Verucchio (Verrucchio)
Il borgo di V. (castrum Veruculi), posto, coi ruderi della sua grande rocca a strapiombo, al limite meridionale della pianura romagnola (prov. di Forlì), in apertissima vista della valle del Marecchia, è ricordato da D. in If XXVII 46 come appellativo dei due primi signori di Rimini: il vecchio Malatesta (1212-1312) e il figlio di lui Malatestino, bollati per loro crimini e atrocità in figura di mastini, che là dove soglion fan de' denti succhio (v. 48). Appellativo d'origine, che accompagnò sempre il nome del più famoso Malatesta: " Dominus Malatesta de Veruculo, natus quondam Domini Malatestae de Malatestis ", mentre il padre, ivi genericamente designato " de Malatestis ", risulta in atti e cronache ora come " de Arimino " (dove fu podestà nel 1239), ora con l'attributo " de Penna ", l'odierna Pennabilli nel Montefeltro.
Un breve emanato da papa Giovanni XXII nel 1320, di cui è memoria in un opuscolo del padre Verucchino e in una lapide superstite della collegiata parrocchiale di V., concedendo ai Malatesta il privilegio di erigere in V. la chiesa dei conventuali, rilevava espressamente l'origine verucchiese dei " nobiles viri " (" q[uos] verba praedicti Pontificis ex ac terra Verucli originem traxisse dicunt "). Tale origine riconoscevano dunque e dichiaravano, al tempo di D., gli stessi interessati: ripetendola dal padre loro, e da una tradizione che faceva risalire altri Malatesta " de Veruculo " al sec. XII e datava al 1197 un atto di sottomissione di quel castello al comune di Rimini, sottoscritto da un Giovanni di Malatesta a nome proprio e del non ancora quattordicenne nipote Malatesta, detto poi " della Penna " (non si sa se per nascita o per altro, ma certo già coinvolto nelle sorti di Verucchio).
Si accordano in questa attribuzione, tra i chiosatori antichi, l'autore delle Chiose anonime contemporaneo di D., il Bambaglioli che scrive pochi anni dopo la morte del poeta, l'Ottimo, il Lana, Pietro, Guido da Pisa; più tardi il forlivese Flavio Biondo (" Veruculum prima Malatestarum patria "). E inclinano oggi a confermarla, pur al riparo di qualche " forse " o " probabilmente ", studiosi come P. Zama, J. Larner, A. Vasina, accogliendo insieme la tesi - avvalorata dal nomignolo " della Penna ", dalla cronaca trecentesca di M. Battagli (Marcha), da un'esplicita affermazione di Benvenuto, e condivisa da due autori di Cronache malatestiane (Anonimo riminese e B. Branchi), dal Landino e da altri - che gli ascendenti più remoti (pressoché inafferrabili) dei Malatesta sian da cercare sulle aspre pendici della Carpegna e del Montefeltro.
In sede dantesca, il riferimento a Pennabilli merita un cenno per la questione esegetica che se ne sviluppò, agl'inizi del secolo, e, in seguito, a opera del Chimenz: se cioè l'immagine canina del v. 46 non sia da ricondurre alla presenza in Pennabilli di nobili imparentati coi Malatesta, che poterono suggerirla non soltanto col loro nome di Mastini, ma con lo stemma dal fondo a scacchiera, identico all'antico malatestiano integrato più tardi con l'impresa del cane, da quelli rimasti a Pennabilli, e di una o tre teste dai Malatesta discesi a Verucchio. La proposta (del Besi e del Sambi) apparve nel 1901 e fu subito stroncata dal Torraca come insostenibile sia quanto allo stemma sia nel suo insieme; il critico ammise, nel commento al poema, che la metafora dei mastini poté esser suggerita dai nomi stessi (Malatestino = Mastino?). Il Chimenz accetta, invece, l'impresa canina dei Mastini (presunto ramo pennabilliese dei Malatesta) come un dato storico " inesattamente " applicato da D. al ramo verucchiese, sembrandogli " poco probabile " che il poeta inserisse in un contesto " composto soltanto di elementi storici obiettivi... un simbolo araldico allusivo completamente di sua invenzione ". Ma, a prescindere dal rapporto tra i due presunti parentadi, e dal tempo malcerto in cui l'impresa anzidetta comparve sul blasone dei nobili pennabilliesi, le vie dell'arte, e dell'arte dantesca in ispecie, sono infinite: può anche bastarci la supposizione che codesta figura animalesca, nell'hapax della rima in -ucchio (Verucchio, succhio...), s'imponesse fulminea al poeta come metafora appropriata al concetto di tirannide che i due Malatesta esprimevano, ai suoi occhi, con tutto il peso dei loro crimini familiari e politici. V. anche MALATESTA, Malatestino; Malatesta da Verucchio.
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