tecniche consentono di creare un’ampia varietà di ornamenti, oggetti e vasi (Nuzi, Tell Rimah, Dur-Kurigalzu). La produzione del vetro conosce una crisi con la fine del II millennio sia in Egitto sia in Mesopotamia, ma riprende in Fenicia e in Siria, grazie all’adozione di nuove tecniche di lavorazione che permettono di realizzare un vetro trasparente simile al cristallo di rocca, documentato in una serie di oggetti rinvenuti nella capitale assira Nimrud.
Botteghe di corte o annesse ai templi, a partire dal Nuovo Regno, a Malqata, Tell el-Amarna, Lisht e Tell Yahudiyeh, in Egitto, hanno restituito pani di fritta e copiosi scarti di lavorazione. Lingotti discoidali di vetro sono stati rinvenuti nel relitto di Kash, in Anatolia, del XIV sec.; altri provengono da Nuzi e da Kar-Tukulti-Ninurta. A questi dati si affianca l’eccezionale documentazione dei testi lessicali assiri conservati nella biblioteca di Assurbanipal a Ninive, ma certo più antichi, i quali elencano materiali e procedimenti di lavorazione, illustrando i vari momenti di preparazione delle diverse componenti macinate e di cottura nella fornace.
Tavola II - RICETTE PER LA PRODUZIONE DEL VETRO
Una serie di quattro tavolette dalla biblioteca di Assurbanipal (Assiria, VII sec.) contiene ricette per la fabbricazione del vetro. La composizione del testo risale alla metà del II millennio: se ne hanno frammenti da Babilonia dell’inizio della dinastia cassita e dalla capitale hittita Boğazköy. Le ricette segnalano soltanto poche azioni preliminari di carattere magico-religioso (cioè tecnicamente non funzionali: scelta del giorno propizio, esecuzione preliminare di sacrifici), ma poi descrivono in maniera circostanziata operazioni precise e tecnicamente efficaci. Se ne riporta qui un brano: «Se vuoi fare del vetro color zagindurû [lapislazzuli verde], trita finemente e separatamente 10 mine di immanakku [una pietra] e 12 mine di [cenere di] aḫussu [una pianta], mischia e metti in un forno freddo a quattro aperture, sistemando in mezzo alle aperture. Mantieni a fuoco vivace e senza fumo. Appena la mistura diventa rossa, portala all’aperto e fa’ freddare. Poi tritala di nuovo, raccogli in un crogiolo pulito, e metti in un forno freddo. Mantieni a fuoco vivace e senza fumo. Appena comincia a diventare giallo-oro, versala su un mattone cotto. [Questo primo stadio] si chiama zukû [pasta vitrea ‘pura’]». (trad. di Zaccagnini in Liverani 1988, p. 460) Segue una seconda serie di operazioni per trasformare la pasta zukû in una pasta di secondo stadio, detta tērsītu ‘preparazione’. Infine, una terza serie di operazioni trasforma la pasta tērsītu nella desiderata pasta zagindurû ‘lapislazzuli verde’. Come è chiaro, la pasta vitrea (opaca e colorata) era prodotta come succedaneo artificiale delle pietre semipreziose. I testi sia mesopotamici sia egizi sia siro-palestinesi distinguono, per esempio, il ‘lapislazzuli di montagna’ (cioè estrattivo) da quello ‘di forno’ o ‘bollito’ (cioè artificiale), che è la pasta vitrea colorata. La produzione e il commercio di lingotti e di prodotti finiti di pasta vitrea (mekku in semitico di Nordovest, eḫlipakku in hurrita) muoveva soprattutto dalla Siria-Pa - lestina e dal regno di Mitanni verso l’Egitto, la Meso pota mia e l’Anatolia. (M. L.)
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