Vecchie devozioni e nuove ricerche: i luoghi sacri
La modernità avanzata, osservata dal punto di vista del mutamento sociale e misurata sul piano diacronico, sembra sottolineare una perdita progressiva della visibilità dei territori. Compressione dello spazio, flessibilità produttiva, ma anche omologazione dei criteri di costruzione, standardizzazione delle forme e proliferazione dei ‘non luoghi’ rendono il singolo territorio, una volta inteso come spazio socialmente vissuto, una realtà sempre più priva di elementi di identificazione che consentano di coglierne di volta in volta la specificità e permettano così di accedere a un contesto culturalmente definito e normativamente orientato.
Tuttavia, per un geografo come Jean-Luc Piveteau (1995), ancora alla metà degli anni Novanta, non c’era dubbio che parlare di semplice ‘de-territorializzazione’ significava comunque cadere in uno schema troppo semplice: se da un lato si assiste al disfarsi effettivo dei territori connesso all’esplosione della comunicazione telematica, dall’altro restano ancora le persistenze connesse alla vita quotidiana. Del resto, come faceva osservare qualche anno prima Marc Augé, la costruzione di un territorio costituisce un elemento permanente della vita dei gruppi culturalmente definiti, come «l’organizzazione dello spazio e la costituzione di luoghi sono, all’interno di uno stesso gruppo sociale, uno dei problemi ed una delle modalità delle pratiche collettive e individuali» (Augé 1992, trad. it. p. 67). Infatti, per pensare l’identità e la relazione, i soggetti devono rendere simbolicamente visibili gli elementi costitutivi dell’identità condivisa. A tal fine la strutturazione dello spazio è uno dei mezzi ai quali si ricorre per realizzare una simile impresa: non se ne può quindi fare a meno. Tuttavia, se il processo di costruzione sociale del territorio risponde a una tale esigenza il suo statuto resta comunque ambiguo. «Questo non è che l’idea, parzialmente materializzata, che si fanno coloro che lo abitano dei loro rapporti con il territorio, i loro prossimi e gli altri» (p. 73). Di fatto, questo è composto da itinerari che conducono da un luogo all’altro, da incroci, da piazze dove gli uomini si incrociano, si incontrano e si riuniscono. Il territorio è definito anche da centri monumentali di tipo politico o religioso che, a loro volta «definiscono uno spazio e delle frontiere» (p.74). Ciò spiega, secondo Augé, perché il territorio sia seminato «di monumenti non direttamente funzionali, imponenti costruzioni di pietra o modesti altari di terra, di cui ogni individuo può avere il sentimento giustificato che per la maggior parte questi gli preesistono e gli sopravvivranno» (p. 78). Itinerari, intersezioni e centri monumentali descrivono i luoghi antropologici tradizionali e ogni città, per quanto modeste possano essere le sue dimensioni, si sforza di realizzarli.
A dispetto di una tale permanenza, questa serie di imperativi funzionali conosce un rilevante momento di revisione con l’accesso alla modernità tardiva. Questa, secondo Augé, produce sempre di più dei «non luoghi», cioè degli spazi che non integrano più il passato, non sono più identitari né relazionali: è il caso degli aeroporti e delle stazioni ferroviarie, ma anche degli alberghi e dei centri commerciali. Se i luoghi creavano un universo sociale i non luoghi non producono se non una «contrattualità solitaria» (p. 119). La crescente richiesta di flessibilità, sommandosi a quella di mobilità, incrementa gli spostamenti, gli spazi interstiziali tra un luogo e l’altro, le residenze a tempo determinato. Per di più, soggiacendo al principio dell’efficacia, costruisce luoghi funzionali alla soddisfazione delle singole esigenze strumentali. Gli acquisti, lo sport, il tempo libero, i giochi si realizzano sempre di più in luoghi specifici: funzionalmente strutturati in tal senso e, proprio per questo, privati di tutte le altre caratteristiche che li avrebbero restituiti alle consuete cornici relazionali e identitarie. Se luoghi e non luoghi coesistono gli uni accanto agli altri, sono questi ultimi ormai a occupare il proscenio: il primato della razionalità, premiando efficacia ed efficienza, può permettersi sempre meno la costruzione e la frequentazione dei luoghi in senso pieno. Quelli dove ci si incontra e ci si riconosce indipendentemente da ciò che si sta facendo, all’interno di un’identità immediatamente condivisa.
In una tale dinamica, i luoghi definiti e caratterizzati da una precisa e cosciente identità religiosa finiscono per occupare una posizione del tutto particolare. Nell’impostazione antropologica originaria le religioni sono state delle istituzioni capaci di produrre e legittimare strumenti concettuali che hanno consentito tanto di pensare il territorio, quanto di organizzarlo distinguendo tra luoghi sacri e luoghi profani. I miti e le ierofanie hanno finito per costituire quella «interrelazione specifica di elementi naturali e di pratiche sociali che è all’origine dei territori» (La construction religieuse du territoire, 1995, p. 369). Per di più, nella misura in cui le religioni sono state anche istituzioni di controllo sociale, queste hanno prodotto tecniche di ordinamento capaci di «gestire in un quadro territorialmente definito, la produzione e la riproduzione sociale delle persone e dei beni» (p. 371). Le religioni hanno pertanto svolto un preciso compito indipendentemente dai contenuti della singola dottrina, proprio perché hanno «pensato, organizzato e controllato» il territorio.
Tuttavia una tale funzione è per lo meno compromessa nel momento in cui il territorio stesso non richiede più di essere pensato, né organizzato, né controllato. La distinzione tra terra sacra e terra profana, così come l’intero codice di simboli religiosi attraverso i quali si rendevano esplicite tanto una funzione di protezione, quanto una di richiamo alle forze trascendenti, occupano una posizione decisamente secondaria. Se un intero modello di civiltà parrocchiale, unendo il campanile della chiesa al villaggio formava un’unica immagine, attualmente non solo tale unità è profondamente incrinata e sostanzialmente marginale, ma è davvero il villaggio a ridurre la propria funzione territoriale, a essere sempre meno caratterizzato da luoghi e a dipendere sempre di più dai non luoghi: stazioni ferroviarie, reti stradali e servizi, sono ormai decisivi per la sopravvivenza dei singoli comuni. Una doppia secolarizzazione, dove la perdita di plausibilità dell’universo religioso è rinforzata dalla scomparsa di quella stessa comunità ecclesiale stabilmente insediata che ne avrebbe assicurato la riproduzione, fa del villaggio e del borgo altrettanti universi in declino, non di meno di quanto lo sia il campanile che vi era stato edificato.
Ma se così è, allora l’attuale sviluppo di interesse intorno ai territori e la particolare attenzione portata ai luoghi religiosamente significativi pone, soprattutto in Italia, tanto il problema della sua reale estensione quantitativa, quanto quello delle sue caratteristiche qualitative. Se la capacità di devozioni verso figure specifiche dell’universo religioso ha sempre sviluppato una dimensione territoriale composta tanto dai luoghi di culto, quanto dai percorsi che conducevano a essi, la presenza di un tale interesse culturale, assieme all’insorgere di nuove mete (si pensi a san Pio da Pietrelcina, per citare un caso italiano, e a Medjugorie, per parlare di un caso europeo) fanno emergere, almeno per l’Italia, un insieme di domande non marginali.
Una prima serie di questioni concerne il significato e le funzioni dei poli di attrazione culturale su di un territorio che invece è definito sempre di più dai centri produttivi e da quelli burocratico-amministrativi. Lo stesso sviluppo di un indotto turistico-culturale, comunque concepito e organizzato, che si afferma intorno a siti definiti a partire da una cosciente ed esplicita caratterizzazione religiosa, se costituisce una risorsa inattesa per il reddito e l’occupazione di quanti vi operano, non manca anche di rovesciare le polarizzazioni spaziali preesistenti, nonché di alterare il principio alla luce del quale queste si definivano. Un’articolazione del territorio dove i luoghi religiosi, esercitando un ruolo di attrazione, danno vita a una nuova gerarchia dei comuni, parallela ed esterna a quella burocratico-amministrativa, arriva in qualche caso a ridefinire l’identità di un’intera regione. Il caso della città di Assisi e della sua capacità di rimodellare l’intera immagine della Regione Umbria è in questo senso emblematico. Ma lo stesso può essere detto, ancorché su piani diversi, per il caso di Padova in Veneto o per la piccola città di Loreto nelle Marche. Si tratta allora di interrogarsi sulle trasformazioni che ne conseguono sul piano degli assetti territoriali.
Una seconda serie di domande concerne l’analisi delle conseguenze sul piano comunicativo per gli stessi luoghi religiosi. Edificati e allestiti in passato per accogliere essenzialmente i gruppi dei pellegrini, più o meno organizzati, sono oggi investiti da un flusso turistico nel quale una tale tipologia di devoti occupa una posizione secondaria. Costituisce un ampio ambito di indagine la reazione dell’istituzione religiosa che presidia il singolo luogo di culto, abituata ad accogliere per secoli una presenza affine e interamente coerente alla natura del luogo e ai suoi obiettivi catechetici, nel momento in cui riceve una folla di persone le cui domande restano anonime e soprattutto nascoste dalla semplice curiosità.
Una terza serie di questioni concerne le forme associative e le iniziative culturali che prendono vita intorno al luogo di culto, riconoscendogli di fatto, ancorché spesso in forma implicita, il ruolo di vera e propria ‘locomotiva culturale’. Nei fatti il luogo religioso, con la sua stessa presenza, si rivela capace di trainare e rendere possibile non solo le attività commerciali, ma anche un insieme di pratiche associative e di iniziative culturali, altrimenti inconcepibili e irrealizzabili. In queste attività, per quanto l’elemento religioso resti comunque presente secondo tutta una scala di discrezionalità, si sviluppano interessi che ricadono sulla società secolare e rinforzano percorsi interamente laici. Si va in questo caso dall’attenzione ai beni culturali al rispetto per l’ambiente, dal recupero dell’equilibrio interiore al rispetto per la persona come criterio universale, per arrivare a temi internazionali come la pace e il dialogo. Si giunge così a una delle conseguenze fondamentali della dimensione religiosa sul piano sociologico: quella derivante dalla sua capacità di alimentare vita civile e dimensioni associative altrimenti inoperanti.
Tuttavia occorre riconoscere come, in modo parallelo a queste domande, ne emerga una decisiva: in che modo, in una fase di modernità avanzata, i luoghi religiosi replicano al processo di de-territorializzazione e di perdita dei luoghi antropologici? Divenuti oggetto di un’attenzione che non proviene più solo, né essenzialmente, dai pellegrini, di richieste più articolate che giungono dall’universo laico e dall’industria secolarizzata del turismo e del tempo libero, tali luoghi come riorganizzano la loro comunicazione? In che modo il territorio, in perdita di identità storica e di visibilità relazionale, recupera spazi e funzioni?
Rispondere a tali domande significa realizzare un esame circostanziato di queste dinamiche, partendo proprio dall’analisi delle ricadute sul territorio, conseguenti alla presenza di questa capacità di attrazione. Ma nel far ciò occorre anche recuperare tipi essenzialmente diversi di luoghi religiosi che, seppure uniti tra loro dal riferirsi alla stessa dottrina di salvezza e quindi alla medesima Chiesa cattolica, differiscono in maniera radicale per dinamica generativa. Sono quindi qui di seguito esaminati – e implicitamente messi a confronto – Assisi, un luogo religioso originato da un fatto storicamente accertato e ampiamente documentato, sede acclarata e riconosciuta di una forte e visibile tradizione spirituale; Vallepietra, un luogo religioso originato da una ierofania dalle origini inevitabilmente incerte e sovrascritta da altre leggende di fondazione, sede di una forte tradizione strettamente devozionale; infine, l’abbazia di Farfa, un luogo religioso animato da una volontà di presenza spirituale e culturale che, a partire da una presenza storicamente secolare, vuole rendersi parte attiva e aggregante di comunità e di vita culturale potenzialmente universalistica. L’assoluta irriducibilità di questi tre luoghi religiosi a un comune dominatore diverso da quello del riferirsi alla fede cristiana e alla Chiesa cattolica consente di osservare le differenze e, proprio attraverso questa strada, di comprendere le dinamiche specifiche che, nel presente di una società italiana in via di progressiva secolarizzazione, sanciscono l’interesse dei luoghi religiosi e, proprio attraverso questo, contribuiscono a chiarire le trasformazioni in corso.
Una tale ripartizione tipologica, almeno nella misura in cui ogni luogo religioso ha una dinamica propria, è ovviamente parziale (La sacra terra. Chiesa e territorio, 1995) e, tuttavia, pur con gli inevitabili limiti, costituisce uno strumento utile per tracciare le differenze e scoprire almeno una parte delle dinamiche che caratterizzano ciascun tipo.
Dopo decenni di relativa indifferenza i luoghi della tradizione religiosa stanno manifestando una visibilità inattesa nell’ambito dei flussi turistici. Il turismo religioso, sviluppatosi in Italia a partire dai primi anni Ottanta, rappresentava, dieci anni dopo, il 29,8% del turismo nazionale, attirando un terzo dei visitatori stranieri e dando vita così a un fatturato di due miliardi di euro. In tempi ancora più recenti, nel solo 2007, sono stati registrati per l’Italia, secondo i dati del World tourism organization, 40 milioni di pellegrini con 19 milioni di pernottamenti, che hanno generato un fatturato di 4,5 miliardi di dollari (3,3 miliardi di euro): una crescita di oltre il 20% rispetto all’anno precedente (Boiocchi 2009). Il turismo culturale in generale, di cui è parte l’attività turistica che si interessa alla dimensione religiosa, si qualifica innanzitutto per essere un recupero di luoghi, che ne attesta la visibilità e ne decreta l’importanza. Il territorio, cioè lo spazio geografico socialmente abitato, cessa di essere un semplice incrocio di percorsi viari, di siti anonimi e omologati tra loro e al suo posto emerge una mappa di centri che si segnalano per la loro identità specifica. Questi centri diventano oggetto di interesse non strumentale e sono significativi sia per coloro che vi abitano sia per quanti li frequentano o li visitano.
L’opposizione con i ‘non luoghi’ (Augé 1992) è evidente. L’atto del ‘visitare’ comporta il riconoscere le specificità di luoghi antropologici ‘altri’ rispetto a quelli presenti nell’universo ordinario della vita quotidiana: è questo il senso profondo di ogni viaggio. Il turismo culturale si nutre di luoghi in senso proprio, ne va costantemente alla ricerca e ne fa la meta dei viaggi organizzati. A un universo globale, seminato di strutture abitative e commerciali sempre più simili tra loro, il turismo culturale contrappone la ricerca degli spazi significativi sul piano storico, identitario e relazionale.
Una tale ricerca dei luoghi è tanto più attraente quanto più i soggetti percepiscono il dominio progressivo dei ‘non luoghi’ nella loro vita ordinaria. Infatti questi ultimi non si limitano solo agli aeroporti e alle stazioni ferroviarie, ai centri commerciali e di servizio, ma investono spesso anche le aree residenziali: l’anonimato urbano è innanzitutto quello dei luoghi di residenza, segnati dal ricambio continuo dei residenti, sempre più sollecitati alla mobilità da un luogo all’altro. Ciò ostacola anche il costituirsi di qualsiasi sedimentazione sul piano storico: per effetto del ricambio continuo dei residenti nei nuclei abitativi, sono gli stessi centri commerciali e di servizio che possono rapidamente degradarsi ed essere sostituiti da nuovi poli. Infine la stessa dimensione relazionale, in ragione della temporaneità delle residenze e del crescente individualismo, non si sviluppa mai fino a generare rapporti di interconoscenza.
Nella ricerca di luoghi con un’identità storico-culturale e ambientale propria, occupano una posizione particolare quelli che traggono la loro significatività da un legame esplicito e condiviso con la dimensione religiosa. A differenza dei luoghi secolari, volti a raccogliere e consolidare la propria specificità locale segnalando una cultura e manifestando un insieme di pratiche specifiche, i luoghi religiosi presentano, in alcuni casi, tratti che non sono riconducibili al luogo antropologico in quanto tale.
Nel caso in cui la caratterizzazione religiosa fa riferimento a una dottrina di salvezza universale, come avviene nel cattolicesimo, questi luoghi non hanno né vogliono più avere alcunché di locale, ma si pongono anzitutto come potenzialmente universalisti. La loro ambizione è quella di essere visibili e fruibili da quote sempre crescenti di visitatori. Un tale obiettivo dota questi luoghi di una leggibilità e di una comprensibilità che va al di là della cultura locale. Da qui, per es., non solo l’adozione, a lungo mantenuta, di un linguaggio universale (il latino), ma anche l’addensarsi di simboli e forme che, ben più di una semplice volontà estetica, traducono invece l’obiettivo di educare e ammonire, ricordare e rinnovare un’identità e un’appartenenza religiosa. In tal senso i luoghi religiosi, al contrario degli altri antropologici, non sono solo identitari, storici e relazionali in una prospettiva coscientemente universalista, ma vogliono essere anche pedagogici e normativi: indicano cioè a tutti un percorso per l’esistenza e ne raccomandano la frequentazione (Abbruzzese 2010).
Una tale intenzione porta i luoghi religiosi ad allestire un vero e proprio scenario estetico di volta in volta specifico. Al contrario dei luoghi secolari, quelli religiosi elaborano coscientemente un’immagine sintetica e universale di loro stessi: vogliono essere letti, compresi, si propongono di essere ricordati e di restare fissi nella memoria. Sotto quest’aspetto i luoghi religiosi sono stati il prototipo di luogo culturale connesso a una dimensione simbolico-valoriale degna di essere ricordata, al punto tale da entrare nella vita quotidiana del singolo attraverso oggetti che, nell’arredamento della propria casa, segnaleranno il viaggio compiuto e ne ricorderanno il significato. I luoghi religiosi, che sono cioè iscritti in una relazione personale, esplicita e condivisa con una dimensione trascendente, non solo fanno parte di una mappa territoriale del sacro, ma sono immessi, alla pari delle altre raffigurazioni religiose, all’interno di una rappresentazione devota del mondo. Per tale strada Lourdes, Medjugorie, Loreto, Assisi entrano a far parte dell’universo religioso anche sul piano estetico. Le immagini dei rispettivi monumenti religiosi trovano spazio accanto alle riproduzioni religiose presenti nei dipinti di Antonello da Messina, Murillo e Caravaggio. Esse concorrono ad alimentare un universo rappresentazionale che costituisce uno spazio simbolico capace di tradurre credenze e riti in immagini iconografiche e in luoghi concreti, vissuti come altrettante sedi del divino.
Ciò porta inevitabilmente a chiedersi in che modo e in quale misura il turismo culturale contemporaneo che visita luoghi religiosamente significativi possa essere cosciente di una tale dimensione. In che modo una visita, inevitabilmente rapida, a un santuario o a un’abbazia, inserita in un pacchetto turistico volto al riposo e alla distensione, possa cogliere le dimensioni cognitiva, pedagogica e normativa che vi sono sottese. Come insegna la tradizione durkheimiana, non si transita con facilità dal profano al sacro, dal secolare allo spirituale, dallo sguardo a un’opera architettonica o figurativa, alla dimensione spirituale che intenzionalmente vi è stata iscritta: il passaggio può non avvenire e l’esito secolarizzante diviene inevitabile. Al desiderio di avere sempre più visitatori e a quello delle agenzie turistiche di inviarne il più possibile, i responsabili dei luoghi religiosi affiancano pertanto la volontà di sbarrare il passo a ogni curiosità superficiale, a ogni passaggio che ignori la specificità di ciò che si sta guardando e lo archivi nella rubrica dell’originale e del tipico; una classificazione che, proprio perché ignora la specificità dell’oggetto, né ha di fatto negato la dimensione religiosa, né riesce più a coglierla. I luoghi religiosi finiscono così con lo sviluppare un controllo istituzionale continuo verso letture superficiali e riduttive che un’utenza di massa rischia di comportare. L’imposizione riguarda gli orari e i luoghi di passaggio, ma anche le forme di comportamento e le modalità di abbigliamento.
Non è un caso che, a molti responsabili di luoghi religiosamente significativi, lo stesso termine di ‘turismo religioso’, sembri alimentare una colpevole confusione. In presenza di masse non riducibili alle due categorie storicamente deputate a presentarsi alle porte di un santuario, di un’abbazia o di un monastero – quella dei devoti del luogo e quella dei pellegrini provenienti da tutti gli ‘altrove’ possibili – si assiste spesso alla sostituzione del termine turista con quello di visitatore. La sostituzione non è affatto casuale. All’atteggiamento di curiosità generica del quale si ritiene dotato il turista, si preferisce la scelta di chi, visitando consapevolmente il luogo, si sottopone alle regole di un’escursione in un mondo che ha norme proprie e lo riconosce nella sua specificità.
Accanto al reperimento di luoghi, il turismo culturale – e all’interno di quest’ultimo quello religioso – è teso anche alla ricerca di eredità architettoniche, iconografiche, espressive o materiali, colte e visitate nei siti in cui si sono prodotte e, in qualche caso, si producono ancora. Sotto questo aspetto un’analisi dei luoghi si ricollega anche, e inevitabilmente, ai processi culturali che li riconoscono come tali. In questo senso, le mappe del turismo religioso, oltre a segnalare luoghi, manifestano anche interessi e sensibilità rivelatrici di una gerarchia della realtà che traduce, esprimendola, una determinata cultura (P.L. Berger, T. Luckmann, The social construction of reality, 1966; trad. it. La realtà come costruzione sociale, 1969).
Anche in questo caso, una tale ricerca è direttamente proporzionale alla scomparsa di questa dimensione nella cultura della società contemporanea circostante. Nella misura in cui la modernità, nelle varianti che si sono presentate nel corso del 19° sec., è riassumibile nell’esaltazione del nuovo come senso normativo della storia, essa non può affermarsi senza fare del passato la raccolta di eventi che conducono e legittimano il presente. Di fatto l’unica memoria possibile nello spirito della modernità come processo culturale è una memoria d’archivio. Il passato non contiene il significato del presente, ma ne custodisce solo le premesse storiche, la cronologia degli eventi e delle scelte compiute. Le eredità del passato possono essere confinate negli archivi accessibili agli esperti della ricerca storica, una volta che il mondo moderno si riassume completamente nel presente.
In realtà, al di là dell’ideologia della modernità, le eredità culturali rivestono un peso e un’importanza che vanno al di là della loro testimonianza di epoche trascorse. Se si ammette la presenza di tensioni e problemi ricorrenti, le novità del presente riguardano più la complessità dei problemi e la molteplicità delle risorse disponibili per affrontarli che non la loro sostanza. In una tale prospettiva il passato cessa di ridursi a semplice archivio degli eventi per recuperare un ruolo rilevante per la comprensione del presente. Le eredità culturali non hanno un semplice ruolo di testimonianza, in quanto la comparazione diacronica non è meno densa di risultati di quanto non possa esserlo il confronto sincronico, quello realizzato tra popolazioni e culture separate tra loro dallo spazio e non dal tempo. La conoscenza storica, intesa come consapevolezza dei processi di civilizzazione succedutisi e dei contenuti che li hanno di volta in volta caratterizzati, è un obbligo inevitabile, una competenza necessaria.
Interesse per i luoghi e interesse per le eredità culturali che questi presentano diventano così due componenti della stessa dinamica, due segnali, entrambi messi fuori uso nella vita ordinaria che, come si è affermato, difetta sia di luoghi sia di eredità. Anche in questo caso la variabile religiosa incide in un modo che è, al contempo, rilevante e specifico. Se i luoghi religiosamente significativi mostrano una volontà pedagogica e normativa, le eredità culturali che presentano rivendicano una pretesa cognitiva. I luoghi religiosi attestano infatti la presenza di eventi non riducibili a pratiche culturali, ma presentati e narrati come evidenze fattuali che il soggetto è provocato a riconoscere. Un tale statuto normativo dell’eredità culturale fa del luogo religioso un elemento dirompente, lo costituisce non solo come espressione storica e identitaria, ma anche e soprattutto come proposta che provoca e interroga. In questo caso esso si pone in rotta di collisione con la riduzione operata dalla modernità, che invece lo vede come semplice testimonianza di una sensibilità e di un’epoca circoscritta e definitivamente trascorsa. Là dove lo sguardo secolarizzato vede solo la testimonianza di un’eredità culturale, il luogo religioso rivendica invece l’esistenza di un avvenimento sempre presente e di norme sempre valide.
L’eredità religiosa si pone pertanto come una realtà ingombrante: asserisce la verità fattuale di un evento che ritiene irriducibile a una singola cultura e tanto meno confinabile a una specifica epoca. Si pone quindi il problema del modo in cui lo sguardo secolarizzato del ‘turista culturale’ che fa visita a un luogo religioso – diventando così un ‘visitatore’ – mette verosimilmente in conto una tale pretesa. Si annuncia così un conflitto latente tra la sostanziale indifferenza e l’omologazione culturale del ‘turista culturale‘, le esigenze degli operatori turistici e degli addetti alla commercializzazione, da un lato, e la dimensione veritativa e normativa che il luogo religioso rivendica, dall’altro. Se per i primi una tale dimensione è secondaria e ingombrante, per l’identità del luogo religioso è invece essenziale.
La capacità del turismo culturale legato ai luoghi identificati e consapevolmente riconosciuti per le loro caratteristiche religiose, differenzia notevolmente la società italiana attuale da quella non lontana degli anni della ricostruzione e della crescita. Posta a confronto con la ‘corsa verso il nuovo’ e con l’entusiasmo per il futuro, che si affermavano negli anni Sessanta, la ricerca attuale di luoghi dotati di significati propri e la crescente attenzione alle ‘eredità culturali’, che emerge a partire dagli anni Ottanta, diventano il segnale di discontinuità e di nuovi valori di riferimento (R. Inglehart, The silent revolution, 1977; trad. it. 1983). Analizzati sul piano dei processi culturali i non lontani anni Sessanta del secolo scorso si sono caratterizzati in primo luogo per la loro decisa e convinta volontà di modernizzazione, intesa come ricerca delle migliori tecniche e delle più concrete opportunità di sviluppo economico e sociale del Paese. Il boom economico degli anni Sessanta, lungo tale percorso, si presentava come il segnale di un futuro denso di opportunità che si potevano e si dovevano cogliere. Si affermava così una diffusa e condivisa volontà di futuro, considerato come un orizzonte prossimo denso di benefici.
Questa volontà finiva per separarsi dai valori e dalle rappresentazioni del mondo e della vita provenienti dalla cultura contadina e artigiana alle quali, per secoli, il luogo religioso si era collegato. Si affermava contemporaneamente una nuova collocazione della memoria storica. Tra le diverse eredità culturali sarebbero state scelte e opportunamente valorizzate solo quelle che si presentavano come radici del presente, producendo una trasformazione a due livelli. Sul piano dei processi sociali e culturali empiricamente osservabili si sarebbe assistito a un vero e proprio abbandono fisico dell’universo territoriale dove i luoghi religiosi erano stati edificati: gli anni del boom coincidono infatti con quelli dell’emigrazione dalla campagna alla città, ma anche con la separazione da un universo territoriale denso di riferimenti simbolici e religiosi, per rivolgersi verso uno spazio urbano convertito all’ordine gerarchico dell’efficienza strumentale più che a quello della presentazione dei significati e dei valori. Una tale trasformazione, ampiamente documentata dalle scienze sociali e non solo (innumerevoli i debiti che quelle hanno contratto verso la letteratura, la poesia e la fotografia), avrebbe comportato un cambiamento sostanziale nell’insieme di rappresentazioni del mondo e della vita che avevano strutturato fino a quel momento l’esistenza. La dicotomia città/campagna sarebbe stata affiancata e riassunta in quella progresso/tradizione, mentre quest’ultima, a sua volta sarà tradotta nell’opposizione tra la libertà e l’autonomia, da un lato, e la dipendenza, dall’altro.
Nasce dunque e si afferma un lento ma incessante processo di allontanamento dagli universi normativi che il mondo tradizionale esprimeva. In questo senso la secolarizzazione, intesa come la progressiva perdita di consistenza operativa delle credenze religiose e il conseguente allontanamento dalle pratiche, registrata da Sabino Acquaviva (L’eclissi del sacro nella civiltà industriale, 1961), è una parte – quella maggiormente visibile ed esplicita – di una più generale volontà di separarsi da un universo normativo di regole e di vincoli, comunque intesi (G. Lipovetsky, Le crépuscule du devoir, 1992). Per quanto tale processo si sia prodotto lentamente e soprattutto si sia reso visibile solo attraverso il ricambio generazionale, si esce, tanto culturalmente quanto fisicamente, da un’intera concezione del mondo e dell’esistenza abbandonando case e stili di vita. La città segna il declino dei luoghi intesi in senso antropologico e ne decreta la concreta subordinazione alle esigenze abitative e produttive.
I luoghi che, a diverso titolo, localizzano una devozione e sedimentano una tradizione sono doppiamente messi in ombra. Installati in campagne oramai solo parzialmente abitate, questi sommano alla loro perifericità geografica anche un’evidente marginalità culturale: di fatto restano tagliati fuori non solo dalle reti viarie, ma anche da un universo di significati secolari rispetto ai quali non sono convertibili. Quello stesso universo normativo che i luoghi religiosi si proponevano di ripresentare a chi vi accedesse si rivela inevitabilmente datato: esso non è più compatibile con la cultura dominante negli anni della crescita e della modernizzazione. Portatori di una tradizione espressiva interamente strutturata attorno all’introspezione interiore e alla percezione dei limiti della natura umana, i luoghi religiosi vengono rapidamente esautorati nelle loro funzioni dal momento che alla consapevolezza dei limiti dell’uomo si sostituisce quella delle sue potenzialità, alla ricerca dell’equilibrio si sovrappone quella delle opportunità, alla volontà di adattamento si antepone quella di mutamento e sui primati del risparmio e del lavoro si sovrascrivono quelli del consumo e del tempo libero.
La società del boom economico e del welfare state si congeda rapidamente dall’universo religioso inteso come luogo della consapevolezza del limite. A partire da questo momento i luoghi sacri si consolidano nella loro alterità e nella loro progressiva esoticità rispetto a un universo della modernità avanzata che non ha più bisogno di loro. Dagli anni Sessanta in poi sarà quindi proprio il loro carattere discontinuo, la rottura di ogni legame con l’universo sociale e culturale dominante a prevalere. Se nella società rurale e cittadina della prima modernità chiesa e borgo, parrocchia e città davano vita a uno scenario omogeneo, nella società urbana del boom economico, realtà metropolitana, da un lato, e luoghi religiosi, dall’altro, si situano su orizzonti completamente diversi: il passaggio dall’uno all’altro implica oramai un vero e proprio salto da una «provincia finita di significato» (A. Schütz, On multiple realities, 1945; trad. it. in Scritti sociologici, 1979) a un’altra, da un universo culturale a un altro, dove ciascuno ha i suoi codici e i suoi linguaggi, la sua specifica tensione della coscienza e la percezione particolare del proprio sé.
Riassumere brevemente un tale processo consente di cogliere l’importanza del mutamento in corso. Infatti il quadro che emerge oggi dal turismo culturale e dall’interesse dello stesso per i luoghi religiosi, almeno per certi aspetti, delinea uno scenario diametralmente opposto. Molte caratteristiche separano la modernità degli ultimi vent’anni da quella del periodo del boom economico: il futuro si rivela denso di incognite e, proprio per questo, perde la sua capacità di affascinare e convincere. Il movimento dalla campagna alla città si è notevolmente ridimensionato, mentre la crescita della popolazione urbana è da tempo guardata con preoccupazione e non più con ottimismo. Da tempo la cultura acquisitiva propria degli anni del boom economico è soggetta a critiche e il recupero dei principi naturali e degli equilibri della persona portano a interrogarsi sui limiti dello sviluppo e sulla sostenibilità delle innovazioni in corso. Per quanto un simile processo non sembri affatto avere le dimensioni per trasformare la natura e la forma dei processi produttivi è comunque evidente la sua capacità di introdurre elementi di mutamento non marginali (Valori a confronto: Italia ed Europa, a cura di R. Gubert, G. Pollini, 2006; G. Rovati, Uscire dalla crisi. I valori degli italiani alla prova, 2011).
Proprio in un tale contesto di parziale trasformazione della modernità avanzata va contestualizzata la rinnovata attenzione ai luoghi sacri. I diversi gruppi che si muovono in direzione dei ‘luoghi dello spirito’ non sono solo costituiti da credenti, ma anche da amanti dell’arte e dei beni culturali, da estimatori dei luoghi della tradizione, da entusiasti della natura e cultori della meditazione interiore, per arrivare poi ai nuclei dei semplici turisti in cerca di distensione e di evasione dall’universo ordinario. Per di più, nessuna di queste categorie appena menzionate è mai riscontrabile allo ‘stato puro’, ma ciascuna intercetta e detiene elementi propri delle altre. I credenti, spesso, sono pertanto anche amanti di storia dell’arte, i turisti sono anche estimatori di beni culturali, gli studiosi non sono affatto indifferenti al fascino dell’attraversare spazi e luoghi solcati nei secoli da un’Europa di credenti e, infine, quanti sono sensibili alla riflessione interiore, non disdegnano affatto di essere ‘compagni di strada’ di credenti e di pellegrini (Zapponi 2011).
Il recupero attuale dei luoghi e dei territori fa emergere una mappa che si sovrappone a quella delle località turistiche e dei centri di attività economica e politica. Si afferma così una discontinuità evidente rispetto al passato e l’interesse per i luoghi religiosamente significativi rientra nel più ampio passaggio epocale dai valori materialisti a quelli postmaterialisti. In questo nuovo contesto culturale l’esaltazione del nuovo, proprio della modernità degli anni Sessanta, è sostituita dal principio di responsabilità e da quello di precauzione. Dove lo sviluppo, per essere accettato, deve oramai dimostrare di essere sostenibile. Valori come l’ambiente, la persona, l’equilibrio psichico e fisico si manifestano come riferimenti inequivocabili e non negoziabili, rispetto ai quali qualsiasi nuovo sviluppo economico è subordinato.
Resta da chiedersi, tuttavia, fino a che punto la cultura postmaterialista, propria della modernità avanzata, possa conciliarsi con la vera e propria rottura culturale operata dai luoghi religiosamente significativi nei confronti dell’ethos moderno. Dotati di una forte dimensione normativa, questi si collocano in netta opposizione rispetto all’universo culturale circostante. A differenza degli altri beni culturali, i beni religiosi non solo conferiscono al luogo una dimensione normativa (vogliono cioè affermare principi e valori da seguire), ma soprattutto si insediano su una verità che attestano come fattuale, rivendicano la storicità non aggirabile di un evento storico. Occorre allora chiedersi in quale modo una tale dimensione di rottura rispetto alle coordinate culturali della società postmoderna, arrivi concretamente a realizzarsi. Se il luogo religioso non è riconducibile, né in molti casi accetta di essere ridotto, a uno dei tanti luoghi artistici e culturali, resta da chiedersi in che maniera questo riesca a ottenere una presenza di visitatori che, al contrario dei pellegrini – un tempo unico gruppo ammissibile – mettono tra parentesi proprio ciò che questi ultimi considerano come essenziale.
Il problema della pluralità e dell’eterogeneità dei visitatori ai luoghi religiosi pone una serie di questioni. Il fatto che i gruppi che convergono in un luogo segnato e caratterizzato dalla devozione religiosa non siano riconducibili a una matrice unica, è in realtà indicatore di una trasformazione fondamentale che fa sì che l’attuale interesse per i luoghi religiosi sia assolutamente irriducibile a quello passato. Non è in atto alcun ‘ritorno del sacro’, almeno nelle forme in cui è stato conosciuto. Le trasformazioni prevalgono sulle persistenze e il nuovo non è la riedizione del vecchio.
Nel passato e fino alla vigilia del processo di secolarizzazione il luogo della tradizione religiosa si manifestava come interamente strutturato intorno al tema dominante dell’edificazione interiore, in vista di una salvezza della quale deteneva metodo e principi normativi. Le regole di accesso e di visita al luogo religioso, spesso legate a veri e propri percorsi devozionali formulati e controllati dall’istituzione ecclesiale, facevano della dimensione penitenziale l’unica intenzione ammissibile, l’unica ragione accettabile.
Proprio una tale centralità della dimensione penitenziale sembra attualmente essere in una posizione secondaria, quando non addirittura sostanzialmente scomparsa. Dietro le folle di curiosi, turisti e amanti dei beni culturali, le figure dei penitenti occupano una posizione discreta. Per quanto attenti alla specificità del luogo, i visitatori tendono a orientarsi sul codice espressivo della ‘curiosità rispettosa’ e non su quello della contrizione interiore. L’attenzione alla guida che informa prende il posto di quella verso il sacerdote che ammoniva ed esortava. La visita del turista culturale è sostanzialmente indipendente dalla celebrazione liturgica. Pellegrini, visitatori, escursionisti e studiosi dei beni culturali non solo portano con sé i loro specifici sistemi di osservazione e di valutazione, ma coincidono tutti nel sottolineare il carattere secondario di quella stessa dimensione penitenziale che, a lungo, ha strutturato le visite e animato i pellegrinaggi.
Si pone allora il problema di reperire il nuovo codice condiviso che consenta la giustapposizione, l’incrociarsi nello stesso luogo e la condivisione dei medesimi spazi da universi di visitatori diversi ed eterogeni. Una volta che la dimensione penitenziale appare semplicemente improponibile, si tratta di comprendere se esistano o meno motivazioni altre, capaci non solo di regolare e consentire questa stessa polisemia di interessi, altrimenti destinata a confliggere, ma anche di presentare e rendere plausibile il piano normativo e cognitivo che il luogo religioso rivendica.
L’istituzione religiosa – presente spesso nella persona dei rappresentanti dell’ordine o della congregazione che hanno in custodia il luogo – pur dettando gli orari delle visite, definendo le aree di accesso e suggerendo le forme di presenza e di fruizione, si trova dinanzi a diversi modelli di comportamento, riconducibili schematicamente a due. Il primo, di tipo propriamente religioso, riunisce intorno a sé pellegrini, credenti o anche non credenti, comunque attenti ad accettare e ad accogliere la dimensione religiosa che viene loro presentata. Il secondo, di tipo propriamente laico, contempla la dimensione religiosa come componente interna a uno scenario rappresentazionale più generale, dove si insediano anche altri elementi culturali quali quelli artistici, architettonici e sociali. La gerarchia di importanza presentata e rivendicata dalla dimensione religiosa esplicita è sostanzialmente messa tra parentesi. Il rispetto per il luogo non implica in nessun modo la sottoscrizione dei fatti e dei valori che questo vuole presentare e che invita a sottoscrivere.
Il luogo religioso si ritrova così a configurarsi come uno spazio polivalente, capace di convogliare esigenze diverse e non sempre agevolmente riconducibili l’una all’altra. Diventa necessario allora chiedersi fino a che punto gli sia possibile riuscire a sviluppare una capacità di mediare e ricomporre il conflitto implicito, che spesso appare con evidenza nel caso dei beni monumentali situati nel contesto urbano e che di frequente comporta una variazione di statuto del bene stesso: da rappresentazione religiosa a opera d’arte, nella quale l’oggetto è secondario rispetto alle tecniche.
Nei casi in cui i luoghi religiosi sono situati nel contesto urbano sono ipotizzabili diverse mediazioni. La possibilità di ripartire le funzioni proprie del luogo antropologico su più spazi consente la divisione tra le funzioni (identitaria, storica e relazionale) che definiscono il luogo in senso antropologico. Ma una tale possibilità consente anche la divisione più generale tra il luogo antropologico e le specificità normative e cognitive del luogo religioso. In questo caso il luogo di culto diviene responsabile della funzione identitaria, mentre sono la piazza e la città nel loro insieme a collaborare nell’assicurare quella storica e quella relazionale. La tensione tra le tre dimensioni è riposizionata a un livello più elevato, meno evidente ma anche meno ricomponibile. Diverso è il tipo di tensione che si sviluppa nel caso di luoghi religiosi posti fuori dal contesto urbano e abitati da una comunità religiosa. Abbazie e monasteri devono sviluppare, accanto alla dimensione storica, una tensione identitaria, così come devono anche animare una dinamica relazionale per conto proprio, al fine di poter esercitare quella visibilità territoriale che concede loro di essere un luogo in senso pieno. Ancora differente è la dinamica propria dei santuari isolati, completamente separati dal centro abitato e privi della struttura abitativa e residenziale delle abbazie. Qui l’attrattiva è certamente di tipo identitario, ma se la dimensione storica è assicurata dai religiosi che ne hanno la custodia, quella identitaria è sviluppata per intero dalle confraternite e dalle associazioni che organizzano e animano i pellegrinaggi.
Nel corso delle pagine seguenti verranno esaminati tre luoghi significativi dal punto di vista religioso, ma anche notevolmente diversi tra loro per tipologia, collocazione geografica e gruppi di visitatori. Si tratta del santuario di San Francesco ad Assisi, di quello della Santissima Trinità a Vallepietra e dell’abbazia benedettina di Farfa. Queste tre località possono qui degnamente rappresentare proprio una prima pluralità dei luoghi di culto, ciascuna configurandosi come un vero e proprio tipo ideale.
Il santuario dedicato a san Francesco ad Assisi ha una visibilità universale, che non è solo di ordine geografico. L’elevazione del santo a patrono d’Italia riflette un’affinità elettiva tra tale figura religiosa e i diversi modelli morali e culturali di riferimento che quest’ultima è stata di volta in volta chiamata a rappresentare. Non c’è infatti alcun dubbio sull’importanza, in qualche modo strategica, esercitata dalla figura del santo di Assisi nelle diverse rappresentazioni ideali della cultura nazionale che si sono alternate lungo il secolo scorso.
La figura del santo di Assisi si afferma – come segnala Jacques Le Goff (1999) – in un momento di grave crisi della Chiesa e, proprio per questo, la sua spiritualità prenderà la via dell’annuncio e della predicazione, in alternativa alla vocazione contemplativa presente nella tradizione monastica benedettina e cistercense. Al posto di un distacco dal mondo degli uomini si afferma un’interpretazione spiritualmente significativa di questo. Il ponte con l’umana esistenza e con le cose, porta a rileggere queste ultime come espressione viva della bontà divina. Santo, quindi, nel mondo, ma anche cantore del creato, Francesco d’Assisi diviene il modello di una religiosità che interpreta e accoglie, fino ad arrivare a fare dell’accoglienza ‘nella pace del Cristo risorto’ la propria chiave di volta espressiva e relazionale.
Oggetto di una canonizzazione oltremodo rapida a soli due anni di distanza dalla morte (1226), san Francesco fa di Assisi il centro di una devozione che si sarebbe rinforzata nei secoli. Tuttavia è con gli studi dello storico protestante Paul Sabatier (1858-1828), allievo di Ernest Renan, che la figura storica di Francesco viene posta al centro dell’interesse internazionale. La sua Vie de Saint François d’Assise, pubblicata a Parigi nel 1893 (trad. it. 1894) verrà tradotta in diverse lingue e supererà in notorietà l’opera di Heinrich Thode, Franz von Assisi und die Anfänge der Kunst der Renaissance in Italien (1885; trad. it. Francesco e le origini dell’arte del Rinascimento in Italia, 1993). Le ragioni del successo sono, in parte, abbastanza evidenti. La seconda metà del 19° sec. segna l’apogeo della prima modernità industriale e tecnologica sul piano strutturale, e del positivismo su quello culturale. Uno studio critico e accurato del passato, capace di obbedire ai canoni della moderna investigazione scientifica, si rivelava essenziale. Così, se all’università della Sorbonne un giovane Emile Durkheim (1858-1917) si era entusiasmato ai corsi di N.-D. Fustel de Coulanges sulla società romana (la sua Cité antique è del 1864), se John McLennan e Edward Burnett Tylor avevano registrato due successi editoriali occupandosi rispettivamente del matrimonio primitivo e dell’universo primitivo (Primitive marriage, 1865; Primitive culture, 1871), l’opera di Sabatier conduce l’indagine scientifica nel cuore del fondatore di un ordine religioso tra i più influenti della Chiesa cattolica, proseguendo in tal senso, l’intenzione che Renan stesso aveva già rivolto alla figura di Cristo con la sua Vie de Jésus (1863).
L’analisi di Sabatier, che vede nel santo di Assisi un precursore della critica luterana alla Chiesa di Roma sarà probabilmente alla base delle resistenze degli ambienti cattolici italiani, che si esprimeranno sia nel ritardo della traduzione italiana sia – come ricorda Franco Cardini (1989) – nell’indisponibilità di qualsiasi casa editrice italiana a sostenere le spese della pubblicazione. La polemica sulla figura e la vita autentica del santo di Assisi alimenterà una controversia permanente se, qualche anno dopo – nel 1907 – Johannes Joergensen si renderà autore di una biografia (Den hellige Frans af Assisi; trad. it. San Francesco d’Assisi, 1910) che delinea una personalità sostanzialmente diversa, e Sabatier riprenderà in mano in modo costante la sua opera nelle diverse edizioni, fino all’ultima, pubblicata postuma nel 1931.
Una tale attenzione – aspetto essenziale ai fini di qualsiasi analisi sulla centralità del santuario di Assisi – non si spiega se non con l’interesse che la figura di Francesco detiene nella costruzione della rappresentazione complessiva di un’intera tradizione nazionale. Nel 1926 il santo viene proclamato patrono d’Italia: una decisione che, come sottolinea Cardini, costituisce una tappa di quella ricucitura tra Stato e Chiesa che avrebbe condotto al Concordato del 1929. Francesco d’Assisi, testimone esemplare di eccezionali qualità umane e icona di un’umanità riconciliata con l’esistenza delle cose e degli esseri viventi in virtù del proprio legame con Cristo, diviene così il modello di riferimento per la religiosità del popolo italiano e il custode della sua identità spirituale.
A partire dal primo dopoguerra la figura del santo è rilanciata dall’amministrazione comunale di Assisi e, in particolare, a opera del sindaco Arnaldo Fortini, come immagine dell’identità cristiana dell’Italia. In seguito, l’immagine del santo di Assisi verrà recuperata all’interno dalla cultura ‘critica’ degli anni Sessanta, non senza echi nell’ambito del movimento ecologista e pacifista. Negli anni più recenti la città di Assisi e i luoghi francescani sono divenuti oggetto di un interesse crescente, drenando una moltitudine eterogena di visitatori. Nel corso del 2009 il piccolo comune di Assisi (con 27.506 abitanti) ha registrato il più alto numero di arrivi in ambito regionale, superando lo stesso capoluogo di Perugia: 409.900 arrivi a fronte di 331.103 del capoluogo (che di abitanti ne conta 165.313). Tutti gli altri centri storici della regione restano al di sotto dei 100.000 arrivi. Nel solo mese di agosto del 2013 il comprensorio di Assisi ha annotato oltre 61.000 arrivi e quasi 163.000 presenze (a fronte dei 38.992 arrivi e delle 125.423 presenze del comprensorio di Perugia). Un dato che, peraltro, migliora quello dell’anno precedente, nel quale il comune aveva registrato poco più di 56.000 arrivi e di 161.000 presenze, e consente ad Assisi di iscriversi in controtendenza rispetto al ristagno del comparto turistico regionale.
La figura di san Francesco ha finito con l’investire e consacrare la città stessa. A partire dalle visite di Giovanni Paolo II, il santuario inizia a costituire una meta privilegiata dei pellegrinaggi e delle visite dei devoti, ma anche degli estimatori di storia dell’arte e dei beni culturali. Ciò porta la città a sviluppare una consistente struttura turistica. Con 98 esercizi alberghieri e 362 esercizi extralberghieri (dati del dicembre 2010), Assisi rivela una capacità ricettiva superiore a quella della stessa Perugia, dove gli esercizi alberghieri sono 86 e quegli extralberghieri di poco superiori (385), solo in quanto hanno sviluppato notevolmente la formula del bed & breakfast (119 a Perugia rispetto ai 63 di Assisi). Ma soprattutto, cosciente di un’eredità così importante, l’amministrazione gestisce con attenzione un tale capitale architettonico, controllando il processo di espansione edilizia a valle e preservando la zona collinare, dove è situato il centro storico. Di fatto, intorno al poderoso e imponente complesso architettonico che ospita il corpo del santo l’amministrazione comunale ha mantenuto lo scenario medievale, lasciando pressoché intatta l’originaria pianta abitativa della città. Dalla seconda metà degli anni Settanta l’amministrazione comunale ha scelto di dare vita a una serie di attività artistiche nell’ambito musicale e teatrale, collegate all’insieme di rappresentazioni della realtà connesse con la figura di Francesco così come è tramandata dalla tradizione.
Se tutte e tre le dimensioni del luogo, identitaria, storica e relazionale, sono assicurate dall’insieme degli ordini e delle congregazioni religiose, in particolare quelle francescane, è abbastanza evidente come lo stesso carattere eterogeneo dei visitatori veda presenti anche le istituzioni amministrative comunali e le associazioni cittadine. Il richiamo che la piccola città di Assisi finisce con l’esercitare è infatti tale da richiamare almeno tre gruppi diversi di visitatori: i pellegrini e quanti fanno comunque riferimento alle diverse associazioni religiose, i visitatori delle città d’arte e dei beni culturali, i turisti mossi dalla curiosità verso la città e la figura di san Francesco. Per questi ultimi le agenzie turistiche hanno incluso la visita ad Assisi tra le opzioni possibili dei viaggi organizzati sulla costa adriatica.
La cittadina di Assisi, in quanto centro della devozione religiosa, è pertanto soggetta a una divaricazione pressoché totale dei tre ambiti che definiscono solitamente il luogo in senso antropologico, ciascuno dei quali rincorre una specificità tale da risultare difficilmente compatibile con gli altri.
Sul piano storico la figura del santo va inserita nella dimensione mistica sviluppatasi nell’Italia del 13° secolo: una vera e propria rifondazione della spiritualità in reazione sia agli esasperati livelli di conflittualità che affliggevano le municipalità, sia alle dispute e al degrado che tormentavano la Chiesa. La dimensione mistica del santo, ancora più visibile nel caso della sua discepola, santa Chiara, appare sostanzialmente in penombra nello scenario del luogo, dal quale invece emergono, valorizzati, gli scenari naturali e le valenze estetiche.
Sul piano identitario la figura del mistico di Assisi si confonde con quella della città stessa: il legame identitario avviene con l’intero scenario religioso colto nel suo insieme, più che con la figura del santo, di fatto poco conosciuta nella sua dimensione storica concreta. Così, accanto alle figure dei devoti che pregano nella Chiesa inferiore, dove giace il corpo, e nella Porziuncola, dove il santo è morto, si accalcano le folle di quanti ne hanno fatto propria l’icona. L’immagine diffusa di frate Francesco è riassunta, di volta in volta, nella dimensione della mansuetudine, in quella della sollecitudine per i poveri e i derelitti, e infine in quella dell’amante della natura, segno e opera vivente della bontà divina.
Il piano relazionale, gestito dall’apparato turistico alberghiero e animato in modo visibile dagli ordini e dalle congregazioni religiose, non può realizzare con il messaggio e l’icona francescana che una relazione analogica. Esso deve infatti intersecarsi con una struttura commerciale cittadina per la quale l’esperienza mistica di Francesco è scarsamente compatibile con l’universo del turismo di massa che include Assisi come une meta escursionistica tra le altre. Il merchandising legato alla spiritualità francescana, per potersi aprire a una clientela più vasta possibile, deve necessariamente estendersi ad altri prodotti, agli accessori più diversi e sostanzialmente futili. Si realizza così una divaricazione cognitivamente problematica tra la povertà estrema e volontaria del santo e la lieta piacevolezza dei mille gadget che circondano la personale vita quotidiana dei visitatori dei luoghi nei quali francesco ha intrapreso la propria esperienza spirituale. Una tale divaricazione può mantenersi e non conflagrare solo a condizione di stemperare la ruvida dirompenza del messaggio francescano nelle forme addolcite e mansuete della letizia quotidiana.
Il luogo della devozione religiosa deve pertanto proporsi costantemente con un’immagine che ricomponga i punti maggiormente contrastanti. Ne risulta, alla fine, anzitutto una poderosa ricostruzione delle scene e degli ambienti, dove lo scenario abitativo della città di Assisi del 13° sec. è ripresentato nelle forme ricomposte ed esteticamente affascinanti del borgo medievale rigorosamente preservato da ogni degrado. Ma ne scaturisce anche una figura del santo riedificata nell’icona riconciliante del benessere interiore ritrovato, nel mirabile equilibrio con una natura ricomposta e preservata da ogni asprezza e ruvidità. Con questa veste la città di Assisi può funzionare come città-contenitore di un’umanità varia, riconciliata con Dio, ma anche con la natura. Dove la ricerca tutta mondana e contemporanea dell’equilibrio tra corpo e anima può ritrovarsi assolutamente legittimata e benedetta dall’incontro con il sacro di riconciliazione e di quieta letizia.
Tanto la dimensione cognitiva quanto quella normativa del messaggio francescano scivolano così in secondo piano. La specificità spirituale del luogo religioso è affiancata da quella multifunzionale dello spazio antropologico, cioè storico-identitario e relazionale. In questa seconda prospettiva la grande attrattiva di Assisi sembra tenersi, per intero, all’interno di una ripresentazione del borgo e degli immediati dintorni, capace di custodirne il fascino. Emerge così l’attrattiva romantica per un Medioevo cortese, del quale restano celate le asprezze e le violenze. Assisi diviene meta di una ricapitolazione interiore, lontana dalla modernità urbana e dai ritmi metropolitani, ma anche assolutamente comprensibile e di fatto legittimata agli occhi del mondo contemporaneo, per una cultura che si propone di recuperare il diritto del singolo a un modello di vita più semplice. In questo scenario storico-naturale la stessa figura del santo è esaltata negli elementi immediatamente comprensibili per la cultura postmoderna (quali l’attenzione alle cose semplici, lo sguardo umanitario e l’amore per la natura) mentre è lasciata in ombra per quelli che sono invece più dirompenti e meno comprensibili per lo spirito del mondo moderno, assolutamente estraneo a qualsiasi ascesi penitenziale.
Proprio grazie a una simile compatibilità tra i principi attraverso i quali è stata operata la ricostruzione della figura di Francesco e dello scenario storico-naturale, da un lato, e i criteri costitutivi della sensibilità postmoderna, dall’altro, tale luogo si inserisce in questo modo tra le proposte del turismo religioso meno esigenti dal punto di vista normativo e, proprio per questo, maggiormente compatibili anche con le escursioni turistiche ordinarie.
La dinamica cognitiva e normativa del luogo religioso transita così più all’interno delle iniziative spirituali promosse dagli ordini e dalle congregazioni presenti, che non all’esterno di queste. Assisi rappresenta pertanto una vera e propria ‘terra di confine culturale’, dove si fronteggiano una devozione religiosa volta a custodire la memoria di un santo dall’eco dirompente e una curiosità secolare che lo riassume sul piano della sensibilità laica per la pace, la natura e il riequilibrio interiore, scorporandolo così dalla dimensione mistica che lo costituisce. Il confronto silenzioso che, di fatto, finisce con il prodursi tra i due diversi approcci alla figura del santo di Assisi, fa di questo luogo religioso l’epicentro della relazione tra la spiritualità radicale del messaggio francescano e una sensibilità secolare che lo riassume nel proprio percorso di ricerca, volto all’equilibrio interiore e a una qualità della vita più semplice e naturale.
Rispetto ad Assisi il santuario di Vallepietra, situato in provincia di Roma e al confine con l’Abruzzo, non presenta solo una differenza di scala, ma fa emergere anche una manifestazione e una dinamica radicalmente differenti. Oggetto di devozione da parte dell’universo contadino, il piccolo santuario di Vallepietra, dedicato alla Santissima Trinità, si configura come l’eccellente sintesi tra un evento religiosamente significativo tramandato dalla tradizione popolare (il ritrovamento di un dipinto della Trinità sul fondo di una scarpata, nella quale un contadino del luogo era precipitato con il suo carro e i suoi buoi, che, miracolosamente illesi e inginocchiati davanti al dipinto, lo avevano di fatto indicato alla sua attenzione) e un dogma fondamentale della Chiesa: quello della Santissima Trinità, spesso estraneo ai movimenti devozionali tradizionali, indirizzati per lo più alle figure dei santi patroni delle singole comunità e a quella della vergine Maria. Culto, dunque, espressione di devozione prettamente rurale che vede un contadino protagonista dell’evento narrato nella più nota delle leggende di fondazione, manifestazione del sacro a protezione e riassicurazione del territorio, di fatto consacrato dalla presenza di un dipinto con evidenti segni di ‘carisma’ – nel senso originario in cui Max Weber (1864-1920) usa il termine, come sinonimo di potenza magica o di mana. Ma anche culto fondato su una tradizione preesistente, in quanto il dipinto è probabilmente opera di monaci basiliani, installati nel luogo tra il 4° e il 5° secolo.
Al contrario di Assisi, qui non si è dinanzi alla presenza concreta e storicamente documentata di un protagonista, bensì di fronte a una leggenda di fondazione che, a sua volta, rivaluta un sito preesistente, ricollegabile alle esperienze monastiche immediatamente successive al Concilio di Nicea del 325. Recarsi in visita a Vallepietra vuol dire, quindi, confrontarsi con la logica del miracolo e della ierofania. Ciò non si produce senza una selezione dei visitatori: i turisti sono in questo caso, e per la quasi totalità, devoti che si aggiungono alle confraternite provenienti dai vari paesi della provincia.
Al contrario di Assisi qui la struttura della cittadina è completamente assente. Il santuario è situato in una zona aspra e abbastanza distante dal nucleo abitato. Recarsi al santuario di Vallepietra vuol dire quindi dotarsi, almeno intenzionalmente, di una completa autonomia da servizi residenziali e di ristorazione. Ciò spiega, anche se certamente solo in parte, il radicarsi storico dei pellegrinaggi di gruppo, là dove è la comunità dei pellegrini che si rende autonoma per ogni forma di necessità. La dimensione relazionale diventa allora, almeno in linea essenziale, quella che si sviluppa all’interno delle confraternite stesse dei pellegrini e dei gesti che queste compiono.
La dimensione storica è pertanto notevolmente ridotta, mentre quella identitaria è ricollegata alle tradizioni familiari e delle singole collettività locali. Recarsi al santuario di Vallepietra vuol dire iscriversi in una ‘discendenza di credenti’ nella quale sono presenti a pieno titolo tanto la famiglia di origine quanto la collettività di provenienza. La dimensione identitaria è quindi estremamente visibile e il pellegrinaggio si inserisce all’interno delle tradizioni devozionali locali,quali sono trasmesse e condivise da una generazione all’altra.
In questo caso tanto la dimensione cognitiva (conoscenza e accettazione del fatto presente nella leggenda di fondazione) quanto quella normativa (pentimento, revisione di vita e remissione dei peccati) sono del tutto esplicite. La dimensione liturgica costituisce espressamente l’unica esperienza comunitaria di fatto registrabile. La dimensione popolare che vi si manifesta, attraverso la narrazione della Passione di Cristo – nota come il ‘canto delle zitelle’ – realizzata dalle ragazze nubili del vicino paese di Vallepietra, testimonia l’interfaccia tra rito religioso e devozione popolare, facendo di quest’ultima la base partecipativa del primo. Il pasto all’aperto consumato nei prati circostanti riproduce la convivialità seguente al rito e ne costituisce l’adeguato prolungamento. Sotto quest’aspetto il luogo di Vallepietra si presenta come un sito strutturato e sostanziato dalla sola dimensione religiosa, colta nell’insieme di tradizione rituale e di esperienza devota.
Se l’amministrazione comunale è intervenuta per realizzare un parcheggio e i servizi necessari, essa è rimasta spazialmente e geograficamente separata dal sito religioso. Il luogo antropologico, storico, relazionale e identitario di Vallepietra viene pertanto investito per intero dalla funzione cognitiva e da quella normativa proprie della dimensione religiosa, senza doversi confrontare con una presenza turistica, di fatto scoraggiata dalle condizioni difficoltose del viaggio e dall’asprezza dei luoghi. Queste condizioni che, suggerendo la dimensione penitenziale, disincentivano la pura curiosità e alimentano la selezione dei visitatori, fanno del santuario di Vallepietra uno dei luoghi religiosi più protetti dalla curiosità turistica e dalle ricadute commerciali che ne conseguono.
Sono visibili allora, proprio a Vallepietra, alcune specificità del luogo religioso colto nel suo stato ideal-tipico, che è quello del luogo reputato sede di una manifestazione del sacro, di una ierofania. Lo spazio naturale che lo circonda, proprio per essere lontano dal centro abitato, non funziona solo come filtro, manifestandosi attraente solo per i devoti, ma si rivela anche funzionale a una completa riorganizzazione del proprio significato: è cioè disponibile a essere riletto e ripensato alla luce della dimensione religiosa che ne costituisce il vero centro di attrazione, e in relazione alla quale viene percorso.
L’asprezza del luogo e la sua distanza dal centro abitato hanno pertanto non solo suggerito gli insediamenti monastici dei primi secoli, ma hanno anche reso possibile l’esperienza dell’evento religioso come manifestazione del radicalmente altro. Il pellegrinaggio ha così conservato il percorso tradizionale: fatto a piedi, esso ha anche mantenuto la dimensione originaria dell’attesa notturna nei prati antistanti il santuario e dell’ingresso all’interno di questo solo alle luci dell’alba. La dimensione penitenziale, e quindi la riflessività interiore che vi si correla, sono pertanto favorite dagli elementi naturali e consentono di conservare, al massimo grado di intensità, l’esperienza della relazione spirituale con Dio, vissuta nella separazione ideale e concreta dal mondo, in un altrove separato dall’universo quotidiano tanto dalla distanza, quanto dal carattere inospitale dei luoghi, ma anche dalla notte e quindi dall’abolizione notturna del paesaggio circostante.
Al contrario di Assisi il santuario di Vallepietra si rivela indisponibile per qualsiasi soggiorno. Il luogo religioso non può essere anche un luogo residenziale, non può essere abitato se non nei giorni delle feste liturgiche e del pellegrinaggio annuale. Il passaggio non può che essere breve: l’escursione nel sacro, proprio perché si iscrive come una parentesi nel tempo ordinario, deve concludersi necessariamente con il ritorno ai centri abitati, così che evento trascendente e vita ordinaria restano rigidamente separati.
L’alterità del miracolo narrato nella leggenda di fondazione maggiormente diffusa si somma così all’alterità del luogo, dell’ora di arrivo, della comunità sui generis che si costituisce, del carattere temporaneo e quindi necessariamente extraquotidiano della visita, che è anche vissuta come atto esplicito di penitenza e di revisione di vita. In pratica la dimensione religiosa qui si manifesta come sede dell’alterità radicale e, proprio per questo, può far transitare senza problemi l’elemento penitenziale, incompatibile con la cultura quotidiana della società secolare. Così, se Assisi, costituisce un luogo di frontiera, e quindi di costante confronto tra due distinti universi di significato – uno spirituale e l’altro secolare –, Vallepietra si sviluppa come una realtà extraterritoriale, un universo di senso e di significato separato dall’universo secolare; un luogo che per essere raggiunto richiede una separazione da tutti gli elementi naturali e sociali che compongono la vita ordinaria: dalla luce del giorno, alla collettività naturale, dai legami familiari al centro abitato fornito di beni e servizi.
Situata nella provincia di Rieti, a 51 chilometri da Roma, l’abbazia di Farfa è uno dei luoghi storici di riferimento dell’universo monastico del 1° millennio dell’era cristiana. Edificata nel 7° sec. sulle fondamenta di una precedente comunità monastica, le cui tracce risalgono al 554, l’abbazia ha rappresentato uno dei più rilevanti centri monastici dell’epoca. Godendo della protezione imperiale concessa nel 774 da Carlomagno (742-814), l’abbazia era di fatto autonoma da qualsiasi potere civile o religioso e quindi esente da imposte. Carlomagno stesso vi sostò prima di arrivare a Roma nel dicembre dell’800.
Distrutta e poi ricostruita, l’abbazia prese parte alla riforma cluniacense del 10° sec. e, nella lotta per le investiture, si schierò a favore dell’impero contro il papato. Sotto Enrico V raggiunse, per estensione territoriale, l’intera Italia centrale e diventò la sede di una delle più importanti biblioteche d’Europa. Nel 1122, il concordato di Worms sancì il rientro dell’abbazia sotto la giurisdizione papale. Il governo di Farfa fu gradualmente esautorato fino a essere controllato da amministratori pontifici (1400). Data in commenda a famiglie della nobiltà romana, l’abbazia venne in parte ristrutturata dagli Orsini, che costruirono la chiesa consacrata nel 1496, e dai Barberini ai quali si deve l’edificazione del borgo che circonda l’abbazia. Saccheggiata dai francesi nel 1798 e confiscata dallo Stato italiano nel 1861, l’abbazia di Farfa venne restituita alla comunità benedettina di San Paolo fuori le mura nel 1922.
Sede oggi di una stabile comunità monastica, l’abbazia, che è meta di un flusso modesto ma ininterrotto di visitatori, svolge continue attività culturali e si propone come centro di studi e di convegni, anche in funzione della notevole biblioteca che, situata al proprio interno, ospita più di 45.000 volumi. Nel corso degli ultimi cinquant’anni l’abbazia di Farfa è stata sempre più apprezzata e frequentata dalle collettività dei paesi vicini. Sito storico riconosciuto dal 1928 come monumento nazionale, l’abbazia svolge attualmente funzioni di parrocchia. Luogo privilegiato per la celebrazione dei matrimoni, l’abbazia è consapevole del proprio fascino storico, ma anche del proprio ruolo formativo. In tal senso non solo ospita convegni e altre manifestazioni culturali, ma si propone anche come sede di ritiri spirituali.
L’importanza data all’accoglienza dei singoli, come delle famiglie e dei gruppi, per i soggiorni di spiritualità, l’intensa attività convegnistica, le innumerevoli manifestazioni attivate nel borgo, manifestano la volontà della comunità benedettina di edificare un vero e proprio luogo religioso nel quale convergano, accanto alle dimensioni relazionali, storiche e identitarie, anche quelle della formazione e dell’educazione. Tra le diverse iniziative che rivelano una tale dimensione quella maggiormente visibile – e inevitabilmente dirompente – è attualmente costituita da un corso per famiglie teso a presentare gli elementi fondamentali della spiritualità benedettina come criterio di orientamento della famiglia naturale.
La critica contro i ritmi e gli stili di vita della modernità è senza appello. Sotto accusa è la ‘famiglia mancata’, caratterizzata da percorsi individuali, dall’indifferenza dell’uno verso l’altro, dall’assenza di criteri condivisi sul piano degli stili di vita e quindi dei comportamenti. Gran parte di tale mancanza viene accreditata ai mezzi di comunicazione di massa, alla cui influenza la famiglia appare non solo esposta, ma completamente risucchiata. Da questo punto di vista, il documento diffuso sul sito ufficiale dell’abbazia di Farfa è, a più di un titolo, eloquente:
Di fronte ad un costume diffuso che, senza chiedere il permesso, prima ancora che incominci la convivenza, si insedia da padrone nell’abitazione, i singoli – siano marito, moglie o figli – si sentono impotenti. Televisione sempre accesa e disponibile ad ogni messaggio, uso selvaggio e spesso precocissimo e irresponsabile dei moderni mezzi elettronici (internet, playstation, giochi e giochetti elettronici, cellulari etc.) orari disattesi, mensa disertata, liberi rientri notturni dei giovani, libri, riviste, giornali e giornaletti di genere deteriore che girano senza riguardi per la casa, abbigliamento giovanile pronto a seguire senza ritegno qualsiasi moda, pseudo-musica che aleggia nella casa e si intrufola nei cervelli attraverso le cuffie, ornamenti e immagini di ogni gusto e genere – rarissimamente di arte bella classica o di religione – genitori e figli sempre assenti, con il centro dei loro interessi sempre fuori della casa… Che altro? È possibile in questo contesto non rimanere vittima del costume sociale imperante, della propaganda commerciale più cinica, dell’immoralità dilagante attraverso i potentissimi mezzi di comunicazione di massa? A cosa servono le belle prediche e le belle catechesi? (abbazia di Farfa, Comunità benedettina, Una vita di famiglia ispirata alla Regola di san Benedetto, http://www.abbazia difarfa.it/felicita-familiare.asp, 11 sett. 2014).
A un tale degrado dei comportamenti la comunità benedettina replica, in modo speculare, attraverso una revisione di questi ultimi. Il principio fondamentale è qui costituito dalle potenzialità della regola benedettina vista come modello per le relazioni all’interno della famiglia, gli orari, i lavori comuni, gli spazi di rispetto e di autonomia di ciascuno, come si legge nel suddetto documento: «san Benedetto e la tradizione monastica hanno voluto ordinare la vita quotidiana di una comunità, alla luce della saggezza umana e cristiana, perché il singolo che voglia vivere cristianamente non sia isolato».
In pratica, la dimensione normativa – proposta certamente in modo discreto, ma non di meno alimentata da un giudizio critico assai aspro nei confronti dei modelli normativi e comportamentali contemporanei – non è quella, in sé primaria, del messaggio evangelico e dell’annuncio di salvezza, bensì quella dei comportamenti e degli stili di vita quotidiana, senza i quali il primo rischia di non svilupparsi e pertanto di dissolversi. Si tratta di riequilibrare ‘un ambiente’ e di ricostituire ‘un costume sociale’ regolando i diversi ambiti della giornata e le relazioni tra i componenti. (M. Lapponi, San Benedetto e la vita familiare. Una lettura originale della regola benedettina, 2009).
Si sviluppa così un modello normativo che, se da un lato rivela quanto il luogo religioso non sia affatto un luogo ordinario, dall’altro mostra come la dimensione educativa e quella normativa non concernano affatto la tensione spirituale tipica delle consuete esortazioni al pentimento e alla conversione, proprie della tradizione cattolica consolidata. Se queste sono riscontrabili in quei luoghi specifici della manifestazione del divino (come Vallepietra) o della presenza storica di un santo che ha prodotto un intero processo di civilizzazione (come Assisi), nel caso di Farfa esse si condensano in una regola di vita quotidiana. Di fatto il luogo religioso qui vuole essere centro di un’educazione all’esistenza, alimentato e sorretto dalla testimonianza esemplare della comunità monastica. La ricapitolazione interiore suggerita altrove, qui diventa vera e propria ‘regola’ che, nata nella vita monastica, si traduce in comportamenti e stili di vita per quella secolare, passando dall’universo dei religiosi al mondo dei laici, dal paradisus claustri alla famiglia cristianamente rinnovata.
Sarebbe riduttivo ricondurre una tale attenzione alla vita nel mondo a una semplice proliferazione di consigli morali e regole di convivenza ordinata. In realtà c’è molto di più. Si assiste infatti a una reinscrizione dell’originaria tensione spirituale propria del monachesimo nell’ambito della ricerca, interamente moderna, di una diversa qualità della vita quotidiana. Dietro le reazioni a modelli di comportamento disinibiti, alla musica e ai messaggi televisivi tesi a investire la sfera delle emozioni più superficiali, sostituendo la pura spettacolarità delle forme alla sostanza dei contenuti, non c’è affatto una pura preoccupazione morale: il testo non allude che in modo molto blando alla libertà sessuale, alla crisi dei rapporti di coppia o all’aborto: tutti temi di forte caratura morale. Al posto di questi argomenti cruciali ci sono invece le critiche a modelli di comportamento che tendono a eludere e, sostanzialmente, a negare quella dimensione relazionale che si trova al centro di ogni reale recupero di qualità della vita.
Per quanto la proposta di una vita di famiglia ispirata alla Regola di san Benedetto resti discreta e si presenti come rivolta essenzialmente alle famiglie di buona volontà, essa non è affatto povera di significato. Da un lato, infatti, sono evidenti i legami che la ricollegano alla tradizione monastica stessa, intesa come realizzazione in terra della comunità apostolica, cioè – seguendo una delle forme ideal-tipiche individuate da Jean Séguy – come costituzione di una vera e propria ‘utopia praticata’ (Conflit et utopie, ou réformer l’Église, 1999). Dall’altro sono, invece, ancora più evidenti le connessioni che ricollegano la proposta della nuova vita familiare alla critica ai valori materialisti ampiamente presenti nella società postmoderna. Per i monaci di Farfa si tratta meno di recuperare un passato introvabile (e non privo di contraddizioni) quanto invece di instaurare possibilità concrete di realizzazione per progetti familiari che, nati con le migliori intenzioni, si ritrovano a essere travolti dai regimi di esposizione mediatica e dalla proliferazione di attività di tempo libero nate a misura di un soggetto privo di relazioni che non siano meramente strumentali.
Una tale proposta consente di cogliere un’ulteriore dimensione del luogo religioso: quello della potenziale proliferazione di realtà associative di tipo educativo che, come dimostra il caso di Farfa, possono intraprendere tanto la strada di un vero e proprio ‘percorso di perfezione’, quanto quello di una ricostituzione dei legami relazionali significativi.
Resta tuttavia aperto il problema di come vivano e si sviluppino nell’abbazia di Farfa, nel borgo che la circonda e presso il più ampio territorio parrocchiale, quelle funzioni identitarie, storiche e relazionali che ne assicurano la capacità di costituirsi come un luogo in senso pieno. Di fatto, a un’analisi delle dinamiche che vi trovano spazio, non è difficile rintracciare le espressioni concrete di tali funzioni.
La funzione storica, svolta prevalentemente dai monaci stessi e da gruppi di laici che ne sostengono le iniziative, si avvia in due direzioni distinte: quella di una documentazione della memoria religiosa locale, ricostruendo le forme espressive della comunità dei fedeli negli ultimi cinquant’anni, e quella di una costante riproposizione dei reperti storici, tanto più vitali, quanto più osservabili nel luogo in cui erano stati posti nei secoli precedenti. La dimensione storica svolge a un tempo una funzione di legittimazione e di attribuzione identitaria. L’abbazia di Farfa non si legittima solo per quello che è oggi, ma anche per la storia – certamente rilevante – dalla quale proviene. È la storia del suo passato a stabilirne l’identità nel presente, così come è la storia stessa a deciderne il prestigio presso le collettività locali e le autorità civili che le governano. Ma il passato non è quello del 19° e 20° sec., un periodo nel quale le strutture sono state occupate prima e confiscate poi, bensì quello del passaggio di Carlomagno e della riforma cluniacense. Il passato da ricordare e da presentare è quello nel quale l’abbazia di Farfa, i suoi scambi commerciali e la sua biblioteca, erano visibili a livello europeo.
In questo periodo Farfa diventa un vero e proprio faro culturale. È infatti a Farfa che, nell’indicazione delle letture mensili, i monaci avevano a disposizione anche i testi degli autori latini, prestati loro mensilmente dalla biblioteca e prova inequivocabile dell’apertura di quest’abbazia all’universo secolare (C.H. Lawrence, Medieval monasticism, 1989; trad. it. 1993, p.160). Una tale attenzione alla cultura laica non verrà meno nei secoli successivi se nella biblioteca di Farfa è possibile attualmente rintracciare una copia dell’Encyclopédie di Denis Diderot (1713-1784) e d’Alembert (1717-1783), vero palinsesto del pensiero illuminista della seconda metà del 18° secolo. Monumento della storia del monachesimo, ma anche centro culturale, l’abbazia di Farfa, dovendo tuttavia fare i conti con l’indifferenza moderna nei confronti del dato storico, può solo presentare e attestare il proprio passato più che vederlo riconosciuto. La storia sopravvive ed è presentata come elemento di prestigio, documento del suo spessore e della sua qualità, ma si iscrive inevitabilmente all’interno di uno spirito del mondo moderno che vi riconosce solo un valore d’archivio.
Tanto la dimensione identitaria quanto quella relazionale sono collegate alle iniziative che l’abbazia stessa sceglie di prendere. Sono le ricorrenze, ma ancora di più le iniziative culturali, che fanno dell’abbazia un luogo identitario per gli abitanti della provincia, e che la costituiscono come luogo relazionale, per quanti intervengono e partecipano agli eventi. L’abbazia intende proporsi come centro propulsore di iniziative capaci di attirare il turismo culturale che, orientato alla scoperta non solo di siti storici e paesaggistici, include al proprio interno anche quelli religiosi. Nella propria pubblicazione Farfa è …, la comunità benedettina costruisce per intero un’immagine dove turismo culturale, qualità della vita nel borgo, testimonianze di esperienza religiosa si riconciliano tra loro.
Assisi, Vallepietra e Farfa rappresentano qui altrettante forme di presenza e di vitalità dell’universo religioso. Assisi, per il suo legame con la figura di un santo, è meta naturale di pellegrinaggi e, se la particolare natura del carisma francescano ne segnala le differenze con altri luoghi religiosi rilevabili della stessa dinamica – quali possono essere Padova e San Giovanni Rotondo –, non mancano tuttavia dinamiche analoghe. La presenza del corpo santo – del quale non sono certo ignote le potenzialità taumaturgiche (Brown 1981; Boesch Gajano 1999) – aprendo le porte a un numero consistente di visitatori, rende possibile lo sviluppo di un settore turistico-alberghiero, ma anche commerciale, di proporzioni rilevanti. Ciò ha comportato per il santuario di Assisi l’instaurarsi di una situazione di confine, dove l’universo spirituale e quello secolare sono tanto reciprocamente funzionali sul piano operativo quanto invece dissonanti sul piano cognitivo e su quello normativo.
L’assenza del corpo del santo e la presenza al suo posto di una leggenda di fondazione danno vita, nel caso di Vallepietra, a una dinamica completamente diversa. La sacralità del luogo, non più attestata dalla presenza taumaturgica del corpo, finisce con l’essere surrogata dal rigore dell’ambiente e dallo sviluppo della dimensione rituale. La sacralità esce, di fatto, dalla chiesa per organizzare e regolare l’ambito esterno. In questo senso essa rinforza in modo esplicito la dimensione penitenziale originaria, decisamente opposta ai principi dell’escursione turistica contemporanea, per alimentare un clima di intensa devozione. Acquistano così un ruolo fondamentale le compagnie dei pellegrini e le confraternite dei laici provenienti dai paesi circostanti. La loro presenza e le modalità con le quali viene regolata confermano e rinforzano il carattere sacro del luogo. L’assenza di forme rilevanti di turismo è il risultato indiretto tanto del carattere aspro e disabitato del sito, quanto delle caratteristiche stesse della devozione che vi viene ricondotta. Limitata ai giorni della festa e strutturata per intero dai nuclei delle confraternite, questa è di fatto autonoma dai servizi locali che, di conseguenza, non si sviluppano che in forma minima.
L’abbazia di Farfa, che di fatto è priva sia del culto connesso alla presenza di un santuario, sia di una ierofania che possa provocarlo e alimentarlo, si evolve in modo consistente lungo la dimensione della testimonianza esemplare esercitata, di fatto, dalla comunità monastica stessa. Il luogo è religioso perché – in ultima istanza – è sede di un’esperienza spirituale. Ciò preclude le porte alle richieste taumaturgiche, ma le apre a quelle esperienziali. L’abbazia di Farfa si avvia così a essere il luogo di un’esperienza esistenziale, di una silenziosa ricapitolazione interiore che ne comporta il recupero della funzione pedagogica. Tuttavia, nella misura in cui lo spirito culturale laico, proprio della società secolare, non tollera la dimensione normativa in ambito morale, il percorso si rivela implicitamente conflittuale. Per tale strada anche Farfa, esattamente come Assisi, si trova a vivere un’esperienza di confine. La volontà della comunità monastica di rappresentare un’opportunità di rilettura esistenziale della vita personale si trova a interagire con una domanda laica di equilibrio interiore e di rinnovata attenzione alla realtà, che si sviluppa secondo il duplice principio dell’autonomia ultima del soggetto e dell’irreperibilità di principi normativi di carattere universale ai quali dovrebbe uniformarsi.
Questi tre luoghi, nella loro diversità, non presentano conseguenze analoghe sul piano territoriale. Tanto nel caso di Assisi, quanto in quelli di Vallepietra e dell’abbazia di Farfa, la polarizzazione oggettiva che si rileva sul piano dell’attrattività reale si scontra con le gerarchie amministrative che la negano. Se l’abbazia di Farfa, rientrando nei siti culturali e monumentali, gode di una segnaletica riservata, le aree comunali di Assisi e di Vallepietra sono integrate all’interno della segnaletica ordinaria. Il loro statuto di luoghi religiosi, oggetto di pellegrinaggi e, nel caso di Assisi, di escursioni turistiche continue, non prevede segnalazioni particolari.
Tra i tre luoghi religiosi presi in considerazione, solo nel caso di Assisi si registra un flusso turistico consistente e tale da alterare in modo rilevante l’originario nucleo di pellegrini. Sia a Vallepietra sia presso l’abbazia di Farfa questo flusso appare limitato dalla natura del luogo, nel primo caso, e dal tipo di visitatori, nel secondo. Di fatto né Vallepietra, né Farfa fanno parte di un contesto abitativo in grado di attirare flussi consistenti di turisti. Di conseguenza in entrambi i casi le istituzioni religiose e le istanze spirituali sono maggiormente visibili e occupano una posizione prioritaria, che consente loro di svolgere un’opera educativa e un’attività catechetica. Così, Assisi si rivela come una realtà particolare all’interno dei luoghi religiosi e la sua situazione può essere utilmente confrontata con tutte le altre realtà – Padova, Roma, Verona – dove i luoghi religiosi sono interni a nuclei abitativi che, includendoli in un territorio più vasto, inevitabilmente li espongono alle escursioni di nuclei consistenti di turisti, accanto ai visitatori laici e ai pellegrini devoti.
La presenza dei luoghi religiosi introduce una nuova polarizzazione dentro la dicotomia antropologica tra ‘luoghi’ e ‘non luoghi’. Se si prende in esame la motivazione di quanti vi si recano si scopre che, se i luoghi antropologici definiscono la presenza di una comunità stabilmente insediata per la quale questi hanno un senso e rivelano un significato, i luoghi religiosi sono, invece, orientati per attrarre una comunità elettiva, collocata al di là della cerchia dei residenti. Ciò avviene in quanto, per definizione, annunciano un evento che ritengono realmente accaduto e vogliono essere produttori di una norma di vita. Questa duplice rivendicazione di funzioni cognitive e di funzioni normative è alla base di una specificità che oltrepassa la semplice dimensione residenziale e ne fa luoghi d’elezione, dove si realizza una revisione interiore delle coscienze e si rinnovano le norme orientative della vita personale.
La rivendicazione dei luoghi religiosi entra in crisi nel momento in cui questi si trovano a essere immersi in un contesto secolare, nel quale la funzione cognitiva e quella normativa sono entrambe poste in secondo piano e relativizzate. Per tale strada questi luoghi – in tutti i casi in cui possono presentare valenze artistiche o paesaggistiche – si trovano ad attirare tanto gli estimatori dei beni culturali quanto i semplici turisti che ne rileggono le specificità in una chiave secolarizzata, completamente separata dallo spirito religioso che li ha originati e che, all’occhio del credente – che si presenti nelle vesti del visitatore occasionale o in quelle del pellegrino – ancora li sostanzia.
Nato all’interno di una cultura del tempo libero e dell’evasione, alimentato dall’industria delle vacanze ed emerso nel contesto dello sviluppo economico, il turista genericamente inteso è espressione, prevalente ancorché non esclusiva, di una residenzialità urbana potenzialmente ricca di eventi e di iniziative. In funzione di tale esperienza, il viaggio è implicitamente mosso verso la ricerca di un altrove, nel quale lo stesso turista possa cogliere una qualità della vita superiore alla quotidianità ordinaria.
All’interno di tale fenomeno il turismo culturale si ritaglia una cornice propria. In questo caso l’altrove è costituito dalle città d’arte, ma anche da tutti quei siti che si impongono allo sguardo del visitatore, attraverso la specificità dei luoghi messi a disposizione dell’escursione e della cultura materiale e immateriale. Il desiderio generico di benessere si concretizza in una ricerca che procede in due direzioni, spesso tra loro aggregate. La prima è quella del patrimonio storicamente consolidato nelle città d’arte e nei beni culturali che esse mettono a disposizione; ed è la fruizione di tale patrimonio, goduta all’interno di un contesto di distensione e di comfort, la motivazione di base e la ragione ultima dell’escursione turistica. La seconda direzione è invece costituita dai luoghi che, per le risorse non solo artistiche ma anche abitative, relazionali e identitarie in essi depositate, si rivelano capaci di fornire un soggiorno dove, accanto alla distensione, si realizza l’esperienza di un diverso regime di vita quotidiana. I luoghi indicano per tale strada una permanenza, rivelano la stabilità persistente di un sito o di un insieme di siti che rinviano a una società e a una storia, quindi a una cultura che fornisce la mappa cognitiva per comprendere la comunità stessa che vi ha preso forma.
Ciò pone il problema della loro leggibilità e della loro comprensione, quando l’informazione storica fa difetto e quella culturale è riassunta in stereotipi e rappresentazioni. Se musei, dimore, chiese, abbazie e monasteri possono stabilire precise modalità di fruizione, trasformando così la figura generica del turista in quella del visitatore, attribuendogli così uno specifico desiderio di conoscenza da soddisfare attraverso strumenti specifici (guide e testi), non altrettanto avviene per i luoghi antistanti in quanto tali, cioè per gli spazi di percorrenza e di comunicazione, per i quali la dimensione storica, identitaria e relazionale è empaticamente percepita e vissuta, prima ancora di essere consapevolmente esibita. In questo caso è l’insieme delle rappresentazioni offerte dal luogo a contare e ad alimentare tanto la percezione che se ne ha, quanto le sue modalità di fruizione. Quando le informazioni, rinviando a conoscenze specifiche, non sono immediatamente reperibili nello spazio temporalmente circoscritto della visita, la specificità del luogo è sostituita dai vari universi immaginari che attori sociali diversi – dalle istituzioni amministrative agli operatori culturali e a quelli commerciali – mettono a disposizione e a partire dai quali il luogo attraversato e osservato è percepito e fruito.
La figura del turista culturale, così come emerge dagli studi specializzati, è allora in primo luogo quella di un soggetto che, in mancanza di una sufficiente conoscenza storica e culturale dei luoghi in cui si trova, deve supplire con le immagini e gli stereotipi messi a disposizione dalle diverse istituzioni culturali, commerciali e amministrative. Il luogo viene, pertanto, rapidamente riassunto in una rappresentazione specifica che il turista culturale, in mancanza di guida e di supporti informativi adeguati, si sforza di rintracciare e recuperare selezionando liberamente le opere e filtrando autonomamente le informazioni. Al contrario dei viaggiatori del 18° e 19° sec., attenti a tutto ciò che vedevano e proprio per questo raccoglitori inesauribili di note e documenti rivelatisi in seguito straordinariamente preziosi, il turista culturale accumula immagini e oggetti.
Agenzie e amministrazioni locali si ritrovano così a costruire i luoghi, a valorizzare e rilanciare comuni e borghi, siti e monumenti, ad allestire un’immagine che consenta di farli diventare oggetto di attrazione per il turista. Si sono così moltiplicate negli ultimi trent’anni le potenzialità comunicative di borghi, paesi e piccole cittadine, che si sono impegnati curando gli spazi pubblici, recuperando e ristrutturando palazzi e monumenti, allestendo spettacoli, sagre e feste di ogni genere, ma sempre e comunque collegate a un recupero del passato e dell’identità locale, ancorché filtrata e ricomposta ai soli fini della sua riproposizione estetica e fruizione commerciale. Le diverse strategie di costruzione hanno contribuito a posizionare la visibilità del prodotto, costituito proprio dal luogo in quanto tale. Non sono mancate, peraltro, le raccomandazioni alla popolazione locale per restituire al turista l’immagine di una collettività viva e accogliente (Osservatorio del turismo della Regione Umbria, Il turismo nei borghi e nei centri storici umbri, 2011). In questo senso i luoghi turistici hanno elaborato e diffuso un’immagine consapevole e coscientemente strutturata della loro identità storica, i cui rapporti con la dimensione attuale della vita quotidiana qui realmente condotta, restano del tutto aleatori.
Proprio una tale strutturazione rende possibile la fruizione turistica. Il passaggio necessariamente rapido, che non consente approfondimenti, rende possibile e alimenta costantemente una strategia di presentazione che facilita la lettura rendendo immediatamente visibili – e quindi ponendoli in prima linea – gli elementi che consentono simbolicamente di posizionare il luogo, di rivestirlo immediatamente con una rappresentazione che ne faciliti l’assimilazione e la fruizione commerciale.
Del tutto diversa è la posizione di quei luoghi religiosi specifici che sono i santuari (La sacra terra. Chiesa e territorio, 1995). Costituiti intorno a un sito edificato al fine di ricordare un evento e porlo alla visibilità di devoti e pellegrini, questi luoghi sono esposti a una sostanziale ambivalenza. Da un lato, quando sono inseriti in un contesto abitativo, sono inevitabilmente sensibili alle risorse che si aprono a partire dal turismo di massa, dall’altro, nella loro componente religiosa, devono necessariamente trasformare i turisti occasionali ed estemporanei in visitatori coscienti. La natura stessa del luogo religioso implica l’esigenza di una domanda consapevole e non una semplice ricerca di svago. Storia e memoria, lettura del fatto trascorso e interpretazione del presente, evento e ammaestramento procedono di pari passo. Concepiti per accogliere uomini e donne mossi dal desiderio di riconciliazione, comprensibile solo nel quadro di una relazione consapevole ed esplicita con il divino, specializzati nella somministrazione del sacramento della penitenza, i santuari non sono stati concepiti per la soddisfazione di una semplice esigenza di distensione e di tempo libero.
Nella misura in cui la società conosce una secolarizzazione oggettiva delle istituzioni e una laicizzazione delle coscienze altrettanto oggettiva, la tensione alla ricerca interiore e la disposizione alla revisione di vita restano celate dalla dinamica escursionistica. La relazione con il divino che il santuario presenta diventa un percorso privato per tutti coloro che non rientrano nella categoria dei devoti, né si sentono pellegrini. Inizia così un confronto silenzioso che l’istituzione deve normare, ma che non può comunque impedire nelle sue espressioni di disconoscimento esplicito. Si esige allora, da parte dell’autorità che lo custodisce, il rispetto del luogo inteso come bene culturale e della tradizione che vi si è insediata e vi si esprime. Il santuario diviene in questi casi un luogo di confronto tra un’istanza del sacro, che si impone come protagonista, e uno sguardo secolare che ne nega la sostanza ultima che la costituisce. L’imposizione sul turista non credente di essere comunque il visitatore cosciente di un luogo che esprime una spiritualità propria costituisce la condizione essenziale affinché questi possa essere riconosciuto.
Così, i luoghi religiosi si manifestano come altrettanti spazi di confronto tra un’istanza religiosa – presentata come fatto storico, manifestazione del sacro ed esperienza di vita comunitaria – proveniente dalla loro costituzione originaria e un’attenzione ai contenuti culturali e ambientali del luogo in quanto tale, che nasce invece dentro la società secolarizzata e riassume una delle caratteristiche prevalenti della dimensione postmoderna. Inevitabilmente secolarizzante è lo sguardo secolare del visitatore laico che, nel momento stesso in cui coglie l’esperienza costitutiva del luogo religioso, la relega all’eredità di un’epoca, sul piano collettivo, e a un’esperienza privata, su quello individuale. Terreno di confine e di dialogo implicito, il luogo religioso da marginale diventa pertanto centrale; da periferia dell’esperienza diviene snodo decisivo di un confronto oramai aperto tra la pretesa religiosa, intesa come richiamo a un avvenimento, e il disincanto laico che, di fatto, deve necessariamente relativizzarla per potersi mantenere nell’universo secolarizzato che continua ad abitare.
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