Verso la riforma delle pene per la diffamazione
Il tema della proporzione del trattamento sanzionatorio per fatti di diffamazione è rimasto per lungo tempo in ombra, occupando la scena piuttosto la questione del bilanciamento tra onore e libertà di manifestazione del pensiero con la conseguente emersione dei diritti di cronaca e critica, vettori classici di legittimazione di affermazioni lesive dell’altrui reputazione. Le recenti vicende giudiziarie e gli interventi della Corte europea dei diritti dell’uomo e delle istituzioni politiche del Consiglio d’Europa hanno posto al centro del dibattito pubblico e dell’attenzione del legislatore la questione della sostenibilità nell’attuale contesto normativo della pena della reclusione per ipotesi di diffamazione. Il presente contributo mira a ripercorrere le ragioni di fondo a favore di un ripensamento dell’intervento penale in materia, dedicando altresì alcune riflessioni ai recenti progetti di riforma.
La tutela penale dell’onore ha tradizionalmente rappresentato un capitolo controverso della parte speciale del diritto penale, stretta tra le accuse di inafferrabilità del bene giuridico in questione1 e gli spazi progressivamente reclamati dalla libertà di manifestazione del pensiero2.
Il primo versante ha finito con l’investire la stessa legittimazione di un intervento penale in materia, mentre il tema dei rapporti di interferenza tra onore e libertà di manifestazione del pensiero ha rappresentato il terreno su cui si è sviluppato il processo giurisprudenziale di enucleazione dei diritti di cronaca e critica con l’individuazione dei relativi canoni regolatori, oggi sedimentatisi nella verità, pertinenza e continenza3.
Il tema che oggi è al centro del dibattito pubblico e parlamentare non tocca però la questione della opportunità di perseverare nella via penalistica – muovendosi tutti i progetti di riforma nel solco di una protezione anche penale – né ha di mira la eventuale codificazione dei limiti di cronaca e critica o comunque di una più puntuale definizione dei confini almeno dell’ambito del penalmente rilevante; il nodo problematico non concerne dunque l’an della punibilità, ma piuttosto il quantum, il quomodo e la tipologia di sanzioni applicabili a fronte di fatti di diffamazione.
A trovarsi sul banco degli imputati è, in particolare, la previsione della sanzione della reclusione in relazione ad ipotesi di diffamazione a mezzo stampa. Ancor più nel dettaglio a essere contestata è soprattutto la disposizione di cui all’art. 13 della legge 8.2.1948, n. 47 che prevede per la diffamazione a mezzo stampa con attribuzione di un fatto determinato la reclusione da uno a sei anni unitamente alla multa.
Si tratta dunque di norma che, almeno sulla carta, assicura un trattamento di rigore nei confronti di certe modalità di offesa alla reputazione e che ha tuttavia manifestato tutta la sua problematicità nei non frequenti casi in cui ha portato all’inflizione di una pena che, per le particolari circostanze, presentava concrete possibilità di essere eseguita. In due noti, recenti episodi giudiziari la condanna di un giornalista alla reclusione, senza concessione o comunque in assenza della possibilità di usufruire della sospensione condizionale della pena, ha determinato il ridestarsi dell’attenzione del legislatore, nella prospettiva di una rivisitazione del quadro sanzionatorio all’insegna, quantomeno nelle iniziali intenzioni, dell’abbandono della pena della reclusione. In ragione tuttavia della difficoltà di pervenire ad una sintesi in Parlamento delle diverse sensibilità, l’esito è stato quello della concessione della grazia da parte del Presidente della Repubblica4.
Il problema delle pene previste per fatti di diffamazione – nella specie la reclusione – è per un verso il portato della stessa evoluzione della giurisprudenza in tema di cronaca e soprattutto di critica.
L’evoluzione che in particolar modo ha contraddistinto gli indirizzi applicativi in materia negli ultimi anni – nel senso di un più intenso dialogo tra giudice interno e Corte europea dei diritti dell’uomo – ha comportato l’importazione nel nostro ordinamento di alcuni di quelli che sono i capisaldi della giurisprudenza europea in punto di limiti alla libertà di espressione ex art. 10 della Convenzione.
L’idea della stampa come “cane da guardia” della democrazia, il suo ruolo di controllore dei pubblici poteri; la ricorrente affermazione secondo cui nell’esercizio della critica è ammesso il ricorso a toni esagerati, provocatori, anche scioccanti; la necessità di operare una distinzione tra fatti e giudizi di valore, sottoposti questi ultimi ad un metro di verifica più elastico, sono tutti criteri che in definitiva depongono nel senso di un forte sospetto della Corte nei confronti di normative interne che possano eccessivamente comprimere gli spazi di espressione su questioni di interesse della collettività. Da questo punto di vista, la preoccupazione della Corte europea dei diritti dell’uomo, nonché delle stesse istituzioni politiche del Consiglio d’Europa, è che la inflizione e la stessa previsione di sanzioni reclusive nei confronti dei giornalisti – e in genere, come vedremo subito, di sanzioni troppo incisive – possa avere un effetto di dissuasione dallo svolgimento del loro ruolo vitale di watchdogs. Il chilling effect che è più volte evocato nelle sentenze della Corte EDU in relazione a denunciate violazioni ad opera di giornalisti dell’art. 10 CEDU è, per l’appunto, la formula solitamente adoperata per scolpire i rischi che una sanzione troppo invasiva può portare con sé in termini di ingerenza pubblica sulla libertà di espressione.
Per altro verso, il profilo qui in esame si lega alla più generale questione della proporzione della risposta sanzionatoria e dei margini di sindacabilità di siffatte scelte, tipicamente espressione di discrezionalità politica, da parte della Corte costituzionale5.
Il tema della proporzione non è naturalmente nuovo nell’elaborazione teorica italiana, trovando nella manualistica larga eco il richiamo al principio di proporzione/proporzionalità sia nell’ottica della delimitazione dell’intervento penale – come specificazione del più generale principio di sussidiarietà –, sia come guida per il legislatore nella definizione del grado di anticipazione della tutela – ricorso alla tecnica del pericolo, incriminazione di atti preparatori –, sia infine quale principio ispiratore nella individuazione appunto della cornice edittale – su questo versante in stretta congiunzione con le funzioni della pena6.
Una articolata veste teorica al principio è stata, in particolare, confezionata da Angioni nella sua indagine sul bene giuridico, ove il principio di proporzione segue per l’appunto i diversi momenti della penalità, riguardando dunque l’an della punibilità ma anche la species e il quantum della pena7.
Il criterio della proporzione serve dunque non solo per legittimare la pena nei confronti di determinate condotte, ma anche quale criterio per valutare la congruità, la sostenibilità di certe specifiche risposte sanzionatorie (e dunque della comminatoria edittale) nei confronti di condotte rispetto alle quali non è in discussione la legittimità della scelta incriminatrice compiuta dal legislatore. La “proporzione della pena” – richiamata espressamente dall’art. 49, co. 3, della Carta di Nizza8 – diviene qui criterio per valutare la legittimità delle scelte sanzionatorie compiute dal legislatore. In questa chiave è stato di fatto utilizzato come corollario del più generale giudizio di uguaglianza-ragionevolezza dalla Corte costituzionale, eventualmente integrato dal richiamo alla funzione rieducativa della pena9.
In questo scenario, la giurisprudenza della Corte EDU sviluppatasi sull’art. 10 CEDU apporta nuova linfa agli spazi di sindacato in punto di proporzione della pena in quanto la Corte europea deduce direttamente tale principio – in materia di diffamazione – dalla logica di tutela della libertà di espressione su cui l’incriminazione qui in esame incide in chiave delimitativa.
Vediamo di dare uno sguardo più ravvicinato alla giurisprudenza in questione, prendendo le mosse dalla recente presa di posizione della Cassazione sul caso Sallusti.
2.1 I precedenti della Corte EDU esaminati dalla Cassazione nel caso Sallusti
La recente decisione della Cassazione sul caso Sallusti (Cass. pen., sez. V, 26.9.2012, n. 41249) offre lo spunto per un primo approccio all’esame della giurisprudenza convenzionale su diffamazione e proporzione della risposta sanzionatoria.
La ragione è anzitutto legata alle peculiarità della vicenda nella quale, secondo la ricostruzione operata dai giudici di merito e avallata in sede di legittimità, non si poneva un problema di esercizio dei diritti di cronaca e critica, avendo accertato i giudici che il fatto attribuito nel caso di specie a un magistrato era falso e che i giornalisti erano consapevoli del carattere diffamatorio dell’addebito. Né vi erano spazi per invocare la sussistenza della scriminante nella sua veste putativa.
Il tema di fondo nel dibattito pubblico e parlamentare seguito alla pronuncia della Cassazione è subito divenuto quello della legittimità della pena della reclusione, al metro della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, per fatti di diffamazione, attesa la condanna di Sallusti alla pena di quattordici mesi di reclusione senza concessione della sospensione condizionale, in considerazione essenzialmente dei suoi precedenti penali.
La Corte di Cassazione affronta in realtà incidenter tantum la questione in quanto, non essendo stata sollevata innanzi ai giudici di merito, è ritenuta coperta da giudicato.
Il supplementare sforzo argomentativo dei giudici di legittimità testimonia tuttavia la delicatezza della questione e l’esigenza di prendere in qualche modo posizione sul punto, a supporto della loro decisione di confermare la condanna del giornalista nella misura determinata nella fase di merito.
Questi i passaggi in estrema sintesi attraverso cui la Cassazione risolve la questione:
- la Corte europea valuta la legittimità dell’ingerenza dello Stato nell’esercizio del diritto alla libertà di manifestazione del pensiero anche sulla base della natura e della gravità delle pene inflitte, di modo da evitare che i singoli Stati possano adottare misure in grado di dissuadere la stampa dallo svolgere il suo ruolo di “cane da guardia” (e qui si cita la decisione Cumpănă e Mazăre c. Romania);
- l’ingerenza punitiva dello Stato nei confronti del giornalista «deve essere attentamente calibrata e strettamente proporzionata ai fini legittimi perseguiti» (si menziona la sentenza Riolo c. Italia);
- la Corte europea ha, sottolinea la nostra Cassazione, riconosciuto la legittimità di un trattamento sanzionatorio detentivo, condizionato alle “ipotesi eccezionali”, intese come condotte lesive di altri diritti fondamentali (è questo il punto più problematico e nel quale infatti ci si imbatte nella citazione di una serie di pronunce della Corte europea: Fatullayev c. Azerbaigian; Katrami c. Grecia; Egeland and Hanseid c. Norvegia);
- il caso Sallusti riveste i caratteri di “ipotesi eccezionale” di cui ai precedenti sopra citati – e qui la Corte si ricollega alla in precedenza sottolineata particolare carica lesiva della condotta diffamatoria, tale da incidere non solo sulla reputazione delle vittime ma anche sulla sfera della loro vita privata nonché in grado di coinvolgere interessi in definitiva di taglio pubblicistico essendo stato attribuito ad un magistrato un fatto falso inerente l’esercizio delle sue funzioni.
Come si vede il punto più delicato risiede nella parte in cui la Cassazione trae dalla giurisprudenza della Corte europea l’indicazione circa la legittimità del ricorso alla detenzione in casi di diffamazione, sempre che per le loro caratteristiche si presentino come “ipotesi eccezionali”.
Che la conclusione cui perviene la Cassazione non sia così scontata emerge già dal fatto – efficacemente sottolineato in sede di primo commento alla decisione sul caso Sallusti10 – che i precedenti richiamati della Corte europea dei diritti dell’uomo si riferiscono a casi in cui è stata ravvisata una violazione del parametro convenzionale e nella sola ipotesi in cui è stata esclusa siffatta violazione il giornalista era stato condannato dai giudici interni unicamente alla pena pecuniaria.
Più in particolare, la prima decisione menzionata dalla Cassazione – Cumpănă c. Romania, che rappresenta sicuramente un leading case – è relativa alla condanna di giornalista e direttore della testata a sette mesi di reclusione e ad un anno di interdizione dall’esercizio della professione giornalistica, giudicata dalla Grande Camera, con sentenza del 17.12.2004, contraria all’art. 10 CEDU.
Anzi, dal nostro angolo visuale, è di particolare interesse come, in prima istanza, la sezione semplice avesse escluso la violazione facendo leva essenzialmente sulla circostanza che i due giornalisti avevano beneficiato di una serie di sospensioni dell’esecuzione della pena e, infine, era intervenuta la concessione della grazia da parte del Presidente della Repubblica.
La Grande Camera ribalta tuttavia la decisione, sottolineando la particolare gravità e incisività delle sanzioni irrogate, e svalutando la questione della mancata esecuzione delle pene. Qui la Corte pone in risalto sia l’effetto che l’inflizione della pena è già in grado di produrre in termini di dissuasione dallo svolgimento dell’attività giornalistica, sia il fatto che i giornalisti hanno vissuto sotto la spada di Damocle della possibile esecuzione della pena per oltre un anno, sia infine la natura discrezionale della grazia.
Anche negli altri due precedenti richiamati – Fatullayev c. Azerbaigian e Katrami c. Grecia decisi rispettivamente con sentenza del 22.4.2010 e del 6.12.2007 – in cui a venire in considerazione è la condanna di giornalisti alla pena della reclusione, l’esito è nel senso della violazione dell’art. 10 della Convenzione.
Il primo caso è estremamente articolato e si riferisce a diversi episodi, alcuni dei quali relativi ad ipotesi di reato differenti dalla diffamazione. Ma con riferimento specifico alla parte della decisione di nostro più stretto interesse – riguardante la condanna del giornalista per diffamazione alla reclusione a due anni e sei mesi in relazione ad articoli concernenti un particolare episodio della storia azera – la Corte europea è ferma nel rimarcare i riflessi che sanzioni detentive possono avere sul giornalismo investigativo e in genere sulla partecipazione della stampa a dibattiti di interesse pubblico, sottolineando altresì come nel caso di specie il giornalista fosse stato anche condannato in sede civile.
Allo stesso modo in Katrami – ove alla fine la giornalista era stata condannata a un anno di reclusione con sospensione della pena in relazione ad un articolo contenente un epiteto offensivo nei confronti di un magistrato nonché l’accusa di aver violato il suo giuramento rispetto a comportamenti da costui tenuti nell’esercizio delle sue funzioni – la Corte europea perviene a una decisione di violazione dell’art. 10, mettendo in risalto la sproporzione del trattamento sanzionatorio riservato alla giornalista. Non mancano invero qui richiami anche al fatto che le affermazioni della giornalista andassero qualificate come giudizi di valore e dunque sottoposte a un metro più elastico, ma vi sono altresì chiari riferimenti all’effetto deterrente della sanzione penale sulla libertà di stampa e alla possibilità che la tutela fosse assicurata attraverso strumenti civilistici – nel caso di specie si dà notizia nella sentenza dell’avvio di una azione civile da parte del magistrato nei confronti della giornalista.
Nel solco dell’accertamento della violazione dell’art. 10 della Convenzione si pone anche il precedente Riolo c. Italia, deciso con sentenza del 17.7.2008, in cui si è alle prese con la condanna in sede civile del giornalista ad un importo elevato (settanta milioni di lire, oltre a dieci milioni di lire a titolo di riparazione e al pagamento delle spese processuali) per un articolo con toni di forte critica nei confronti dell’allora Presidente della Provincia di Palermo. Anche qui la Corte dà l’impressione di “salvare” il giornalista già sul piano della sussistenza della scriminante del diritto di critica – ritenendo che le espressioni pur provocatorie non sconfinassero in un attacco gratuito alla persona –, ma fa ugualmente sentire la propria voce sul terreno delle sanzioni, evidenziando come l’ammontare della condanna fosse tale, anche in considerazione della situazione economica di Riolo, dal poterlo dissuadere dal continuare in futuro a informare il pubblico su questioni di interesse generale.
Rimane pertanto il precedente Egeland and Hanseid c. Norvegia, deciso con sentenza del 16.4.2009, in cui in effetti la decisione è di non violazione dell’art. 10; ma si tratta di un precedente con tratti peculiari. Anzitutto a essere accentuato dalla Corte è qui, tra gli altri, il profilo della tutela della privacy atteso che si attribuisce particolare rilievo alla situazione dell’imputata, fotografata mentre si copriva il volto in uno stato di forte emozione, essendo stata da poco condannata per un triplice omicidio alla pena più severa contemplata dal sistema norvegese (ventuno anni di reclusione). A venire in rilievo è pertanto la violazione di norme interne che disciplinano la pubblicazione di foto e riprese nell’ambito di un procedimento penale. Si è poi in presenza della condanna del giornalista alla sola pena pecuniaria ritenuta dalla Corte non particolarmente gravosa.
Come si vede, l’atteggiamento della Corte europea di fronte a sanzioni incisive nei confronti dei giornalisti è nel senso del generale riconoscimento della violazione dell’art. 10. E qui l’indirizzo della Corte è “pragmatico”: così, nel caso Riolo tiene conto dell’ammontare in sé elevato della sanzione, ma conferisce poi rilievo agli effetti che in concreto può dispiegare tenuto conto delle condizioni economiche del giornalista. Scrutinio che diventa particolarmente stretto in presenza di sanzioni penali, e in particolar modo detentive. Qui la Corte finisce con l’appuntare la sua attenzione sulla portata generalpreventiva che la stessa previsione di sanzioni di tale tipo può avere sulla libertà di stampa e dunque coerentemente non assegna particolare importanza alle eventuali vicende che interessino la pena – emblematici i casi Cumpănă e Katrami, nei quali era intervenuta rispettivamente la grazia presidenziale e la sospensione condizionale della pena.
È vero, come sottolineato dalla Cassazione, che nelle decisioni della Corte in cui veniva in rilievo l’applicazione ad opera del giudice interno della reclusione si fa riferimento al fatto che la sanzione detentiva possa essere ammessa in ipotesi eccezionali. È però altrettanto vero che tale affermazione riveste in definitiva un ruolo del tutto marginale nel tessuto argomentativo delle sentenze, impegnandosi piuttosto la Corte europea nel rimarcare la funzione della stampa di controllo dei pubblici poteri, il suo essere appunto “cane da guardia”, l’assolvere un compito fondamentale nelle società democratiche. Ma, soprattutto, pare rilevante l’esemplificazione che la Corte compie dei casi eccezionali in cui sarebbe ammesso il ricorso alla detenzione, i quali sono immancabilmente identificati nei discorsi d’odio e nell’incitamento alla violenza. Sembra dunque trattarsi di ipotesi in cui a venire in esame non è la sola tutela della reputazione ma anche interessi di taglio pubblicistico, interferenti con esigenze di protezione dell’ordine pubblico, tali per cui a rilevare non è la fattispecie di diffamazione, ma figure che trovano la loro disciplina in altri settori dell’ordinamento.
2.2 Un rapido sguardo d’insieme alla giurisprudenza della Corte EDU sull’art. 10
L’analisi della cospicua giurisprudenza della Corte europea sull’art. 10 CEDU, con particolare riguardo al trattamento sanzionatorio riservato a fatti di diffamazione, conferma le linee di fondo sopra illustrate.
L’economia di questo lavoro non consente naturalmente un esame ad ampio spettro; tuttavia può essere utile richiamare almeno alcune decisioni.
Non mancano naturalmente casi in cui la Corte europea perviene a una decisione di non violazione dell’art. 10 pure in presenza di sanzioni penali applicate nei confronti di giornalisti.
Così ad esempio in Lindon c. Francia, deciso dalla Grande Camera con sentenza del 22.10.2007, che rappresenta sicuramente un leading case, e si riferisce a uno scrittore che era stato condannato in sede penale per diffamazione a seguito della pubblicazione di un romanzo in cui, prendendo spunto da un fatto vero, narrava la vicenda dell’uccisione di un giovane nordafricano da parte di un militante del Fronte nazionale, facendo emergere nel corso del racconto i temi del dibattito politico francese del tempo, la questione circa possibili responsabilità di Le Pen e della sua retorica in eventi del genere.
Così pure in Radio France c. Francia, deciso con sentenza del 30.3.2004, in cui i giornalisti erano stati parimenti condannati per diffamazione a seguito della trasmissione su France Info di un’informazione ripresa in modo non corretto da un settimanale francese, relativa a possibili responsabilità, durante la Repubblica di Vichy, di un personaggio pubblico francese nel trasporto e nella deportazione in Germania di persone di origine ebraica.
Allo stesso modo in Perna c. Italia, deciso dalla Grande Camera con sentenza del 6.5.2003, in cui il giornalista era anch’egli stato condannato per diffamazione in relazione ad un articolo apparso su un quotidiano nel quale si accusava, tra l’altro, il magistrato Caselli, allora Procuratore Capo della Repubblica di Palermo, di fare un uso politico delle inchieste a lui affidate.
In tutte queste ipotesi è tuttavia interessante rilevare come ai fini delle decisioni di esclusione della violazione ad opera della Corte europea rivesta sempre un peso il fatto che si è in presenza di casi contraddistinti da una certa gravità – in Lindon si sottolinea come i toni adoperati oltrepassassero quanto consentito da una critica pur aspra ad un uomo politico, potendo fomentare odio o violenza; in Radio France si mette in risalto la gravità dell’addebito e la diffusione del mezzo di informazione; in Perna rileva anche il fatto che si sia in presenza di un addebito mosso ad un magistrato e dunque la particolare tutela che in questi casi si riserva ai titolari di delicate funzioni –, ma altresì che la pena applicata sia una pena pecuniaria di non particolare spessore. In questa prospettiva risulta interessante la recente decisione nel caso Ziembinsky c. Polonia, deciso con sentenza del 24.7.2012, in cui nonostante la sicura gravità dell’episodio – un giornalista aveva con malizia attribuito ad un uomo politico un fatto falso – la Corte non manca di esercitare un attento scrutinio sulla proporzione della sanzione, escludendo sì la violazione dell’art. 10, ma insistendo sul dato che la pena pecuniaria applicata era la più mite tra quelle previste dalla disposizione incriminatrice interna.
Scrutinio sul versante sanzionatorio che, come abbiamo visto, diviene particolarmente stretto là dove siano applicate pene detentive. Abbiamo già sopra richiamato alcuni importanti precedenti – in particolare Cumpănă, i cui passaggi di fondo sono solitamente richiamati nelle pronunce in materia – e illustrato il percorso argomentativo che ha condotto la Corte europea ad accertare l’esistenza di una violazione dell’art. 10 in punto proprio di proporzione della sanzione. In questo contesto pare allora sufficiente menzionare qui la recentissima sentenza del 24.9.2013 sul caso Belpietro, sia perché tocca da vicino il nostro ordinamento, sia per taluni snodi che è immaginabile alimenteranno ulteriormente il dibattito sulla permanenza della reclusione in questo ambito di disciplina.
A fronte difatti della condanna di Belpietro in qualità di direttore ex art. 57 c.p. a quattro mesi di reclusione con pena sospesa, la Corte europea condivide in sostanza la valutazione del giudice interno in termini di illiceità del fatto, appuntando la sua attenzione sulla pena irrogata. E qui appare significativo sia il richiamo ai paragrafi sopra menzionati di Cumpănă, ove si fa riferimento alle ipotesi eccezionali legittimanti la reclusione, sia il riferimento a Perna, compiuto al fine di sottolineare come la diversità risieda proprio nella tipologia di pena – in quell’occasione soltanto pecuniaria – applicata. Argomenti, quelli qui accennati, che la Corte utilizza per ravvisare una violazione dell’art. 10 proprio avuto riguardo alla proporzione del trattamento sanzionatorio.
L’analisi sin qui svolta mostra come la Corte europea non arrivi a invadere il margine di apprezzamento statale, negando legittimazione al ricorso alla sanzione penale, pur rimarcando la particolare efficacia stigmatizzante della pena.
Essa sembra invece sbarrare la strada al ricorso alla reclusione rispetto a fatti di diffamazione, secondo del resto un indirizzo che trova conferma nelle risoluzioni e raccomandazioni del Consiglio d’Europa11, a dire il vero orientate almeno in tempi recenti verso un più radicale cammino di depenalizzazione – anche qui con l’eccezione, tra le altre, di quelle ipotesi, discorso d’odio/incitamento alla violenza, che significativamente sono le stesse richiamate dalla giurisprudenza della Corte EDU.
Il superamento della reclusione pone naturalmente l’esigenza – ferma restando l’opzione penalistica fatta propria da tutti i recenti progetti di riforma esaminati in Parlamento – di individuare le tipologie sanzionatorie di riferimento.
Secondo un indirizzo già presente nel testo unificato del 2004, approvato da uno dei rami del Parlamento, la tendenza è chiaramente nel senso di prevedere la pena pecuniaria cui affiancare nelle ipotesi connotate da maggior gravità – lì identificate nei casi di recidiva – la pena accessoria dell’interdizione dall’esercizio della professione di giornalista.
È chiaro che l’obiettivo di un equilibrato apparato sanzionatorio pone di fronte a due questioni.
La prima è quella di definire in modo più preciso le condotte che, in quanto espressive di maggior disvalore, meritino, accanto alla pena pecuniaria, sanzioni più afflittive e in grado di colpire il singolo autore quali quelle interdittive12. In questa prospettiva un passo è stato compiuto dal recente testo unificato di recente approvato dalla Camera il 17.10.2013 e attualmente all’esame del Senato, che nel nuovo primo comma dell’art. 13 della l. n. 47/1948 contempla espressamente l’ipotesi di attribuzione a mezzo stampa o radiotelevisione di un fatto determinato falso con la consapevolezza della sua falsità. Si dovrebbe muovere da queste basi per prevedere una apposita figura di reato in grado di sanzionare l’attribuzione di fatti determinati falsi lesivi della altrui reputazione attuata a mezzo stampa o altro mezzo di pubblicità13. Sarebbe questa una figura rispetto alla quale, atteso il livello di gravità delle condotte e il loro porsi a distanza di sicurezza dalla libertà di manifestazione del pensiero, si potrebbe ben pensare alla previsione anche di sanzioni interdittive.
La seconda questione guarda in realtà al futuro ed è legata alla, oramai ineludibile, esigenza di riforma dell’attuale sistema sanzionatorio. In questa prospettiva, un futuro legislatore, per assicurare il giusto tasso di afflittività a comportamenti lesivi di un diritto fondamentale quale l’onore, dovrebbe ragionare sulla, da tempo del resto sollecitata, trasformazione della pena pecuniaria in un sistema per tassi e nella elevazione delle misure interdittive a sanzioni principali, al contempo riflettendo sul regime della sospensione condizionale della pena e sui suoi possibili riflessi sulla tenuta generalpreventiva del sistema sanzionatorio.
1 Manna, A., Beni della personalità e limiti dell’intervento penale, Padova, 1989, 219 ss. (e per le conclusioni v. 231 s.), 651 ss., 706 ss. Di diverso avviso Musco, E., Bene giuridico e tutela dell’onore, Milano, 1974, 154; Siracusano, P., Problemi e prospettive della tutela penale dell’onore, in AA.VV., Verso un nuovo codice penale, Milano, 1993, 340.
2 Sia consentito rinviare per i necessari riferimenti a Gullo, A., Delitti contro l’onore, in Reati contro il patrimonio e la persona, a cura di F. Viganò-C. Piergallini, Trattato teorico-pratico di diritto penale, diretto da F.C. Palazzo-C.E. Paliero, vol. VII, Torino, 2011, 160 ss.
3 Nella manualista v., per tutti, Fiandaca, G.-Musco, E., Diritto penale. Parte speciale, vol. II, Tomo primo, IV ed., 2013, 118 ss.
4 Il riferimento è ai casi Jannuzzi e Sallusti in relazione ai quali si è sviluppato anche un intenso dibattito riformatore in Parlamento – rispettivamente nella XIV e nella XVI legislatura – che non ha tuttavia condotto ad una riforma della disciplina in materia (v. i contributi contenuti nel volume Diritto di cronaca e tutela dell’onore. La riforma della disciplina sulla diffamazione a mezzo stampa, Atti del convegno tenuto presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Trento il 18.3.2005, a cura di A. Melchionda-G. Pascuzzi, Trento, 2005, e, per il testo esaminato nella scorsa legislatura, sia consentito rinviare a Gullo, A., Diffamazione e legittimazione dell’intervento penale. Contributo a una riforma dei delitti contro l’onore, Roma, 2013, 197 ss.).
5 V. già Papa, M., Considerazioni sul controllo di costituzionalità relativamente alla misura edittale delle pene in Italia e negli U.S.A., in Riv. it. dir. proc. pen., 1984, 726 ss.
6 Per una ricognizione della manualistica sul punto sia consentito il rinvio a Gullo, A., Diffamazione, cit., 48, nota 130.
7 Angioni, F., Contenuto e funzioni del concetto di bene giuridico, Milano, 1983, 161 ss.
8 Un espresso riferimento all’art. 49, co. 3, in Palazzo, F.C., Corso di diritto penale. Parte generale, IV ed., Torino, 2011, 35. Un richiamo alla relativa disposizione dell’allora Progetto di Costituzione europea in De Simone, G., Pena: caratteristiche e finalità, in Canestrari, S.-Cornacchia, L.-De Simone, G., Manuale di diritto penale. Parte generale, Bologna, 2007, 73. Sul punto v. altresì Manes, V., Il giudice nel labirinto, Roma, 2012, 144.
9 Per una recente, efficace ricostruzione v. Fiandaca, G., Scopi della pena tra comminazione edittale e commisurazione giudiziale, in Diritto penale e giurisprudenza costituzionale, a cura di G. Vassalli, Napoli, 2006, 142 ss. Un bilancio da ultimo in Dodaro, G., Uguaglianza e diritto penale. Uno studio sulla giurisprudenza costituzionale, Milano, 2012, 178 ss.
10 Viganò, F., Sulle motivazioni della Cassazione nel caso Sallusti, in www.penalecontemporaneo.it.
11 Per un’analisi v Gullo, A., Diffamazione, cit., 114 ss.
12 Manna, A., Problemi vecchi e nuovi in tema di diffamazione a mezzo stampa, in Arch. pen., 2012, 993.
13 Per una proposta sul punto v. Gullo, A., Diffamazione, cit., 200 ss.