Vescovi/1: dal 1848 alla fine del secolo
L’Italia nella seconda metà dell’Ottocento, priva quindi dei territori del Trentino Alto Adige e della Venezia Giulia, annessi solo nel Novecento, e senza contare Nizza e la Savoia cedute alla Francia nel 1860, contava circa 260 diocesi, un numero esorbitante di realtà ecclesiastiche locali frutto di millenarie tradizioni particolaristiche, a cui si devono aggiungere le abbazie territoriali, i cui abati avevano prerogative e compiti vescovili, da quelle di Montecassino, Montevergine e Cava de’ Tirreni nel napoletano a quelle di Monte Oliveto Maggiore in Toscana, di Subiaco, Grottaferrata e S. Paolo fuori le mura nel Lazio. Il numero maggiore di diocesi si trovava nel Regno delle Due Sicilie (109, dopo l’erezione di diverse diocesi siciliane e l’accorpamento di varie diocesi del continente a seguito del Concordato del 1818) e nello Stato pontificio (70, compresa la diocesi di Benevento); nel primo caso divise in una serie di piccole province ecclesiastiche, nel secondo caso in gran parte direttamente soggette alla Santa Sede. Ne deriva che la fisionomia dei vescovi italiani, numerosissimi e dalle caratteristiche peculiari correlate alle particolarità storico-geografiche e politico-sociali del territorio di nascita e di attività, risulta molto variegata, difficilmente riconducibile a caratteristiche comuni, anche senza prendere in considerazione i vescovi coadiutori o ausiliari e i vescovi titolari, impegnati in curia o nella diplomazia o nei territori sottoposti a Propaganda Fide1.
I vescovi in carica alla vigilia della rivoluzione del 1848-1849 erano stati tutti nominati dai sovrani dei diversi Stati preunitari ed erano quindi legati fortemente all’apparato statale, anche se l’atteggiamento di sudditanza divergeva molto da persona a persona. Non a caso era molto difficile che un presule fosse scelto tra sacerdoti estranei allo Stato2. Eccezione a questa prassi fu la nomina ad Asti del veneto Filippo Artico e la scelta per Parma di un ungherese, Giovanni (János) Neuschel (1843-1852), confessore della duchessa Maria Luigia d’Asburgo3. Meno raro era il fenomeno nello Stato pontificio, dove venivano promossi vescovi molti funzionari di curia provenienti a volte da altri Stati, come il fiorentino Corsi a Jesi, il lombardo Cadolini a Ferrara, e più tardi il corso Viale Prelà a Bologna. Anche i vescovi provenienti dagli ordini religiosi spesso erano destinati a diocesi dove si erano formati o erano attivi piuttosto che dove erano nati, come il francescano bergamasco Arrigoni, predicatore e professore all’università di Pisa, nominato nel 1849 primo arcivescovo della Lucca granducale, per evitare un contenzioso tra Leopoldo II che non voleva un lucchese e i lucchesi che non volevano un toscano4. La scelta quasi esclusivamente ristretta ai sudditi faceva sì che negli Stati più piccoli la circolazione dei vescovi fosse molto scarsa e frequentemente si nominassero vescovi originari del luogo, come a Parma con la designazione di Antonio Ranza (1849) e nelle diocesi minori e meno appetibili del Granducato di Toscana (Volterra, San Miniato, Soana, Pontremoli), dove l’elezione a vescovo era di fatto appannaggio dei canonici locali5. Negli Stati più grandi la circolazione era più ampia anzi era abbastanza frequente che i nuovi eletti fossero mandati in regioni diverse dalla propria. Si spiegano così lo scambio frequente tra Piemonte e Liguria (genovese era l’arcivescovo di Torino Luigi Fransoni) e fino al 1860 anche con la Savoia (a Pinerolo poi a Genova fu nominato il savoiardo Andrea Charvaz, già precettore dei figli del re), la presenza di piemontesi in Sardegna e di lombardi nel Veneto, mentre al contrario non si trovano presuli sardi nel continente e veneti in Lombardia. Evidentemente le nomine tendevano a evitare che il vescovo fosse coinvolto in conflitti tra fazioni interne al territorio oppure si volevano ‘colonizzare’ territori di più recente acquisizione e non ci si fidava troppo degli esponenti locali. La stessa prassi di mandare i nuovi eletti in regioni diverse dalla loro era in uso nello Stato pontificio. Anche nel Regno delle Due Sicilie c’era un notevole scambio tra regioni diverse; anche qui mandare un vescovo estraneo al contesto locale poteva essere un modo per conferirgli un’autorevolezza super partes. Ad esempio molti vescovi napoletani erano inviati in Puglia, Basilicata e Calabria, mentre in Abruzzo non si trova nessun presule originario della regione, almeno fino alla nomina dell’aquilano De Marinis a Chieti (1856). Una situazione molto particolare si aveva in Sicilia. L’unione delle due corone avrebbe dovuto portare a un’integrazione normativa dei territori, ma la tendenza autonomistica era particolarmente forte, anche per la particolare giurisdizione delle istituzioni ecclesiastiche siciliane, soggette alla legazia sicula, millenario istituto per cui il sovrano era legato papale sul territorio con potere di giudice superiore rispetto all’autorità vescovile e che era orgogliosamente difeso dai siciliani contrari all’unione con il Regno di Napoli. Inviare nell’isola presuli ‘continentali’ era quindi un modo per facilitare l’integrazione e tenere sotto controllo gli autonomisti. A metà secolo infatti nelle diocesi siciliane troviamo otto vescovi originari del continente e sette isolani, mentre soltanto tre presuli siciliani governavano diocesi del continente (Sulmona, Calvi, Avellino). Dopo il 1850 invece le nomine alle diocesi siciliane cadranno sempre su presuli dell’isola6. Non mancano comunque anche nel regno borbonico casi di vescovi attivi nella propria patria, come Sisto Riario Sforza di Napoli e Francesco di Paola Villadicani di Messina. I due presuli erano esponenti dell’aristocrazia locale come molti altri nel regno borbonico, dove i vescovi erano considerati parte integrante della classe dirigente.
Ovunque la scelta, frutto anche di pareri richiesti ai vescovi più influenti o di fiducia del sovrano e di trattative più o meno complesse con la Santa Sede, cadeva in genere su prelati che avevano caratteristiche abbastanza simili. A parte la fedeltà al governo e le doti morali e sacerdotali, un requisito quasi unanime era una laurea in teologia e/o in diritto canonico o in utroque iure, anche se spesso, particolarmente nel Regno delle Due Sicilie e nello Stato pontificio, era concessa con breve pontificio o decreto sovrano al momento della nomina a vescovo. Rispetto al Settecento, era diminuito il numero dei giuristi in favore dei teologi, segno di una maggiore attenzione agli aspetti pastorali rispetto a quelli di governo, ma la mancanza di preparazione canonica, riscontrabile nei vescovi napoletani, era considerata un limite nella loro missione7. Ovviamente il luogo degli studi non era indifferente: ad esempio i vescovi piemontesi uscivano tutti dall’università di Torino, istituto fiorente di studi a tendenza giurisdizionalista e giansenista, che certamente ebbe il suo peso sull’atteggiamento dei vescovi8. I vescovi toscani venivano in genere dall’università di Pisa o di Firenze, quelli pontifici da diverse università grandi e piccole dello Stato e non solo dalle più prestigiose di Roma e Bologna, quelli napoletani in buona percentuale dall’università di Napoli, quelli lombardi e veneti dall’università di Padova o di Vienna, in qualche caso di vescovi molto anziani anche dall’università di Pavia9. I candidati in genere avevano alle spalle una carriera di professori in seminario o all’università, di rettori di seminari e collegi, oppure erano canonici e spesso avevano esperienza di governo come vicari generali e vicari capitolari, a volte in più diocesi. Più raramente avevano maturato esperienze pastorali come parroci, tranne che in Lombardia, data la particolare importanza che a questa figura era data nell’organizzazione ecclesiastica e civile asburgica10. Nello Stato pontificio spesso si trattava di funzionari di curia o di delegati apostolici, cioè di governatori delle province, oppure, soprattutto per le sedi maggiori, di nunzi apostolici. Così l’ex nunzio in Svizzera De Angelis andò a Fermo (1845), l’ex nunzio in Belgio Pecci a Perugia (1846) e l’ex nunzio a Torino Antonucci ad Ancona (1851). Ciò spiega anche il maggior numero di laureati in diritto canonico e civile (utroque iure) presente tra i vescovi dello Stato pontificio rispetto ad altri territori italiani.
Si preferivano quindi uomini con esperienza nel campo della cultura e dell’educazione o del governo, piuttosto che della pastorale diretta, ma è anche vero che era più difficile che semplici parroci avessero fatto studi universitari, al di fuori forse del Piemonte, e non a caso pochi erano i laureati tra i vescovi lombardi. Pochi erano ovunque i presuli membri del clero regolare. Nel 1848 erano tre in Piemonte, uno in Liguria, tre nel Veneto, sei nello Stato pontificio – compreso il barnabita cardinale Lambruschini, preposto a una diocesi suburbicaria –, nessuno in Lombardia, nei ducati, in Toscana (qui ne furono nominati due nel 1849). Nel regno napoletano non era rara la nomina di francescani e domenicani, ma anche di redentoristi e di lazzaristi, esponenti di ordini impegnati in genere nelle missioni popolari e a diretto contatto con il popolo, ma sempre in percentuale piuttosto bassa (nel 1848 erano 14 su 90). In Sicilia poi la scelta cadeva spesso su teatini o su monaci benedettini appartenenti a famiglie dell’aristocrazia isolana, di riconosciuta cultura (nel 1848 erano tre per ciascun ordine su diciassette vescovi). Essi, come in genere gli altri religiosi, erano privi di gradi accademici, ma avevano notevole esperienza di insegnamento negli studia interni e di governo, come abati e a volte anche superiori generali dell’ordine.
Quanto alla loro partecipazione ai fermenti culturali del tempo, sappiamo che in Piemonte e Lombardia, oltre alle concezioni regaliste e agli ultimi echi del giansenismo, non erano rare le simpatie per Rosmini11, mentre altrove, nei ducati, nello Stato pontificio e a Napoli, stava cominciando a diffondersi il neotomismo anche in qualche seminario (Napoli, Perugia, Piacenza)12. Un po’ dovunque si era diffusa la mentalità intransigente13 e ultramontana dopo il periodo napoleonico e in linea con i pronunciamenti papali, ma essa coesisteva con posizioni diverse di sostanziale apertura al neoguelfismo e anche ad alcune istanze risorgimentali.
In genere la fedeltà e la devozione dei vescovi ai sovrani che li avevano nominati non era in discussione. Strettamente legati allo Stato e al diritto giurisdizionalista erano i piemontesi, i lombardi, i napoletani, i toscani. Più autonomia dimostravano i veneti; tra di essi si trovavano alcuni esponenti dell’antica aristocrazia veneziana, legata ancora alla cultura della Serenissima e al retaggio della sua fiera indipendenza anche da Roma. In questo caso è interessante notare che anche vescovi non originari del Veneto, come il lombardo Modesto Farina, vescovo di Padova, già funzionario governativo napoleonico e asburgico, condividevano questo spirito di autonomia, dichiarandosi equidistanti da Vienna e da Roma14. I siciliani poi, come si è visto, erano divisi tra gli originari dell’isola, che rivendicavano il privilegio della legazia sicula sia nei confronti di Roma che del governo napoletano, e i vescovi provenienti da altre regioni dello Stato, che invece condividevano il regalismo accentratore borbonico15.
Davanti ai fermenti rivoluzionari e alle novità politiche dei primi mesi del 1848 le reazioni dei vescovi furono differenziate. In genere molti nei diversi Stati inneggiarono al sovrano che aveva concesso lo Statuto, invitarono i fedeli a partecipare alle elezioni e si mostrarono favorevoli all’indipendenza dallo straniero16. Si pronunciarono in questo senso quasi tutti i vescovi del Piemonte, alcuni della Lombardia (Como, Cremona), dei ducati, della Toscana (Lucca, Arezzo), dell’Italia meridionale (Castellaneta, Ugento, Bari), meno entusiasmo si nota in Veneto (solo Squarcina di Adria) e nello Stato pontificio (solo Leziroli di Rimini). In molti prevaleva l’atteggiamento di adesione al volere del sovrano, ma alcuni si dimostrarono anche convinti della compatibilità tra Costituzione e cattolicesimo (Losana di Biella, Romanò di Como, Clary di Bari, ma soprattutto Alessandro d’Angennes di Vercelli, che dedicò all’argomento diverse pastorali e notificazioni nel corso del 1848 e fu nominato senatore del regno da Carlo Alberto insieme al vescovo di Casale, Luigi Nazari di Calabiana). In tutti comunque l’elemento più convincente per l’accettazione dello Statuto era il mantenimento del cattolicesimo come religione di Stato e quindi il riconoscimento del ruolo fondamentale della Chiesa nella società (Saluzzo), per cui davanti alle nuove istanze ci tenevano a puntualizzare che la libertà doveva essere bene intesa in senso cristiano e non confusa con il libertinismo (Biella, Vercelli). Davanti alla guerra non mancarono coloro che invitarono i giovani ad arruolarsi (Reggio Emilia, vicari capitolari di Cremona e di Pistoia) ed esortarono i fedeli a pregare per la vittoria (Ivrea, Guastalla), altri furono più cauti e si limitarono a invitare ad obbedire all’autorità politica e a pregare per la pace (Romilli di Milano, Cappellari di Vicenza, Foretti di Chioggia). Molti altri passarono sotto completo silenzio gli avvenimenti, soprattutto nello Stato pontificio, limitandosi nella consueta notificazione dell’indulto quaresimale a generiche esortazioni a pregare e a fuggire il male. Nessuno però dei vescovi delle zone di guerra si sottrasse alle opere assistenziali per sfollati, feriti, poveri e orfani.
Diversificate furono anche le reazioni davanti alle prime leggi che applicavano le libertà costituzionali. Se il moderato Charvaz, pur devoto a casa Savoia, si era dimesso da vescovo di Pinerolo davanti alla legge che sottometteva alla censura governativa anche gli scritti dei vescovi (1847), Losana di Biella si pronunciò a favore dell’emancipazione di ebrei e valdesi, insieme al futuro vescovo di Pinerolo, Renaldi (1847). Tra le reazioni più ostili si può citare il caso dell’arcivescovo di Torino Fransoni, che aveva accettato lo Statuto per ossequio al sovrano, ma era contrario a qualunque apertura e a iniziative che potessero avere coloriture sospette, come le scuole di metodo dell’abate Aporti. La sua intransigenza nel proibire al clero di parteciparvi e poi il rifiuto dei sacramenti a un esponente del governo gli costarono l’esilio fino alla morte (1862). Di irriducibili sentimenti antiliberali erano anche il vescovo di Agrigento Lo Jacono, che pure lasciò la diocesi nel 1848, e il vescovo di Gubbio, Giuseppe Pecci, che scrisse una pastorale contro il liberalismo, poco prima che il papa concedesse lo Statuto17.
Comunque anche coloro che avevano inneggiato all’indipendenza e alla democrazia, dopo il cambiamento di posizione di Pio IX e la caduta delle speranze neoguelfe, dimostrarono delusione e preoccupazione. Molti nelle pastorali stigmatizzarono la degenerazione dei sentimenti patriottici in una lotta contro l’autorità legittima e contro la Chiesa e si affrettarono a inneggiare al ritorno della pace, dell’ordine e dei sovrani. La Repubblica romana e l’esilio del papa fecero ricordare ai più anziani le vicende del periodo napoleonico e contribuirono a mettere in diretta connessione la rivoluzione liberale con la Rivoluzione francese, condannandola nello stesso modo. Nello Stato pontificio alcuni vescovi si ribellarono ai nuovi governanti, arrivando a lasciare la diocesi come il vescovo di Orvieto, Giuseppe Vespignani, o protestando così vivacemente da essere arrestati, come l’arcivescovo di Fermo, Filippo De Angelis, liberato solo alla fine della Repubblica18. Gli indirizzi di solidarietà a Pio IX esule o di congratulazioni per il suo ritorno a Roma arrivarono da tutte le parti e furono forse la prima manifestazione corale di devozione al pontefice manifestata anche da vescovi abituati ad avere come punto di riferimento più il sovrano che il papa, come i presuli napoletani e asburgici19. In essi, come anche nelle lettere pastorali del periodo, si coglie non solo la comune affermazione della legittimità del potere temporale, ma soprattutto la convinzione che la rivoluzione fosse un attacco diretto alla Chiesa e alla religione preparato da secoli (Vespignani), secondo il motivo tipico del pensiero intransigente che individuava nel pensiero moderno una catena di errori che avevano disgregato la cristianità, dal protestantesimo al razionalismo, dall’illuminismo alla rivoluzione, fino ai più recenti socialismo e comunismo. Da qui veniva la preoccupazione per le conseguenze che la propagazione di idee in contrasto con la dottrina e morale cattolica potesse avere non solo sulla pratica religiosa e sull’attaccamento del popolo ai precetti della Chiesa, ma sull’intero ordine sociale.
Fu questa la ragione principale che spinse i vescovi a riunirsi in assemblea per confrontarsi e decidere provvedimenti uniformi per far fronte alla situazione. Le prime adunanze o conventus episcoporum, di natura diversa dai concili provinciali prescritti dal concilio di Trento non solo perché spesso non radunavano i vescovi di una sola circoscrizione, ma anche perché avevano un ruolo puramente consultivo, furono, almeno all’inizio, espressione spontanea dell’esigenza dei vescovi di incontrarsi20. Si riunirono per primi i vescovi della provincia lombarda. Questi, esclusi come i vescovi veneti dall’assemblea episcopale dell’Impero convocata a Vienna dall’imperatore d’Austria, si incontrarono a Groppello nel maggio 1849 su sollecitazione dell’arcivescovo di Milano, Romilli. Qualche mese dopo seguirono il loro esempio i vescovi della provincia di Torino riuniti a Villanovetta senza l’arcivescovo Fransoni in esilio. In autunno si riunirono i vescovi liguri, napoletani, quelli della provincia di Vercelli e di Ravenna e a Spoleto i vescovi dell’Umbria, della Sabina e di alcune diocesi del Lazio, tutte direttamente soggette alla Santa Sede. In tutti i casi i vescovi avevano chiesto al papa il permesso di riunirsi e avevano avuto da Roma indicazioni sugli argomenti da trattare21, ma solo l’8 dicembre 1849 Pio IX pubblicò l’enciclica Nostis et nobiscum, con cui si faceva promotore egli stesso degli incontri collettivi, invitando caldamente i vescovi italiani a riunirsi e indicando i temi urgenti da prendere in considerazione22. La mobilitazione in effetti fu generale; nel giro di poco più di un anno – dopo gli incontri citati se ne tennero nel 1850 a Venezia, a Milano, a Oristano, a Loreto, a Pisa, a Firenze a Siena e a Palermo – ovunque si svolsero incontri tra i vescovi vicini, che costituirono una prima esperienza di concertazione pastorale collettiva, come testimoniano anche le lettere pastorali indirizzate dai presuli al clero e al popolo23. I vescovi del Regno di Sardegna e del Granducato di Toscana avrebbero voluto anzi tenere un concilio nazionale, ma Roma non dette il consenso, preoccupata, come in altri casi, di forme conciliari che potessero portare a delibere autonome non controllate dalla Santa Sede e in definitiva a una Chiesa nazionale, come era avvenuto in Francia durante la rivoluzione24. Ciò fa comprendere come la diffidenza di Roma verso le riunioni vescovili non fosse tramontata, e si tramutasse in incoraggiamento solo quando poteva mantenerne il controllo e la gestione.
La documentazione esistente su questa attività collettiva mette in luce mentalità e priorità diverse nei diversi Stati, anche se in gran parte la successione dei temi trattati segue la falsariga dei concili provinciali, secondo il classico schema tridentino e senza molta originalità pastorale.
In diversi casi gli scopi delle riunioni andavano molto al di là della riorganizzazione diocesana e riguardavano in larga parte la questione dei rapporti con le autorità governative. Ad esempio i vescovi lombardi dichiararono di riunirsi con l’intento di discutere i «mezzi per tutelare i diritti della chiesa, provvedere ai bisogni, ottenere la libertà», sulla stessa linea erano i presuli della Toscana e del Regno delle Due Sicilie. Le ingerenze governative, come il fatto che fosse stato lo stesso imperatore d’Austria a convocare i vescovi dell’Impero o che in Sicilia l’arcivescovo di Palermo avesse dovuto chiedere al re l’exequatur per poter convocare i vescovi – quasi lo Stato volesse avocare a sé il diritto di convocare la conferenza – cominciavano a preoccupare i presuli25. Forse anche in conseguenza degli avvenimenti che avevano fatto sperare in concessioni di tipo liberale, essi sentivano il peso del giurisdizionalismo asburgico e borbonico che poneva molti vincoli alla loro libera azione e sminuiva la loro autorità e autorevolezza davanti al clero e ai fedeli26. Ne sono una testimonianza anche le lettere indirizzate ai rispettivi sovrani alla fine dell’incontro sia dai vescovi lombardi che da quelli toscani. Questa esigenza non si coglie evidentemente negli atti dei conventus dello Stato pontificio, ma ciò non toglie che anche qui i vescovi rivelino una nuova coscienza della propria autorità sulle varie componenti della chiesa diocesana.
Comune a tutti, a cominciare dal papa, come appare nelle istruzioni date ai presidenti dei conventus e nell’enciclica del 1849, era l’allarme per il diffondersi delle idee liberali e rivoluzionarie e per la conseguente disaffezione dalla pratica religiosa e dall’obbedienza alle autorità ecclesiastiche dei ceti borghesi, ma anche di quelli popolari. Per la prima volta i vescovi prendevano coscienza della partecipazione alla rivoluzione del popolo, e spesso anche del clero, e riflettevano sui rimedi a questa situazione che a loro appariva diretta a «scattolicizzare l’Italia»27 e foriera di disgregazione e di anarchia anche per la società. Uno dei veicoli più pericolosi di propagazione di dottrine erronee era individuato nella stampa e infatti in tutta la documentazione emanata dai conventus si trova un’insistenza particolare su questo argomento, in considerazione anche del fatto che in diversi Stati si stava abolendo il controllo vescovile sui libri28. Per alcuni la lotta contro i libri ‘cattivi’ doveva anche essere accompagnata dalla condanna esplicita delle dottrine erronee, come appare negli atti di Spoleto, in cui si trova forse il primo accenno a una richiesta di condanna generale che sarà poi concretizzata nel Sillabo del 186429.
Per contrastare questo tipo di stampa, oltre alle misure di censura che continuavano ad auspicare, i vescovi individuavano un mezzo di persuasione, la diffusione della ‘buona stampa’ (De malis libris arcendi et de bonis propagandis titola un capitolo del concilio provinciale di Siena), cioè di libri, opuscoli, giornali che informassero e formassero i fedeli sulla retta dottrina e il retto comportamento. A farsi carico di questa attività pastorale doveva essere il clero, a cui era anche affidato il ruolo principale nella promozione di strumenti pastorali che dovevano mantenere e rinsaldare il tradizionale legame dei fedeli laici con la pratica religiosa e l’autorità ecclesiastica. Esso infatti costituì un altro tema centrale nelle discussioni dei vescovi che individuavano nella sua insufficiente preparazione e nel suo scarso zelo verso la missione pastorale le cause maggiori della disaffezione del popolo. Una buona parte degli atti assembleari venne quindi dedicata a dare indicazioni per il miglioramento della formazione del futuro clero, a riorganizzare i seminari, a predisporre programmi di studio – in qualche caso così minuziosi e approfonditi da indicare anche i libri di testo, come fecero i vescovi umbri, marchigiani e della provincia pisana – e a cercare di istituire centri e mezzi di formazione permanente, di cui si sentiva particolarmente la carenza. Soltanto un clero più preparato poteva essere in grado di mettere in atto tutte le attività pastorali finalizzate all’istruzione religiosa del popolo (catechesi, predicazione), all’incentivazione e regolamentazione delle devozioni e dell’associazionismo laicale, all’avvicinamento dei fedeli ai sacramenti e alla vigilanza sul loro comportamento, tutti temi su cui i conventus riaffermano la centralità nella programmazione pastorale delle diocesi.
Sull’applicazione delle indicazioni emerse nei conventus del 1849-1850 non è stato ancora fatto uno studio sistematico. Si sa che i vescovi continuarono a riunirsi anche nel decennio successivo, con scopi più o meno simili, e che particolarmente attivi furono i vescovi lombardi e veneti sia nella fase di preparazione che di attuazione del Concordato austriaco del 1855, partecipando anche a una riunione plenaria dei presuli dell’Impero convocata a Vienna nel 185630, ma per quanto riguarda la volontà o la possibilità per i vescovi di mettere in pratica le direttive assembleari, le notizie sono scarse. L’impressione generale che si ricava dalle biografie dei presuli e dagli studi su singole diocesi nel cosiddetto ‘decennio di preparazione’ è che le situazioni fossero molto differenziate. L’impegno pastorale di molti vescovi in tutti gli Stati risulta accentuarsi sotto la spinta del diffondersi delle idee liberali. Lo si constata anche dalle numerose lettere pastorali dedicate ai temi emersi nelle riunioni o indicati dal papa come prioritari da portare all’attenzione del clero e del popolo. Un po’ dovunque – non solo nel Regno di Sardegna, dove le libertà costituzionali erano rimaste in vigore, ma anche dove vigeva di nuovo la censura – i vescovi riprendevano gli argomenti della Nostis et nobiscum, soffermandosi soprattutto sul protestantesimo, considerato all’origine della genealogia degli errori moderni, e sugli ultimi anelli della catena, il socialismo e il comunismo, e scagliandosi contro la stampa che ne diffondeva i principi e attaccava le dottrine e le istituzioni cattoliche. Contemporaneamente, nell’intento di contrastare le conseguenze centrifughe delle idee moderne, essi moltiplicavano le esortazioni ai fedeli perché mantenessero viva la fede tradizionale e rispettassero i precetti religiosi, invitando all’osservanza del riposo festivo, alla partecipazione ai sacramenti e tuonando contro la bestemmia. Poca sensibilità si nota invece per i nuovi problemi sociali causati dall’industrializzazione, verso i quali prevale ancora il tradizionale atteggiamento paternalistico e di carità cristiana. L’unico che si pronunci in merito è il vescovo savoiardo di Annecy, Rendu, che aveva sotto gli occhi le penose condizioni degli operai tessili della sua città31.
A questi fini era diretto anche l’impegno dei presuli nel riformare i seminari, spesso dotati di nuovi regolamenti e programmi, nel controllare la disciplina del clero, uscito spesso diviso e disorientato dalle vicende rivoluzionarie, nel riorganizzare amministrativamente gli enti ecclesiastici, nel rilanciare la catechesi, nell’incentivare l’associazionismo devoto, nell’espletare le visite pastorali, secondo un modello episcopale che è tipicamente tridentino. Frequente infatti nei vescovi, non solo lombardi, è il richiamo all’arcivescovo di Milano, Carlo Borromeo, mentre i vescovi veneti prendevano ad esempio Gregorio Barbarigo, seicentesco vescovo di Padova. Ciò dimostra un indubbio afflato pastorale che però trova nel passato i suoi esempi e spesso del passato mette in pratica ancora i metodi coercitivi32, senza cogliere nella distanza temporale un ostacolo a plasmare una figura vescovile attenta ai problemi del presente. Singolarmente però del modello tridentino non viene utilizzato uno degli strumenti pastorali più importanti, infatti nel decennio 1850-1859, si riscontra uno scarsissimo ricorso al sinodo diocesano; ne furono convocati solo undici, di cui sei nel Regno delle Due Sicilie, quattro nello Stato pontificio e solo uno nell’Italia settentrionale, a Lodi in Lombardia33. È vero che i conventus del 1849-1850 potevano aver supplito alle necessità normative delle diocesi, ma in effetti era ormai molto tempo che l’attività sinodale era in crisi, segno non sempre forse dello scarso zelo del vescovo, ma anche dei contrasti con il clero e delle divisioni interne.
Sicuramente più moderno è l’impegno massiccio dedicato alla diffusione della stampa cattolica. Se già nella prima metà del secolo la pubblicistica era diventata un mezzo privilegiato per far conoscere le direttive ecclesiastiche e incentivare l’istruzione religiosa, in questo periodo essa comincia a configurarsi, insieme alla predicazione e alle scuole della dottrina cristiana, come un elemento imprescindibile della pastorale diocesana, con la fondazione di riviste e giornali, l’edizione di libri di devozione ma anche di letture ricreative per giovani e adulti, in una società dove, soprattutto al Nord, si stava allargando velocemente la percentuale degli alfabetizzati, che potevano diventare possibile bacino di recezione e di consumo di una stampa considerata dall’autorità ecclesiastica veicolo di corruzione dottrinale e morale. Oltre a incoraggiare il clero su questa strada, gli stessi vescovi fondarono periodici e collane, ad esempio il vescovo di Ivrea, Luigi Moreno, fondò nel 1848 un periodico dal titolo significativo, l’«Armonia della religione colla civiltà», poi diretto da Giacomo Margotti e passato su posizioni intransigenti.
Il rinnovato slancio pastorale portava i vescovi a una nuova coscienza della propria autorità su tutte le istituzioni ecclesiastiche locali, anche su quelle che tendevano a sottrarsene in forza di antichi privilegi. I casi conosciuti indicano come questo impegno accentratore dei presuli fosse spesso fortemente osteggiato, in particolare dalle confraternite laicali, espressione dei ceti dirigenti locali gelosi delle proprie antiche prerogative, e dai capitoli-cattedrali, che rivendicavano il tradizionale potere e prestigio di un istituto, di cui facevano parte ancora membri della nobiltà cittadina, e che sostanzialmente rappresentavano anch’essi gli interessi dei ceti dirigenti locali. Negli anni Cinquanta, nel Lombardo Veneto, dove i capitoli erano in parte eletti dall’autorità statale, i canonici si consideravano i veri depositari delle tradizioni religiose cittadine e tendevano a opporsi a vescovi che ritenevano inferiori o comunque estranei. Dura fu la lotta che sostenne il vescovo di Treviso, Giovanni Antonio Farina, per far valere la sua autorità. Nonostante Roma gli avesse dato ragione, preferì dare le dimissioni, per il permanere di un ambiente a lui ostile34. Scontri tra vescovo e clero cittadino o istituzioni locali si verificavano anche nell’Italia meridionale dando luogo a lunghe diatribe in cui non mancava a volte il ricorso ad accuse, per lo più infondate, di cospirazione politica o di immoralità.
Anche i presuli comunque non erano esenti da responsabilità. Ad esempio in Toscana, nel 1852 lo stesso granduca si lamentò con Pio IX dell’inerzia dei vescovi, chiedendogli di spronarli all’azione, e nel 1853 un informatore del papa rilevò gravi carenze nel clero di diverse diocesi, dovute in parte proprio alla scarsa sorveglianza dei rispettivi presuli, magari anziani e poco attenti a selezionare i candidati al sacerdozio, come l’arcivescovo di Firenze Minucci. Pio IX intervenne personalmente con una dura lettera ai presuli interessati, dalle cui risposte si capisce che non tutti erano consapevoli dei problemi della propria diocesi35. Situazioni simili di ordinari ormai stanchi e poco attivi sono riscontrabili nelle Marche (Pesaro e Ascoli Piceno) e nel Regno delle Due Sicilie, in particolare a Lecce e Messina, governate da vescovi in carica da più di trent’anni36. Anche altrove comunque i problemi non mancavano e a vanificare gli sforzi dei vescovi erano anche le difficoltà economiche, che impedivano ad esempio, soprattutto nelle piccole diocesi, di trovare professori preparati per il seminario e di adottare gli ampi programmi previsti dai conventus o che non permettevano di mantenere nell’istituto tutti gli aspiranti sacerdoti, per cui una certa quota di essi viveva in abitazioni private, rischiando di vanificare ogni tentativo di uniformare l’istruzione ecclesiastica37.
Il rinnovato slancio pastorale che portava i vescovi a rivendicare la loro autorità in diocesi, fece crescere negli anni Cinquanta anche l’insofferenza per la mancanza di libertà d’azione causata dalle leggi governative, che già si era manifestata in occasione dei conventus.
A parte naturalmente il caso particolare dello Stato pontificio, la nomina statale dei vescovi era infatti solo un aspetto del controllo dello Stato sulle istituzioni ecclesiastiche. Vigevano, in forma più o meno addolcita da concordati e accordi parziali con la Santa Sede38, forme di giurisdizionalismo di tradizione settecentesca, giuseppinista nel Lombardo Veneto, leopoldina in Toscana, tanucciana nel Regno delle Due Sicilie, che miravano da un lato a tenere sotto stretta vigilanza sia il clero, sia l’amministrazione degli ingenti patrimoni ecclesiastici, e dall’altro a limitare o controllare i rapporti dei presuli con Roma, a restringere la censura ecclesiastica sulla stampa e a interferire con la loro autorità, avocando ai tribunali civili la giurisdizione penale sul clero.
Ciò portò spesso i vescovi a rimostranze e richieste rivolte ai sovrani nella speranza di sollecitare leggi che attenuassero il controllo governativo, concedessero ai vescovi di vigilare essi stessi sull’istruzione e la disciplina chiericale, sull’educazione giovanile, sulla stampa39. D’altra parte per i sovrani, che avevano visto vacillare i loro troni, era fondamentale avere l’appoggio della Chiesa e quindi negli anni Cinquanta si dimostrarono più propensi a fare blande concessioni nella libera comunicazione con Roma, nella gestione delle istituzioni e dei benefici ecclesiastici e nella giurisdizione sul clero e sui seminari da parte dei vescovi, in questa linea andavano il Concordato austriaco del 1855 per il Lombardo Veneto e le leggi del Regno delle Due Sicilie emanate nel 185740.
Particolare era poi la situazione nel regno sabaudo, dove al giurisdizionalismo tradizionale, si aggiunse la svolta liberale con l’emanazione delle prime leggi che abolivano i privilegi ecclesiastici. Se davanti alle lettere patenti di emancipazione di ebrei e valdesi (1848) e all’abolizione delle decime, le reazioni furono differenziate41, in occasione della promulgazione della legge Boncompagni che toglieva ai vescovi il controllo sull’istruzione e alla soppressione dei gesuiti, i presuli, pur tutti devoti e affezionati alla casa reale e pur cercando sempre di non alzare i toni, fecero sentire la loro voce di protesta. Furono però le leggi Siccardi, che abolivano il foro ecclesiastico (1850), il progetto di legge sul matrimonio civile (1854) e la soppressione degli ordini religiosi (1855) a coagulare le diverse anime dell’episcopato piemontese con una mobilitazione generale, che vide anche la proposta da parte dei vescovi di Casale, Nazari di Calabiana, e di Mondovì, il domenicano Tommaso Ghilardi, di un contributo annuo di un milione di lire allo Stato nella convinzione che si volessero sopprimere gli ordini religiosi principalmente per rimpinguare l’erario disastrato42. Le modalità furono diverse e indirizzate a distinguere le responsabilità del re da quelle del governo, ma sostanzialmente dimostrarono che i vescovi, richiamandosi all’art. 1 dello Statuto che proclamava il cattolicesimo religione di Stato, non avrebbero seguito la svolta separatista dello Stato sabaudo, tesa a restringere l’influenza della Chiesa sulla società.
Come nel 1848, diversificate furono le reazioni dei vescovi anche davanti alla guerra del 1859 e alle campagne del 1860. In Lombardia l’indipendenza dall’Austria e l’annessione al Piemonte fu accettata abbastanza tranquillamente, anche se i vescovi erano stati nominati dall’imperatore; in alcuni casi i sentimenti di italianità si fecero più espliciti (Novasconi di Cremona, Marzorati di Como), in altri casi si trattò di deferente ossequio ai nuovi governanti (Verzeri di Brescia, Speranza di Bergamo)43. In Toscana ci furono meno pronunciamenti, ma, a parte il card. Corsi di Pisa, non risultano resistenze significative. La situazione cambiò quando furono sottratti alla potestà del papa, Bologna, le Romagne, poi le Marche e l’Umbria. L’attacco al potere temporale determinò una levata di scudi dei vescovi, sollecitati per la verità dal papa stesso44, che, attraverso indirizzi al pontefice e lettere pastorali, stigmatizzavano la violazione della legittima sovranità e richiamavano la necessità dell’indipendenza temporale del pontefice per poter governare spiritualmente l’intera Chiesa, senza far nascere il sospetto che i suoi pronunciamenti non fossero pienamente liberi45.
In questo caso la partecipazione fu ancor più corale che nel 1848, ma davanti agli eventi concreti le modalità di reazione furono ancora una volta diverse. Essendo stato il sovrano scomunicato proprio per l’usurpazione dello Stato pontificio, la Penitenzieria apostolica proibì ai vescovi e al clero di rendere omaggio al sovrano, di prestarsi a compiere cerimonie liturgiche per ricorrenze civili e di celebrare la festa dello Statuto. Iniziò così la cosiddetta guerra dei Te Deum. In gran parte i vescovi si uniformarono alle direttive romane, rifiutandosi e vietando al clero di compiere atti che comportassero un qualche riconoscimento dei nuovi governanti. La resistenza fu pressoché totale nell’ex Stato pontificio, dove le cerimonie religiose per feste civili furono officiate in genere da cappellani militari o da sacerdoti venuti da fuori diocesi46, ma fu consistente anche altrove. Alcuni per non essere coinvolti abbandonarono la città vescovile, come il cappuccino Cantimorri vescovo di Parma e Verzeri di Brescia, lasciando ai vicari generali il compito di decidere il da farsi.
Alcuni invece si sentirono autorizzati a partecipare alle feste civili e a rendere omaggio al re, come l’arcivescovo di Firenze Gioacchino Limberti, che cantò il Te Deum per il plebiscito e ricevette il re e il vescovo di Cremona Antonio Novasconi, che non solo accolse Vittorio Emanuele in cattedrale, ma incontrò anche Cavour e Garibaldi. Egli, insieme ad alcuni vescovi degli antichi domini sardi come i già citati d’Angennes di Vercelli e Losana di Biella, Nazari di Casale, Lorenzo Renaldi di Pinerolo e Giovanni Battista Montixi di Iglesias, fu uno dei più aperti sostenitori del nuovo regime, tanto da essere nominato senatore del regno (1860), carica che però gli dovette creare qualche problema di coscienza, se, dopo aver interpellato in merito la Santa Sede, non partecipò mai alle sedute47.
Il contenzioso ebbe il suo clou tra il 1860 e il 1861, soprattutto in occasione della festa dello Statuto, ma si protrasse per diversi anni. A seconda dello spirito più o meno conciliante delle autorità civili locali, ci furono conseguenze diverse; in molti casi si arrivò al rinvio a giudizio e all’arresto di vescovi e vicari generali sia per aver manifestato pubblicamente il loro dissenso, sia per aver ordinato al clero di astenersi da qualunque cerimonia, sia per aver preso provvedimenti disciplinari verso parroci e canonici che avevano aderito a manifestazioni patriottiche. Nel corso del 1860 andarono in esilio o furono confinati a Torino l’arcivescovo di Pisa, Cosimo Corsi, e l’arcivescovo di Fermo, De Angelis; l’arcivescovo di Urbino, Alessandro Angeloni, era detenuto nel carcere di Pesaro48, Felice Cantimorri di Parma era fuggito in Austria, poi a Roma.
Lo scontro maggiore comunque si ebbe nel territorio dell’ex Regno delle Due Sicilie. La maggioranza fortemente legata ai Borboni entrò in conflitto non solo con il nuovo Stato, ma anche con buona parte del basso clero che si era schierato con i garibaldini e con i piemontesi, nonché con il popolo che sperava dal nuovo assetto un miglioramento sociale e vedeva nei presuli gli esponenti del vecchio ordine di cose. Molti vescovi napoletani, pugliesi, lucani e abruzzesi fuggirono per sottrarsi alle sommosse popolari; altri, come il cardinale Sisto Riario Sforza, arcivescovo di Napoli, furono espulsi perché avevano protestato per le celebrazioni liturgiche non autorizzate che alcuni preti garibaldini avevano tenuto nelle chiese della città; alcuni furono arrestati, altri inviati a Torino49. Ci furono anche vescovi che si espressero in favore del nuovo governo, come l’anziano Nicola Caputi di Lecce, il francescano Lorenzo Moffa di Boiano e Giuseppe Mucedola di Conversano, ma soprattutto si schierarono apertamente e platealmente con il nuovo regime Michele Caputi vescovo di Ariano, nominato cappellano maggiore e morto prima che Roma decidesse come intervenire (1862)50, e Gennaro Di Giacomo vescovo di Alife, nominato nel 1863 senatore del regno e fatto dimettere da Roma nel 187451. Un modus vivendi di moderazione e sostanziale neutralità adottarono i presuli siciliani, che rimasero tutti al loro posto, anzi l’arcivescovo di Palermo partecipò anche alla cerimonia di consegna dei risultati del plebiscito a Vittorio Emanuele52.
Ugualmente differenziata sarà poi la reazione dei vescovi veneti al momento dell’annessione al Regno d’Italia nel 1866. Di sentimenti liberali era Giovanni Corti di Mantova, che dal 1859 al 1866 aveva governato una diocesi divisa tra Italia e Austria e subìto i rimproveri del papa per non aver proibito ai parroci della parte italiana la celebrazione della festa dello Statuto53; moderati erano il patriarca di Venezia Trevisanato, che cantò il Te Deum, e il vescovo di Ceneda (Vittorio Veneto) Bellati; altri legittimisti, come i nobili veneti Federico Zinelli di Treviso e Luigi di Canossa di Verona, si limitarono a pregare per la fine della guerra.
Se le reazioni davanti al nuovo governo furono diversificate, dividendo trasversalmente, a parte forse lo Stato pontificio, gli episcopati di ogni ex Stato, davanti alle leggi e agli interventi statali che consideravano lesivi delle prerogative e della libertà della Chiesa, i vescovi si ricompattarono e protestarono unanimi, con pronunciamenti collettivi, che li vedevano riuniti sempre secondo i vecchi Stati, o secondo partizioni territoriali di essi, a parte il caso di documenti congiunti di vescovi piemontesi e lombardi, che erano forse i più vicini come retroterra culturale54. Pesava su questa scelta evidentemente il mancato riconoscimento dello Stato italiano da parte del papa, ma soprattutto la maggiore sintonia tra vescovi che avevano una lunga tradizione culturale e politica comune e che si conoscevano meglio per prossimità geografica. Approfittando del fatto che il governo italiano, diversamente da quello francese, non proibiva la concertazione e sanzionava solo pronunciamenti di singoli vescovi, essi, già incoraggiati da Roma, moltiplicarono negli anni Sessanta le proteste collettive contro i provvedimenti del governo, come già negli anni Cinquanta avevano fatto i vescovi sabaudi.
Cominciarono a protestare i vescovi lombardi, toscani e dell’ex ducato di Modena, seguiti da quelli napoletani, per l’abolizione unilaterale dei concordati55, poi ovunque si levarono le proteste contro le leggi dei diversi governi provvisori, che cercavano di adeguare alla legislazione piemontese i territori via via annessi, a volte andando anche oltre, come avvenne in Umbria nel 1860 con la legge del commissario Pepoli che introduceva il matrimonio civile, non ancora promulgata nemmeno a Torino, che suscitò vibranti proteste dei vescovi guidati dall’ordinario di Perugia, Gioacchino Pecci56.
Seguirono negli anni successivi le proteste indirizzate direttamente al governo italiano o addirittura al re. Le rimostranze dei presuli stigmatizzavano le proposte di legge sulla soppressione dei regolari, sull’incameramento dei beni ecclesiastici e sulle forti tassazioni di quelli rimasti, ma particolare allarme, testimoniato da vibranti proteste, suscitarono le ispezioni governative nei seminari (1864), il decreto sull’exequatur (1863), i progetti di legge sulla leva militare per i chierici (1864) e sul matrimonio civile (1865), e in genere tutta la normativa che riguardava il reclutamento e la formazione del clero, nonché il matrimonio, settori considerati di pertinenza esclusiva dell’autorità ecclesiastica. Pur provenendo da vescovi di territori e anche di mentalità e formazione diverse, le proteste sostanzialmente avanzano motivazioni simili, da un lato concentrando le proprie ragioni sulla richiesta di rispettare i sentimenti cattolici della popolazione e facendo leva sulle convinzioni religiose del re e dei membri del governo, dall’altro appellandosi alla stessa legislazione statale per rivendicare libertà di azione e respingere le ingerenze governative. In sostanza, come davanti ai sovrani preunitari, i presuli rivendicavano alla Chiesa il ruolo tradizionale di guida della società.
Nella maggior parte dei casi le proteste non ebbero nessun effetto, ma riguardo alla legge sulla leva militare servirono a ritardarne l’approvazione fino al 1869, mentre le proteste corali per la mancata concessione del placet alla pubblicazione della Quanta cura e del Sillabo nel 1864 ottennero il ritiro del provvedimento governativo e la libera circolazione del documento papale che riassumeva tutte le idee moderne considerate in contrasto con la dottrina, la morale e la legislazione ecclesiastica57.
Le proteste forse più vibranti e condivise si levarono però contro la circolare del guardasigilli Vincenzo Miglietti (26 ottobre 1861) diretta a tutti gli Ordinari del regno, in cui il ministro stigmatizzava la loro opposizione al governo e il loro ostruzionismo come un elemento negativo che si ripercuoteva non solo sulla società, ma anche sulle condizioni della Chiesa stessa, e chiedeva ai presuli di riconoscere il nuovo Stato come legittimo, sulla base di una motivazione non politica, ma più propriamente religiosa, quella cioè di vedere nella volontà popolare – che con i plebisciti l’aveva sanzionato – uno strumento della Provvidenza58. Egli assicurava il rispetto per l’autorità spirituale della Chiesa e per il libero esercizio delle sue funzioni, auspicando una separazione tra Chiesa e Stato che assicurasse il rispetto reciproco delle sfere di competenza.
L’intervento del ministro fu giudicato invece proprio un’indebita ingerenza dell’autorità politica nelle questioni interne della Chiesa, tesa a dividere i presuli dalla suprema autorità ecclesiastica e ad avocare allo Stato il compito di guidare i vescovi italiani59. La circolare contribuì quindi sostanzialmente a produrre l’effetto opposto di stringere di più il legame tra il centro e la periferia.
Parallelamente quindi alla fine degli Stati preunitari e alla rinnovata consapevolezza dei vescovi del loro compito pastorale, sollecitato dallo sgretolarsi della società informata da princìpi cristiani e che implicava un accentramento nelle mani dell’Ordinario dell’autorità spirituale su tutte le istituzioni ecclesiastiche della diocesi, si accentuava la spinta all’accentramento romano.
Se prima i presuli guardavano ai sovrani, alla capitale dello Stato, fosse Torino, Vienna, Firenze, Napoli, ora, perso l’appoggio governativo, tendevano molto di più a guardare a Roma.
Le risposte dei vescovi alle sollecitazioni e ai documenti papali, la partecipazione alle assemblee romane, volute da Pio IX come segno dell’unione della Chiesa universale intorno al successore di Pietro60, e i corali indirizzi di solidarietà e di sottomissione dimostrano una convinta adesione alla linea voluta dal papa,
Quel ‘moto verso Roma’, nato dall’ultramontanesimo antirivoluzionario e antiregalista, raggiungeva nel periodo delle vicende risorgimentali una diffusione e slancio mai visto, alimentato anche dall’esigenza dei presuli di assumere un nuovo punto di riferimento e di fare fronte comune contro i ‘nemici della Chiesa’.
In definitiva, benché non tutti i vescovi assumessero toni così duri contro il governo come quelli dell’arcivescovo di Spoleto Arnaldi, incarcerato nel 1863 per aver scritto una lettera pastorale considerata eversiva61, si stava creando un solco sempre più profondo tra il nuovo ordine di cose e la gerarchia ecclesiastica, anche con quella che cercava un modus vivendi equilibrato e pacifico, dedicandosi soltanto alla missione religiosa. La volontà del governo di ridurre le istituzioni e il personale ecclesiastico al diritto comune, ma soprattutto la progressiva attuazione dei principi della libertà di pensiero, di stampa, di culto – che comportava la circolazione di opere di qualunque orientamento, il libero diffondersi del proselitismo protestante, l’orientamento non confessionale della scuola pubblica – allarmava i vescovi, i quali moltiplicarono in questi anni le lettere pastorali, nell’intento da un lato di convincere i fedeli della necessità di fuggire dottrine e comportamenti in conflitto con gli insegnamenti cattolici e dall’altro di rafforzare le loro convinzioni religiose e di istruirli su temi che investivano le scelte di vita, come il matrimonio religioso e l’educazione dei giovani basata su principi cristiani. In alcuni casi i pronunciamenti furono ancora una volta simultanei. Così avvenne in occasione della pubblicazione del libro di Renan, ritenuto blasfemo (1863), e soprattutto della pubblicazione del Sillabo (1864-1865) da un lato e dall’altro dopo la promulgazione del codice civile che introduceva il matrimonio civile (1865).
In qualche caso i vescovi erano preoccupati della possibilità che gli ‘errori’ si insinuassero nascostamente anche attraverso persone ‘insospettabili’, che si presentavano in veste di ‘agnelli’ ma erano ‘lupi rapaci’62. Tra questi ultimi erano annoverati dalla maggior parte dei vescovi i sacerdoti che avevano firmato petizioni che chiedevano al papa di rinunciare spontaneamente al potere temporale, a cominciare da quella proposta dall’ex gesuita e professore al Collegio romano, Carlo Passaglia, nel 1862. In alcune diocesi il numero dei ‘preti passagliani’ fu considerevole, ad esempio a Cremona, Bergamo, Brescia, dove la tradizione rosminiana e liberale aveva molti seguaci, ma anche nel Sud, tra il clero secolare e regolare, e soprattutto in Sicilia; altrove, in particolare nell’ex Stato pontificio, i firmatari furono in numero molto più esiguo, ma i vescovi si comportarono tutti allo stesso modo. Seguendo le indicazioni della Penitenzieria apostolica, cercarono di convincere i sacerdoti a ritrattare, e in gran parte, pur sui tempi lunghi e senza forzare troppo, ci riuscirono63. Gli irriducibili furono sospesi a divinis e alla lunga, scomunicati, lasciarono il sacerdozio e in qualche caso apostatarono. In ogni caso dove il clero che aveva aderito alle istanze risorgimentali era numeroso, come in Lombardia, nel Veneto, nell’Italia meridionale, o dove era diviso tra zelanti ultramontani e regalisti autonomisti come in Sicilia, i vescovi si trovarono davanti il difficile compito di ricompattare e disciplinare un ceto ecclesiastico fortemente disgregato. A seconda dell’orientamento dei presuli le soluzioni furono diverse ma, salvo eccezioni, la linea prevalente fu quella di emarginare il clero liberale e di dare sempre più spazio agli intransigenti.
Le posizioni diventavano così sempre più radicali e ciò si rifletteva sulla situazione interna alla Chiesa italiana. Il mancato riconoscimento da parte di Pio IX della legittimità del governo italiano rendeva infatti molto problematica la nomina dei vescovi nelle sedi che si rendevano via via vacanti64. Il papa aveva nominato nel 1863 diversi presuli nelle diocesi dei suoi ex Stati anche nell’intento di riaffermare i suoi diritti su di esse, ma il governo non aveva riconosciuto le nomine e nessuno degli eletti poté prendere possesso del palazzo episcopale, accedere alle rendite della mensa vescovile e nemmeno a volte entrare in diocesi, come avvenne all’arcivescovo di Bologna, il domenicano Filippo Guidi, e ad altri vescovi romagnoli, marchigiani e umbri. Nel 1864 la situazione era molto grave: tra vescovi in esilio e sedi vacanti un centinaio delle diocesi italiane era governato da vicari generali o capitolari (su circa 230 diocesi presenti sull’allora territorio italiano, 43 erano vacanti e 56 avevano il vescovo in esilio)65. Tra questi vi erano gli ordinari di Milano e Pavia, Paolo Ballerini e Pietro M. Ferrè, preconizzati dall’Austria poco prima del passaggio della Lombardia al Piemonte, che non avevano mai ricevuto l’exequatur66, e il vescovo di Patti in Sicilia, il benedettino Michelangelo Celesia, tra gli ultimi nominati dai Borboni67. Nelle diocesi scoperte regnava il disordine, i seminari in genere erano chiusi, le rendite della mensa vescovile sequestrate, le attività pastorali languivano, nessuno aveva l’autorità per prendere decisioni importanti e, nelle lettere pastorali, i vicari in genere si limitavano a dare le disposizioni quaresimali di rito senza affrontare problemi sostanziali. Nel Sud inoltre si erano verificati numerosi conflitti tra i vescovi in esilio e i capitoli-cattedrali. Il governo aveva sollecitato questi ultimi a nominare un vicario capitolare, considerando la sede vacante, ma ovviamente il vescovo si era opposto e si era sfiorato in certi casi anche lo scisma nei momenti in cui il governo era retto da responsabili più intransigenti con le autorità ecclesiastiche68.
Nel 1865 Pio IX e Vittorio Emanuele ripresero i contatti per cercare una soluzione. La prima missione governativa a Roma, affidata al comm. Vegezzi, sostanzialmente fallì per l’irrigidimento delle parti69, ma consentì il ritorno graduale dei vescovi in esilio o a domicilio coatto, a cominciare dall’arcivescovo di Cagliari Marongiu Nurra, assente dalla sua diocesi da sedici anni, che però morì subito dopo70. Tornarono così i cardinali intransigenti, i molti vescovi meridionali fuggiti, ma nel frattempo il numero delle sedi vacanti aumentava; nel 1867 era salito a 67, senza contare le sedici, i cui vescovi non avevano ancora potuto prendere possesso della carica71. In quell’anno una seconda missione diretta dal comm. Tonello riuscì ad arrivare a un accordo, almeno per un gruppo di diocesi, tra cui Milano, dove il vescovo non riconosciuto dal governo diede le dimissioni e lasciò il posto al piemontese Luigi Nazari di Calabiana, gradito a entrambe le parti72. Oltre alle diocesi, i cui vescovi non aveva potuto in precedenza prendere possesso della carica, furono coperte otto diocesi piemontesi (tra cui Torino abbandonata praticamente a se stessa dal momento dell’esilio di Fransoni nel 1850), due sarde (Ales e Galtellì Nuoro, dove la vacanza si protraeva da quindici anni), due liguri, una lombarda (Pavia) e una emiliana (Reggio), quattro toscane, otto dell’ex Stato pontificio, due dell’Italia meridionale e due della Sicilia, tra cui Catania, affidata all’abate benedettino Giuseppe Benedetto Dusmet. L’accordo prevedeva poi che per quella occasione si derogasse dalla norma che prevedeva la richiesta dell’exequatur da parte degli eletti.
Il problema non era però risolto. Le diocesi coperte erano ben poche rispetto al numero di quelle vacanti, ma il governo non permise altre nomine non tanto per motivi politici quanto per ragioni economiche. Lo Stato infatti incamerava le rendite delle diocesi vacanti e in quel momento di crisi finanziaria esse costituivano una consistente entrata per l’erario73. Molte diocesi rimanevano così ancora scoperte e paralizzate dal punto di vista pastorale. Rimanevano anche notevoli problemi finanziari, dovuti all’incameramento di gran parte dei beni ecclesiastici, ai ritardi nel pagamento delle rendite e alle tasse che gravavano sui beni rimasti. Furono penalizzate soprattutto le piccole diocesi del Sud74, ma anche diocesi come Palermo, dove l’arcivescovo arrivò sul punto di rinunciare ai beni della mensa vescovile per la difficoltà a pagare le imposte75.
In questo clima Pio IX indisse il concilio Vaticano, inviando ai vescovi nel 1867 un questionario con diciassette punti per conoscere il pensiero dei presuli sulle materie da proporre in concilio. I quesiti rispecchiavano le urgenze pastorali del momento come gli studi del clero, la disciplina ecclesiastica, il matrimonio, l’educazione dei giovani, gli istituti religiosi. I vescovi italiani furono tra i più solleciti a rispondere (122 risposte per 265 diocesi76) con una percentuale che supera il 60%, tenendo conto che 67 diocesi erano ancora vacanti. Le risposte rivelano quanto la loro mentalità e lo slancio pastorale, nonché l’accoglienza dell’iniziativa papale, fossero differenziati anche tra vescovi vicini77. Alcuni si limitarono a ripetere motivi tradizionali senza dimostrare molta originalità, altri dimostrarono un’assoluta mancanza di spirito d’iniziativa, profondendosi in dichiarazioni di adesione ai disegni del papa e di accettazione delle sue scelte. Non mancarono però presuli più attivi e propositivi che, pur nei ristretti limiti del questionario, avvertirono l’importanza dell’occasione per far conoscere il loro pensiero, esprimersi su temi importanti e avanzare proposte su altri argomenti, rivendicando ancora una volta la propria autorità e autonomia di azione in diocesi78.
La partecipazione al concilio fu ancor più massiccia. I vescovi residenziali italiani presenti erano 176, il 90% dei presuli se si tiene conto del numero delle diocesi vacanti (71 nel 1868)79, che sommati ai prelati di curia e ai religiosi pure italiani raggiungevano il 35% dei partecipanti80. A questa così compatta presenza non fece però riscontro una altrettanto forte visibilità. Alcuni per la verità salirono molto spesso alla tribuna degli oratori, come il vescovo di Saluzzo Lorenzo Gastaldi, altri soprattutto i cardinali e gli arcivescovi delle sedi principali furono impegnati nelle commissioni (Riccardi di Torino, Corsi di Pisa, De Angelis di Fermo, Riario di Napoli, Apuzzo di Sorrento, Celesia di Patti), il cardinale De Angelis fu anche preposto, con altri, alla direzione dell’assemblea81, ma solo una quarantina di vescovi fece sentire la propria voce. Neppure personaggi eminenti ed autorevoli come Gioacchino Pecci si espressero mai pubblicamente. Praticamente tutti invece firmarono postulati presentati per iscritto, per lo più collegialmente, da gruppi di prelati riuniti ancora secondo le divisioni degli ex Stati.
I raggruppamenti territoriali però saltarono al momento in cui si ventilò la proposta di proclamare il dogma dell’infallibilità pontificia. A una stragrande maggioranza di infallibilisti si contrappose una piccola minoranza di anti-infallibilisti, che vedeva uniti trasversalmente rappresentanti di diversi ex Stati e regioni. Un certo numero all’inizio della discussione si schierò con gli antiopportunisti, cioè con coloro che, pur essendo convinti della dottrina dell’infallibilità, non ritenevano fosse opportuno proclamarla dogma in quel momento storico, ma poi si piegò alla volontà del papa. Alcuni si pronunziarono a favore con molti distinguo; il domenicano Guidi di Bologna cercò di scongiurare, con successo, che l’infallibilità investisse la persona e non solo il magistero papale. Quando si trattò di votare la costituzione apostolica Pastor aeternus, il 13 luglio 1870, alcuni vescovi, Riccardi di Torino, Biale di Albenga e Renaldi di Pinerolo, avevano già lasciato il concilio adducendo motivi di salute, altri richiesero delle modifiche al testo (placet iuxta modum), come il patriarca di Venezia Trevisanato, lo stesso Guidi, due vescovi liguri, uno romagnolo, tre umbri, un vescovo del Lazio pontificio e sette meridionali. Furono soltanto cinque, ma significativi, coloro che votarono non placet. Accanto a quattro vescovi nati nell’ex regno sardo (Nazari di Milano, Moreno di Ivrea, Losana di Biella, Montixi di Iglesias) si trova un suddito pontificio, il vescovo di Acquapendente Pellei82. Tutti costoro si assentarono al momento della proclamazione del dogma il 18 luglio, insieme agli anti-infallibilisti dell’Europa centrale e dei paesi extraeuropei, ma successivamente pronunciarono il loro atto di sottomissione, così come fecero tutti i confratelli d’Oltralpe. Nel gruppo degli anti-infallibilisti il numero più consistente era rappresentato comprensibilmente da vescovi piemontesi, usciti dall’università di Torino, che seguivano la dottrina tomista contraria all’infallibilità; più difficile è ricostruire invece le ragioni del vescovo laziale che non risulta fino a quel momento essersi espresso in merito. In qualche caso, come per i vescovi piemontesi, si può trovare un parallelismo tra le aperture politiche dei vescovi e la loro presa di posizione anti-infallibilista, ma non sempre è così. L’episcopato italiano in sostanza dimostrò di interpretare e di recepire in modo diversificato il crescente centralismo romano, diviso tra la fedeltà e unione al papa, di cui riconosceva il magistero e la funzione unificante, e la rivendicazione della propria autorità episcopale, ricevuta con la consacrazione e con l’affidamento della diocesi. Nel momento in cui i vescovi erano sempre più consapevoli della loro missione pastorale e della loro autorità, il dogma dell’infallibilità li emarginava dalla compartecipazione al governo della Chiesa universale, senza che il concilio, interrotto bruscamente, riuscisse a elaborare un’ecclesiologia dell’episcopato da affiancare a quella del primato petrino.
Ancora una volta comunque il comportamento tenuto in concilio dimostrò l’oscillazione dei vescovi italiani tra i raggruppamenti regionali o di ex Stati e le alleanze trasversali. Queste ultime però coinvolgevano pochi vescovi e in genere non derivavano da concertazioni previe, la maggioranza rimaneva fortemente legata alle circoscrizioni territoriali degli Stati preunitari che nella mentalità romana, ma anche di molti presuli, restavano ancora gli unici legittimi. Le speranze di restaurazione non erano morte, anzi si accentuarono proprio intorno a quegli anni con attese millenaristiche e provvidenzialistiche, suscitando un movimento ampio e convergente verso Roma che ebbe il suo acme al momento della breccia di Porta Pia83.
Qualcuno non mancò in quell’occasione di manifestare la propria angoscia per la ‘miseria dei tempi’ (Alessandria) o di pronosticare la ricaduta di castighi divini sull’Italia (così i vicari capitolari di Chioggia e Fiesole), eppure nessun vescovo, per quanto risulta dai repertori a disposizione, dedicò una pastorale alla difesa del potere temporale, in dissonanza con le forti proteste elevate nel 1859 e 1860. Forse in considerazione dello scarso successo ottenuto con le proteste nei confronti delle leggi degli anni Sessanta, essi preferirono dedicarsi a spiegare il dogma dell’infallibilità, a esaltare la figura del papa, in occasione del giubileo pontificale di Pio IX del 1871, o a esternare la loro vicinanza al pontefice con azioni concrete, intensificando la raccolta dell’obolo di s. Pietro e organizzando i primi pellegrinaggi a Roma, per esprimere la devozione del popolo cattolico al ‘prigioniero del Vaticano’84.
Nel frattempo il numero delle sedi vacanti continuava ad aumentare – alcune diocesi sarde erano senza pastore da più di vent’anni – mentre la crescente secolarizzazione della società richiedeva, nella considerazione dei vescovi, un impegno sempre più incisivo e costante per impedire l’allontanamento del popolo dalla fede cristiana e dalla pratica religiosa, oltre che dall’obbedienza all’autorità ecclesiastica.
Pur nella situazione di conflitto e incertezza, Pio IX, dopo aver fatto interpellare alcune eminenti figure dell’episcopato italiano e aver avuto scambi di pareri su elenchi di nomi portati per conto del governo da don Bosco85, decise allora di approfittare della libertà riconosciutagli dalla legge delle guarentigie del 13 maggio 1871, che pur aveva respinto, per nominare autonomamente in pochi mesi, tra il 1871 e il 1872, più di cento vescovi riuscendo a coprire praticamente tutte le diocesi vacanti. I problemi però non erano risolti perché contestualmente il papa e il segretario di Stato Antonelli proibirono ai vescovi di chiedere al governo l’exequatur necessario per prendere possesso della carica. Il risultato fu che essi non poterono entrare in episcopio e godere delle rendite annesse e furono mantenuti per anni con un sussidio papale, ma soprattutto che erano a rischio tutti i loro atti di governo, comprese le nomine dei parroci, non recepite dallo Stato perché conferite da autorità non riconosciute legittime86. La ricaduta sulla pastorale era ancor più grave che per le sedi vescovili, oltre al fatto che si ebbero episodi di elezione popolare di parroci, che crearono tensioni, divisioni e scompiglio anche nell’ordine pubblico87.
In un primo tempo si cercò un compromesso in modo da salvare il principio e contemporaneamente uscire dall’impasse. Approfittando di un’interpretazione elastica sia della norma pontificia che di quella statale, diversi vescovi riuscirono ad ottenere l’exequatur tra il 1872 e il 1874, ma poi le posizioni si irrigidirono da entrambe le parti e solo dopo la morte del cardinale Antonelli (6 novembre 1876), Pio IX consentì ai vescovi di presentare direttamente alle autorità statali la richiesta di riconoscimento. Per alcuni, come per Pietro Rota a Mantova, Vincenzo Moretti a Ravenna e Lucido M. Parocchi a Bologna, notoriamente intransigenti e contrari allo Stato liberale, l’iter fu molto lungo. Notevoli difficoltà incontrarono anche i vescovi nominati a sedi su cui il governo rivendicava il diritto di regio patronato, situate nei territori che in passato erano stati sotto il dominio spagnolo (regni di Napoli, Sicilia e Sardegna), ma anche in qualche diocesi del Veneto, Emilia e Toscana88. Alla fine anche in questo caso si giunse a un compromesso. Le bolle pontificie di nomina furono accolte e l’exequatur fu concesso, solo quando i vescovi accettarono di inserire nella domanda di riconoscimento il riferimento al diritto di patronato, così accadde a Capua per il card. Apuzzo89, a Napoli per il benedettino Guglielmo Sanfelice, a Salerno per Valerio Laspro, a Chieti per Luigi Ruffo Scilla. Alla fine la situazione pastorale nelle diocesi si normalizzò dovunque90.
In alcuni casi la scelta dei candidati era proprio mirata a contrastare posizioni di apertura del clero diocesano, come a Mantova, dove il citato intransigente Rota prese il posto del filoliberale Corti, e a Cremona dove Geremia Bonomelli, allora considerato su posizioni intransigenti, succedeva al liberale Novasconi, in una diocesi dove la lunga vacanza aveva creato una situazione di sbandamento nel clero e nei fedeli, con un seminario quasi vuoto e diversi preti apostati91. A Palermo l’intransigente benedettino Celesia era nominato al posto dell’arcivescovo Naselli, che aveva incontrato Vittorio Emanuele. Al contrario, vescovi moderati andarono a Torino con Lorenzo Gastaldi, ex rosminiano92, e a Siena con Enrico Bindi, già vescovo di Pistoia.
Anche se in diversi casi si era trattato di traslazioni di sede di vescovi già in carica, moltissimi degli eletti era di prima nomina, più giovani e sicuramente diversi dai loro predecessori. Erano i vescovi secondo la mente di Pio IX, scelti secondo le qualità che lui riteneva importanti per un pastore, dotati quindi di fermi principi di intransigenza nei confronti delle idee liberali, adesione convinta alla dottrina infallibilista, dedizione agli impegni pastorali, profonda religiosità93 – non a caso alcuni di essi furono poi beatificati (Dusmet, Reggio, Scalabrini, Rosaz) –, dote quest’ultima, che venne loro riconosciuta spesso anche dalle autorità italiane al momento della concessione dell’exequatur, pur nella constatazione che gli eletti non si mostravano molto collaborativi verso il governo94.
‘Proconsoli pontifici’ li chiamò il ministro Mancini95, e in effetti la loro fedeltà al papa era a tutta prova, anche se poi dimostrarono modalità diverse di rapporti con lo Stato liberale e capacità di gestirli in modo abbastanza autonomo e se tra di essi si trovava anche un prete passagliano, che ovviamente aveva ritrattato, il cremonese Guindani eletto a Borgo San Donnino (Fidenza) nel 1872, poi traslato a Bergamo nel 1879.
Anche la loro fisionomia sociale cominciava ad assumere caratteristiche diverse da quelle dei predecessori. Ormai abbastanza rari, tranne al Sud, erano coloro che provenivano da famiglie aristocratiche, mentre aumentavano i vescovi provenienti da zone rurali. Si riscontra anche un maggior numero di regolari, sempre più alto nel Sud che nel resto d’Italia. A parte il caso del croato Kaubeck ad Adria e del maltese Micallef, prima a Città di Castello poi a Pisa, era invece ancora abbastanza rispettata la prassi di nominare vescovi provenienti da territori più o meno prossimi alla diocesi di destinazione, ma ora i confini degli ex Stati erano spesso superati, sia nell’Italia settentrionale, dove la circolazione si estende a tutte le regioni, sia nell’Italia centrale, anche se rari sono i vescovi delle diocesi toscane non originari della regione e continua la tradizionale circolazione interna all’ex Stato pontificio. Dove i confini preunitari sembrano invalicabili è nel Sud, dove vengono nominati tutti vescovi dell’ex Regno delle Due Sicilie, e anzi si accentua l’autosufficienza della Sicilia dove, diversamente dal periodo borbonico, vengono nominati tutti vescovi isolani (Dusmet, Celesia, Guttadauro), come avviene d’altra parte in Sardegna dove ora solo l’arcivescovo di Cagliari è originario del Piemonte96.
Essendo tutti ecclesiastici formatisi prima dell’Unità non cambia molto la tipologia educativa rispetto al periodo precedente, ma, diversamente da prima, troviamo alcuni vescovi che avevano studiato a Roma anche tra quelli dell’Italia settentrionale (Duc, Manacorda, Guindani e Bonomelli) e della Toscana (Cecconi e Pucci Sisti). I numeri sono ancora troppo esigui per indicare una precisa scelta di ‘romanità’, ma sono un segnale che già negli ultimi anni preunitari la formazione ecclesiastica non era più chiusa all’interno dei singoli Stati. Anche i dati sulla carriera pregressa non cambiano molto. Gli ex parroci continuano ad essere una minoranza. Il fatto invece che un certo numero degli eletti avesse già governato una diocesi, spesso molto a lungo, come vicari capitolari, può indicare la preferenza accordata a persone di provate capacità. Qualcuno fu eletto nella stessa diocesi (Frescobaldi a Fiesole, Bentini a Cesena), altri altrove. Singolare è la vicenda di Giuseppe Buscarini, che come vicario capitolare aveva governato la diocesi di Fidenza dal 1857. Una volta eletto vescovo della stessa diocesi nel 1871, non la reggerà che pochi mesi morendo nel 1872.
Nel 1872 Pio IX rivolse ai vescovi italiani una nuova esortazione a riunirsi per scambiarsi pareri e agire poi in modo uniforme per rivendicare i «sacri diritti della Santa Sede» e «opporsi ai nemici»97. Diversamente dal 1849, però pochi furono i conventus negli anni Settanta. Si ha notizia di incontri dei vescovi piemontesi e napoletani, nonché di una riunione dei vescovi sardi ad Oristano nel 1876, che però si limitò a ribadire le delibere del 185098. La stagione delle riunioni sembrava finita; i vescovi si dedicavano prevalentemente alla riorganizzazione interna delle proprie diocesi e a ricompattare un clero diviso tra intransigenti e liberaleggianti. Non a caso in pochi anni, dal 1873 al 1878, si tennero 23 sinodi, più che in tutti i vent’anni precedenti, variamente distribuiti nel territorio della penisola, ma con un’accentuazione in Piemonte dove i vescovi erano quasi tutti di nuova nomina (12 di cui tre convocati dall’arcivescovo di Torino e quattro dal vescovo di Aosta)99. Tutti inoltre concentrarono la loro attenzione sul seminario spesso da ristrutturare dopo la chiusura o da aggiornare nei programmi in modo che la formazione del clero fosse uniforme e corrispondesse all’ideale sacerdotale di un pastore d’anime, di profonda pietà, formato teologicamente e filosoficamente alla controversistica.
Se Pio IX riuscì ad unire l’episcopato intorno alla sede di Pietro, Leone XIII ne colse i frutti100. Egli infatti approfittò del forte legame che si era creato per coinvolgere i vescovi nel suo programma di pontificato e per indirizzarli all’azione. Nell’enciclica Etsi nos del 1882, diretta espressamente all’episcopato italiano, papa Pecci sollecitava i presuli a unirsi a lui in vista di un’azione concordata e uniforme di rilancio della presenza attiva delle diverse componenti della Chiesa nella vita pubblica, da un lato per contrastare la secolarizzazione e la campagna denigratoria degli anticlericali e dall’altro per recuperare quell’influenza morale che in passato la religione cattolica aveva sempre esercitato sulla società italiana, rivendicando in primo luogo la libertà d’azione e l’indipendenza anche politica del suo capo spirituale. Nel documento il papa tracciava un vero e proprio piano operativo, indicando gli ambiti e i mezzi ritenuti indispensabili per raggiungere lo scopo. Sostanzialmente rimanevano alcune priorità già evidenziate negli anni di Pio IX, come la formazione accurata sia culturale che spirituale del clero, chiamato a compensare con lo zelo la diminuzione delle ordinazioni, e la diffusione della buona stampa, soprattutto di giornali e periodici, ma un rilievo più forte, anzi il primo posto veniva dato alle società laicali, non solo a quelle devozionali e assistenziali che pure il papa menzionava, ma a quelle costituite «per tenere congressi cattolici», con chiaro riferimento al movimento cattolico, nato proprio per assicurare la presenza della Chiesa nella società italiana e alla cui azione il papa legava la speranza di una riconquista del potere temporale101.
Il messaggio che Leone XIII voleva far passare era la necessità di un cambiamento delle modalità di azione pastorale: non più proteste e lamentele, né aspettative provvidenzialistiche, ma interventi positivi dei pastori per qualificare clero e laicato al fine di presentare al mondo un’immagine positiva di Chiesa e farla uscire da quell’ambito privato in cui era stata relegata.
In effetti ad esaminare l’attività dei vescovi dell’ultimo scorcio di secolo, l’incitamento di Leone a non farsi sopraffare dall’inerzia e dallo scoraggiamento e la spinta invece ad un’azione incisiva dovette raggiungere lo scopo. Un primo indicatore ne è la celebrazione dei sinodi diocesani molto più frequenti che nel periodo precedente. Se durante il pontificato di Pio IX se ne celebrarono 46, di cui la metà negli anni Settanta, per i venticinque anni del pontificato leonino sono conservati gli atti a stampa di 92 sinodi, con una media di 37 ogni decennio, distribuiti in tutte le regioni, ma con una percentuale più alta nel Nord Italia, anche in considerazione del fatto che qui il numero delle diocesi era molto inferiore a quelle nel Centro-Sud102. La regione più attiva rimase il Piemonte, ma un aumento si riscontra in Lombardia e in Liguria, soprattutto per merito di alcuni vescovi che li riunirono per vari anni di seguito (sei sinodi di Riboldi a Pavia, tre di Tommaso a Reggio a Ventimiglia a Genova)103.
L’azione dei vescovi quindi, come appare anche dai loro pronunciamenti pastorali e dalle biografie a disposizione, si concentrò sulla riorganizzazione della diocesi, ma le modalità rimasero molto tradizionali. Dai sinodi appare che la preoccupazione principale dei vescovi era quella dell’«immunizzazione dei fedeli dai mali del secolo», di attuare una ‘pastorale difensiva’104, che faceva leva sugli strumenti pastorali tradizionali – partecipazione ai sacramenti, predicazione, incentivazione delle devozioni soprattutto mariane e cristologiche, associazionismo devoto (confraternite e pie unioni) – per contrastare il pluralismo di voci e di idee che potevano persuadere i fedeli ad allontanarsi dalla tradizionale appartenenza religiosa. Rimanevano addirittura ancora in uso in alcune zone sistemi coercitivi anacronistici, come i biglietti pasquali, documentati in Sardegna ancora a fine secolo105, che pur essendo un caso limite testimoniano lo scarso adattamento pastorale alle nuove sollecitazioni e la mancanza di uno sforzo creativo per rinsaldare nei fedeli le convinzioni religiose piuttosto che inculcare in essi una serie di obblighi.
Si puntava, come il papa auspicava, sul clero come il ceto che maggiormente poteva essere preparato a livello intellettuale a confutare gli ‘errori moderni’ e a livello pastorale a plasmare il laicato, ma d’altra parte, nonostante gli sforzi precedenti e la progressiva adozione dei programmi governativi nei seminari minori106, rimanevano molte ombre sulla formazione dei chierici, separati materialmente e spiritualmente dalla società esterna per non esserne ‘corrotti’, poco preparati nelle scienze profane e affidati spesso a insegnanti mediocri e di scarsissime aperture culturali.
Non mancarono comunque iniziative innovative. Nel 1889 il vescovo di Piacenza, Scalabrini, organizzò il primo congresso catechistico nazionale. Dopo la legge Coppino (1877) che aveva abolito l’insegnamento religioso nelle scuole pubbliche, a parte quelle elementari e solo a richiesta dei genitori, si sentiva infatti l’esigenza di ristrutturare il tradizionale insegnamento della dottrina cristiana, rimasta l’unica occasione di approfondimento religioso, in modo da farne uno strumento educativo più incisivo per la crescita spirituale dei giovani e degli adulti, in un approccio che non riguardava solo la scelta di un catechismo piuttosto che un altro, ma cercava di approfondire le esigenze formative di docenti e discenti, di discutere sul metodo, anche alla luce delle moderne teorie pedagogiche e didattiche e del procedere dell’alfabetizzazione e soprattutto di creare una rete di istituzioni collegate tra loro107.
Anche sotto la spinta dell’invito del papa, un’ulteriore accelerazione ebbe la promozione della stampa, sia devota sia di opinione, diffusa ora capillarmente anche nelle diocesi più piccole e povere per iniziative dei vescovi, del clero, dei laici militanti, sempre con l’intento di attenuare o annullare l’effetto della stampa non controllata che poteva far deviare i fedeli dalla dottrina e dalla morale cattolica108. Nell’ultima decade del secolo la stampa periodica sembra aver avuto un fortissimo incremento, arrivando a inizio Novecento a oltre 450 testate, tra quotidiani, periodici d’opinione, fogli di divulgazione religiosa e di propaganda devota, che però sotto la denominazione generale di stampa cattolica nascondevano finalità e orientamenti diversi, da quelli radicalmente intransigenti come «L’Osservatore cattolico», che fu accusato di aver fomentato i moti di Milano del 1898 con le sue violente diatribe contro lo Stato, a periodici espressione del moderatismo non alieno da tendenze conciliariste109.
Un altro strumento che esprimeva l’asse unitario dei vescovi con il papa erano le lettere pastorali, ormai mezzo usato da tutti non solo per l’esortazione quaresimale, ma per istruire i fedeli sui problemi del momento. Rispetto al periodo di Pio IX, si intensificò massicciamente, un po’ dovunque e con caratteri pressoché uguali, l’uso di dedicarle a commentare i pronunciamenti papali110. Le encicliche programmatiche di Leone vennero sistematicamente riprese, a volte ripubblicate semplicemente, altre volte ampiamente analizzate. Le più commentate furono alcune di quelle che trattavano i temi scottanti dello scontro Chiesa – mondo moderno, il socialismo e il comunismo (Quod apostolici muneris 1878), la massoneria (Humanum genus 1884), la visione cristiana dello Stato (Immortale Dei 1885), i doveri principali dei fedeli (Sapientiae christianae 1890) –, e quelle più propriamente devozionali, principalmente le numerose encicliche sul rosario. Molto commentati furono anche i documenti papali sul tomismo (Aeterni Patris 1879) e qualcuno commentò anche il decreto di condanna di Rosmini del 1887, dimostrando un’adesione convinta alle scelte culturali del pontificato leonino.
La sintonia si esprimeva ancor più nelle numerose pastorali dedicate alla figura del papa e in quelle celebrative, relative in particolare alle ricorrenze del 50° anniversario di sacerdozio (1887) e di episcopato (1893) e al 25° di pontificato (1903) di Leone, all’indizione dei numerosi giubilei e ai pellegrinaggi, che costellarono il pontificato leonino e che contribuirono ad alimentare la devozione al papa111.
Più scarsa appare invece la riproposizione dei temi di altre encicliche; la stessa Rerum novarum non suscitò un interesse molto vasto e fu passata sotto silenzio anche da presuli che avevano già dedicato lettere ai temi sociali, come il vescovo di Cremona, Geremia Bonomelli112. Eppure i problemi sociali erano ben presenti nell’attività pastorale di molti vescovi che incoraggiavano fortemente il clero che usciva ‘di sacrestia’ per buttarsi nell’azione sociale. La fioritura di casse rurali, società di mutuo soccorso, latterie sociali, società operaie, attuata per lo più da parroci, vide i vescovi dare loro un appoggio concreto e farsi loro stessi promotori di iniziative, un po’ in tutt’Italia, anche in piccole diocesi del Sud. Lo spettro del socialismo evidentemente cominciava a preoccupare i presuli e poteva essere uno stimolo concreto per cercare di risolvere i problemi sociali in modo considerato più compatibile con le istanze religiose, ma in molti casi i pastori si sentivano effettivamente partecipi delle difficoltà di vita del loro gregge, solidali e impegnati a trovare soluzioni sociali e pastorali per alleviarne la miseria materiale e morale. Un esempio molto significativo di questo impegno è rappresentato dal già citato vescovo di Piacenza, Scalabrini, fondatore della Società S. Raffaele, costituita da sacerdoti che intendevano dedicarsi all’assistenza materiale e spirituale degli emigrati italiani in America113. Un altro esempio è la circolare che il vescovo di Caltanissetta Guttadauro indirizzò ai parroci in occasione della sollevazione dei fasci siciliani (1893-1894), invitandoli a svolgere opera di mediazione, ma denunciando a chiare lettere le ingiustizie e le sperequazioni dei padroni verso i lavoratori114.
La ripresa dei temi papali nelle pastorali può indicare in primo luogo lo stretto coordinamento tra magistero papale e vescovile, molto caldeggiato da Roma, ma il fatto che i vescovi selezionassero i documenti da commentare, indica non solo quali fossero i temi che li interessavano di più, ma anche quelli su cui non si sentivano propriamente in sintonia con il magistero papale. Aldilà dell’obbedienza a Roma e della condivisione di una stessa visione di Chiesa, nella pratica l’atteggiamento dei vescovi nei confronti della Santa Sede si dimostrava differenziato e non appiattito in un intransigentismo monocorde. Un certo numero di vescovi manifestava una propria autonomia di giudizio e di azione, come i già citati vescovi di Cremona Bonomelli e di Piacenza Scalabrini, autori di un fitto carteggio in cui il primo non lesinava giudizi critici e proposte innovative, lamentando anche il progressivo restringimento degli spazi autonomi dell’autorità vescovile di fronte al controllo romano, mentre il secondo più mite e diplomatico appariva meno caustico, ma non meno realistico nella disamina della Chiesa e della società del tempo. Entrambi attenti e partecipi dei problemi sociali, avrebbero voluto che i cattolici partecipassero alla vita politica, e non solo alle elezioni comunali, sulle quali molti presuli riponevano tante speranze. Entrambi pubblicarono un opuscolo anonimo, chiedendo l’abolizione del non expedit (Scalabrini 1885, Bonomelli 1886), ma ottennero solo la conferma del divieto. Bonomelli fu anche condannato all’Indice, costringendo il vescovo di Cremona a ritrattare pubblicamente dal pulpito della sua cattedrale. Le loro idee comunque non erano isolate, nel carteggio tra i due vescovi si fa riferimento a una serie di altri presuli che essi sentivano sulla stessa loro lunghezza d’onda. Oltre al filoliberale Nazari di Milano, sono menzionati il cardinale Celesia, che negli anni Ottanta attenuò il precedente intransigentismo, i vescovi di Parma Miotti e di Torino Alimonda, che cercavano di affrontare realisticamente la situazione. Nonostante la caduta delle speranze di conciliazione dopo il 1887, non furono rari infatti coloro che di fatto ammorbidirono i toni nei confronti del governo italiano, decidendo di rendere omaggio al re in visita nella loro diocesi (Sanfelice, Celesia 1881, Miotti 1887, Ferrari 1896) e di celebrare riti di suffragio per i caduti di Dogali (Miotti e Magnasco 1887), ma molti altri nella pratica quotidiana istaurarono rapporti positivi con le autorità civili, soprattutto in occasione di calamità naturali o di epidemie, in cui i vescovi si prodigarono per la popolazione (Magnasco, Sanfelice). I più concilianti entrarono nel mirino della stampa cattolica rigidamente intransigente, che non si faceva scrupolo neppure di attaccare, a volte pesantemente, gli stessi vescovi, come fece «L’Osservatore cattolico» di don Albertario con Bonomelli e Nazari di Calabiana.
Dove i vescovi non mostrarono di seguire molto le indicazioni della Etsi nos fu nella promozione del movimento cattolico. Leone XIII voleva che i vescovi favorissero l’azione sociale del laicato nell’idea che solo con un largo movimento d’opinione proveniente dalla base si potesse ottenere un rovesciamento di posizioni dello Stato nei confronti della Chiesa e magari un ripristino del potere temporale, ma proprio qui incontrò molte resistenze. Mentre tutti i presuli si dedicavano assiduamente a incentivare l’associazionismo devoto, molti di loro dimostravano una forte diffidenza verso l’associazione cattolica, che si proponeva esplicitamente la difesa degli interessi della Chiesa nella società italiana. Fondata nel 1875, l’Opera dei Congressi aveva avuto successo solo in alcune regioni italiane e anche la fondazione di un comitato diocesano non sempre indicava il gradimento vescovile. Nell’opera di riorganizzazione delle istituzioni ecclesiastiche diocesane sotto l’autorità pressoché esclusiva dell’Ordinario, la sostanziale autonomia dei dirigenti laici, che rispondevano a una struttura centralizzata a livello nazionale, appariva un elemento di disturbo e disgregazione nella regolata vita diocesana. A loro si rimproveravano una certa invadenza e una volontà di protagonismo autoritario che li faceva quasi dei ‘vescovi in cilindro’, secondo un’espressione attribuita a Scalabrini, ma in molti casi i vescovi non condividevano nemmeno la loro concezione dell’azione laicale nella realtà religiosa e sociale, ritenuta troppo legata agli ideali intransigenti da un lato e troppo aristocratica, senza effettiva capacità di rispondere ai veri bisogni sociali, dall’altra.
Stando alla nascita dei comitati diocesani, si può dire che nel Nord l’Opera dei congressi ebbe un’espansione più rapida. Nel 1890 esistevano cinque comitati diocesani in Lombardia (Bergamo, Como, Lodi, Mantova, Pavia), mancavano a Milano, dove si deve aspettare la morte di Nazari per vederne la fondazione nel 1894, e a Cremona, dove Bonomelli non lo volle mai; sei nel Veneto (Venezia, Feltre, Chioggia, Padova, Verona, Vicenza), culla del movimento per opera del conte Paganuzzi appoggiato dal vescovo di Padova Callegari; cinque in Emilia (Modena, Fidenza, Carpi, Piacenza, Reggio Emilia). Minore espansione si nota nelle altre regioni, solo due comitati diocesani erano eretti in Piemonte (Vercelli e Vigevano) e in Romagna (Bologna e Ravenna), uno solo era presente in Liguria (Tortona), nelle Marche (Fano), in Toscana (Lucca), in Campania (Napoli), in Sicilia (Caltagirone), mentre nelle altre regioni del Centro-Sud, Umbria, Lazio, Abruzzo, Puglia, Calabria e Sardegna non se ne trovava neppure uno, segno della scarsa presa su clero e popolo delle motivazioni dell’associazionismo militante, ma anche della mancanza di interesse e dell’atteggiamento negativo dimostrati dai vescovi nei suoi confronti115.
Nel progetto di Leone XIII invece il laicato aveva un ruolo molto importante; doveva essere lo strumento che avrebbe consentito alla Chiesa di tornare ad avere un ruolo trainante nella vita pubblica e di ricristianizzare la società. E fu proprio la volontà di indirizzare l’azione del laicato secondo i fini del suo pontificato che spinse il papa a coinvolgere i vescovi, prima con consultazioni individuali e poi con la concertazione collettiva, in continuità con la tradizione inaugurata nel 1849, riproponendo incontri di carattere consultivo e strettamente dipendenti, negli argomenti da trattare e nella obbligatorietà delle decisioni, dalle direttive romane116.
Approfittando della richiesta dell’episcopato della regione civile della Puglia di essere riunito in una sola circoscrizione ecclesiastica, il papa, tramite una lettera della Congregazione dei vescovi e regolari del 24 agosto 1889, dava disposizione ai vescovi di riunirsi in conferenze regionali sotto la presidenza del metropolita principale. In quell’occasione fu delineata una inedita divisione in 17 regioni ecclesiastiche, corrispondenti più o meno alle regioni civili secondo i confini dell’epoca117.
Mentre in diverse nazioni europee ed extraeuropee, i vescovi si riunivano ormai da molto tempo a livello nazionale, in Italia anche la riunione per regioni era una novità e non incontrò il favore di tutti i vescovi preoccupati da un lato dell’ingerenza che le decisioni collettive potevano avere sulla loro autorità nelle proprie diocesi, dall’altro della prospettiva di trovarsi a dover firmare atti che non condividevano. Se in alcune regioni i vescovi furono solleciti a riunirsi (Veneto, Toscana e Sardegna 1890; Lombardia, Sicilia, regione salernitano-lucana 1891, Marche, Umbria, Puglia 1892, Piemonte 1893), in altri casi la macchina organizzativa fu piuttosto complessa e la prima riunione datata vari anni dopo l’istruzione vaticana, come nell’Emilia Romagna (1897) e in Abruzzo (1899).
Gli argomenti trattati dalle conferenze sostanzialmente non si discostavano dai temi principali che occupavano i vescovi all’interno delle rispettive diocesi, come la disciplina del clero, la sua formazione culturale e spirituale in seminario, la sua azione sociale, la pastorale verso i fedeli laici – attraverso i tradizionali canali dell’amministrazione dei sacramenti, della predicazione, della catechesi – , la diffusione massiccia della stampa cattolica e dell’associazionismo, ma in questo caso si trattava di prendere decisioni operative comuni a cui tutti erano poi legati.
In alcune regioni si evidenziarono chiaramente in queste occasioni le diverse posizioni dei vescovi sia sull’importanza delle riunioni sia sui temi che il papa aveva indicato come prioritari e scattarono meccanismi anche di controllo e di denuncia che pesarono sulla minoranza più aperta e autonoma come il citato Bonomelli e l’arcivescovo di Milano, l’ormai anziano Nazari di Calabiana, poco propensi a farsi coinvolgere in atti collettivi per la diversità di vedute rispetto ad altri vescovi della Lombardia più intransigenti, come ad esempio i vescovi di Pavia, Agostino Riboldi, e di Mantova, Giuseppe Sarto. Un clima più disteso si instaurò solo quando il nuovo arcivescovo di Milano, il parmense Andrea Carlo Ferrari, assunse la presidenza della conferenza nel 1894, cercando di mediare tra le diverse anime dell’episcopato118.
Alcuni dibattiti particolarmente accesi riguardarono, ad esempio, l’adozione di un catechismo unico per tutte le diocesi della regione. Ci riuscirono i vescovi lombardi seguiti da quelli piemontesi e liguri che adottarono, con varie modifiche, il settecentesco catechismo del vescovo di Mondovì, Michele Casati, che poi fu adottato da Pio X per tutta l’Italia e di cui tutti avevano dimenticato le radici gianseniste119. La proposta di adottarlo incontrò maggiori resistenze tra i vescovi dell’Emilia Romagna, che ripiegarono su un testo regionale, la cui stesura fu affidata al vescovo di Piacenza Scalabrini, organizzatore del congresso del 1889. Qui uno degli argomenti più dibattuti fu il giornale cattolico «L’Avvenire d’Italia» che l’arcivescovo di Bologna, il marchigiano Domenico Svampa, voleva far uscire dai confini regionali per allargarne la base dei lettori.
Lo stesso Svampa, prima come segretario (1891-1894), poi come presidente (1901-1907) della conferenza della regione Emilia, fu anche tra i più decisi a seguire la linea di Leone XIII, che implicava un impegno massiccio dei vescovi in favore del movimento cattolico laicale, nella linea dell’Opera dei congressi. Anche in questo caso i dibattiti furono molto accesi e le resistenze non mancarono, ma negli ultimi anni del secolo un po’ dovunque aumentò l’impegno dei presuli per la fondazione dei comitati diocesani e parrocchiali e per la celebrazione di congressi cattolici regionali e diocesani. Tra il 1890 e il 1896 si registrò un significativo aumento del numero dei comitati diocesani, soprattutto in Piemonte, Toscana, Campania, Sicilia. Alla fine del secolo ormai vi erano comitati in tutte le regioni, anche se non in tutte le diocesi; le più refrattarie al movimento si mostrarono la Sardegna e sorprendentemente anche l’Umbria, tanto cara a Leone XIII120.
Uno dei motivi di resistenza alle decisioni collettive era costituito dal timore che molti vescovi avevano di veder ristretta la loro autorità in diocesi e di perdere quindi il controllo assoluto sul clero e sul popolo. Non a caso alcuni presuli, gelosi delle proprie prerogative, erano contrari anche all’istituzione di collegi sovradiocesani per l’alta formazione del clero, altri non vedevano di buon occhio l’adozione di un catechismo regionale. Neppure la volontà papale era riuscita a vincere le resistenze alla concertazione, anche se ormai i vescovi erano in prevalenza creature di Leone.
Data la massiccia immissione di nuovi presuli alla fine del pontificato precedente, per molti anni papa Pecci aveva governato con un episcopato eletto in prevalenza dal predecessore, soltanto negli anni Novanta poté contare su una maggioranza di vescovi da lui nominati.
I suoi criteri di scelta per molti versi non si discostarono molto da quelli di Pio IX riguardo alle doti morali, religiose e pastorali, ma Leone fu attento anche a scegliere sacerdoti che potessero contribuire all’attuazione del suo progetto culturale121 – come l’oratoriano Alfonso Capecelatro, prefetto della biblioteca Vaticana, arcivescovo di Capua dal 1880, come i filosofi tomisti napoletani Gennaro Portanova, dal 1888 a Reggio Calabria, e Giuseppe Prisco, dal 1898 a Napoli, o come il cardinale Ferrari, che a Milano chiuderà gli ultimi cenacoli rosminiani – o manifestassero una propensione verso l’attivismo sociale e il movimento laicale (Svampa)122.
Il loro curriculum comincia inoltre a manifestare una maggiore uniformità culturale, non solo perché i nuovi vescovi si erano formati in prevalenza dopo l’Unità, quando si era accentuata l’insistenza sull’educazione uniforme del clero, ma anche per l’aumento di presuli che avevano studiato a Roma. Ben 36 provenienti dalle regioni dell’ex Stato pontificio avevano frequentato il seminario Pio, fondato da Pio IX nel 1853 proprio per incentivare l’alta formazione tra il clero del suo Stato123, e seguito i corsi teologici all’Apollinare, dove la romanità non dipendeva tanto dalla nascita quanto dalla tipologia formativa e da cui sarebbero usciti anche Ernesto Buonaiuti e Angelo Roncalli. In conseguenza della chiusura delle facoltà di teologia statali (1873) e della difficoltà di ricostituire sotto l’autorità episcopale istituti superiori che potessero conferire gradi accademici, la formazione romana cominciava a diffondersi anche tra vescovi settentrionali e meridionali, ma non sembra che fosse ancora in atto una svolta particolarmente significativa in questo campo. Non si riscontra una svolta significativa nemmeno riguardo alle attività pregresse dei presuli; prevalgono ancora i professori di seminario, i canonici e i vicari generali, rispetto ai parroci, che pur risultano in aumento, anche in considerazione dell’immissione più massiccia del clero secolare nella pastorale attiva dopo l’Unità.
Molto simile al periodo precedente è anche la provenienza geografica, sostanzialmente ancora interna all’area settentrionale o centrale o meridionale. La ristretta circolazione è accentuata da un numero significativo di vescovi che vanno a governare la diocesi di nascita (13% nel 1892) e dalla completa autosufficienza episcopale del Veneto, della Sicilia e della Sardegna alla fine del secolo, mentre soltanto negli ultimi anni del pontificato si hanno i primi vescovi che superano i confini dell’ex Regno delle Due Sicilie. In netto aumento è invece il numero dei regolari, distribuiti ora abbastanza equamente tra Centro-Nord e Sud.
Non facile è individuare invece l’estrazione sociale dell’episcopato italiano di fine Ottocento; essa sembra seguire comunque il cambiamento di status dell’intero ceto ecclesiastico sempre più proveniente dai ceti medio bassi e di origine rurale, in un processo più o meno rapido, che vede ancora un numero di vescovi provenienti dalla nobiltà, soprattutto nel Sud, dove persiste più a lungo la prassi tradizionale, testimoniata anche dal notevole numero di presuli originari di Napoli. Un elemento nuovo invece del pontificato di Leone è l’ammissione significativa di vescovi ausiliari con diritto di successione, per impedire la stagnazione dell’attività in diocesi dove i titolari erano ormai anziani o malati, segno di una particolare attenzione per il problema dell’efficienza dei presuli che non trova riscontro nel periodo precedente.
Riguardo ai rapporti con lo Stato, qualche vescovo ebbe ancora problemi per ricevere l’exequatur, soprattutto per le diocesi considerate di regio patronato, come nel 1894 il nuovo patriarca di Venezia, Giuseppe Sarto, già vescovo di Mantova124, considerato un rigido intransigente, ma in genere i presuli poterono accedere alla carica e governare liberamente.
In definitiva la fisionomia dei vescovi italiani a fine secolo non sembra aver subito cambiamenti particolarmente significativi. Come appare anche dall’accoglienza delle conferenze episcopali, permanevano anche dopo il ricambio generazionale divergenze e sensibilità variegate, tra presuli più radicalmente intransigenti e più moderati, tra coloro che erano più allineati con le posizioni romane e chi era più geloso della propria autonomia, tra zelanti e meno attivi. Persisteva anche una circolazione abbastanza ristretta dei vescovi nella penisola e questa può essere una delle cause della scarsa coscienza di sentirsi parte di un gruppo unitario. Nonostante nel 1890 tutti avessero aderito, per la prima volta a livello nazionale, alla lettera pastorale di protesta per la promulgazione della legge sulle opere pie125, era ancora lontana l’esigenza di riunirsi come corpus episcopale dell’intera nazione. Su questo pesava senz’altro la difficoltà di riunire in assemblea unitaria oltre 250 vescovi, problema che non si poneva per i meno numerosi episcopati stranieri, ma pesavano sicuramente anche altri fattori: da un lato il mancato riconoscimento dello Stato unitario e dall’altro il filo diretto con Roma e l’impossibilità di dare all’assemblea un presidente che non fosse il papa. Fu questo probabilmente l’elemento più decisivo che determinò il ritardo italiano e non consentì la costituzione di una conferenza episcopale italiana, se non mezzo secolo dopo la morte di Leone XIII.
1 I dati statistici sui vescovi sono stati elaborati a partire dalle notizie contenute negli Annuari pontifici; in R. Ritzler, P. Sefrin, Hierarchia catholica medii et recentioris aevi, vol. VII (1800-1846), Patavii 1968; VIII (1846-1903), Patavii 1978 e nei volumi di regesti delle lettere pastorali. Attualmente sono disponibili i volumi riguardanti alcune diocesi del Piemonte (Lettere pastorali dei vescovi torinesi, a cura di W. Crivellin, G. Tuninetti, Torino 1992; Lettere pastorali dei vescovi delle diocesi di Biella e Ivrea, a cura di M. Neiretti, R. Reinerio, Racconigi 1998; Lettere pastorali dei vescovi delle diocesi di Alessandria, Asti, Pinerolo, Saluzzo, contributi di F. Betteto, G. Bottazzi, E. Dao, M. Forno, G. Grietti, Roma 1998; Lettere pastorali dei [arci] vescovi vercellesi, a cura di M. Capellino, F. Quaranta, Vercelli 2002); quelle delle attuali regioni Lombardia (Lettere pastorali dei vescovi della Lombardia, a cura di X. Toscani, M. Sangalli, Roma 1998), Veneto (Lettere pastorali dei vescovi del Veneto, a cura di M. Malpensa, Roma 2002), Emilia Romagna (Lettere pastorali dei vescovi dell’Emilia Romagna, a cura di D. Menozzi, Genova 1986), Toscana (Lettere pastorali dei vescovi della Toscana, a cura di B. Bocchini Camaiani, D. Menozzi, Genova 1990), Umbria (Lettere pastorali dei vescovi dell’Umbria, a cura di B. Bocchini Camaiani, M. Lupi, Roma 1999). Inoltre sono state regestate le lettere pastorali dei cardinali vescovi delle diocesi suburbicarie (Lettere pastorali dei cardinali suburbicari [1870-1958], a cura di A. D’Angelo, F. Tosi, Roma 2005), di quelle della Terra d’Otranto: Brindisi e Ostuni, Castellaneta, Gallipoli, Lecce, Nardò, Oria, Otranto, Taranto, Ugento (Lettere pastorali dei vescovi di Terra d’Otranto, a cura di D. Del Prete, Roma 1999). A questi regesti si devono aggiungere opere che pubblicano le lettere pastorali integralmente, come il volume Lettere pastorali dei vescovi di Molfetta, Giovinazzo e Terlizzi (1818-1981), Molfetta 1992.
2 Sulla provenienza geografica e l’età dei presuli, cfr. A. Parisi, Dall’episcopato pre-unitario all’episcopato post-conciliare, in Studi in onore di Pietro Agostino D’Avack, III, Milano 1976, pp. 451-496; Id., Vescovi ed episcopato. Dinamica istituzionale e caratteri strutturali dell’episcopato italiano (da Pio IX a Paolo VI), Padova 1979 (la Parte II è sostanzialmente una riproposizione del saggio precedente); G. Battelli, Santa Sede e vescovi nello Stato unitario. Dal secondo Ottocento ai primi anni della repubblica, in La Chiesa e il potere politico, a cura di G. Chittolini, G. Miccoli, Torino 1986 (Storia d’Italia. Annali, 9), pp. 807-854, soprattutto pp. 807-827.
3 Sui vescovi di Parma cfr. A. Manfredi, Vescovi, clero e cura pastorale. Storia della diocesi di Parma alla fine dell’Ottocento, Roma 1999.
4 Su Giulio Arrigoni cfr. M. Maccarrone, Il concilio Vaticano I e il “giornale” di mons. Arrigoni, 2 voll., Padova 1966.
5 Sui vescovi toscani cfr. B. Bocchini Camaiani, I vescovi toscani nel periodo lorenese, in Istituzioni e società in Toscana nell’età moderna, II, Roma 1994, pp. 681-716; Id., Introduzione a Lettere pastorali dei vescovi della Toscana, cit., pp. XI-XXV.
6 Sui vescovi siciliani cfr. F.M. Stabile, L’episcopato siciliano, in La Chiesa di Sicilia dal Vaticano I al Vaticano II, a cura di F. Flores d’Arcais, I, Caltanissetta-Roma 1994, pp. 135-156; F. Renda, Profilo storico, Chiesa e società in Sicilia dall’Unità al Concilio Vaticano II, in La Chiesa di Sicilia, a cura di F. Flores d’Arcais, cit., pp. 1-68; G. Zito, Dusmet e l’episcopato benedettino siciliano tra i Borboni e l’Unità, in Chiesa e società in Sicilia. I secoli XVII-XIX, a cura di G. Zito, Torino 1995, pp. 59-96.
7 Nel 1861 i vescovi giuristi erano soltanto undici. Sui vescovi napoletani cfr. B. Pellegrino, Vescovi “borbonici” e Stato “liberale” (1860-1861), Roma-Bari 1992, p. 15. Il volume è la ristampa, senza le appendici, di Id., Chiesa e rivoluzione unitaria nel Mezzogiorno. L’episcopato meridionale dall’assolutismo borbonico allo Stato borghese (1860-1861), Roma 1979.
8 Sui vescovi piemontesi cfr. Chiesa e società nella seconda metà del XIX secolo in Piemonte, a cura di F.N. Appendino, Casale Monferrato 1982. Cfr. anche P. Stella, Giurisdizionalismo e giansenismo all’università di Torino nel secolo XVIII, Torino 1958.
9 A. Gambasin, Un vescovo tra Illuminismo e Liberalismo. Modesto Farina e il seminario di Padova (1821-1856), Padova 1987.
10 X. Toscani, Introduzione a Lettere pastorali dei vescovi della Lombardia, a cura di X. Toscani, M. Sangalli, cit., pp. VII-XXIV.
11 F. Traniello, Cattolicesimo conciliatorista. Religione e cultura nella tradizione rosminiana lombardo-piemontese (1825-1870), Milano 1970
12 G. Martina, Il neotomismo, in R. Aubert, Il pontificato di Pio IX (1846-1878), Torino 19702 (Storia della Chiesa, iniziata da A. Fliche, V. Martin, XXI/2), pp. 808-811; R. Aubert, Le contexte historique et les motivations doctrinales de l’encyclique «Aeterni Patris», in Tommaso d’Aquino nel primo centenario dell’enciclica «Aeterni Patris», Roma 1981, pp. 15-48.
13 Cfr. G. Miccoli, Chiesa e società in Italia fra Ottocento e Novecento: il mito della cristianità, in Id., Fra mito della cristianità e secolarizzazione, Casale Monferrato 1985, pp. 21-81; D. Menozzi, La Chiesa cattolica e la secolarizzazione, Torino 1993.
14 A. Monticone, L’episcopato italiano dall’Unità al Concilio Vaticano II, in Clero e società nell’Italia contemporanea, a cura di M. Rosa, Roma-Bari, 1992, pp. 257-330, in partic. p. 259. Cfr. anche A. Gambasin, Il clero padovano e la dominazione austriaca 1859-1866, Roma 1967, pp. 12-19; Id., Un vescovo tra Illuminismo e Liberalismo, cit., p. 33.
15 A. Gambasin, Religiosa magnificenza e plebi in Sicilia nel XIX secolo, Roma 1979; F.M. Stabile, L’episcopato siciliano, cit., p. 137.
16 Cfr. i volumi delle Lettere pastorali e D. Menozzi, I vescovi dalla rivoluzione all’Unità. Tra impegno politico e preoccupazioni sociali, in Clero e società nell’Italia contemporanea, a cura di M. Rosa, cit., pp. 125-179, in partic. pp. 159-171.
17 Sui vescovi umbri cfr. B. Bocchini Camaiani, Introduzione a Lettere pastorali dei vescovi dell’Umbria, cit., pp. IX-XXVIII.
18 A. Gambasin, Sinodi e concili tra conservazione e rivoluzione, in Id., Religione e società dalle riforme napoleoniche all’età liberale. Clero, sinodi e laicato cattolico in Italia, Padova 1974, pp. 39-65.
19 Arrivarono lettere da tutti i vescovi del Piemonte, Liguria, Savoia, da alcuni lombardi e toscani e da molti del meridione (L’orbe cattolico a Pio IX pontefice massimo esulante da Roma 1848-1850, Napoli, all’uffizio della Civiltà Cattolica, 1850).
20 G. Feliciani, Azione collettiva e organizzazione nazionale dell’episcopato cattolico da Pio IX a Leone XIII, «Storia contemporanea», 3, 1972, pp. 325-363, poi ripubblicato in Id., Le conferenze episcopali, Bologna 1974, cap. I; P. Caiazza, Concili provinciali e Conventus episcoporum da Pio IX a Leone XIII, «Archivum historiae pontificiae», 33, 1995, pp. 197-245; A. Marani, Tra sinodi e conferenze episcopali. La definizione del ruolo degli incontri collettivi dei vescovi fra Gregorio XVI e Pio IX, «Cristianesimo nella storia», 17, 1996, pp. 47-93; R. Regoli, Concili italiani. I sinodi provinciali nel XIX secolo, «Archivum historiae pontificiae», 8, 2008, pp. 123-153.
21 Ad esempio il segretario di Stato, Antonelli, aveva scritto all’arcivescovo di Spoleto, Sabbioni (11 ottobre 1849) di porre attenzione a chi voleva allontanare il popolo dalla Chiesa, sottrarlo all’obbedienza all’autorità e infondergli idee sovversive e di individuare linee di azione per ravvivare l’osservanza religiosa, migliorare la disciplina ecclesiastica e promuovere l’istruzione di clero e popolo. Cfr. E. Cavalcanti, Per un profilo dei vescovi umbri contemporanei a Gioacchino Pecci (1846-1878), in Studi sull’episcopato Pecci a Perugia (1846-1878), a cura di E. Cavalcanti, Napoli 1986, pp. 251-281, in partic. pp. 258-259.
22 Pio IX, enciclica Nostis et nobiscum ai vescovi italiani, 8 dicembre 1849, in EE, II, Gregorio XVI e Pio IX, Roma 1996, pp. 212-249.
23 Gli atti di una buona parte dei conventus citati (Milano 1849, Spoleto 1849, Milano 1850, Loreto 1850, Palermo 1850, Pisa 1850, Siena 1850, Ravenna 1855, Urbino 1859, Venezia 1859) sono pubblicati nei volumi XLIII, XLIV e XLVII del Mansi (J.D. Mansi, Sacrorum Conciliorum nova et amplissima collectio, curantibus J.B. Martin et L.Petit, Paris 1910, ristampa anastatica Graz 1961), e nel vol. VI della Collectio Lacensis (Acta et decreta Sacrorum Conciliorum recentium Collectio Lacensis, VI, Friburgi Brisgoviae 1882). Quelli di Villanovetta sono pubblicati in G. Tuninetti, Alle origini delle conferenze episcopali: Villanovetta di Saluzzo (1849), in J.-D. Durand, G. Tuninetti, A. Sani, Contributi e documenti di storia religiosa, Torino 1993, pp. 69-114. Le pastorali pubblicate sono quelle dei vescovi napoletani, dell’Umbria, della Sardegna e della Romagna, della provincia di Torino (1849-1850). La documentazione si trova presso l’archivio della Congregazione del Concilio. Di alcuni però non sono conservati gli atti, se ne ha notizia attraverso fonti diverse. Cfr. A. Gambasin, Sinodi e concili, cit.
24 A. Marani, Tra sinodi e conferenze episcopali, cit., pp. 73-79. Per la Toscana, cfr. la lettera di Pio IX all’arcivescovo di Firenze, Minucci, Portici 12 novembre 1849, in G. Martina, Pio IX e Leopoldo II, Roma 1967, pp. 427-428.
25 F.M. Stabile, L’episcopato siciliano, cit., p. 138.
26 G. Martina, Pio IX (1846-1850), Roma 1974, pp. 455-457; 488-489.
27 Gli arcivescovi e vescovi componenti la sacra adunanza nella città di Spoleto al clero e popolo delle loro diocesi, Spoleto 1849, p. 13.
28 Sull’allarme per la libertà di stampa, cfr. M.I. Palazzolo, La perniciosa lettura. La Chiesa e la libertà di stampa nell’Italia liberale, Roma 2010.
29 G. Martina, Osservazioni sulle prime redazioni del Sillabo, in Chiesa e Stato nell’Ottocento. Miscellanea in onore di Pietro Pirri, II, Padova 1962, pp. 419-524.
30 Cfr J.D. Mansi, Sacrorum Conciliorum, cit., XLVII, coll. 335-456. Erano presenti quattro vescovi lombardi, compreso l’arcivescovo di Milano Romilli, più un vicario capitolare, e sei veneti. Mancava però il patriarca di Venezia, Mutti.
31 D. Menozzi, I vescovi dalla rivoluzione all’Unità, cit.
32 G. Martina, Il clero nell’Italia centrale dalla restaurazione all’Unità, in Problemi di storia della Chiesa dalla restaurazione all’Unità, Atti del VI Convegno di aggiornamento (Pescara 1982), a cura dell’Associazione italiana dei professori di storia della chiesa, Napoli 1985, pp. 245-279.
33 Cfr. Silvino da Nadro, Sinodi diocesani italiani. Catalogo bibliografico degli atti a stampa 1534-1878, Città del Vaticano 1960.
34 Su Giovanni Antonio Farina cfr. Il vescovo Giovanni Antonio Farina e il suo istituto nell’Ottocento veneto. Atti del Convegno (Vicenza 1987), a cura di A.I. Bassani, Roma 1988; G. Saretta, Giovanni Antonio Farina vescovo di Treviso e il Capitolo della sua Cattedrale. Aspetti giuridico-pastorali di una decennale vertenza (1850-1860), Roma 1998.
35 Sulla vicenda G. Martina, Pio IX e Leopoldo II, cit., pp. 361-365, 383-390. La lettera di Pio IX ai vescovi di Firenze, Arezzo, Colle Val d’Elsa, Pistoia, Fiesole, Massa Marittima, datata da Roma 25 novembre 1853, è pubblicata in G. Martina, Pio IX e Leopoldo II, cit., pp. 468-469.
36 G. Martina, Pio IX (1851-1866), Roma 1986, pp. 75, 685.
37 M. Guasco, Per una storia della formazione del clero: problemi e prospettive, in Chiesa chierici e sacerdoti. Clero e seminari in Italia tra XVI e XX secolo, a cura di M. Sangalli, Roma 2000, pp. 25-38.
38 Erano in vigore in questo periodo concordati con il Regno delle Due Sicilie (dal 1818), con il ducato di Modena (dal 1841). Nel 1851 ne fu stipulato uno anche con il Granducato di Toscana, mentre nel 1855 si arrivò alla firma del Concordato con l’Impero d’Austria. Cfr. Enchiridion dei concordati. Due secoli di storia dei rapporti Chiesa-Stato, Bologna 2003.
39 Si erano espressi in questo senso i vescovi lombardi e i napoletani nei loro indirizzi ai sovrani. Cfr. A. Gambasin, Sinodi e concili, cit., pp. 39-65; G. Martina, Alcuni aspetti dell’episcopato di Sisto Riario Sforza, in Sisto Riario Sforza arcivescovo di Napoli (1845-1877), a cura di U. Parente, A. Terracciano, «Campania sacra», 29, 1998, pp. 9-44, nr. monografico.
40 G. Martina, Pio IX (1851-1866), cit., pp. 70-81; Id., Alcuni aspetti dell’episcopato di Sisto Riario Sforza, cit., pp. 9-44; B. Pellegrino, Vescovi “borbonici” e Stato “liberale”, cit.
41 Il vescovo di Biella, come si è visto, si pronunziò a favore dell’emancipazione, mentre gli arcivescovi di Torino e Vercelli, personaggi peraltro diversissimi, si pronunziarono contro (lettera di Fransoni e d’Angennes a Carlo Alberto, pubblicata in G. Martina, Pio IX e Leopoldo II, cit., pp. 409-411). Riguardo alla soppressione delle decime alcuni vescovi sardi, Varesini e Montixi, si espressero favorevolmente, anche perché nell’isola esse fruttavano così poco che un altro sistema di rendita per i parroci era considerato sicuramente migliore (T. Cabizzosu, Chiesa e società in Sardegna [1870-1987], Nuoro 1987, p. 254).
42 Cfr. L’episcopato e la rivoluzione in Italia, ossia Atti collettivi dei vescovi italiani preceduti da quelli del sommo Pontefice Pio IX contro le leggi e i fatti della rivoluzione, II, Mondovì 1867, pp. 1-128. Sulla proposta di contributo, cfr. A. Gambasin, Sinodi e concili, cit., p. 49; G. Martina, Pio IX (1851-1866), cit., pp. 57-59.
43 Cfr. A. Fappani, L’episcopato di Gerolamo Verzeri (1850-1883), Brescia 1982; G. Goffi, Mons. Antonio Novasconi vescovo di Cremona (1850-1867), «Rivista di storia della Chiesa in Italia», 45, 1991, pp. 110-139.
44 Pio IX, encicliche Qui nuper per Italiam (18 giugno 1859) e Nullis certe verbis (19 gennaio 1860), in EE, II, cit., pp. 424-430.
45 Per gli indirizzi: La sovranità temporale dei romani pontefici propugnata nella sua integrità dal suffragio dell’orbe cattolici regnante Pio IX, l’anno XIV, parte prima Italia, I. L’episcopato, Roma 1860. Oltre ai prevedibili indirizzi di solidarietà dei vescovi dello Stato pontificio, tra il luglio 1859 e l’ottobre 1860 ne arrivarono 25 dal Regno di Sardegna, 6 dalla Lombardia, 8 dal Veneto, 4 dai ducati, 18 dalla Toscana, 40 dall’Italia meridionale, 12 dalla Sicilia. Per le lettere pastorali, cfr. i volumi dei regesti citati. Significativa la decisa presa di posizione di alcuni dei vescovi piemontesi più aperti come Losana di Biella e Moreno di Ivrea.
46 Cfr. M. Lupi, Il clero a Perugia durante l’episcopato di Gioacchino Pecci (1846-1878). Tra Stato Pontificio e Stato Unitario, Roma 1998.
47 Cfr. la documentazione riguardo alla richiesta di Novasconi in ASV, AES, Italia, 1861, fasc. 4, pos. 33, Cremona 1861 e G. Goffi, Mons. Antonio Novasconi, cit.
48 G. Brocanelli, Seminari e clero nelle Marche nella seconda metà dell’Ottocento, Roma 1978, p. 10.
49 B. Pellegrino, Chiesa e rivoluzione unitaria nel Mezzogiorno, cit., pp. 23, 28-34 e Id., Vescovi «borbonici» e Stato «liberale», cit., pp. 28-38.
50 B. Pellegrino, Michele Caputi dal legittimismo borbonico al liberalismo unitario, Galatina 1984.
51 M.L. Trebiliani, La Sacra Congregazione del Concilio intorno agli anni ’70 (contributo allo studio della Curia romana nell’800), in Roma tra Ottocento e Novecento. Studi e ricerche, Roma 1981, pp. 1-55.
52 A. Gambasin, Religiosa magnificenza e plebi, cit., capp. I-II; F.M. Stabile, Il clero palermitano nel primo decennio dell’Unità d’Italia (1860-1870), 2 voll., Palermo 1978.
53 G. Martina, Pio IX (1851-1866), cit., pp. 128-132.
54 Per le proteste cfr. L’episcopato e la rivoluzione, cit., II; F. Margiotta Broglio, Legislazione italiana e vita della Chiesa (1861-1878), in Chiesa e religiosità in Italia dopo l’Unità (1861-1878), Atti del quarto Convegno di storia della Chiesa (La Mendola, 1971), I, Relazioni, Milano 1973, pp. 101-146 e G. Feliciani, Legislazione ecclesiastica ed azione collettiva dell’episcopato italiano (1861-1878), in Studi in onore di Pietro Agostino D’Avack, II, Milano 1976, pp. 225-275.
55 Per Napoli B. Pellegrino, Chiesa e rivoluzione unitaria, cit., pp. 151-165; per la Lombardia, la Toscana e Modena cfr. L’episcopato e la rivoluzione, II, cit.
56 Sul progetto di matrimonio civile esaminato nell’interesse religioso dichiarazione, in Scelta di atti episcopali del Card. Gioacchino Pecci arcivescovo di Perugia, a cura di G. Boccali, S. Ciccolini, Roma 1879, pp. 307-342.
57 G. Feliciani, Legislazione ecclesiastica ed azione collettiva, cit.
58 «Il clero italiano non può sottrarsi al dovere di riconoscere il presente ordine di cose e di accettarne le conseguenze [...] per non porsi in contraddizione con le leggi della Provvidenza» (Circolare del ministro di Grazia Giustizia e Culti Miglietti ai vescovi d’Italia, Torino 26 ottobre 1861, «Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia», 264, 30 ottobre 1861).
59 Proteste giunsero al ministro guardasigilli dai vescovi dell’Umbria, della Romagna, degli ex ducati di Modena e Parma e da quelli delle Due Sicilie, più tardi protestarono anche i vescovi del Piemonte, Savoia, Liguria e Lombardia e della Sardegna (cfr. L’episcopato e la rivoluzione, cit., II, pp. 129-133, 305-309, 335-346, 410-412, 425-432). Gli argomenti delle proteste sono molto simili, tanto da far pensare che i vescovi seguissero direttive romane (cfr. G. Feliciani, Legislazione ecclesiastica ed azione collettiva, cit. e più recentemente L. Demofonti, Fede religiosa e amor di patria nell’episcopato italiano dopo l’Unità, in Chiesa, laicità e società civile. Studi in onore di Guido Verucci, a cura di L. Ceci, L. Demofonti, Roma 2005, pp. 95-111).
60 Pio IX convocò i vescovi di tutto il mondo nel 1854 per la proclamazione del dogma dell’Immacolata Concezione, nel 1862 per la canonizzazione dei martiri giapponesi, a cui i vescovi dei territori italiani di nuova acquisizione non poterono partecipare per il rifiuto del governo di concedere loro il passaporto e che costituì un’altra occasione di proteste da parte dei vescovi e infine nel 1867, per il diciottesimo centenario del martirio dei ss. Pietro e Paolo.
61 Su Giovanni Battista Arnaldi, cfr. E. Cavalcanti, Per un profilo dei vescovi umbri, cit., pp. 267-272.
62 Cfr. ad esempio la lettera pastorale di Zanardi di Guastalla nel 1862.
63 G. Martina, Pio IX (1851-1866), cit., pp. 133-138.
64 Per il periodo 1860-1878 sono ancora validi i lavori di F. Fonzi, I vescovi, in Chiesa e religiosità in Italia, cit., Relazioni I, pp. 32-58 e A. Monticone, I vescovi meridionali: 1861-1878, in Chiesa e religiosità in Italia, cit., Relazioni I, pp. 59-100.
65 I dati sono tratti da una memoria della Congregazione per gli Affari ecclesiastici straordinari: «Fino a nov. 1863 le sedi vescovili vacanti in Piemonte erano 7 nell’isola di Sardegna 8. Per tutti gli altri stati d’Italia 28. I vescovi esuli, o espulsi sommano a 56» (ASV, AES, Italia 1864, fasc. 10, pos. 81, f. 28v). Altre fonti danno 24 arcivescovati e 84 vescovati scoperti (R. Mori, La questione romana 1861-1865, Firenze 1963, pp. 317-318).
66 G. Martina, Pio IX (1851-1866), cit., p. 671.
67 G. Zito, Dusmet e l’episcopato benedettino, cit., pp. 59-96.
68 B. Pellegrino, Vescovi “borbonici” e Stato “liberale, cit.
69 R. Mori, La questione romana, cit.
70 R. Turtas, Storia della Chiesa in Sardegna, cit., p. 824.
71 Sedi vescovili vacanti in Italia, in ASV, AES, Italia 1867, f. 20, pos. 136, f. 65r-v.
72 G. Martina, Pio IX (1867-1878), Roma 1990, pp. 9-12.
73 «Nel luglio successivo [1867] fu sospesa la nomina di altri vescovi per essere dissestate, come diceva Tonello, le finanze del governo italiano» (Memoria in ASV, AES, Italia 1868-1869, fasc. 23, pos. 159, f. 78v).
74 «Qui seguitano a sopprimere e ad indemaniare. I poveri vescovi colla liquidazione da farsi delle loro rendite dal Demanio, non potranno aspettare alcun introito che al 1° luglio prossimo, e per esso ad agosto o settembre quando si paga il semestre del Debito pubblico, a ciò nella supposizione che le dette liquidazioni per tutte le diocesi d’Italia si eseguano nel detto tempo altrimenti si anderà all’indefinito. Intanto vi sono dei poveri vescovi che davvero mancano del necessario alla vita. I pesi per la Chiesa e per le altre obbligazioni pie della Mensa per questo tempo non si sa chi le pagherà, mentre i vescovi sono molestati dalle varie amministrazioni» (lettera dell’arcivescovo Riario Sforza al segretario di Stato Antonelli, 14 gennaio 1867, in ASV, AES, Italia 1867 f. 20, pos. 136, f. 104r-v).
75 Per la Sicilia cfr. F.M. Stabile, Il clero palermitano, cit., vol. II, pp. 270-275.
76 Risposero 13 vescovi dello Stato pontificio e 37 dell’ex Stato, 38 dell’ex Regno delle Due Sicilie, 11 della Toscana ed ex ducati, 12 tra Piemonte e Sardegna, 10 di Veneto e Lombardia, cfr. ASV, Concilio Vaticano I, bb. 9-12. Sintesi in Mansi, Sacrorum Conciliorum, IL, coll. 263-458, con il titolo latino Summarium responsionum ab episcopis datorum de gravioribus disciplinae ecclesiasticae capitibus in concilio tractandis.
77 R. Aubert, L’Église en Italie avant et après Vatican I, in Chiesa e religiosità in Italia dopo l’Unità, cit., Relazioni I, pp. 3-31.
78 M. Maccarrone, Il concilio Vaticano I e il “giornale”, cit.; M. Lupi, L’episcopato umbro-marchigiano alla vigilia del Vaticano I: le risposte al questionario proposto ai vescovi nel 1867, in Marche e Umbria sotto Pio IX e Leone XIII. Fonte Avellana 1998, pp. 230-265; R. Aubert, L’Église en Italie, cit., pp. 22-26; G. Battelli, Santa Sede e vescovi, cit., pp. 814-815.
79 Chiese residenziali vacanti in Italia (agosto 1868), in ASV, AES, Italia 1868-1869, fasc. 23, pos. 152, ff. 22r-23r.
80 R. Aubert, Vatican I, Paris 1964, p. 100.
81 B. Bellone, I vescovi dello Stato Pontificio al Concilio Vaticano I, Roma 1966; G. Tuninetti, La partecipazione dell’episcopato piemontese al Concilio Vaticano I (1869-1870), in Chiesa e società nella seconda metà, cit., pp. 160-174; M. Maccarrone, Il concilio Vaticano I e il “giornale”, cit.
82 I risultati delle votazioni sono pubblicati in Mansi, Sacrorum Conciliorum, cit., LII, coll. 1243-1253. Cfr. anche N. Menna, Vescovi italiani anti infallibilisti al Concilio Vaticano, Napoli 1954; M. Maccarrone, Il concilio Vaticano I e il “giornale”, cit. e B. Bellone, I vescovi dello Stato Pontificio, cit.
83 P.G. Camaiani, Motivi e riflessi religiosi della questione romana, in Chiesa e religiosità in Italia, cit., Relazioni II, pp. 65-128; G. Martina, La fine del potere temporale nella coscienza religiosa e nella cultura dell’epoca in Italia, «Archivum historiae pontificiae», 9, 1971, pp. 309-376.
84 Cfr. R. Rusconi, Devozione per il pontefice e culto per il papato al tempo di Pio IX e di Leone XIII nelle pagine di “La Civiltà Cattolica”, «Rivista di storia del cristianesimo», 2, 2005, 1, pp. 9-37; Id., Santo Padre. La santità del papa da San Pietro a Giovanni Paolo II, Roma 2010, pp. 341-407.
85 G. Martina, Pio IX (1867-1878), cit., pp. 481-483.
86 M. Belardinelli, Il conflitto per gli exequatur (1871-1878), Roma 1971.
87 Episodi si verificarono a Mantova e in Sicilia.
88 Dai dati riportati da M. Belardinelli, Il conflitto per gli exequatur, cit., p. 78, sembra che il numero non fosse certo, oscillando da 83 a 97 a seconda delle fonti.
89 A. Ianniello, Religione e politica nell’episcopato del cardinale Apuzzo, Napoli 1999.
90 M. Belardinelli, Il conflitto per gli exequatur, cit., pp. 77-86.
91 G. Goffi, Mons. Antonio Novasconi, cit., pp. 110-111.
92 G. Tuninetti, Lorenzo Gastaldi (1815-1883). I. Teologo, pubblicista, rosminiano, vescovo di Saluzzo (1815-1871); II. Arcivescovo di Torino (1871-1883), Roma 1983.
93 G. Martina, Pio IX (1867-1878), cit., p. 473; A. Monticone, L’episcopato italiano, cit.
94 A. Monticone, I vescovi meridionali, cit. e G. Brocanelli, Seminari e clero nelle Marche, cit.
95 M. Belardinelli, L’ exequatur ai vescovi italiani dalla legge delle Guarentigie al 1878, in Chiesa e religiosità in Italia, cit., Comunicazioni I, pp. 5-42, cit. a p. 9.
96 Vedi le tabelle pubblicate da Parisi relative al 1872 (A. Parisi, Dall’episcopato pre-unitario, cit.) da Battelli in riferimento al 1878.
97 Pio IX, allocuzione Iustus et misericors Deus, 23 dicembre 1872, ai cardinali, in ASS, VII, 1872-1873, Roma 1915, pp. 165-171.
98 G. Feliciani, Azione collettiva e organizzazione nazionale, cit., p. 341; R. Turtas, Storia della Chiesa in Sardegna, cit., pp. 632-633.
99 Cfr. Silvino da Nadro, Sinodi diocesani italiani, 1534-1878, cit.; I sinodi diocesani di Pio IX (1860-1865), a cura di A. Gianni, G. Senin Artina, Roma 1987; I sinodi diocesani di Pio IX (1866-1878), a cura di M. Vismara Missiroli, Roma 1988; S. Ferrari, Sinodi e concili dall’unificazione al nuovo secolo, in La Chiesa e la società industriale (1878-1922), a cura di E. Guerriero, A. Zambarbieri (Storia della Chiesa, iniziata da A. Fliche, V. Martin, XXII/2), Cinisello Balsamo 1990, pp. 83-100.
100 Sul pontificato di Leone XIII, cfr. Aspetti della cultura cattolica nell’età di Leone XIII, a cura di G. Rossini, Roma 1961; F. Fonzi, L’età leoniana. La storiografia relativa, in Il cattolicesimo politico e sociale in Italia e in Germania, Bologna 1977, pp. 15-42; G. Miccoli, Ansie di restaurazione e spinte di rinnovamento: i molteplici volti del pontificato di Leone XIII, in I cattolici e lo Stato liberale nell’età di Leone XIII, a cura di A. Zambarbieri, Venezia 2008, pp. 1-28. Sui vescovi di questo periodo, cfr. G. Battelli, I vescovi italiani tra Leone XIII e Pio X. Contributi recenti, «Cristianesimo nella storia», 6, 1985, pp. 93-143; F. Sportelli, I vescovi italiani di Leone XIII, in Zanardelli, la Basilicata, il Mezzogiorno. a cura di F. Assante, O. Confessore, I, Venosa 2008, pp. 209-216.
101 Leone XIII, enciclica Etsi nos, 15 febbraio 1882, in EE, III, Leone XIII 1878-1903, Bologna 1997, pp. 196-217.
102 L’elenco dei sinodi pubblicati in Silvino da Nadro, Sinodi diocesani italiani. Catalogo bibliografico degli atti a stampa 1879-1960 con un’appendice sui Sinodi anteriori all’anno 1534, Milano 1962.
103 Per un quadro complessivo, cfr. A. Gambasin, Gerarchia e laicato in Italia nel secondo Ottocento, Padova 1969, pp. 310-311; S. Ferrari, Sinodi e concili, cit.
104 A. Gambasin, Gerarchia e laicato in Italia, cit., pp. 159-192, cit. a p. 168.
105 T. Cabizzosu, Chiesa e società nella Sardegna centro-settentrionale (1850-1900), Ozieri 1986, pp. 242-244.
106 Cfr. M. Guasco, I seminari e la cultura, in I cattolici e lo Stato liberale, cit., pp. 151-162.
107 U. Gianetto, Mons. G.B. Scalabrini precursore del movimento catechistico, in Scalabrini tra vecchio e nuovo mondo, a cura di G. Rosoli, Roma 1989, pp. 173-202.
108 M.I. Palazzolo, La perniciosa lettura, cit.
109 F. Malgeri, La stampa quotidiana e periodica e l’editoria, in DSMC, I/1, pp. 273-295.
110 Oltre ai volumi regionali sulle lettere pastorali, cfr. per il Veneto M. Malpensa, Riprese e interpretazione delle linee di governo di Leone XIII e Pio X nelle pastorali dei vescovi veneti, in Episcopato e società tra Leone XIII e Pio X. Direttive romane ed esperienze locali in Emilia-Romana e Veneto, a cura di D. Menozzi, Bologna 2000, pp. 71-116.
111 A. Zambarbieri, La devozione al papa, in La Chiesa e la società industriale, XXII/2, cit., pp. 9-81, in partic. pp. 41-47; R. Rusconi, Santo Padre, cit., pp. 415-435.
112 C. Bellò, Geremia Bonomelli, Brescia 1961; G. Gallina, Il problema religioso del Risorgimento e il pensiero di Geremia Bonomelli, Roma 1974; Geremia Bonomelli e il suo tempo, a cura di G. Rosoli, Brescia 1999.
113 Cfr. Scalabrini tra vecchio e nuovo mondo, cit.; P. Borzomati, Giovanni Battista Scalabrini, il vescovo degli emarginati, Soveria Mannelli 1997.
114 A. Sindoni, Giovanni Guttadauro: un vescovo siciliano dall’Unità ai moti sociali di fine secolo, in Chiesa e religiosità in Italia dopo l’Unità, cit., Comunicazioni I, pp. 251-295, in partic. pp. 292-293.
115 Cfr. i dati in A. Gambasin, Il movimento sociale nell’Opera dei Congressi (1874-1904). Contributo per la storia del cattolicesimo sociale in Italia, Roma 1958, pp. 696-701 e le considerazioni di A. Gambasin, Gerarchia e laicato, cit., pp. 192-212, sulla base dei sinodi diocesani del periodo.
116 G. Feliciani, Le conferenze episcopali, cit.; P. Caiazza, Concili provinciali e Conventus episcoporum, cit.; A. Marani, Una nuova istituzione ecclesiastica contro la secolarizzazione. Le conferenze episcopali regionali (1889-1914), Roma 2009. Quest’ultimo è il lavoro più ampio sull’argomento: prende in considerazione l’origine delle conferenze episcopali regionali e nello specifico le conferenze della Lombardia, della Toscana e dell’Emilia-Romagna; per le altre regioni gli studi sono meno avanzati. A parte un lavoro dedicato alle conferenze pugliesi (Vescovi e regione in cento anni di storia [1892-1992]: raccolta di testi della Conferenza Episcopale Pugliese, a cura di S. Palese, F. Sportelli, Galatina 1994), in saggi di argomento più ampio si trovano cenni sintetici riguardo alle conferenze dei vescovi della Sicilia (F.M. Stabile, L’episcopato siciliano, cit.), della Sardegna (R. Turtas, Storia della Chiesa in Sardegna, cit., pp. 632-633).
117 Alcuni arcivescovi, lettera del cardinale Luigi Verga prefetto della Congregazione dei vescovi e regolari, 24 agosto 1889, in Leonis XIII Acta, IX, Romae 1890, pp. 184-190.
118 C. Snider, L’episcopato del cardinale Andrea C. Ferrari, I. Gli ultimi anni dell’Ottocento (1891-1903), Vicenza 1981; A. Marani, Una nuova istituzione ecclesiastica, cit.
119 P. Stella, Alle fonti del catechismo di san Pio X. Il catechismo di mons. Casati, «Salesianum», 23, 1961, pp. 43-66; L. Nordera, Il catechismo di Pio X. Per una storia della catechesi in Italia (1896-1914), Roma 1988.
120 A. Gambasin, Il movimento sociale, cit.; Id., Gerarchia e laicato in Italia, cit.; M. Casella, L’Umbria e l’Opera dei Congressi: le ragioni di un rifiuto, in Cattolici e società in Umbria tra Ottocento e Novecento, a cura di M.C. Giuntella, G. Pellegrini, L. Tosi, Roma 1984, pp. 25-34.
121 Cfr. A. Monticone, L’episcopato italiano, cit.; F. Sportelli, I vescovi italiani di Leone XIII, cit.
122 Cfr. Alfonso Capecelatro, arcivescovo di Capua nella storia e nella Chiesa, Atti del Convegno nazionale di studi (Capua-Santa Maria Capua Vetere-Caserta 1983), Napoli 1985; Il cardinale Gennaro Portanova: filosofo napoletano e pastore reggino, Atti del Convegno storico (Reggio Calabria 2008), Reggio Calabria 2009.
123 A. Albertazzi, Domenico Svampa: un vescovo fra due secoli. Chiesa e società a Bologna (1894-1907), Bologna 1978, pp. 22 segg.
124 «La Civiltà cattolica», 45, 1894, s. XV, vol. X, pp. 490-491.
125 Cfr. il testo in «La Civiltà cattolica», 41, 1890, s. XIV, vol. V, pp. 482-485.