Vescovi/4: i fari dell'episcopato
All’indomani della proclamazione del Regno d’Italia, tra i nuovi regnicoli vi erano i fedeli, i vescovi e i preti di sette Stati preunitari. Divennero concittadini il vescovo di Napoli, capitale del Regno delle Due Sicilie, e quello di Milano, fino a poco prima suddito dell’Impero asburgico, insieme al vescovo di Torino, capitale del nuovo Regno sabaudo, a quello di Firenze e a quello di Palermo. Con l’eccezione del Veneto e di Roma, ancora per pochi anni, i cattolici della penisola furono uniti politicamente in un’unica entità statuale. Le ricadute ecclesiastiche di questo fatto furono però assai blande. È stato messo in luce come la spinta verso una maggiore unitarietà dell’episcopato si sviluppò alla fine del Risorgimento piuttosto come reazione e contrasto al processo di unificazione, che con il suo naturale compimento romano avrebbe significato la vittoria di quel liberalismo anticlericale stigmatizzato da Pio IX1. Il suo magistero ebbe una conferma autorevole nelle decisioni infallibiliste del concilio Vaticano I, interrotto proprio per l’ingresso delle truppe italiane nella città di Roma. L’occupazione della città diede avvio a quella ‘prigionia’ vaticana del papa che portò a individuare come caratteristica del modello episcopale, a partire da quel momento, oltre alla fedeltà al papa, l’intransigenza nella questione romana. Il compiersi dell’unità politica nel 1861 e dell’unità territoriale nel 1870 provocò una serie di effetti diversi sulle chiese della penisola: se da un lato fece impallidire (ma non scomparire) quelle identità legate agli Stati preunitari, diversi dal punto di vista tanto spirituale quanto culturale, offrì nella reazione alla presa di Roma e alla fine del potere temporale dei papi un luogo ideale di aggregazione che costituirà la base della costruzione di una Chiesa nazionale2.
Se il dato unificante nella storia dell’episcopato della penisola nel secolo successivo all’Unità si può senz’altro indicare nella fedeltà al papa e nel suo essere egli stesso faro e sorgente della vita delle diocesi, non si possono non rimarcare alcune figure che si distaccano, almeno parzialmente, da questo modello. Vi sono, all’interno delle grandi periodizzazioni che marcano la storia di cui ci occupiamo, modelli prevalenti e modelli originali; si tratta di un’originalità in genere dovuta a una diversa interpretazione dei grandi problemi del momento, e in particolare delle grandi cesure provocate dall’evoluzione politica dello Stato italiano: Geremia Bonomelli e Andrea Carlo Ferrari sono fra questi. In un certo senso si potrebbero assumere come turning point della storia ecclesiastica le stesse date che ripartiscono le grandi periodizzazioni civili e politiche della storia d’Italia: proprio in questa inestricabile sovrapposizione, infatti, risiede quella ‘particolarità’ italiana che ha caratterizzato tante interpretazioni storiografiche e che ancora marca chiavi di lettura, progetti e nostalgie.
Nel lungo arco di tempo, che copre quasi un secolo, durante il quale le Chiese degli Stati preunitari si sono trasformate in Chiese italiane per poi dare vita alla Chiesa italiana, alcuni temi hanno coagulato riflessioni e scelte, fedeltà e prospettive di lunga durata, all’interno delle quali non mancano però stacchi e discontinuità. Il rapporto con lo Stato italiano, naturalmente, è il primo di questi grandi temi. Se l’intransigentismo di Pio IX e dei suoi successori è un dato costante, una sorta di basso continuo che accompagna i primi passi dello Stato unitario e rende in qualche modo i sudditi cattolici cittadini di seconda classe, non tutto l’episcopato si allinea però acriticamente su queste posizioni.
Successivamente, la Prima guerra mondiale costituì per i cattolici italiani un momento di svolta nella consapevolezza dei limiti del significato religioso dell’esperienza bellica e di diretto confronto con gli orrori che provocava: era la fine di ogni possibile immobilismo, in un momento storico in cui nuovi stili di vita e nemici ideologici sembravano scardinare dalle fondamenta la tranquilla e mitizzata sicurezza di un tempo. Con l’avvento del fascismo, la fine della questione romana, con la Conciliazione del 1929, rappresentò uno spartiacque con cui tutti dovettero confrontarsi. I vescovi italiani si trovarono pienamente inseriti nella dialettica tra Chiesa e Stato fascista, con la sua pretesa totalizzante, nonostante gli indubbi benefici che essa aveva tratto dall’accordo. La crisi dell’Azione cattolica fu solo una delle dimostrazioni di questo impatto; la guerra d’Etiopia segnò invece l’apice dell’appoggio cattolico al regime. Se molti avevano guardato con una certa simpatia al fascismo, le leggi razziali, l’avvicinamento alla Germania nazista e la Seconda guerra mondiale portarono a un deciso distacco dell’episcopato dalle precedenti posizioni. Vescovi come F. Marchetti Selvaggiani a Roma, P. Boetto a Genova, I. Schuster a Milano, M. Fossati a Torino, E. Dalla Costa a Firenze, M. Mimmi a Bari, si trovarono a gestire, in una delicata fase di assenza dei pubblici poteri indipendenti, i problemi della guerra, dei bombardamenti, dell’occupazione delle città da parte delle forze nazifasciste, ritrovando per la Chiesa spazi e modi di intervento che guadagnarono loro il generale favore delle popolazioni.
Con il credito acquisito durante la Seconda guerra mondiale, a volte sostenendo direttamente i movimenti di liberazione, i vescovi furono investiti pienamente dalla proposta di civiltà che Pio XII offriva al mondo; per l’Italia, era essenziale la mobilitazione dei cattolici e l’affiancamento della Chiesa alla rinata Democrazia cristiana in vista delle competizioni elettorali, nel clima della guerra fredda e dell’anticomunismo ideologico che caratterizzava quegli anni. Furono proprio i primi anni della ricostruzione a evidenziare il profondo cambiamento che stava maturando in Italia e di conseguenza la necessità di un confronto più regolare e costante tra i responsabili delle diverse diocesi.
A partire dal 1952 Pio XII, dietro suggerimento del cardinale Ruffini di Palermo, diede inizio a un embrione di conferenza episcopale in Italia3. Tuttavia, la riunione annuale interessava solamente i presidenti delle regioni conciliari e mancava del tutto di una struttura adeguata alla costruzione di una comune coscienza a livello nazionale. Addirittura, lo statuto del 1954 negava il titolo canonico di conferenza all’insieme dei cardinali riuniti e stabiliva che le risoluzioni adottate fossero soltanto suggerimenti per i vescovi, comunque dopo il nulla osta della Santa Sede. In queste prime riunioni i presidenti erano individuati sulla base dell’anzianità di appartenenza al collegio cardinalizio e avevano compiti esclusivamente organizzativi. Fu l’anziano arcivescovo di Milano, il benedettinoIldefonso Schuster, a guidare il primo incontro, che si tenne a Firenze nel gennaio 1952, l’anno dell’operazione Sturzo e dell’appello del papa per un mondo migliore4. I verbali dell’assemblea ci restituiscono un clima un po’ impacciato, in cui il cardinale quasi si schermisce per lasciare posto al segretario: «Sono qui, ma non sono preparato a presiedere. Ritenevo dovesse presiedere il card. Piazza della Concistoriale. Allora monsignor Urbani ci dirà quello che dobbiamo fare»5. In una discussione informale si parlò delle vocazioni ecclesiastiche, della Dc e della politica italiana in generale, degli attacchi ai poteri dei vescovi. L’anno successivo, a Sestri Levante, i temi affrontati furono il comunismo e la crisi della cultura cattolica, che sembrava ‘non tenere’ sufficientemente.
La morte di Schuster, nell’agosto 1953, portò alla presidenza il cardinale Adeodato Piazza, carmelitano scalzo, segretario della Congregazione concistoriale6. Nel settembre 1953 la riunione dei cardinali ebbe luogo a Venegono Inferiore; pochi mesi dopo i presidenti delle conferenze regionali ebbero il loro incontro presso il santuario di Pompei. Da lì nacque la prima lettera collettiva dell’episcopato, dedicata ai problemi sociali del paese e all’anno mariano. Nell’agosto 1954 Pio XII dispose l’applicazione ad experimentum dello statuto provvisorio della Cei elaborato dalla Concistoriale. Dal 1954 al 1958 fu presidente il cardinale Maurilio Fossati, arcivescovo di Torino7. Si tratta di una figura rappresentativa di tanti vescovi italiani che vissero nelle loro diocesi il periodo fascista e la guerra mondiale; nel ruolo di presidente della Cei appare come un canale tra la Segreteria di Stato, che riflette i desideri del papa, e i cardinali della Cei, in particolare per quanto riguarda i temi legati all’apertura a sinistra e all’avanzata del socialismo in Italia. L’anziano presidente manifestò a Giovanni XXIII il desiderio di essere sollevato dall’incarico; accettando le dimissioni, il papa attenderà il parere del comitato direttivo dei cardinali sulla designazione del successore, a norma del nuovo statuto. L’impulso per una responsabilità collettiva viene però ancora, per tutti gli anni Cinquanta, dalla Santa Sede: com’è noto, la prima riunione di tutti i vescovi italiani si avrà solo con ilVaticano II, nel 1962. La percezione dei vescovi, in questi primi anni, è quella di essere insieme per collaborare meglio con il papa, che resta il vero punto di riferimento di tutto l’episcopato8.
All’interno dell’episcopato, al di là dei punti di riferimento istituzionali, erano presenti in quegli anni personalità in grado di coagulare un più vasto consenso, per il tipo di esperienze che si trovavano a condurre nelle loro diocesi ma anche per il particolare rapporto che avevano con il pontefice regnante. Tra questi, Giuseppe Siri è senza dubbio uno dei maggiori interpreti della Chiesa pacelliana9. Arcivescovo della sua diocesi natale, Genova, dal 1946 al 1987, con i suoi quarant’anni di episcopato attivo si colloca al vertice della longevità pastorale del Novecento. Non soltanto Siri fu la guida di una grande diocesi del Nord, ma fu anche uno dei personaggi chiave di una complessa e lunga stagione ecclesiastica e politica, che ha attraversato la Seconda guerra mondiale, il ritorno della democrazia, la costruzione dell’Italia repubblicana, l’apogeo e la crisi della Dc, la guerra fredda, le trasformazioni sociali legate al miracolo economico, fino ai prodromi della caduta del comunismo. Profondo conoscitore della dottrina sociale cristiana, si era trovato, ancora vescovo ausiliare del cardinale Boetto, vicino agli ambienti antifascisti e resistenziali, acquisendo un credito assai elevato presso l’intera popolazione della città, in particolare durante le trattative per la resa degli occupanti tedeschi e per il salvataggio del porto, cuore dell’economia cittadina. Assai stimato da Pio XII, di cui condivideva le visioni, Siri sarà a capo della Conferenza episcopale, come vedremo, ma fu anche presidente dell’Apostolato del mare, delle Settimane sociali, della Commissione episcopale per l’Azione cattolica. Per tutti gli anni Cinquanta e poi fino al concilio fu senz’altro uno dei pochi leader riconosciuti dall’episcopato italiano.
Come rappresentante meridionale dell’episcopato pacelliano si può individuare la figura Enrico Nicodemo10. Nato in provincia di Salerno, nel 1945 divenne vescovo della diocesi di Mileto (Cz), passando poi nel 1952 a Bari. Nel 1955 fu chiamato nella Commissione episcopale per l’alta direzione di Azione cattolica, occupandosi anche delle Settimane sociali. Il giovane vescovo ebbe chiara la situazione spirituale non meno che sociale ed economica di gran parte delle popolazioni meridionali; condivise con papa Pacelli l’apocalittico senso di crisi e gli strumenti per superarla: l’unità della Chiesa, il giudizio negativo ma non spaventato sulla modernità, il ruolo del vescovo come unica guida autorevole del suo popolo. Di fronte a una religiosità meridionale spesso sganciata dalle prospettive evangeliche ed ecclesiastiche, Nicodemo si dedicò con passione all’istruzione religiosa e catechistica, spronando anche i preti a uscire dalla mera funzione cultuale per diventare anch’essi insegnanti per il loro popolo. Dal punto di vista politico la diocesi di Bari non offriva piene garanzie di tenuta rispetto ai partiti della sinistra. Nicodemo si interessò sempre in prima persona della situazione politica, considerando la Dc come uno strumento che poteva aiutare la Chiesa nella difesa di quella civiltà cristiana da più parti minacciata. Preoccupato per la situazione economica del Sud, intervenne a più riprese presso gli uomini politici, a Bari e a Roma, per ottenere investimenti e sviluppo economico per la sua gente. Nel suo programma la gerarchia e i laici dovevano lavorare insieme per essere una presenza orientatrice in un mondo in rapida trasformazione. Vicino per impostazione a Siri, quando il presidente della Cei gli chiese con forza di intervenire su Moro, suo diocesano, per bloccare l’apertura a sinistra egli fece quanto richiesto, ma cercò anche di spiegare le posizioni del politico barese, nella consapevolezza di una certa ineluttabilità dell’evoluzione politica e sociale del paese.
Sempre al Sud godeva di prestigio e autorevolezza Ernesto Ruffini, arcivescovo di Palermo dal 1946 al 1967, l’anno della sua morte11. Di origine mantovana, studiò a Milano e a Roma, dove a partire dal 1928 fu segretario della Congregazione dei seminari e delle università, collaborando conPio XI nella riforma degli studi teologici. La sua formazione romana antimodernista lo portò a tradurre l’intransigentismo, appreso durante gli anni della formazione, in una forte condanna della modernità; la situazione della Sicilia, inoltre, era resa ancora più complessa dai gravi problemi economici e dal potere della mafia. Da qui un progetto pastorale a tratti inedito, costruito attorno alla figura del vescovo, un progetto nel quale Ruffini tentò anche di sensibilizzare il tradizionale cattolicesimo dell’isola nei confronti dei pressanti problemi sociali esplosi nel dopoguerra. Rispetto al rapporto tra Chiesa e Stato, la proposta di Ruffini, segnata da un acceso anticomunismo, è quella di uno stato confessionale sul tipo spagnolo, modello che utilizzerà spesso durante il Vaticano II per opporsi a quello che gli appariva un riformismo troppo spinto. Come s’è accennato, fu proprio Ruffini, all’inizio degli anni Cinquanta, a farsi promotore presso il papa dell’esigenza di una conferenza episcopale in Italia.
A Firenze, dal 1931 Elia Dalla Costa rappresentava un modello spirituale di vescovo12. Era il modello con cui Pio XI intese rafforzare la Chiesa in Italia operando una ‘scelta religiosa’ di fronte alla fascistizzazione della società italiana, secondo un’idea ambrosiana di guida pastorale, forte nella sua presenza nella città. Proprio questo profondo radicamento nel modello tridentino e borromeano portò Dalla Costa, con Schuster e altri, a non trovare una perfetta sintonia con la Chiesa movimentista di Pio XII. Alcune fonti lo indicano come un candidato alla successione di Pio XI nel conclave del 1939. La sua fiducia nel tradizionale tessuto parrocchiale, nel rapporto stretto tra vescovo e preti, in una pastorale tradizionale e robusta, aliena da coinvolgimenti politici ed elettorali, lo allontanarono dal modello pacelliano, ma lo resero nel contempo venerato all’interno della Chiesa italiana. I richiami alla mitezza e al perdono, particolarmente nel periodo della scomunica dei comunisti, ne fecero una personalità in qualche modo alternativa, di stampo religioso, capace di comandare ma sempre all’insegna dell’ascesi e della povertà, intesa come condizione sociale ma anche come lontananza dal mondo dei potenti. La sua diocesi fu, per lungo tempo, una fucina di esperienze nuove, non sempre ben viste dalla Curia romana: si pensi, tra gli altri, alle esperienze di don Milani, di padre Balducci, di padreTuroldo e di Giorgio La Pira. Il dopoguerra segna in un certo senso il distacco tra la sua proposta e la realtà non solo sociale, ma anche ecclesiale, dell’Italia di quegli anni; l’attivismo del giovane clero, da lui più volte criticato, è invece uno dei tratti caratteristici di una Chiesa coinvolta strettamente in un processo di mobilitazione permanente. Partecipò soltanto alla prima riunione della Conferenza episcopale italiana, che si tenne proprio nella sua diocesi, per motivi di salute. L’accostamento, dal 1954, di un vescovo coadiutore nella persona di Ermenegildo Florit assunse dunque il significato di una ‘romanizzazione’ di una diocesi che voleva rappresentare, senza carica polemica, una sorta di alternativa e manteneva una sua robusta personalità. Dal 1958 il potere reale nella diocesi venne assunto da Florit, mentre all’anziano Dalla Costa non restò che una carica formale. Ma non sarà per nulla secondario il suo appoggio all’elezione di Angelo Giuseppe Roncalli nel conclave del 1958, nel quale vedeva probabilmente una visione pastorale consona alla sua e capace di fecondi sviluppi.
A Milano arrivò nel 1954 come arcivescovo il sostituto alla Segreteria di Stato G.B. Montini. Negli anni Quaranta e Cinquanta la sua autorità era cresciuta grandemente tra i laici e i vescovi italiani; egli rappresentava anche una delle ragioni della forza di De Gasperi e del suo partito nel mondo cattolico. Si tratta dunque di uno dei maggiori punti di riferimento dell’episcopato della penisola negli anni difficili della ricostruzione e dell’avvio della democrazia italiana. Era stato giovane assistente ecclesiastico nazionale della Fuci durante gli anni del fascismo, fino al 1933, quando insistenti diffidenze vaticane ne resero difficile l’opera. Interessato da sempre all’incontro tra cultura ecclesiastica e cultura laica, fu all’origine delle Settimane di Camaldoli. Sempre più vicino a papa Ratti, nel 1937 venne nominato sostituto e addetto alla direzione degli affari ecclesiastici ordinari (tra i quali l’Ac). Con Pio XII fu chiamato a interessarsi dei profughi e dei dispersi, intervenendo spesso anche presso le autorità tedesche occupanti. Nel 1952 fu nominato prosegretario di Stato insieme a monsignor Tardini. Non figurava però nella creazione cardinalizia del 1953, l’ultima di papa Pacelli. La sua nomina a Milano risultò quindi per molti osservatori piuttosto stupefacente, perché ne imponeva l’allontanamento da Roma. La pastorale milanese fu improntata a un’idea di missione adattata alle nuove condizioni poste dall’urbanizzazione e dal confronto con la modernità. Montini risultò presto uno dei poli della nascente Cei, rappresentando un’anima più aperta all’incontro e al dialogo rispetto ad altre personalità della Chiesa dell’epoca. Fu Giovanni XXIII, che lo creò cardinale, a coinvolgerlo nella preparazione del concilio Vaticano II. Sarà proprio il conclave riunito durante il concilio a eleggerlo papa nel giugno 1963, consacrando così una personalità capace di traghettare senza strappi la Chiesa verso gli anni del postconcilio.
Nel 1952 iniziò anche il lungo episcopato bolognese di Giacomo Lercaro, destinato a grande notorietà durante gli anni del concilio, soprattutto per il suo contributo fondamentale alla riforma liturgica13. Lercaro, che aveva trascorso a Genova quasi sessant’anni, giunse a Bologna dopo un lustro come vescovo di Ravenna, anch’essa una diocesi ‘rossa’ e dunque difficile per la Chiesa pacelliana. A Bologna Lercaro avviò una serie di esperienze nuove, come la costituzione di uffici diocesani ad hoc e momenti di avvicinamento tra il vescovo e la popolazione, mentre le linee anticomuniste si declinavano in diocesi secondo le consuete modalità di scontro frontale. Cresceva intanto la rete dei contatti internazionali del vescovo, in particolare nel mondo liturgico: un aspetto che in genere nell’episcopato italiano di quegli anni era assai carente. Nel 1955 vasta eco ebbe la pubblicazione del direttorio liturgico A Messa, figlioli!, con il quale Lercaro si proponeva di realizzare quella «partecipazione attiva dei fedeli ai sacri misteri» che daPio X in poi era indicata come uno dei principali obiettivi pastorali. Profondamente innovatore l’episcopato lercariano fu anche per l’inedito sviluppo del concetto di Chiesa locale, ancor prima del concilio: a partire dal 1961 la diocesi venne raccolta annualmente in sinodo, una forma di collegialità del tutto nuova per l’esperienza italiana.
Nel settembre 1959 entrò in vigore lo statuto provvisorio della Cei, che prevedeva un presidente nominato dal papa su indicazione del comitato direttivo. Nonostante la diversità di vedute, papa Roncalli chiamò dunque l’arcivescovo di Genova Giuseppe Siri a dirigere l’organo dei vescovi italiani. La responsabilizzazione degli episcopati nazionali voluta dal papa passò dunque in Italia attraverso la guida di una figura che godeva di un larghissimo consenso, autorevolezza e prestigio. Mentre il papa aveva deciso di non occuparsi direttamente delle vicende italiane, Siri vedeva la Cei come un utile strumento per intervenire nell’attualità del paese e nella sua evoluzione non solo religiosa, ma anche sociale e politica. La novità era rappresentata, nelle parole del cardinale, dalla «responsabilità collettiva in quegli affari generali di impostazione e di lavoro che riguardano l’Italia»14.
Per Siri la presidenza Cei rappresentò il riconoscimento del proprio disegno sulla Chiesa e sull’Italia, un disegno che non andava nella stessa direzione di quello di papa Giovanni XXIII ma che godeva ancora del favore della maggior parte dell’episcopato italiano, legata al modello pacelliano. L’autonomia progressiva che la Cei doveva sviluppare era per Siri un’occasione importante per gestire direttamente i rapporti con il mondo politico, nell’intento di salvare l’unità politica dei cattolici e, in quell’ottica, la libertà stessa della Chiesa di esistere e di adempiere la sua missione. Per il cardinale presidente l’appoggio alla Dc era strumentale alla difesa dello spazio vitale della Chiesa, minacciata dal comunismo e dal laicismo. Siri riteneva, a proposito del comunismo, che «non abbiamo argomento veramente maggiore da trattare»15. Vedeva serpeggiare tra i cattolici italiani idee neomoderniste: anche per questo l’unione delle forze cattoliche era una priorità, in modo da evitare una divisione tra i cattolici sul terreno politico, definita «dannosa e sterilizzante». Uno dei punti fermi del suo programma rimase sempre la lotta contro queste divisioni, che toglievano forza all’impatto dei cattolici sulla società italiana. Fu Siri a volere che la lettera collettiva dell’episcopato del 1960 fosse dedicata al tema del laicismo.
Il cardinale operava nella convinzione che la Cei dovesse rappresentare il riferimento ecclesiastico del mondo politico in Italia, soprattutto da quando il papa aveva deciso di non intervenire più personalmente in questo campo. L’arco della sua presidenza è segnato politicamente dall’apertura a sinistra e dall’avvio della stagione dei governi di centro-sinistra. Si trattò del campo di maggior impegno del presidente, ma anche di una delle sue più evidenti sconfitte. La Dc veniva attentamente sorvegliata. In vista delle scadenze elettorali la Chiesa sosteneva con forza l’azione dei Comitati civici, considerati indispensabili per la riuscita del partito cattolico e per la sconfitta dei ‘cattolici laicisti’. L’unità politica doveva rispecchiare l’unità religiosa degli italiani, cheSiri propugnava contro qualsiasi pluralismo. Si trattava di un modello monolitico che si scontrava però con la realtà di una società in rapida evoluzione e con la posizione di altri vescovi, tra i quali Montini e Lercaro. L’unità religiosa, nella sua visione, era intaccata da quei movimenti che stavano sorgendo al di fuori del tradizionale tessuto dell’Azione cattolica e che egli cercò sempre di limitare quando non di vietare; questo atteggiamento fu evidente, per esempio, con uno dei primi gruppi di questo genere, il movimento dei Focolari di Chiara Lubich, cheSiri osteggiò in ogni modo.
Il tradizionale anticomunismo della Chiesa veniva sfidato da gesti di vasta risonanza che creavano un clima di incomprensione e anche di sospetto; è quanto accadde per esempio tra la fine del 1959 e l’inizio del 1960, in occasione del viaggio a Mosca del Presidente della Repubblica Giovanni Gronchi. La Cei lavorava per impedire quelle scelte politiche che sembravano innanzitutto cedimenti dottrinali. Tuttavia, l’evoluzione politica era inarrestabile: dapprima con le giunte amministrative, e poi con i governi di Fanfani e successivamente di Moro, i socialisti fecero il loro ingresso nell’area di governo. La serrata corrispondenza tra Siri, Nicodemo e Moro alla vigilia delle aperture democristiane verso i socialisti evidenzia proprio questo disegno di interventi autorevoli della Cei presso i responsabili politici. Di fronte a un passo del segretario democristiano presso il papa, Siri lamentò l’esclusione della Cei:
«Esiste la Cei. Essa esprime tutto l’episcopato italiano e non è un mistero che la S. Sede ha rimesso alla Cei gli affari generali interessanti la Chiesa d’Italia [...]. Ora la Cei è stata semplicemente evasa. Si sono cercati contatti colla S. Sede, contro la presumibile volontà della Santa Sede, ma la Cei è stata al tutto tenuta fuori. Questo fatto è da riprovarsi»16.
Quando la Santa Sede chiese a Siri di spingere le conferenze regionali a preparare dichiarazioni contrarie all’apertura, il cardinale presidente obiettò che non disponeva dei poteri necessari per questo tipo di intervento:
«Chi può obbligare Milano e Bologna a fare una dichiarazione del genere? Io non ne ho l’autorità. E se non lo fanno, come è ben difficile la facciano, quale è il risultato? dimostrare che siamo divisi. Il piccolo scisma servirebbe a coloro che vogliono fare l’apertura»17.
Scrivendo alla Segreteria di Stato a questo proposito, lamentò proprio questo vuoto di potere: «non si può dimenticare che l’Italia è stata sempre direttamente guidata dalla S. Sede negli affari suoi ecclesiastici e che i vescovi hanno considerazione vera soltanto per le principali congregazioni»18. Nonostante la soddisfazione per uno spazio di potere autonomo, Siri era consapevole che il cammino della Cei era lento. A volte sembrava rimproverare al papa di avere ‘abbandonato’ i vescovi italiani:
«L’episcopato italiano è stato fino a pochi anni addietro abituato a ricevere tutti gli ordini dalla Sede Apostolica. Non si può passare di colpo a una situazione che sia notevolmente diversa, senza incontrare danni, dei quali è difficile calcolare la portata [...]. La Cei in questo momento non basta»19.
All’apertura del concilio la Cei si presentava dunque come un organismo ancora poco rodato, preoccupato per la situazione italiana ma diviso al suo interno tra differenti letture e sensibilità. Molti vescovi si riconoscevano ancora completamente nelle posizioni di Siri, riconfermato da Giovanni XXIII alla presidenza per un secondo triennio nel settembre 1962. Il papa aveva cercato di far valere l’idea di una presidenza collegiale, in attesa di uno statuto definitivo: aveva fatto i nomi di Montini, Lercaro e Urbani; Tardini aveva spinto invece per una presidenza personale, con la riconferma di Siri ad triennium, perché il contemporaneo cambio ai vertici della Commissione per l’Azione cattolica e della Cei avrebbe potuto essere interpretato come una sorta di sconfessione in un momento delicato per la Chiesa italiana, nell’imminenza del concilio. Sarà proprio il Vaticano II a provocare uno slittamento decisivo degli antichi equilibri interni, ponendo all’ordine del giorno problemi di grande respiro di fronte ai quali i vescovi italiani si dimostreranno quantomeno impreparati. All’appuntamento conciliareSiri cercò di orientare la Cei sulle proprie posizioni; ciò fu evidente in particolare al momento delle elezioni per le commissioni, quando il presidente presentò una lista già pronta di persone da far eleggere, nella quale spiccavano illustri assenze, come quella del cardinale Lercaro. Nei primi mesi di lavoro Siri si occupò di creare gruppi di studio che avrebbero dovuto illuminare i vescovi di fronte ai problemi discussi in aula, di cui spesso gli italiani erano digiuni, sia dal punto di vista pastorale sia da quello teologico. La forte personalità di Siri, i suoi continui appelli alla necessità dell’unità in difesa della fede e di Roma, insieme alla scarsa abitudine all’autonomia di pensiero, scoraggiavano posizioni divergenti20. Siri, più volte candidato al papato, fu il rappresentante più qualificato di quell’area di pensiero conservatrice, che vedeva la Chiesa minacciata su più fronti e che mostrò sempre scarsa simpatia per l’aggiornamento roncalliano prima e per le riforme postconciliari poi.
Paolo VI durante il Vaticano II per la prima volta riunì tutti i vescovi italiani rivolgendosi a loro come a un unico corpo, sancendo così un’identità fino ad allora incerta; l’intero episcopato italiano aveva così l’occasione di conoscersi e di lavorare insieme: un’esperienza nuova e per certi versi straniante. Le posizioni del presidente della Cei non esauriscono naturalmente lo spettro delle sensibilità e delle reazioni con cui l’evento conciliare fu vissuto dai vescovi italiani. La maggior parte dei vescovi italiani arrivò piuttosto impreparata all’occasione che si apriva, attestandosi su posizioni di chiusura rispetto ai fermenti cui il concilio dava voce. Durante il concilio Ruffini rappresentò quella folta parte dell’episcopato italiano che vedeva con scarsa simpatia gli orizzonti che il concilio suscitava.
Per Nicodemo il concilio rappresentò una svolta, con un progressivo avvicinamento a Paolo VI; questo vescovo sarà impegnato fino alla morte, nel 1973, ad attuare un progetto di Chiesa locale secondo le direttive del Vaticano II. Eletto vicepresidente della Cei nel 1966 e poi riconfermato, rimarrà un punto di riferimento per tutto l’episcopato italiano anche durante il pontificato di Paolo VI; il papa gli delegò i rapporti con il patriarca di Costantinopoli e lo introdusse nel Segretariato per l’unità dei cristiani; volle a Bari un istituto di teologia ecumenico-patristica, riaprendo gli orizzonti della diocesi all’Oriente cristiano. Non si fece spaventare dalle polarizzazioni postconciliari, cercando di ritrovare quell’unità della sua diocesi che aveva sempre avuto a cuore, nel clima articolato della ricezione: di lui è stato scritto che fu consul Dei e defensor civitatis «attorno all’altare, sulla cattedra, nella storia»21.
Altri vescovi furono in grado di contribuire in maniera sostanziale al progresso dei lavori. In particolare fu Lercaro, per le sue competenze liturgiche e per la sua solida cultura, oltre che per la particolare sensibilità nei riguardi di temi come la pace e la lotta alla povertà, a rappresentare un punto di riferimento per quanti si riconoscevano in quella maggioranza aperta alle indicazioni di Roncalli, decisa a traghettare la Chiesa al di là della sua secolare autoreferenzialità per aprirla all’annuncio evangelico nel mondo contemporaneo. L’annuncio del concilio lo trovò sulla stessa lunghezza d’onda diGiovanni XXIII: già il suo votum preparatorio si distingue nettamente da quelli inviati dagli altri vescovi italiani. Durante i lavori dell’assemblea partecipò con un entusiasmo e un impegno che ebbero pochi paragoni, assumendo ben presto anche il ruolo di punto di riferimento per gli episcopati dei continenti ‘nuovi’. Nel settembre 1963 Lercaro venne nominato daPaolo VI tra i quattro moderatori dell’assemblea. Importanti discorsi caratterizzarono la sua esperienza conciliare: in particolare è da ricordare quello in cui, durante il primo periodo, propose una profonda riflessione sulla povertà, o meglio sui «milioni di poveri che sono su questa terra», come «principio unificatore e vivificante per i lavori dell’assemblea»; in consonanza con le parole diGiovanni XXIII, Lercaro affermò «questa è l’ora del mistero di Cristo soprattutto nel povero»22. Le sue parole erano particolarmente eloquenti perché già a partire dagli anni dell’episcopato ravennate Lercaro aveva accolto nella sua casa un gruppo di ragazzi in situazione di bisogno, continuando l’esperienza a Bologna, sperimentando una forma di paternità molto intensa che lo aveva fatto conoscere ben al di là dei confini diocesani. Durante il concilio si avvalse della preziosa collaborazione di don Giuseppe Dossetti, che insieme a lui sarà protagonista anche del progetto di riforma della diocesi bolognese avviato nell’immediato periodo successivo al concilio e interrotto dalla rimozione del cardinale dalla sua sede, nel febbraio 1968.
Fu proprio l’esperienza conciliare a decretare la fine dell’indiscussa leadership di Siri sull’episcopato italiano. Dopo aver partecipato al conclave del 1963 come uno dei possibili successori diRoncalli, Siri fu destinato a una lenta ma progressiva emarginazione. Nel luglio 1964 Paolo VI affiancò a Siri il cardinale Luigi Traglia, vicario per la diocesi di Roma, con le funzioni di pro-presidente, in un momento in cui il cardinale genovese soffriva di alcuni problemi di salute, «in modo che [...] l’attività della Cei abbia l’impulso e la guida che in questo momento sembrano richiedere vigilante e laboriosa presenza»23. Nell’autunno 1964 prese avvio la redazione del nuovo statuto Cei;Siri propose un comitato di direzione composto solamente dai cardinali e una ristretta cerchia di materie in cui le deliberazioni dell’assemblea dovevano essere obbligatorie, lasciando per il resto la massima libertà ai singoli vescovi. Nell’agosto 1965, un mese prima della naturale scadenza del mandato, il presidente lasciò il posto a un comitato composto dai cardinali G. Colombo, E. Florit e G. Urbani. Siri espresse a questo proposito la sua posizione al segretario Castelli, in spirito di obbedienza ma forse con alcune perplessità:
«Io sono nella perfetta indifferenza della volontà e umanamente contento di essere sgravato di un tal peso [...]. Non ti so dire di come si sia giunti a queste decisioni. D’altra parte non mi interessa sapere, perché, per quel che mi riguarda, sono contentissimo e resto – se io potrò ancora essere utile – al servizio di tutti. Io non sofistico su nulla: solo – ripeto – ringrazio Dio»24.
All’indomani della chiusura delconcilio Vaticano II la Cei ebbe il suo primo statuto, pubblicato il 16 dicembre 1965, ispirato ai criteri previsti dal decreto Christus Dominus. L’assemblea comprendeva ora tutti i vescovi italiani; tuttavia, con un arretramento di autonomia rispetto allo statuto del 1959, la nomina del presidente e del segretario generale erano riservate al papa, in qualità di primate d’Italia. Le decisioni dell’assemblea sarebbero state vincolanti solo dopo l’approvazione della Santa Sede.
Giovanni Urbani. A guidare la Cei nel suo difficile rodaggio Paolo VI nominò il 4 febbraio 1966 il decano della presidenza collegiale, il patriarca di Venezia Urbani, che molti avevano indicato come possibile successore di Roncalli nel conclave 196325. Durante i tre anni e mezzo della sua presidenza Urbani, figura moderata, legata a Montini da un’antica collaborazione e vicinanza nell’ambito della guida dell’Azione cattolica, si trovò a gestire le riforme scaturite dal concilio attraverso un organismo che muoveva allora i suoi primi passi26. In generale i vescovi italiani, molti dei quali ancora legati al modello pacelliano, vivevano con disagio la crescente domanda di rinnovamento che scaturiva dalle diverse realtà del mondo cattolico italiano. Urbani si trovò dunque a operare una delicata mediazione tra il disegno montiniano e le diverse sensibilità dei vescovi, alcuni dei quali erano preoccupati di perdere quell’autonomia che ritenevano essenziale per guidare le proprie diocesi. Come vicepresidente della Cei, carica elettiva, l’assemblea scelse l’arcivescovo di Bari Enrico Nicodemo, vescovo pacelliano del Sud che durante il concilio si era avvicinato alle posizioni di Montini. In sostituzione di Alberto Castelli, che aveva assunto quell’incarico nel novembre 1954, il papa chiamò come segretario, nell’agosto 1966, il vescovo di Gorizia-Gradisca Andrea Pangrazio, non particolarmente vicino al sentire montiniano, che impostò il lavoro con energia e indubbie capacità organizzative.
Il compito di Urbani non era semplice: era necessario – come ha scritto Giuseppe Alberigo – «impostare un pastorale globale per l’intero paese – peraltro sempre frammentato in una miriade di diocesi – operando il passaggio da una condizione tradizionale di cristianità a una di libero gioco della Chiesa cattolica in un contesto sempre più secolarizzato»27. Per Paolo VI l’efficacia del concilio doveva passare necessariamente attraverso il ruolo dei vescovi; egli cercava, intanto, di ridisegnare la geografia dell’episcopato italiano mediante una politica di trasferimenti e nomine. Urbani avviò la ricezione conciliare secondo le linee desiderate dal papa, che voleva una Chiesa italiana autonoma e unita alla Santa Sede, caratteristiche che erano lasciti della sua storia e della sua realtà particolari. Il presidente cercò di animare il lavoro della Conferenza con un piano di attività generale incentrato sull’attuazione nelle diocesi delle decisioni conciliari. Ogni anno aveva al centro una precisa tematica, una sorta di embrione di quelli che saranno, negli anni Settanta, i piani pastorali. Nel 1967 si affrontò il tema della cultura del clero e del laicato, l’anno successivo fu al centro il problema dei laici, nel 1969 la collegialità. La ricezione del concilio e l’applicazione delle riforme, quella liturgica in primis, suscitarono alcune resistenze e polarizzazioni nell’episcopato, com’era prevedibile; il clima complessivo era all’insegna dell’incertezza, ma non si trattava soltanto di un disagio interno: il contesto sociale e politico in cui viveva la Chiesa italiana era in fermento. Mentre l’Azione cattolica e le Acli si erano sganciate dal collateralismo e procedevano lungo nuove vie di testimonianza rispetto alle direttrici fino ad allora battute, la Dc era ormai pienamente inserita nella fase del centro-sinistra. Si iniziava a parlare insistentemente dell’introduzione del divorzio nella legislazione italiana, un pericolo cui i vescovi dedicheranno molte delle loro energie nel decennio successivo. Cresceva intanto la contestazione nelle università di tutto il mondo: in Italia la Chiesa assistette con stupore e preoccupazione al dilagare della protesta nell’Università Cattolica. La gerarchia e gli aspetti istituzionali della Chiesa erano diventati bersagli di un malcontento che si richiamava alla purezza del cristianesimo primitivo e che sfociò a volte in gesti clamorosi, come l’occupazione della cattedrale di Parma, in nuove modalità ecclesiali, come nel caso della comunità dell’Isolotto a Firenze, in un’attenzione rinnovata verso i poveri e gli emarginati, come nell’esperienza del gruppo Abele, nato nel 1966 a Torino.
Mentre in tutto il mondo dilagavano le messe beat, Paolo VI ritrovò un’attenzione internazionale con l’invito agli americani a sospendere i bombardamenti sul Vietnam. In questo clima oggettivamente complesso ma ricco di fermenti Urbani cercò di mantenere uno spazio di dialogo e di speranza, invitando a più riprese i vescovi italiani a non avere un giudizio del tutto negativo su quanto accadeva intorno a loro, ma di leggerlo anche come un’occasione di rinnovamento. Intanto la Chiesa italiana affrontava il primo appuntamento sinodale, i cui lavori si svolsero tra la fine di settembre e la fine di ottobre del 1967: si discusse di diritto canonico, di fede e di ateismo, della riforma dei seminari, dei matrimoni misti e dell’attuazione della riforma liturgica. Nell’aprile precedente i vescovi italiani avevano scelto i loro rappresentanti per il sinodo, eleggendo lo stesso Urbani,Siri,Colombo e Nicodemo.
Il presidente Urbani, riconfermato nella sua carica da Paolo VI per un secondo mandato nel febbraio 1969, guidava la Cei verso gli anni Settanta, mentre l’episcopato italiano a volte non riusciva a trovare una piena sintonia con il pontefice. Alcuni momenti evidenziano questa difficoltà. Nel giugno 1967 il papa pubblicò la sua enciclica Sacerdotalis coelibatus, nella quale ribadì la tradizionale posizione della dottrina cattolica sul tema del celibato ecclesiastico, mentre da molte parti si auspicava la libera scelta dello stato da parte dei candidati e l’ordinazione di uomini sposati. Un altro momento di crisi si ebbe l’anno successivo, con l’enciclica Humanae vitae. Senza consultare l’episcopato italiano, Urbani predispose un documento di adesione della Cei, approvato dal consiglio di presidenza, per garantire ufficialmente l’appoggio dell’episcopato italiano al papa, mentre in altre realtà nazionali le critiche non risparmiavano i contenuti dell’enciclica. La presidenza Cei si trovò anche a mediare tra il desiderio del papa di una graduale e uniforme attuazione del concilio e alcune ricezioni attuate in diocesi italiane che sembravano distaccarsi dalla linea romana per la loro energia e per la loro carica innovativa. In particolare era la situazione della diocesi di Bologna, guidata dal cardinale Lercaro, che sembrava preoccupare Paolo VI, tanto da sostituire l’arcivescovo conAntonio Poma, già ausiliare con diritto di successione. Si trattò di una dura battuta d’arresto sulla via della responsabilizzazione dell’episcopato, forse influenzata dal peso che avevano sul papa le minacciose ermeneutiche apocalittiche proposte dalla minoranza uscita sconfitta dal concilio. La crisi del clero, evidente già nel periodo precedente al Vaticano II, assumeva in quegli anni proporzioni sempre più vaste: fu questo il tema al centro di molti degli incontri dei vescovi italiani. Intanto si esplicitava un nuovo corso nei rapporti con il mondo politico e con quell’interlocutore privilegiato che era stato fino ad allora la Democrazia cristiana. Se durante gli anni della presidenza Siri l’unità politica dei cattolici era stato l’obiettivo ultimo e necessario, dopo il concilio venne accettata l’idea, non senza forti resistenze, di una pluralità di opzioni politiche per gli elettori cattolici.
Sebbene la Segreteria di Stato conservasse sempre il suo ruolo orientatore, la Cei di Urbani divenne sempre più con il passare degli anni un soggetto protagonista della ricezione; in particolare occupandosi della riforma liturgica, dell’Azione cattolica, della traduzione italiana della Bibbia. Il suo presidente rappresenta quel settore dell’episcopato, sempre più vasto, deciso a collaborare con il papa con convinzione. Nell’aprile 1969, in quella che doveva essere la sua ultima relazione in assemblea prima della morte, Urbani insistette sulla necessaria fedeltà alle indicazioni del papa per costruire una realtà ecclesiale solida e capace di affrontare in autonomia il presente e il futuro, mettendo in luce che sotto la sua guida la Cei era giunta al pieno funzionamento; l’identità finalmente raggiunta dall’organo dei vescovi rendeva necessaria una più libera ed estesa facoltà di agire, su richiesta dei vescovi o della Santa Sede. La morte improvvisa del presidente, nel settembre 1969, privò Paolo VI di un interlocutore fedele e capace di tradurre operativamente le indicazioni papali relativamente alla ricezione conciliare nella Chiesa italiana.
Antonio Poma.Il 3 ottobre 1969 Paolo VI scelse per la carica di presidente l’arcivescovo di Bologna Antonio Poma; si trattava dell’uomo che nel 1967 aveva affiancato il cardinale Lercaro e che ne era diventato successore nel febbraio 1968, al momento delle sue dimissioni28. Fu una nomina in parte orientata dai cardinali del consiglio di presidenza e dal vicepresidente Nicodemo, ai quali il papa aveva richiesto, con una prassi inusuale, un parere orientativo in merito alla nomina del successore di Urbani. La fase ecclesiale postconciliare, caratterizzata da diffusi timori nel corpo episcopale e dalla prudenza papale, si espresse così nella scelta di una figura che assicurava un percorso cauto e normalizzatore, privo di quelle che erano state interpretate dalla Santa Sede come fughe in avanti di alcune diocesi italiane.
Gli anni Settanta per la Chiesa italiana si aprono su uno scenario finalmente accettato con il necessario realismo, quello della progressiva secolarizzazione di un popolo e di una società tradizionalmente considerati cattolici; questa consapevolezza portò a riflettere sulla necessità di una nuova evangelizzazione anche in zone di antica cristianizzazione, come affermò il presidente nella sua relazione alla Cei nel 1972. Il papa stesso sottolineò l’esigenza di una missione pastorale nuova, dedicata al recupero dei valori cristiani in Italia. Lo strumento operativo di questa scelta fu quello dei piani pastorali, che proponevano un tema unitario da svolgere contemporaneamente in tutte le diocesi italiane. L’asse portante era costituito dal tema dell’evangelizzazione, che insieme a quello dei sacramenti dovevano portare i cattolici anagrafici a una nuova consapevolezza spirituale, tanto più necessaria in un momento in cui «si presentano tendenze secolaristiche che colgono aspetti parziali del messaggio cristiano e cercano di isolarli per elaborare attorno a essi sintesi culturali e sociali, giudicate più accessibili e produttive per la soluzione dei problemi che travagliano l’umanità»29. Sono di questi anni anche i nuovi catechismi che accompagneranno bambini e giovani nella crescita della loro fede. La cronologia di questi anni si intreccia strettamente con la riforma liturgica: nel 1969 furono pubblicati i libri liturgici in italiano, nel 1970 si ebbe la restaurazione del diaconato permanente, nel 1971 uscì la traduzione italiana della Bibbia, nel marzo 1973 venne stampata l’edizione italiana del Messale romano. Si tratta di passaggi non del tutto indolori, che evidenzieranno nella Chiesa italiana resistenze anche forti al rinnovamento conciliare. Cambiava anche il contesto in cui la Chiesa operava; l’Italia si apriva lentamente al pluralismo religioso: nel 1973 la Rai inserì nel palinsesto per la prima volta una rubrica dedicata al protestantesimo e una dedicata all’ebraismo.
I dieci anni della presidenza Poma attraversano dunque un momento di forte crescita della Chiesa italiana, ormai robustamente avviata sulla via della ricezione conciliare e sufficientemente forte per coordinare in maniera unitaria la propria vita30. Sarà però soprattutto l’operato del segretarioEnrico Bartoletti, nominato dal papa nel settembre 1972, a esprimere una direttiva energica e rispondente ai desideri del papa, mentre la figura del presidente rimane come sullo sfondo, forse per la sua personalità, forse per il modo di intendere il proprio ruolo istituzionale, che incontrava comunque il favore di Paolo VI, che lo riconfermò per tre mandati consecutivi. Poma si trovò immediatamente a fronteggiare una situazione destinata a coagulare molte delle energie della Cei, quella cioè dell’introduzione del divorzio nella legislazione italiana e del successivo referendum. Già nell’ottobre 1970 la Cei reagì ufficialmente, in linea con il papa, su questo tema. La necessità di ridefinire il ruolo della Chiesa nella società italiana andava di pari passo con le spinte sempre più pressanti che chiedevano una revisione del concordato, un’esigenza messa in luce in maniera assai brusca dall’esito del referendum sul divorzio del maggio 1974, che Bartoletti aveva cercato invano di evitare, senza ottenere l’appoggio di una parte consistente dell’episcopato e del papa stesso. In questo frangente Poma, nelle notazioni stese dall’ambasciatore italiano presso la Santa Sede Gian Franco Pompei, appare come «persona molto aperta alle nuove idee, ma non lo credo, in questo momento, tanto disposto a cedere sul referendum. Non sarà confortato in questo senso se si rivolge alla base composta in maggioranza di vescovi conservatori», rimarcando nel contempo che «di tutte le conferenze episcopali quella italiana è la meno indipendente dal papa, che se non ne è Presidente, nomina il Presidente stesso e di fatto impartisce le direttive»31. La sconfitta referendaria aprì anche all’interno della Chiesa italiana un acceso dibattito sulle responsabilità dei singoli attori e sull’opportunità dell’intervento dei vescovi. A queste polemiche il presidente della Cei così rispose ufficialmente:
«Si era di fronte ad un avvenimento di profonda incidenza sociale, che presentava un rilevante e qualificato valore morale e pastorale; tacere sarebbe stato una grave omissione davanti a Dio e alla comunità, anche nell’ipotesi che non tutti avrebbero compreso il senso del nostro intervento [...]. Il fenomeno più grave è dato da alcuni cattolici che hanno presentato il documento dei vescovi come abusivo e oppressivo»32.
Fu nel 1975 che si parlò insistentemente di un cambio ai vertici della Cei. Forse Poma non riusciva a essere un vero e proprio leader dell’episcopato italiano, tanto che alcuni cardinali premettero presso Paolo VI per una sostituzione, forse anche in seguito all’esito della consultazione referendaria sul divorzio. Di fronte a questo genere di richiestePaolo VI chiese consiglio aBartoletti, pur esplicitando la sua preferenza per una riconferma dello stesso Poma per un altro mandato33.Bartoletti non individuò alcuna figura in grado di sostituire il presidente, accennando soltanto alla possibilità di nominare Ballestrero, come poi avverrà nel 1979 con Giovanni Paolo II. Il papa, che alla fine riconfermò Poma per un ulteriore mandato, si chiedeva addirittura «se sarebbe auspicabile un ritorno del card. Siri», forse considerato ancora come uno dei grandi leader dell’episcopato italiano, ipotesi decisamente rifiutata da Bartoletti. Anche nelle memorie dell’ambasciatore italiano presso la Santa Sede il 1975 sembra essere il momento finale della presidenza Poma, dando spazio al nome di Albino Luciani, con un’ipotesi poi smentita dai fatti:
«È scontata la riconferma del segretario monsignor Bartoletti, che gode di fiducia illimitata, mentre il cardinale Poma sarà sostituito. Prima di esercitare le sue prerogative il pontefice ha fatto compiere un sondaggio che ha prevalentemente designato il Patriarca di Venezia, S. E. Albino Luciani, che ha perciò le più grandi possibilità di essere nominato. Data la personalità, certo assai fine, ma anche più schiva e riservata di quella del cardinale Poma, il maggiore centro di attività resterà nella persona del Segretario, anche per i suoi rapporti frequenti e personali con il Santo Padre»34.
Nel 1976, lo stesso anno delle speculari sospensioni a divinis del vescovo tradizionalista Marcel Lefebvre e dell’abate del monastero di S. Paolo fuori le mura, don Giovanni Franzoni, la Chiesa italiana ebbe un appuntamento fondamentale nel primo convegno ecclesiale Evangelizzazione e promozione umana, tenutosi a pochi mesi dalla morte improvvisa del suo principale organizzatore,Bartoletti, che intendeva offrire alle diverse componenti della Chiesa italiana uno spazio di dialogo e di confronto fino ad allora impensabile. Nel documento preparatorio redatto dalla Cei si dice chiaramente che «l’Italia è un paese da evangelizzare». L’obiettivo era quello di ricomporre l’unità tra chi sosteneva la preminenza di una ‘scelta religiosa’ e chi si proponeva di sviluppare prima di tutto un ruolo sociale della presenza cristiana, in un’esperienza sinodale dove i vescovi erano solo una parte dell’assemblea. Evangelizzazione e contemporaneo recupero dell’identità cristiana e dell’unità furono i tratti con cui le conclusioni del convegno vennero presentate dalla presidenza Cei35. Nonostante la cascata di convegni locali dallo stesso titolo, l’esperienza sinodale non ebbe però un reale impatto sullo sviluppo futuro del cattolicesimo italiano, che si muoveva verso l’orizzonte della presenza dei cattolici nella società. Gruppi e movimenti rappresentavano un segno di vitalità ma nel contempo suscitavano preoccupazione e diffidenza tra i vescovi: i criteri di autenticazione ecclesiale di queste esperienze furono a lungo al centro del dibattito dell’episcopato italiano. La violenza e i giovani, insieme alla famiglia e ai problemi legati alla caduta delle vocazioni, erano i temi ricorrenti delle riunioni della Cei nell’ultimo scorcio degli anni Settanta. Intanto, dopo la sconfitta sul tema del divorzio, la Cei dovette confrontarsi con un altro passaggio decisivo, che marcherà ormai il definitivo scollamento tra la legislazione italiana e la dottrina cattolica: nel giugno 1978 venne approvata dal parlamento la legge che depenalizzava alcune fattispecie di aborto, legge riconfermata dalla volontà popolare in occasione dei referendum abrogativi che si sarebbero tenuti nel maggio 1981. Il richiamo all’unità politica dei cattolici, riproposto in diversi momenti, non otteneva i risultati sperati, mentre ilPci, elettoralmente più forte dopo il 1975, proponeva una politica di apertura e dialogo nei confronti del mondo cattolico. Di fronte alle difficoltà incontrate nel ricompattare l’elettorato cattolico, fu il gesuita Bartolomeo Sorge che tentò, con risultati non esaltanti, una ‘ricomposizione’ dell’area cattolica in Italia, su un piano etico e culturale prima che politico. Intanto, l’Italia era vittima di un clima di violenza politica e di tensione sociale che pesava sulla vita degli italiani e sul loro futuro, fino al culmine del rapimento e dell’uccisione di Aldo Moro, amico e vicino a Paolo VI: questo esito drammatico rappresentò in un certo senso anche l’impotenza della Chiesa e del papa stesso di fronte a questa realtà.
Nello stesso anno in cui il socialista Sandro Pertini veniva eletto alla più alta carica dello Stato,Paolo VI riconfermò Poma alla presidenza ad nutum Summi Pontificis. Con la stessa formula venne riconfermato dal nuovo pontefice Giovanni Paolo I nel settembre 1978, e ugualmente accadde con Giovanni Paolo II, nell’ottobre dello stesso anno. Modelli postconciliari e realtà locali. Tra la fine del concilio Vaticano II e la morte di Paolo VI, come s’è visto, la Chiesa italiana visse un periodo di profondi cambiamenti, al suo interno e nelle sue prospettive. In pochi anni finirono diversi importanti episcopati che avevano attraversato il concilio e si affacciò alla responsabilità pastorale una generazione di vescovi più giovani, in un certo senso figli del concilio e di Paolo VI. Ci sono alcune figure che, in diversi modi, rappresentano questo passaggio.
Tra questi, il vescovo di Torino Michele Pellegrino, un docente universitario studioso dei Padri, chiamato all’episcopato nell’estate 1965 e immediatamente inserito nel flusso dell’ultima sessione dei lavori conciliari. In diocesi, ben presto, Pellegrino dovette confrontarsi con i gravi problemi di una città industriale in piena vertenza sindacale, dove operai e padronato si affrontavano duramente. I suoi interventi suscitarono grande simpatia fra la classe operaia, e parallelamente raffreddarono il rapporto fino ad allora privilegiato tra la Chiesa locale e la Fiat. Intanto lavorava per la crescita di una nuova Chiesa locale secondo le indicazioni conciliari, aperto alla collaborazione di tutte le componenti della Chiesa e per scelta povero. Le sue posizioni al momento del referendum sul divorzio, che si distaccarono dalla linea della Cei, lo resero in qualche misura il riferimento di quei cattolici che non si riconoscevano in essa. La fine del suo episcopato fu segnata dalla progressiva ostilità della Curia romana ma anche della sua diocesi.
Negli anni della presidenza Urbani si svolse anche la fase finale dell’episcopato di uno dei veri fari italiani al concilio, quello di Giacomo Lercaro a Bologna, sostituito come s’è visto da Antonio Poma. Uno dei vescovi ausiliari di Lercaro, Luigi Bettazzi, si trovò a guidare la diocesi di Ivrea dal 1966, assumendo dal 1968 al 1985 la presidenza internazionale di Pax Christi, con una forte sensibilità verso i temi della pace e della giustizia sociale. Bettazzi fu promotore di uno scambio epistolare con l’allora segretario del Partito comunista italiano Enrico Berlinguer, nel 1976, in controtendenza con la chiusura che la Chiesa dimostrava in quegli anni.
Corrado Ursi incarna il vescovo meridionale del postconcilio secondo le linee tracciate da papa Montini. Vescovo di Nardò e Acerenza, venne chiamato a Napoli da Paolo VI nel 1966; il suo progetto pastorale coincise sostanzialmente con l’applicazione del concilio in quella diocesi, che avrebbe dovuto avere un effetto trainante per l’intero Sud. In particolare andava rivitalizzata la dimensione comunionale della Chiesa, mentre la rapida applicazione della riforma liturgica avrebbe convogliato quelle riserve religiose che si esprimevano in forme devozionali spesso autoreferenziali.
Sempre al Sud alcuni vescovi diventano interpreti della reazione contro la mafia: le tragedie che si svolgono sotto i loro occhi, e che hanno respiro nazionale quando le televisioni rimbalzano in tutta Italia le immagini dell’ennesimo funerale, li rendono familiari a una nazione che non riesce e forse non vuole contrastare un potere mafioso che ha ormai infiltrato le strutture dello Stato e la mentalità di molti. Luigi Bommarito a Catania e Salvatore Pappalardo a Palermo, fra gli altri, diventano icone di una rivolta che sembra assente in altri settori della società.
Anastasio Ballestrero. Nel maggio 1979 diventò presidente della Conferenza episcopale italiana uno dei suoi vicepresidenti eletti, il carmelitano Anastasio del S.S.mo Rosario, al secolo Alberto Ballestrero, da due anni arcivescovo di Torino dopo una breve esperienza alla guida della diocesi di Bari36. La scelta compiuta da Giovanni Paolo II, che da vescovo aveva avuto esperienza diretta del funzionamento della Conferenza polacca, rifletteva una proposta dei presidenti delle conferenze regionali, cui il papa appena eletto si era rivolto con un atto di rispetto non prescritto da alcuno statuto, e in particolare del cardinal Siri, che su richiesta della Segreteria di Stato aveva individuato come possibili successori di Poma il vescovo di Taranto Guglielmo Motolese, c, alla guida della diocesi di Firenze, e appunto il suo concittadino Ballestrero37. Un’indicazione in tal senso era già arrivata a Paolo VI dal segretario della Cei Bartoletti nel marzo 1975, come si è visto al momento della scelta di un nuovo presidente o della riconferma in carica del presidente Poma38.
L’autonomia dimostrata da Ballestrero rispetto alle tendenze espresse comunemente dall’episcopato e nei confronti delle richieste della politica italiana si può ricondurre senz’altro alla sua spiccata personalità, ma anche a una biografia culturale e spirituale che si è sviluppata su binari non coincidenti con quelli consueti del clero secolare. Il precoce ingresso nel Carmelo fece sì che la sua formazione si svolgesse interamente all’interno dell’Ordine, ma significò anche la possibilità, a partire dalla metà degli anni Trenta, di vivere liberamente i contatti con un mondo che invece era precluso, solitamente, ai seminaristi e ai preti diocesani. I frequenti soggiorni a Parigi gli permisero di entrare in contatto con il cenacolo di Maritain e di partecipare ai dibattiti che si svolgevano attorno alla rivista «Études carmélitaines»; furono anni intellettualmente densi, per la passione con cui seguiva quanto accadeva in campo teologico, in particolare con la rinascita neotomista e per gli incontri con personalità di primo piano, da R.M. Garrigou-Lagrange agli studiosi di Lovanio, tra cui G. Philips e E. Schillebeecks, oltre ai confratelli carmelitani francesi. Insieme alla coltivazione dei classici dell’Ordine, san Giovanni della Croce e santa Teresa di Gesù,Ballestrero ricorda:
«Leggevo La Simbolica di Möhler e i testi dello Scheeben, classici che precorrevano tanti cammini teologici. Tutto ciò che riguardava la spiritualità mi ha interessato, anche la spiritualità musulmana. Ho frequentato l’islamista Massignon»39.
La dipendenza dai modelli del suo Ordine e le sue esperienze di governo, prima come priore della più antica fondazione carmelitana italiana, e poi come preposito generale, fecero sì che Ballestrero potesse disegnare una direzione in parte differente da quella che altri avevano proposto fino ad allora e proporranno dopo di lui. Egli stesso espresse a più riprese la convinzione che la vita monastica costituisse una grande risorsa per poter esercitare il ministero episcopale40. In particolare rispetto all’appoggio che il mondo cattolico offriva allaDc, e più in generale verso il coinvolgimento politico,Ballestrero si mostrò decisamente critico; così riassume questa posizione nelle sue memorie: «Tutti sanno, non è un mistero, che io con la politica ci ho navigato poco, non per partito preso ma per una scelta fatta»41. Già al momento di essere designato come pastore della diocesi di Bari questo suo atteggiamento aveva suscitato l’allarme di Moro42.
Ballestrero assunse in prima persona responsabilità e visibilità proprie della presidenza: i suoi segretari, Luigi Maverna fino al 1982 e poi Egidio Caporello, non rappresentarono reali punti di riferimento né per i vescovi, né per la curia, né per il papa. Gli anni della sua presidenza furono caratterizzati dalla necessità, per la Cei, di ridefinire i rapporti con il nuovo papa, estraneo alle logiche che avevano caratterizzato le precedenti dinamiche tra i vescovi italiani e la Santa Sede. Si trattava di una Cei ormai adulta, che doveva muoversi in un paese lacerato dalla violenza terrorista, vittima di strategie oscure, come quella che portò al disastro di Ustica, politicamente instabile, investito dallo scandalo della P2, mentre assisteva forse distrattamente alla nascita di movimenti che dovevano suonare come allarmi per un’unità nazionale nuovamente minacciata da istanze separatiste43. Il processo di secolarizzazione, temuto, analizzato e indicato come origine dei tanti mali dell’Italia e anche della Chiesa italiana, segnava in questi anni ulteriori passi avanti; il risultato del referendum abrogativo della legge sull’aborto, tenutosi nel maggio 1981, rappresentò un momento significativo, anche se non venne accompagnato dal coinvolgimento e dalle polemiche che avevano caratterizzato la consultazione popolare sulla legge del divorzio.
Ballestrero immaginava un ricentramento spirituale della Cei, mentreGiovanni Paolo II desiderava una Chiesa italiana forte nei confronti della società44. Sul fronte interno il nuovo piano pastorale per gli anni Ottanta, approvato nel maggio 1981 e intitolato «Comunione e comunità», spostò l’attenzione dei vescovi dall’evangelizzazione alla situazione interna della Chiesa italiana, invitata nell’ottobre dello stesso anno a «ripartire dagli ultimi». Dal 1980 in poi le posizioni del pontefice evidenziarono una sempre maggiore volontà di entrare direttamente nella questione dell’identità dell’episcopato italiano. Mentre la presidenza della Cei e una parte dell’episcopato volevano continuare il percorso avviato durante il papato montiniano, altri pastori erano sensibili ai richiami di Giovanni Paolo II. Intanto, crescevano i movimenti nella Chiesa italiana:Comunione e liberazione, in particolare, si lanciò direttamente nel dibattito tra i vescovi, sostenendo di rappresentare una linea vicina al pontefice e diretta a una presenza nella società non limitata all’aspetto spirituale.
Il secondo mandato di Ballestrero, confermato alla presidenza nel luglio 1982, dovette confrontarsi con il sempre maggior peso di questo nuovo protagonista, che raccoglieva consensi in una parte non trascurabile dell’episcopato, fino alla scelta del papa di intervenire personalmente a Rimini al meeting del movimento, segno di una vicinanza tra il pontefice e Cl che di lì a poco avrebbe determinato uno speculare allontanamento tra questi e il presidente della Cei. Intanto l’attenzione degli osservatori era focalizzata sugli esiti dell’inchiesta sul Banco Ambrosiano, nella quale il presidente dello Ior monsignor P. Marcinkus venne raggiunto da una comunicazione giudiziaria. Tra il 1982 e il 1985 si colloca una serie di segnali che incrinarono l’appoggio del papa alle scelte di Ballestrero: in particolare, le polemiche che accompagnarono la pubblicazione del secondo messale per l’Italia e quelle relative all’affidabilità dei nuovi catechismi, sollevate da J. Ratzinger, prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, in una lettera al cardinale S. Oddi dell’ottobre 1983. Intanto, continuavano le trattative per la revisione del Concordato tra Santa Sede e Stato italiano, condotte però senza un diretto coinvolgimento dell’organo dei vescovi italiani. Sarà invece la conclusione della revisione, nel 1984, a investire pienamente la Chiesa italiana, modificando in maniera sostanziale alcune sua caratteristiche e rendendo la Cei, dal punto di vista finanziario, una delle realtà più solide nel panorama cattolico mondiale.
Ma furono soprattutto la preparazione e poi lo svolgimento del secondo convegno ecclesiale di Loreto a evidenziare la crescente freddezza del papa, le tensioni latenti all’interno dell’episcopato italiano e a segnare l’uscita di scena di Ballestrero. La lunga preparazione dell’appuntamento lauretano, a partire dal luglio 1984, cui partecipò in maniera sostanziale il gesuita Carlo Maria Martini, chiamato da Ballestrero a presiedere la commissione preparatoria, fu condotta sotto il fuoco di Cl che la osteggiò in ogni modo. Il presidente della Cei non si fece intimidire da questo tentativo di togliere credito ai vescovi, soprattutto nel marzo 1985, quando l’attacco venne rivolto direttamente contro l’Azione cattolica e il suo presidente,Alberto Monticone, accusato da «L’Osservatore romano» e poi da «Il Sabato», il settimanale ciellino, di «svuotare il magistero morale della Chiesa e cadere nel relativismo». La difesa dell’Azione cattolica e del suo presidente fu calorosa e pubblica, togliendo qualsiasi dubbio sull’appoggio della Chiesa a una organizzazione così importante per la sua vita in Italia. Date queste premesse, il convegno Riconciliazione cristiana e comunità degli uomini, svoltosi nell’aprile 1985, rappresentò un punto di non ritorno per l’esplicitarsi dei diversi schieramenti in cui ormai i vescovi italiani si riconoscevano. Il discorso del papa, che gli osservatori interpretarono come un appoggio alle posizioni di Cl, fu la base per una svolta in direzione diversa da quella auspicata da Ballestrero. Nella sua allocuzione dell’11 aprile 1985 il pontefice esortò la Chiesa italiana a lavorare «affinché la fede cristiana abbia, o recuperi, un ruolo-guida e un’efficacia trainante nel cammino verso il futuro». L’unità necessaria per portare a termine questo disegno, nelle parole del papa, doveva prevalere su ogni pur legittimo pluralismo. Wojtyla intendeva giungere a una maggiore consonanza tra Chiesa italiana e Santa Sede; quando tra il 1984 e il 1985 la maggioranza dell’assemblea della Cei espresse l’auspicio che, in parallelo con quanto avveniva nelle altre conferenze episcopali nazionali, anche in Italia il presidente fosse eletto liberamente dai vescovi, Giovanni Paolo II rigettò l’istanza; Ballestrero non fu riconfermato e alla guida della Cei il papa chiamò il vicario della città di Roma, Ugo Poletti45.
Intanto l’Italia era cambiata e continuava a cambiare: il primo presidente del Consiglio socialista, Bettino Craxi, sarà il protagonista della firma dell’accordo di revisione del Concordato e delle leggi di attuazione, mentre temi bioetici destinati a una crescita esponenziale negli anni successivi apparivano all’orizzonte con la nascita della prima bambina italiana concepita in provetta. Nel 1985 si ebbero anche le prime avvisaglie di una nuova ‘religione’ catodica i cui sviluppi erano allora insospettati, quando Silvio Berlusconi ottenne il permesso di trasmettere con le sue reti televisive su tutto il territorio nazionale.
Ugo Poletti. La presidenza Poletti, avviata nel giugno 1985 e di durata quinquennale secondo i nuovi statuti, si aprì in una fase di riorganizzazione della Chiesa italiana lungo le direttrici papali, organica al disegno espresso a Loreto. Essa coincise anche con una nomina destinata a mutare sostanzialmente il panorama della Chiesa italiana, negli anni successivi: quella del segretario della Conferenza, carica alla quale Giovanni Paolo II chiamò nel 1986 il giovane ausiliare di Reggio Emilia, Camillo Ruini, interprete della linea papale lauretana e sensibile alle esigenze dellaDc.
Ugo Poletti, che all’epoca era vicario del papa, aveva una lunga esperienza nella diocesi di Roma. Nel 1974 aveva organizzato il convegno sulle attese di carità e giustizia della diocesi di Roma, in cui i ‘mali di Roma’ erano stati lucidamente analizzati, provocando anche una forte reazione dei politici democristiani che avevano ininterrottamente amministrato la città nel dopoguerra46. In generale non era un personaggio dalla forte vocazione politica e diplomatica, ma il suo fare diretto non dispiaceva forse al papa, in particolare quando sottolineava il diritto dei vescovi di intervenire nelle questioni italiane, in quanto cittadini, e il diritto di richiamare i fedeli, in quanto pastori. Egli fungeva comunque da paravento rispetto ai personali interventi del papa stesso nelle vicende della Chiesa italiana: questa è la lettura che ne diede lo stesso Poletti, nel corso di un’intervista concessa dopo la sua nomina47.
Il ‘nuovo corso’ della Cei sotto Wojtyla, dove Ruini assumerà progressivamente un’importanza crescente, mirava a rafforzare la presenza della Chiesa nella società italiana, in un momento in cui la Dc viveva le prime avvisaglie di crisi elettorale, nel contesto di un’incipiente implosione del sistema dei partiti; anche all’interno, la pretesa di controllare l’evoluzione delle organizzazioni tradizionali del laicato ebbe pesanti risvolti in particolare sull’Ac: nel 1986 Poletti chiese una revisione delle conclusioni dell’assemblea, che avevano ribadito le linee della scelta religiosa e messo in minoranza un’ala movimentista che guardava con simpatia al modello Cl; veniva così sancita anche la fine della presidenza Monticone, sostituito da Raffaele Cananzi nel maggio 1986.
Gli anni di Poletti sono caratterizzati da una forte presenza dei temi legati alla revisione concordataria siglata nel 1984 con lo Stato italiano dal cardinale Casaroli. L’applicazione delle nuove norme necessitò naturalmente di un periodo di rodaggio durante il quale il sostentamento del clero, la disciplina dell’insegnamento della religione cattolica e la gestione dei beni ecclesiastici furono al centro dell’attenzione dell’episcopato. Il meccanismo di attribuzione dell’otto per mille dell’Irpef aveva reso la Chiesa italiana autonoma dal sostegno della Santa Sede e dello Stato, facendone una delle tre conferenze episcopali più ricche del mondo. Sotto la presidenzaPoletti si concluse anche il lungo processo di riforma dei confini delle diocesi italiane, che passarono da 332 a 233. Il nuovo piano pastorale degli anni Ottanta ebbe alcuni momenti significativi con i documenti «Comunione e comunità missionaria» del 1986 e «Comunione, comunità e disciplina ecclesiale» del 1989, in cui l’ultimo termine sembra esprimere la preoccupazione per possibili esiti poco ortodossi dei fermenti presenti nella Chiesa italiana, forse preoccupata per i movimenti in forte crescita ma anche di uno scarso entusiasmo di molti vescovi per le nuove linee proposte. In ogni caso la dialettica interna alla Chiesa si andava smorzando: ne è testimonianza, fra le altre, la reazione assai tiepida riservata alla lettera di 63 teologi, pubblicata alla vigilia dell’assemblea Cei del giugno 1989, nella quale si denunciavano spinte regressive volte a sminuire l’importanza del Vaticano II; la reazione ufficiale di Poletti, inserita nella prolusione in cui i temi principali erano l’ora di religione e il sostentamento del clero, fu di netta condanna per quei teologi che scavalcavano il magistero dei vescovi, e tra l’episcopato non si levarono voci alternative. Si attuava così la transizione verso il piano pastorale degli anni Novanta, intitolato «Evangelizzazione e testimonianza della carità», che sarà la cornice dell’ascesa di Ruini.
La transizione garantita da Poletti trovò il suo sbocco naturale con le doppie dimissioni presentate al papa nel gennaio 1991. Intanto, era caduto il muro di Berlino e, in Italia, Umberto Bossi aveva proposto la divisione della penisola in tre distinte entità politiche. Nel gennaio 1991 il papa nominò alla carica di vicario di Roma il segretario della Cei Camillo Ruini; il 4 marzo lo stesso venne nominato presidente della Conferenza, con il doppio incarico che aveva avuto Poletti.
Camillo Ruini. La convergenza di vedute sperimentata a partire dal convegno ecclesiale di Loreto nel 1985 rassicurava il pontefice sulla ricaduta positiva che le sue concezioni avrebbero avuto presso l’episcopato italiano tramite il nuovo presidente, carica alla quale, per la prima volta, si insediava il segretario della stessa Conferenza. I tre lustri di presidenza hanno permesso a Ruini di plasmare la Chiesa italiana secondo alcune direttrici fondamentali del suo pensiero, che vede nel recupero dell’identità cattolica e nell’idea di una ripresa culturale per un’offensiva contro la secolarizzazione gli strumenti di una energica rinascita del ruolo della Chiesa, fungendo da portavoce della richiesta del papa polacco affinché i cattolici italiani raggiungessero o recuperassero un ruolo guida per il loro paese.
Gli anni in cui Ruini iniziò a guidare la Cei furono particolarmente ricchi di avvenimenti che ridisegnarono in maniera profonda la geografia sociale e politica italiana. La crisi del sistema dei partiti e il crollo della Dc fecero sì che la Chiesa perdesse in poco tempo i punti di riferimento essenziali alla sua influenza in campo politico. L’eredità di fiducia che era stata della Dc iniziò a essere impiegata nei confronti dei governi di centro-destra, che assicuravano un’attenzione alle esigenze, economiche in primo luogo, della Chiesa. Tangentopoli e la questione morale fanno da sfondo e da stimolo alle risposte della Cei, tra le quali il progetto di ‘evangelizzazione del sociale’ di cui la crisi aveva riproposto l’urgenza e la necessità. La ‘nuova evangelizzazione’ del continente europeo, lanciata a più riprese dal papa polacco, divenne un leitmotiv delle proposte dei vescovi per tutti gli anni Novanta del Novecento. Ruini gestisce il passaggio da una Chiesa tutelata attraverso lo strumento democristiano a una situazione in cui i cattolici si ritrovano a essere una minoranza. Questo nuovo scenario, per Ruini, è comunque ricco di potenziali sviluppi: una Chiesa di minoranza diventa più combattiva, accetta la logica della concorrenza, agisce come centro di pressione sui centri legislativi. Nel maggio 1991, in occasione della sua prima prolusione, parlò della necessità «di una presenza pubblica in Italia che abbia una vera dimensione nazionale, ruolo che in via principale [...] può essere esercitato soltanto [...] attraverso lo strumento della Conferenza Episcopale»48.
Il primo scenario in cui Ruini poté dispiegare le proprie capacità fu quindi quello politico, con la difesa, fino alla fine, della Dc e la scelta di giocare un ruolo di primo piano nell’ambito politico, coerentemente attuata per tutta la durata della presidenza. In poco tempo il presidente divenne un interlocutore ricercato e ascoltato su tutti i temi dell’agenda politica italiana. È evidente che la Chiesa ha acquisito in questi anni un ruolo politico decisamente meno mediato rispetto all’esperienza precedente. Tuttavia, se all’inizio si parlava di «impegno unitario» dei cattolici in ambito politico, presto si è passati alla «tensione unitiva», che avrebbe dovuto riflettere quella comunione ecclesiale di cui i cattolici italiani erano partecipi, per approdare allo stemperato concetto di «attenzione privilegiata per un soggetto politico di ispirazione cristiana», fino alle scelte che sarebbero derivate dalla «libera maturazione delle coscienze cristiane».
Nello stesso anno in cui Ruini venne confermato per un successivo quinquennio, il 1996, dopo la crisi del primo governo Berlusconi le elezioni decretarono il successo della coalizione di centro sinistra guidata da Romano Prodi. Nonostante una lunga conoscenza, i rapporti saranno però sempre più freddi per la rivendicazione delle autonome responsabilità di governo invocate dal cattolico presidente del Consiglio di fronte a un protagonismo sempre più marcato dei vertici della Cei. Il terzo mandato per Ruini si apre insieme al secondo governo Berlusconi, dal quale il presidente incassò risultati di primo piano, quali la statalizzazione degli insegnanti di religione, l’inserimento degli istituti cattolici nel sistema scolastico pubblico, la legge sugli oratori, i finanziamenti per i beni culturali ecclesiastici, la cassazione della proposta del divorzio breve, insieme alle restrizioni nell’ambito della procreazione medicalmente assistita. L’altra frontiera su cui Ruini ha indirizzato la Chiesa italiana è infatti quella delicata della bioetica e della sua normazione legislativa. È un crinale sottile in cui la destra italiana ha spesso cercato di utilizzare strumentalmente le istanze proposte dalle gerarchie per allargare il proprio consenso elettorale mostrando attenzione verso quelli che Ruini definisce valori non negoziabili e dunque sottratti al normale meccanismo democratico. Si tratta di un terreno in cui l’Italia sconta un forte ritardo rispetto ad altre esperienze europee, con il risultato di lasciare vuoti legislativi su cui si infrangono i problemi e spesso i drammi di singoli e famiglie. Nel contempo è un settore in cui spesso si è assistito, nel mondo politico, a una sorta di immobilismo che sembra a volte attirare il consenso dell’istituzione ecclesiastica. Il caso drammatico di Piergiorgio Welby, al quale venne negato il funerale religioso, fa irrompere violentemente il tema del fine-vita nel dibattito pubblico; intanto si discute il tema dei diritti delle persone omosessuali e delle convivenze non matrimoniali, insieme a quello dei limiti da imporre alla procreazione medicalmente assistita, a proposito della quale, in occasione del referendum del 2005 sulla legge 40 Ruini sollecita una grande compattezza nell’astensione alla consultazione, ritenuta evidentemente via facilior rispetto a un voto contrario. Quando il presidente del Consiglio Romano Prodi affermerà pubblicamente di essere un cattolico adulto ed esprimerà l’intenzione di recarsi a votare, provocherà l’irritazione del presidente della Cei e un ulteriore raffreddamento dei loro rapporti.
Anche la politica estera entra nella sfera di interesse del presidente: la guerra in Iraq è l’occasione per appoggiare le scelte del governo rispetto alla missione internazionale e alla presenza di soldati italiani su quel delicato fronte, anche quando il costo in vite umane porterà molti a chiedersi ragione di quei sacrifici, evidenziando un contrasto, al di là del plauso di facciata, con i giudizi del pontefice e le sue iniziative a favore della pace.
Lo stile ruiniano si declina attraverso un’importanza sempre crescente delle sue prolusioni, veri e propri manifesti in cui si intrecciano giudizi sull’attualità politica e messaggi più o meno cifrati indirizzati all’interno e all’esterno della Chiesa. Per riuscire nel suo progetto di rendere la Chiesa protagonista della scena italiana a livello politico e legislativo Ruini attua una centralizzazione assoluta, emarginando altre visioni e altre prospettive. Non esita a proporre il modello della religione civile americana come auspicabile per il futuro dell’Italia. Sempre più la presidenza, invece dell’assemblea, è il luogo dove sono enunciate le posizioni ufficiali della Chiesa italiana, riducendo la dialettica collegiale e imponendo un’unanimità spesso soltanto di facciata. Ruini diventa l’unico canale di comunicazione tra le istituzioni dello Stato italiano e la Chiesa, scavalcando Segreteria di Stato, segreteria della Cei, congregazioni di curia. L’identità da recuperare necessitava di una consapevolezza culturale non sempre presente; in questo senso si colloca il «progetto culturale orientato in senso cristiano» che il presidente lanciò a metà degli anni Novanta (e che con grande lentezza sarà poi dotato di un suo comitato49) e che avrebbe dovuto formare, insieme alle scuole di politica capillarmente diffuse sul territorio, una nuova generazione capace di prendere il posto di quella spazzata via da tangentopoli. Dalla presidenza si levano una denuncia dell’emarginazione pratica del cristianesimo, una chiamata alla virile accettazione della nuova condizione di minoranza, con un costante richiamo alla ‘questione antropologica’ che vede contrapporsi l’uomo naturalistico, che vive secondo un’etica edonistica e utilitaristica, all’uomo cristiano. Di qui una crescita costante del peso del tema della famiglia, intesa come unione stabile, basata sul matrimonio tra un uomo e una donna. L’insistenza sulla debolezza dell’identità occidentale nei confronti di nuovi modelli e di antichi spettri, primo fra tutti l’islam, incontra l’interesse di un ampio fronte pur estraneo alla sensibilità cattolica, quegli ‘atei devoti’ che cercano di sfruttare questi appelli in chiave eminentemente politica.
Sul fronte ecclesiastico Ruini si trovò a guidare una Cei economicamente forte e autonoma dalla Santa Sede, con il meccanismo della destinazione dell’otto per mille entrato a pieno regime di funzionamento. Proprio questa solidità fece sì che la Cei potesse diventare proprietaria del quotidiano «Avvenire», espressione dell’episcopato italiano. Cresceva intanto la struttura burocratica della Cei, che si arricchiva di nuovi organismi. In quei lustri si delinea anche un diverso giudizio sul fenomeno dei movimenti ecclesiali, fino ad allora generalmente guardati con sospetto dalle gerarchie che vedevano in essi una possibile concorrenza alla tradizionale struttura parrocchiale e all’appartenenza all’Azione cattolica, segnata comunque da una profonda crisi. Si cerca quindi di legare maggiormente alla Chiesa queste aggregazioni più o meno nuove nel panorama del laicato italiano (alcuni movimenti erano già attivi negli anni Cinquanta), sottolineando il criterio essenziale della loro ecclesiasticità.
La forte personalità del presidente ha tolto in un certo modo visibilità alle diverse sensibilità dell’episcopato italiano, che hanno trovato però espressioni alternative e legittimazione nei tanti possibili riferimenti al pontificato in corso, al di là dell’omologazione tentata dal vertice. Anche i segretari che si sono succeduti (D. Tettamanzi dal 1991 al 1995, E. Antonelli fino al 2001 e G. Betori fino al 2008), pur con personalità diverse, non hanno costituito un polo alternativo: con la nuova presidenza si rovescerà infatti il tipo di rapporto tra presidente e segretario che aveva caratterizzato in precedenza le diadi del vertice Cei, in particolare con l’esperienza Poma-Bartoletti. Ruini apre infatti un canale privilegiato di dialogo conGiovanni Paolo II, ponendosi come diretto interlocutore delle vicende italiane, più del segretario di Stato e dei sostituti.
Durante la presidenza Ruini si è delineato anche un processo di revisione dell’interpretazione del concilio Vaticano II e dell’aggiornamento voluto da Giovanni XXIII, processo con pesanti ricadute ecclesiologiche. Il cardinale presidente, vicino alle posizioni di Joseph Ratzinger, ha contestato a più riprese il valore dello «spirito del concilio» e della svolta impressa alla Chiesa cattolica, sottolineando invece gli elementi di continuità nella tradizione.
Alla scadenza del terzo mandato di Ruini Benedetto XVI avviò una consultazione, senza però permettere una discussione pubblica e senza rendere noti gli esiti del sondaggio. Per sopire le polemiche provocate da una non voluta pubblicità alla sua richiesta nel febbraio 2006 il papa lo riconfermò temporaneamente con la formula donec aliter provideatur, per arrivare poi nel marzo 2007 alla nomina diAngelo Bagnasco, arcivescovo di Genova.
La Chiesa ambrosiana. Lungo la filiera ambrosiana si collocano due dei vescovi più noti della Chiesa italiana a cavallo tra i due secoli, Carlo Maria Martini e Dionigi Tettamanzi.
Martini, entrato giovanissimo nella Compagnia di Gesù, biblista, era rettore della Pontificia Università Gregoriana quando, nel 1979, Giovanni Paolo II lo elesse arcivescovo di Milano, dove entrò nel febbraio 1980, creandolo poi cardinale nel 1983. Il suo episcopato, durato fino al 2002, si caratterizzò per la scelta di riportare la Bibbia al centro della pastorale della diocesi. Aprì così la Scuola di preghiera, creò l’inedita iniziativa della Cattedra dei non credenti, si impegnò nel dialogo ecumenico, sempre presentandosi come pastore e in particolare rivolgendo la sua attenzione alle categorie maggiormente emarginate, tanto da attirarsi le critiche della Lega Nord. Fu Martini che denunciò le «strutture di peccato» che avevano portato alla crisi morale e a tangentopoli, chiedendo a tutti l’impegno alla trasparenza e all’onestà. Si tratta di una figura ‘altra’ rispetto alle consuete dialettiche dell’episcopato italiano; non esitò a delineare quelli che a suo avviso erano i nodi che necessitavano di approfondimenti collegiali, tanto che molto parlarono di un suo appello alla celebrazione di un nuovo concilio. I suoi numerosi libri rispecchiano le priorità della sua missione e la passione per gli studi biblici, ottenendo una diffusione che va ben al di là del consueto mercato editoriale dei titoli religiosi.
Tettamanzi, insediato a Milano nel 2002 dopo essere stato arcivescovo di Genova dal 1995, è stato considerato spesso un’alternativa al modello ruiniano. Segretario della Cei dal 1991 al 1995, cardinale dal 1998, ha proposto un’immagine del cristiano del secondo millennio lontana dall’attivismo politico e incentrata sulla testimonianza evangelica nelle complesse società contemporanee, come nel caso dei suoi interventi pubblici sui temi del lavoro, della moralità pubblica, dell’emigrazione, dell’accoglienza all’altro, spesso diffusi anche attraverso volumi di ampia diffusione. Come il suo predecessore, è stato bersaglio di violente critiche da parte di alcune formazioni politiche. Le indiscrezioni sull’andamento del conclave del 2005 ne hanno fatto un possibile candidato al papato. Nel 2009, raggiunta l’età delle dimissioni, è stato riconfermato per un ulteriore biennio alla guida della diocesi di Milano.
Angelo Bagnasco. Nel settembre 2007 il papa chiamò alla presidenza della Cei l’arcivescovo di Genova Angelo Bagnasco, un volto noto agli italiani perché era stato ordinario militare e in tale veste aveva celebrato le esequie dei caduti italiani nelle guerre in Iraq e Afghanistan50.
Vicino alle posizioni del cardinal Siri, alla cui scuola si era formato e nella cui diocesi era rimasto fino al 1998, quando era stato chiamato a reggere la diocesi di Pesaro, Bagnasco godeva della fiducia di Ruini e si poteva quindi prevedere una certa continuità tra i due. Tuttavia, la contemporanea responsabilità della diocesi genovese ha fatto sì che il presidente fosse meno presente a Roma del suo predecessore, inaugurando comunque, al di là dell’aspetto geografico, un approccio senz’altro meno presidenzialista, in cui i vescovi possono godere di uno spazio di autonomia più marcato, con un cambiamento gradito anche al papa. Si evidenzia, con il passare del tempo, uno stile maggiormente declinato sul versante pastorale rispetto al precedente. Già la lettera che il segretario di Stato (e suo predecessore a Genova) Tarcisio Bertone gli aveva inviato nel marzo 2007 conteneva chiari accenni alle nuove regole d’ingaggio che avrebbero indirizzato il suo nuovo incarico: intanto la segreteria di Stato riprendeva in mano le fila dei contatti con il mondo politico italiano, offrendo in tal modo un’agevole via d’uscita dal coinvolgimento precedente; in secondo luogo tratteggiava quegli sviluppi collegiali che evidentemente erano mancati durante la precedente gestione; accennava poi all’indebolimento del tessuto ecclesiale italiano, proponendo quindi la priorità dell’evangelizzazione.
Per Bagnasco i rapporti con il mondo politico, che intanto ha mutato radicalmente il suo aspetto, non costituiscono la priorità del suo mandato, anche se vengono curati in modo particolare soprattutto quando da essi si può ottenere garanzie sulla legislazione che riguarda la famiglia e la bioetica. In particolare quando il parlamento italiano si apprestava a legiferare sullo status giuridico delle cosiddette ‘coppie di fatto’ il peso della Cei ebbe modo di giocare un ruolo di primo piano, fino a giungere all’ipotesi di un appello ai parlamentari cattolici perché non votassero una legge contraria alla morale cattolica. La difesa della famiglia fondata sul matrimonio è il tema emergente dei primi anni della presidenza Bagnasco, che critica chi contesta alla Chiesa il diritto di prendere posizione sui temi del dibattito politico italiano. La posizione del cardinale è chiara: non si può mediare sui valori, che sono alla base del diritto naturale e che dunque non si qualificano come cattolici, ma hanno anzi una valenza universale. È questa preoccupazione pastorale che porta la Cei ad assumere la bioetica come spazio privilegiato di confronto con la cultura laica. Si arriva così ad auspicare una revisione della legge 194 che regolamenta l’aborto, si cerca di ostacolare l’iter parlamentare della legge sul testamento biologico, si interviene quando si tratta di stabilire qual è il momento finale della vita, si contesta l’introduzione della RU 486 (la cosiddetta pillola abortiva) nel sistema sanitario nazionale.
Nel settembre 2008 nel panorama della Cei si è verificata un’importante novità: per la prima volta a una carica di alto livello viene chiamato un rappresentante dell’episcopato meridionale. Il nuovo segretario della Conferenza, che sostituisce Betori, è Mariano Crociata, vescovo di Noto, docente ed esperto di teologia delle religioni, in particolare dell’islam.
Al termine di queste pagine si possono osservare alcune costanti nella storia della leadership episcopale italiana a partire dal 1861. Innanzitutto essa si caratterizza per la sua provenienza settentrionale, quasi a ripercorrere i passi della centralizzazione voluta dallo Stato unitario in ambito amministrativo e politico. All’inizio probabilmente si voleva evitare la persistenza di particolarismi e di antiche divisioni; meno comprensibile appare forse la reiterazione di questa scelta almeno fino alla nomina di Crociata alla segreteria della Cei. Le prossime nomine mostreranno se e in che misura la ‘questione meridionale’ della Chiesa cattolica italiana potrà ritenersi risolta.
Un’altra caratteristica costante è una sorta di anima plurale, a fronte di un’egemonia romana comunque evidente. Vi sono un’anima proveniente dal filone romano, un’altra dal filone ambrosiano e almeno una terza legata all’esperienza religiosa del Mezzogiorno. Si è verificato spesso che la Chiesa romana si dedicasse maggiormente al governo e ai rapporti con lo Stato italiano, la Chiesa ambrosiana fosse più legata all’aspetto spirituale e la Chiesa meridionale (in senso lato) mantenesse una vicinanza maggiore alla religiosità popolare. Per Roma si può ipotizzare che la costante vicinanza al papa, in particolare nel periodo in cui egli era al centro anche del potere temporale, abbia influenzato positivamente la capacità di gestire quell’aspetto. Milano, lontana e in ogni caso poco coinvolta in questo genere di rapporti, ha potuto dedicarsi all’annuncio del Vangelo con una libertà forse maggiore rispetto al centro istituzionale della Chiesa. Di conseguenza, la visibilità istituzionale non ha coinciso quasi mai con una leadership spirituale, quasi si trattasse di carismi differenti. Nel futuro cammino si potrà vedere se le condizioni storiche e spirituali renderanno possibile una fusione di questi carismi o se il peso del temporale resterà una caratteristica della Chiesa destinata a lunga durata.
1 Mi riferisco in particolare allo studio di A. Monticone, L’episcopato italiano dall’Unità al concilio Vaticano II, in Clero e società nell’Italia contemporanea, a cura di M. Rosa, Roma-Bari 1992, pp. 257-330. Importanti notazioni in F. Traniello, Religione cattolica e Stato nazionale. Dal Risorgimento al secondo dopoguerra, Bologna 2007.
2 La pietra miliare rimane il lavoro di A.C. Jemolo, Chiesa e Stato in Italia negli ultimi cento anni, Torino 1955. Sulle periodizzazioni interne alla realtà ecclesiastica cfr. G. Battelli, Santa Sede e vescovi nello Stato unitario. Dal secondo Ottocento ai primi anni della Repubblica, in St.It.Annali, IX, pp. 807-854, e B. Bocchini Camaiani, Episcopato e società italiana tra Sette e Novecento: mutamenti istituzionali e indirizzi pastorali con particolare attenzione alle realtà toscane e umbre, «Vivens homo» 11, 2000, 1, pp. 235-261.
3 Cfr. F. Sportelli, La Conferenza Episcopale Italiana (1952-1972), Galatina 1994; una sintesi della storia dell’episcopato e della sua organizzazione, fino all’inizio del nuovo millennio, in A. D’Angelo, L’episcopato italiano dalla frammentazione al profilo nazionale, «Studium», 4, 2003, pp. 561-592.
4 Nato a Roma nel 1880, Schuster entrò giovanissimo nel monastero di San Paolo fuori le mura, di cui divenne abate nel 1918. Come modello di vita e di città Schuster assunse quello del monastero benedettino, in cui le funzioni sociali ed economiche erano collegate a quella paternità spirituale che egli viveva nel ruolo di abate. Nominato arcivescovo di Milano nel 1929, creato cardinale nello stesso anno, Schuster elesse a modello la figura riformatrice di Carlo Borromeo. Ascesi e disciplina caratterizzarono il suo episcopato, che sembrò inclinare all’inizio per un certo favore verso il regime fascista, di cui aveva apprezzato i Patti Lateranensi. L’allineamento alla Germania nazista e l’emanazione delle leggi razziali provocarono una decisa critica verso quelle forme di neopaganesimo che non potevano conciliarsi con la dottrina cattolica. Importante perno per le trattative tra nazifascisti e comando Clnai e angloamericano, Schuster diede vita a una vastissima attività assistenziale durante la guerra e negli anni della ricostruzione. Preoccupato del pericolo comunista, Schuster visse negli ultimi anni dell’episcopato un progressivo accentramento decisionale nella sua persona. Il modello di ascendenza medievale che propose alla diocesi, insieme al febbrile attivismo e alla chiusura verso forme di dialogo con le forze esterne alla Chiesa furono i punti cardine del suo particolare percorso. L’arcivescovo Montini promosse il processo canonico nel 1957 e papa Giovanni Paolo II proclamò Schuster beato nel maggio 1996. Cfr. G. Rumi, A. Majo, Il cardinal Schuster e il suo tempo, Milano 1996.
5 Il testo del verbale è citato da A. Riccardi, Chiesa di Pio XII o Chiese italiane?, in Le chiese di Pio XII, a cura di A. Riccardi, Roma-Bari 1986, pp. 21-52, 29.
6 Nato a Vigo di Cadore nel 1884, Giovanni Piazza entrò giovanissimo nell’Ordine dei carmelitani scalzi, prendendo il nome di Adeodato. Sacerdote nel 1908, fu docente di filosofia e teologia; durante il primo conflitto mondiale fu cappellano militare. Dal 1923 al 1929 fu segretario generale dei carmelitani scalzi. Pio XI lo elesse arcivescovo di Benevento nel 1930. Patriarca di Venezia nel 1935, fu creato cardinale nel 1937. Durante l’occupazione nazista tenne costanti rapporti con i comandi tedeschi per evitare inutili distruzioni e sofferenze alla popolazione. Nel 1948 Pio XII lo nominò segretario della Sacra congregazione concistoriale. Morì a Roma nel 1957.
7 Nato ad Arona nel 1876, fu ordinato sacerdote nel 1898. Segretario di monsignor Pulciano a Novara e a Genova, nel 1911 tornò a Novara per dedicarsi alle missioni popolari. Nel 1924 divenne vescovo di Nuoro; trasferito nel 1929 a Sassari, fu chiamato nel 1930 alla cattedra di Torino, dove rimase fino al 1965, anno della sua morte. Visse gli anni del fascismo tra una prima adesione e un successivo distacco dopo le leggi razziali. Per la sua opera di mediazione tra le forze di occupazione e quelle di liberazione e per la sua opera di assistenza gli venne conferita la cittadinanza onoraria. Visse in prima persona lo sviluppo industriale e urbanistico di Torino, occupandosi della pastorale del mondo operaio e della costruzione delle chiese nei nuovi quartieri di immigrazione. Ormai anziano e malato, presentò due volte le dimissioni, sempre respinte; dal 1961 al 1965 ebbe come coadiutore monsignor Tinivella.
8 Cfr. G. Alberigo, Santa Sede e vescovi nello Stato unitario. Verso un episcopato italiano (1958-1985), in St.It.Annali, IX, pp. 855- 879.
9 Per una più ampia ricostruzione biografica, basata sulle carte dell’archivio personale del cardinale, cfr. N. Buonasorte, Siri. Tradizione e Novecento, Bologna 2006.
10 Cfr. A. Riccardi, Vescovi d’Italia. Storie e profili del Novecento, Cinisello Balsamo 2000, pp. 120-154.
11 Cfr. A. Romano, Ernesto Ruffini cardinale arcivescovo di Palermo (1946-1967), Caltanissetta-Roma 2002.
12 Su di lui si veda B. Bocchini Camaiani, Ricostruzione concordataria e processi di secolarizzazione: l’azione pastorale di Elia Dalla Costa, Bologna 1983, e A. Riccardi, Vescovi d’Italia, cit., pp. 85-105.
13 Cfr. Giacomo Lercaro, vescovo della chiesa di Dio (1891-1976), a cura di A. Alberigo, G. Alberigo, Bologna 1986, e Araldo del Vangelo. Studi sull’episcopato e sull’archivio di Giacomo Lercaro a Bologna (1952-1968), a cura di N. Buonasorte, Bologna 2004.
14 Atti della Conferenza episcopale italiana (Roma 1959), Archivio Siri, Genova, b. Cei 1959-1960.
15 Cfr. A. Riccardi, Vescovi d’Italia, cit., p. 39.
16 Osservazioni circa l’appunto giunto da Nicodemo, maggio 1960, Archivio Siri, Genova, b. Cei - autorità politiche.
17 Appunti di cronaca, dicembre 1961, Archivio Siri, Genova, b. Cei - autorità politiche.
18 Nota, 22 dicembre 1961, Archivio Siri, Genova, b. Cei - autorità politiche.
19 Appunto, 5 ottobre 1961, Archivio Siri, Genova, b. Cei - presidenza.
20 Congar annota nel suo diario che «les Italiens craignent le cardinal Siri. Ils ne s’expriment pas librement à cause de cela». Y. Congar, Mon journal du concile, tome I: 1960-1963, présenté et annoté par E. Mahieu, Paris 2002, p. 203.
21 Cfr. A. Riccardi, Vescovi d’Italia, cit., p. 154.
22 Cfr. Per la forza dello Spirito. Discorsi conciliari del card. Giacomo Lercaro, a cura dell’Istituto per le Scienze Religiose, Bologna 1984, pp. 445-446.
23 Lettera di Cicognani a Siri, 29/7/1964, Archivio Siri, Genova, b. Cei - presidenza.
24 Lettera di Siri a Castelli, 14/8/1965 Archivio Siri, Genova, b. Cei.
25 «Les Italiens [...] prononcent en suite les noms d’Urbani et de Confalonieri qui représentent une solution de moyen terme favorable au traditionalisme». Nota di Guy de la Tournelle, 22 dicembre 1962, in copia presso Istituto per le Scienze Religiose, Bologna, serie diplomatica, FQO 141.
26 Si veda G. Battelli, La partecipazione/ruolo al Concilio e la presidenza CEI, in Giovanni Urbani patriarca di Venezia, a cura di B. Bertoli, Venezia 2003, pp. 191-253. Nato a Venezia nel 1900, fu ordinato prete nel 1922 e vescovo titolare di Assume nel 1946. Nello stesso anno divenne assistente generale dell’Azione cattolica. Vescovo di Verona nel 1955, fu nominato patriarca di Venezia nel novembre 1958 dal suo predecessore sulla cattedra di San Marco, Angelo Giuseppe Roncalli, eletto papa.
27 Cfr. G. Alberigo, Santa Sede e vescovi nello Stato unitario, cit., p. 810.
28 Nato nel 1910 in provincia di Pavia, ottenne nel 1934 la laurea in teologia all’Università Gregoriana. Segretario del vescovo della sua diocesi, fu chiamato all’episcopato nel 1951, come ausiliare della diocesi di Mantova, di cui divenne titolare nel 1954. Nel 1967 fu trasferito come coadiutore con diritto di successione a Bologna; dal 1968 al 1983 resse la diocesi felsinea. Paolo VI lo nominò cardinale nel 1969.
29 Si veda il discorso Dimensione ecclesiale dell’evangelizzazione, tenuto all’XI Assemblea generale della Cei (3-8 giugno 1974), in A. Poma, Il volto e lo spirito della Chiesa in Italia. Discorsi del Cardinale Antonio Poma dal 1969 al 1979, Roma 1981, p. 130.
30 A. Riccardi, Il card. Poma alla presidenza della CEI, «Rivista di teologia dell’evangelizzazione», 18, 2005, pp. 507-521.
31 Cfr. G.F. Pompei, Un ambasciatore in Vaticano. Diario 1969 - 1977, Bologna 1994, p. 291. Gli appunti sono stesi alla fine di settembre del 1973.
32 Cfr. A. Poma, Il volto e lo spirito della Chiesa in Italia, cit., p. 132.
33 Nel febbraio 1975 così annota Bartoletti: «Circa il rinnovo della carica di presidente della Cei, mostra di pensare alla riconferma di Poma; altri sembrano suggerirgli diversamente. Mi domanda se vi sono, tra i cardinali, candidati che io ritenga capaci. Rispondo di no: o per motivi personali o per situazioni locali». Cfr. A. Riccardi, Vescovi d’Italia, cit., p. 180.
34 Cfr. G.F. Pompei, Un ambasciatore in Vaticano, cit., pp. 451-452. Si tratta della minuta di una lettera indirizzata al presidente del Consiglio nel maggio 1975.
35 Su questi passaggi, cfr. A. Acerbi, La Chiesa e l’Italia. Per una storia dei loro rapporti negli ultimi due secoli, Milano 2003, p. 476.
36 Nato a Genova nel 1913, entrò a 11 anni nel seminario carmelitano del Deserto di Varazze; proseguì gli studi ad Arenzano, a Loano e poi nel convento di S. Anna a Genova; nel 1934 fece la professione solenne e fu ordinato sacerdote nel giugno 1936. Dal 1945 fu priore di S. Anna, divenendo poi nel 1955 preposito generale dei Carmelitani scalzi fino al 1967, carica con la quale partecipò al concilio Vaticano II. Paolo VI lo chiamò alla guida della diocesi di Bari, dove entrò nel 1974; nel 1977 divenne arcivescovo di Torino, che lasciò nel 1989. Giovanni Paolo II lo creò cardinale nel giugno 1979 con il titolo di S. Maria sopra Minerva. Morì nel giugno 1998 a Bocca di Magra, dove si era ritirato nel monastero di S. Croce.
37 Cfr. N. Buonasorte, Siri. Tradizione e Novecento, cit., p. 376.
38 Cfr. A. Riccardi, Vescovi d’Italia, cit., p. 181.
39 Cfr. A. Ballestrero, Autoritratto di una vita. Padre Anastasio si racconta, Roma 2002, pp. 426-427.
40 «La sapienza che ho ricevuto dall’Ordine mi ha aiutato a non essere sopraffatto dalla dimensione burocratica nel ministero e nel servizio [...]. Ho sempre espresso una simpatia e una nostalgia per una tradizione orientale nella quale chi è destinato all’episcopato deve prima fare il monaco per prepararsi a fare il vescovo [...]. Credo che un’attenzione particolare alla vita religiosa, alla vita consacrata, alla vita monastica sia veramente una grande risorsa, un po’ per l’educazione ascetica e per il rigore della disciplina che impone e un po’ per quella visione trascendente delle cose che aiuta a mantenere». Ibidem, p. 270.
41 Ibidem, p. 363.
42 Si veda a questo proposito la lettera indirizzata da Pompei a Moro, nella quale l’ambasciatore scrive: «Dal nome sembra che questo religioso, di colpo innalzato ad Arcivescovo, venga dal Piemonte o comunque dal nord: così si realizza la Sua profezia, le diocesi del sud sono terre di missione». Cfr. G.F. Pompei, Un ambasciatore in Vaticano, cit., p. 384.
43 Nel 1983 la Liga Veneta si presentò per la prima volta alle elezioni politiche e ottenne un deputato e un senatore.
44 Il punto di vista di Ballestrero relativamente al rapporto tra Chiesa e politica non subirà variazioni. Scriverà alla fine degli anni Novanta: «Nel ’48 c’è stata la débacle del comunismo e la vittoria della Democrazia Cristiana. Dal ’48 a oggi sono passati 50 anni e la qualità spirituale, religiosa, cristiana del paese ha subito un degrado spaventoso, c’è poco da dire. E oggi cosa faremo? Cosa faranno? Io, dico la verità, sono contento di non essere più in Cei, di non aver più responsabilità, perché mi troverei particolarmente imbarazzato a pronunciare giudizi o a dare direttive». A. Ballestrero, Autoritratto di una vita, cit., p. 365.
45 Su questo passaggio cfr. G. Alberigo, Santa Sede e vescovi nello Stato unitario, cit. e A. Melloni, Gli anni Settanta della chiesa cattolica. La complessità nella ricezione del concilio, in L’Italia repubblicana nella crisi degli anni Settanta. Culture, nuovi soggetti, identità, a cura di F. Lussana, G. Marramao, Soveria Mannelli 2003, pp. 201-229.
46 Ugo Poletti era nato a Omegna, in provincia di Novara, nel 1914. Ordinato prete nel 1938, per vent’anni aveva svolto il suo ministero nella diocesi natale, della quale fu nominato vescovo ausiliare nel 1958. Nel 1967 si insediò a Spoleto, che lasciò due anni dopo per diventare ausiliare nella diocesi di Roma. Presidente delle Pontificie opere missionarie, cardinale nel 1973, nello stesso anno fu nominato vicario generale di Roma, carica che tenne fino al 1991. È morto nel 1997.
47 Cfr. Quattro indicazioni programmatiche per la Chiesa italiana. Intervista al presidente Cei, card. U. Poletti, a cura di L. Prezzi, «Il Regno - Attualità» 30, 1985, 22, pp. 573-575.
48 Cfr. C. Ruini, Chiesa del nostro tempo (I). Prolusioni 1991-1996, Casale Monferrato 1996, p. 36.
49 Si veda C. Ruini, Il progetto culturale della Chiesa in Italia, Casale Monferrato 1996.
50 Nato nel gennaio 1943 a Pontevico, località del bresciano dove la famiglia, genovese, si era rifugiata durante la guerra, Angelo Bagnasco compì gli studi a Genova e fu ordinato prete da Siri nel 1966. Ricoprì diversi incarichi in diocesi, da quello di docente a vicario episcopale, occupandosi della catechesi e della formazione degli insegnanti di religione, fino alla nomina a vescovo di Pesaro nel 1998.