VALORI
– Famiglia fiorentina le cui origini sono scarsamente documentate; l’area di provenienza è da collocarsi nella zona di Maiano vicino a Fiesole.
Oltre a essere proprietari di cave di pietra – alla base della loro ricchezza –, i Valori vi possedettero dal XIV secolo in avanti terre e poderi. Inurbatisi in Firenze, stabilirono la loro residenza nel sesto di S. Pier Maggiore (poi quartiere di S. Giovanni).
Membri della famiglia furono iscritti all’arte della lana già dal primo Trecento: le testimonianze più antiche riguardano un certo Lapo (Davidsohn, 1956-1968, VI, 1956, p. 533), membro di una società di cambio e commercio operante ad Avignone, nella quale la famiglia ebbe un ruolo maggioritario insieme con gli Altoviti. Alla sua morte, nel 1328, il figlio Valorino ne rifiutò l’eredità per i debiti che vi gravavano.
I primi della casa a figurare nelle cariche di governo a Firenze furono Maso e suo fratello Taldo, appartenenti a un altro ramo. Secondo i registri delle Tratte, Maso fu estratto al priorato sei volte tra il 1318 e il 1332; fu inoltre chiamato per i Dodici buonuomini nel novembre 1330 e nell’agosto 1335. Ma, ancora più del fratello, fu Taldo (Tedaldo) ad avere un ruolo di rilievo nell’esecutivo cittadino, e non solo.
Socio della compagnia dei Bardi operante in Inghilterra, almeno dal 1318 trascorse circa quindici anni quasi continuativi in Gran Bretagna. Nel 1326, durante una sollevazione popolare in cui furono messe a sacco e a fuoco le case e i fondaci dei Bardi nel cuore di Londra, Taldo con altri compagni trovò rifugio nel castello di Southampton. In seguito a tali episodi rientrò a Firenze dove, pur mantenendo la società con i Bardi, si dedicò all’attività politica (ibid., pp. 718 ss.).
Fu infatti estratto ai Tre maggiori per ben dodici volte tra il 1322 e il 1342, sempre con successo e sempre per il sestiere di S. Pier Maggiore; quattro volte al priorato, nell’ottobre del 1322, poi nell’agosto del 1329, di nuovo nel dicembre del 1335 e nel giugno del 1338, e quattro come gonfaloniere di Compagnia nel luglio del 1330, nel 1334, nel marzo del 1337 e infine nel marzo del 1342. Fu poi eletto all’ufficio dei Dodici nel mese di maggio del 1331 e del 1333, e una terza volta nell’aprile del 1339. Solo una volta, nell’ottobre del 1340 fu eletto gonfaloniere di Giustizia. Venne inoltre inviato come ambasciatore a Venezia nel 1328 per la risoluzione di alcune controversie contro i fiorentini (ibid., p. 721).
L’esperienza disastrosa della mancata restituzione di un prestito al re inglese Edoardo III indusse Taldo e i suoi eredi ad abbandonare la pratica del cambio e a dedicarsi soprattutto al commercio della lana, in Italia e in Paesi ultramontani (per lo più Croazia e Ungheria, v. Memorie..., a cura di L. Polizzotto - C. Kovesi, 2007, pp. 38 s.).
Il prestigio politico della famiglia andò aumentando sul finire del XIV secolo e soprattutto nel corso del XV con la discendenza di Taldo. Il primo a essere largamente chiamato agli incarichi pubblici fu infatti suo figlio, Niccolò. Sebbene, di fatto, la sua carriera politica appaia molto più modesta di quelle del padre e dello zio, poiché le sole cariche effettivamente detenute furono quella di gonfaloniere di Compagnia nel 1358 e di priore nel 1367, sappiamo che la cedola con il suo nome fu spesso estratta per gli uffici dell’esecutivo.
Si contano, infatti, almeno ventidue estrazioni andate a vuoto tra la fine del 1361 e l’ottobre del 1366 e altre quarantuno egualmente disattese nel periodo compreso tra l’agosto del 1367 e il settembre del 1377: in entrambi i periodi Niccolò fu impossibilitato a ricoprire uffici perché fuori Firenze per ragioni professionali, ma è evidente che il suo potenziale fosse enorme.
A fronte di una apparentemente modesta partecipazione agli uffici la popolarità di cui godeva presso la classe politica fiorentina doveva essere decisamente alta: come il suo stesso erede sottolineava, «se fosse stato a Firenze, fermo come gli altri suoi vicini, era onorato di tutti gli uffici» (ibid., p. 58). All’ultima estrazione a priore nel febbraio del 1378, Valori risultava già morto.
Niccolò aveva sposato Carlotta di Boccaccio degli Adimari dalla quale ebbe almeno tre figli maschi: Filippo (morto nel 1371 in Schiavonia [Croazia] senza lasciare eredi), Alamanno (del quale non si sa nulla; forse anch’egli scomparve senza eredi) e Bartolomeo, nato il 7 maggio 1354. Alla sua volontà si deve l’avvio del prezioso libro di Ricordanze della famiglia, che copre molte generazioni familiari e più di tre secoli di storia della casata.
Bartolomeo ne incominciò la stesura nel 1380, quando, dopo il tumulto dei Ciompi, la famiglia conobbe un momento di crisi dalle conseguenze durature; e furono probabilmente proprio i rivolgimenti politici e l’instabilità economica e politica che ne conseguì a sollecitarlo alla memoria e alla scrittura. Rara testimonianza di produzione memorialistica di un casato attraverso i secoli, il libro fu poi proseguito, nel corso delle generazioni, dai suoi eredi fino al 1676 con l’avvicendarsi di almeno otto mani diverse (Memorie..., cit., p. 25).
Le memorie autobiografiche di Bartolomeo coprono retrospettivamente gli anni dal 1360 al 1375 e informano nel dettaglio sulle tappe della sua formazione scolastica.
Bartolomeo entrò alla scuola di grammatica del maestro Manovello dopo l’ottobre del 1363 al termine di un’ondata di peste e vi rimase fino a tutto il maggio del 1367. A giugno, all’età di tredici anni, si mise alla scuola d’abbaco del maestro Tommaso di Davizzo Corbizzi (probabilmente un parente del cognato Niccolò di Paolo Litti Corbizzi che, nell’aprile del 1360, aveva sposato la sorella di Bartolomeo, Margherita, per una dote di 600 fiorini d’oro; mentre l’altra sorella Francesca sposò più tardi, il 24 gennaio 1369, Rinaldo di Filippo Rondinelli con 700 fiorini di dote, ma morì nel novembre del 1374).
Bartolomeo rimase all’abbaco di Tommaso di Davizzo Corbizzi fino al febbraio del 1368 quando la sua educazione proseguì, sempre secondo la sua testimonianza autobiografica, con l’associarsi all’attività di Bernardo di Cino Bartolini, banchiere con il fratello Guccio nell’area fiorentina del mercato nuovo. Con i due Bartolini Bartolomeo protrasse il suo apprendistato «sanza avere domandato o voluto alquno salaro o providigione» fino all’aprile del 1369 quando, alla soglia dei quindici anni, si pose a bottega di Bartolomeo di Niccolaio degli Albizzi «per tenere la chiave della cassa perché erano molto nostri amici», un incarico di responsabilità che, a fronte della sua giovane età, poteva essere legittimato solo dallo stretto rapporto tra le famiglie di appartenenza (ibid., p. 58).
Bartolomeo rimase presso Albizzi per quasi tre anni, trentacinque mesi per la precisione, fino a che lasciò l’incarico in vista di un’esperienza fuori Firenze (secondo quanto il padre aveva stabilito per lui); ma il progetto venne meno perché a Venezia, la meta designata, c’era la peste e Valori si associò allora (fine maggio 1372) a messer Nicolaio degli Alberti, nella sua nuova compagnia, rimanendovi altri tre anni.
Nel 1369, Bartolomeo fu emancipato dal padre Niccolò, che poco dopo (partendo per l’Ungheria per ragioni di affari) lo costituì procuratore per la gestione del patrimonio insieme con la madre (che donò nell’occasione a Bartolomeo metà pro indiviso del podere di Maiano al Vivaio, uno dei beni più significativi del patrimonio familiare).
Oltre alla fiorente attività di lanaiolo Bartolomeo spicca per essere stato uno dei più influenti politici della sua generazione.
Secondo Gene Brucker (1977, p. 265) e John M. Najemy (2014, p. 291), Bartolomeo fu uno dei diciannove uomini che parlarono in più di cinquanta pratiche nella decade tra il 1403 e il 1414. Dal 1392 si ha inoltre testimonianza di una sua robusta presenza negli uffici comunali. La cedola con il suo nome fu estratta con successo per la carica di gonfaloniere di Compagnia nell’agosto del 1392, nell’aprile del 1411 e nell’agosto del 1419, per i Dodici nel dicembre del 1397, per l’ufficio di gonfaloniere di Giustizia nel dicembre del 1402, del 1408 e del 1420, e per il priorato nel dicembre del 1393. Inoltre ricoprì spesso incarichi per l’arte della lana, tra il 1393 e il 1420, e fu estratto con successo agli uffici della Mercanzia almeno cinque volte tra il dicembre del 1395 e il marzo del 1421.
Bartolomeo fu anche più volte insignito di incarichi diplomatici: nel 1410 fu ambasciatore della Repubblica al neoeletto antipapa Giovanni XXIII (Baldassarre Cossa), mentre fu ambasciatore a Milano, nel 1417 presso il papa Martino V e nel 1423 presso il duca Filippo Maria Visconti (Litta, 1824).
Sposato a Lisabella Alessandri, Bartolomeo morì il 2 settembre 1427; la moglie, mancata nel luglio del 1438, gli sopravvisse poco più di una decina di anni. Dalle nozze nacquero Niccolò, Filippo e quattro figlie femmine.
Niccolò di Bartolomeo, sposato a Lisa Ghiberti, fu cittadino di chiara fede medicea e, come da tradizione, più volte assegnatario di incarichi pubblici; morì nel luglio del 1441 mentre era in carica come commissario di Borgo San Sepolcro. Le spoglie riportate a Firenze furono tumulate nella chiesa di S. Croce in una sepoltura «dove è scolpita la [sua] figura» (Memorie..., cit., p. 65).
Il compito di proseguire il libro di memorie fu assunto dunque dalla discendenza di Filippo di Bartolomeo, e in specifico dal nipote omonimo Bartolomeo nato il 31 agosto 1436, appunto da Filippo, e da Pichena di Piero Capponi.
Il padre Filippo infatti era morto di peste appena due anni dopo la sua nascita, l’11 agosto del 1438, lasciando anche una figlia, Alessandra, di cinque anni e mezzo e il piccolo Francesco di sei settimane. La giovane madre, monna Pichena, rimasta vedova, scelse di non risposarsi, per rimanere accanto ai figli che già troppo piccoli si erano ritrovati privi del padre e del nonno paterno, e si guadagnò con tale scelta la gratitudine di Bartolomeo che nei suoi ricordi rammentava «l’umanità che usò verso di noi di non ci volere in quella tenera età abandonare che se si rimaritava ne rimanavamo quasi disfatti» (ibid.).
Nel 1450 Bartolomeo combinò il matrimonio della sorella Alessandra con Carlo di Salvestro di Simone Gondi. Poco dopo fu lo stesso Bartolomeo, grazie all’intercessione di Nicola di Piero Capponi, a convolare a nozze con Caterina di Piero di messer Andrea dei Pazzi, nel gennaio del 1453. Tra il 1453 e il 1470 Caterina ebbe almeno dodici gravidanze (tre delle quali non andarono a buon fine) e alla sua morte, nel novembre del 1474, Bartolomeo ricordava che gli erano rimaste di lei sei figlie (Lisabella, Ginevra, Pichena, Lucrezia, Cassandra, Fiammetta) e due maschi (Filippo e Niccolò).
Anche a questa altezza cronologica le donne Valori esercitarono un ruolo decisivo nelle alleanze matrimoniali della casata, supportando con le loro nozze legami durevoli con esponenti delle famiglie di maggior rilievo della Firenze medicea.
Nel giugno del 1470 Lisabella (nata nel 1455) venne data in sposa a Braccio di Carlo di Nicola di messer Vieri de’ Medici, mentre pochi anni dopo, nel marzo del 1474, fu la volta di Ginevra (nata nel 1458), che si maritò con Filippozzo di Lorenzo di Bartolomeo Gualterotti. Nel gennaio del 1476, tramite i buoni uffici del cognato Carlo Gondi, Bartolomeo Valori combinò anche le nozze tra Lucrezia (nata nel 1461) e Piero di Antonio di Taddeo, e nel luglio dello stesso anno anche il primogenito Filippo (nato nel giugno del 1456) prese in moglie Lessandra di Averardo Salviati. Artefice della conclusione di queste nozze, a suggello della stretta relazione tra gli eredi Valori e i Medici, fu lo stesso Lorenzo il Magnifico, che si recò personalmente a far visita a Bartolomeo Valori per garantire la stipula del parentado («venne detto Lorenzo a trovarmi in casa e disse aver concluso el parentado fra noi», p. 77).
Nel gennaio del 1477 Bartolomeo morì di ‘mal di pietra’. Lasciava, oltre al maggiore Filippo, il giovane Niccolò di tre anni e ben sei figlie femmine di cui tre già sposate, una religiosa (Pichena, monaca alle Murate con il nome di suor Piera) e due non ancora in età da marito, sotto la tutela di suo fratello, lo zio Francesco che, come ricordava Filippo nelle carte di famiglia, «ci rimase per padre a tutti» (p. 79).
Filippo di Bartolomeo proseguì la compagnia nella bottega di arte di lana che il padre aveva avviato con Lapo di Lorenzo Niccolini e Bartolomeo e Lorenzo di Aldighieri Biliotti. Dall’unione con Alessandra Salviati nacquero Bartolomeo, detto Baccio (v. la voce in questo Dizionario), il 5 dicembre 1477 e Caterina Maria Antonia il 17 gennaio 1480 (poi sposa di Federico Strozzi).
Nel novembre del 1481 Filippo combinò – ancora una volta con la mediazione di Lorenzo de’ Medici – le nozze tra la sorella Cassandra e Gherardo di Bertoldo di Gherardo Corsini.
La presenza del Magnifico come arbitro preferenziale delle nozze tra membri della famiglia Valori non era mai casuale: secondo Lorenzo Polizzotto e Catherine Kovesi (Memorie..., cit., pp. 34 s.) «l’ingerenza medicea» nell’affidare alle sorti di casa Valori sposi e spose dal destino strettamente legato a quello della famiglia dominante «era costante e continua e particolarmente opprimente» in epoca laurenziana. In aggiunta si deve rimarcare che i Valori non solo privilegiavano legami matrimoniali con case che appartenessero al loro stesso strato sociale, ma anche che provenissero dal vicinato: difficilmente si sceglieva di imparentarsi al di fuori del gonfalone di appartenenza.
Nel 1482, sempre sulle orme della tradizione paterna Filippo si associò a Giuliano di Francesco Salviati, parente della moglie, e a Bernardo di Domenico Giugni in una attività laniera, nel convento di S. Martino. Inoltre, dalla fine degli anni Settanta in avanti, egli intraprese una brillante carriera politica nelle cariche dell’esecutivo e anche negli uffici amministrativi e territoriali del Comune di Firenze.
Fu infatti capitano di Or S. Michele nel 1478, festaiuolo di S. Giovanni nel 1479, estratto come gonfaloniere di Giustizia nel 1480 (ma costretto a rifiutare perché minore dell’età consentita), gonfaloniere di Compagnia nell’agosto del 1483, ufficiale dello Studio di Pisa nel 1483, priore per un bimestre dal luglio del 1485, scrutinatore nel 1484-85, dei Dodici buonuomini nel 1486, degli Otto di Balìa nel febbraio del 1487, tra i consoli dell’arte della lana nel gennaio del 1488 e nel gennaio del 1490, ancora gonfaloniere di Compagnia nel settembre del 1489 e, alla fine del 1490, di nuovo dei Dodici buonuomini. Quanto agli uffici nel distretto, dalle fonti consta che fu soltanto inviato commissario a Barga.
Filippo morì ad appena trentotto anni nel novembre del 1494 a Napoli dove si trovava in veste di ambasciatore. Solo quattro anni prima era stato inviato come oratore a Roma contemporaneamente allo zio Francesco Valori. Il corpo fu tradotto a Firenze e seppellito in S. Croce.
Come già accennato, Filippo era stato cresciuto, insieme ai fratelli, dallo zio paterno Francesco di Filippo Valori. Francesco, nato il 16 giugno del 1438, aveva sposato Costanza Canigiani. Dalle nozze nacquero solo figlie femmine, per le quali combinò matrimoni di grande prestigio.
Nel giugno del 1484 diede in moglie la figlia maggiore, Marietta, a Francesco di Niccolò Tornabuoni con una dote di 1500 fiorini (la donna rimasta vedova dopo solo cinque mesi, si risposò con Agnolo di Lorenzo Carducci; Memorie..., cit., p. 86). La seconda figlia Loretta fu sposata a Carlo di Cristofano Carnesecchi; la terza, Dianora, a Niccolaio di Francesco degli Alessandri e infine l’ultima, Caterina, a Jacopo di Jacopo Gherardi.
In campo politico Francesco ebbe diversi incarichi nel territorio e in città.
Fu priore nel 1471 e nel 1478, ufficiale della Zecca nel 1473, del Consiglio dei settanta nel 1480 e ancora nel 1489. Fu poi capitano di Pistoia nel 1483, podestà di Prato nel 1492, gonfaloniere di Giustizia nel 1484, nel 1493 e nel 1497, accoppiatore nel 1484 e nel 1494. Fu più volte chiamato come ambasciatore, per esempio per l’elezione del papa Alessandro VI nel 1492, oratore per l’accoglienza di Carlo VIII nel 1494, fu infine commissario in campo contro Pisa nel 1495 e dei Dieci di Balìa nel 1495 e nel 1497.
Alla cacciata dei Medici la sua collaborazione con il governo di Firenze proseguì e anzi Francesco si distinse come seguace di Girolamo Savonarola e antimediceo (eccezionalmente rispetto alla tradizione familiare) sostenendo nel 1497 la pena capitale per i cittadini che avevano cospirato per il ritorno dei Medici. Morì in circostanze tragiche a seguito dei tumulti scoppiati per la mancata ordalia richiesta ad alcuni frati accoliti di Savonarola: l’8 aprile 1498, fuggito dal convento di S. Marco, fu scovato e ucciso mentre veniva condotto al palazzo dei Priori. La moglie morì nella stessa occasione durante l’assalto alla loro abitazione.
L’eredità di Francesco venne accolta dal nipote Niccolò (v. la voce in questo Dizionario), nato, come Filippo, da suo fratello Bartolomeo. Niccolò di Bartolomeo (che proseguì nella stesura dei ricordi per gli anni 1494-1525) si distinse per una brillante carriera politica e diplomatica negli anni della Repubblica, tra il 1502 e il 1512, durante il gonfalonierato di Piero Soderini. Se con il ritorno dei Medici nel 1512 Niccolò divenne sospetto al regime, al contrario suo nipote Baccio di Filippo (tra i responsabili della espulsione di Soderini) ripristinò la tradizionale fede medicea della casata allineando di nuovo le proprie scelte a quelle dei Medici. Baccio infatti, già commissario pontificio di Clemente VII, fu vicino ad Alessandro de’ Medici che si avvalse della sua collaborazione per facilitare l’abolizione formale della Repubblica e salire al potere. La rotta, tuttavia, si invertì di nuovo nel 1535, quando la delusione per il trattamento ricevuto dai Medici e il rimorso per aver tradito la Repubblica indussero Baccio a passare dalla parte dei fuorusciti antimedicei e a capeggiare l’opposizione a Cosimo I (pp. 46 s.).
La disfatta di Montemurlo e la vittoria del Medici, ebbero tragiche ripercussioni per molti dei Valori, decretando la morte dello stesso Baccio, del figlio Filippo e del nipote Filippo di Niccolò (v. la voce in questo Dizionario), l’imprigionamento del figlio Paolantonio e l’esilio dell’altro nipote Francesco di Niccolò. Nonostante le confische patrimoniali che seguirono alla sconfitta di Montemurlo, i Valori riuscirono a recuperare parte di tali beni e a conservare un certo status sociale fino all’estinzione del casato nella seconda metà del XVII secolo.
Fonti e Bibl.: Archivio di Stato di Firenze, Tratte, Tre maggiori, http://cds.library.brown. edu/projects/tratte/ (26 gennaio 2020); Firenze, Biblioteca nazionale, Panciatichi 134: Ricordanze di Bartolomeo di Niccolò Valori (edito in Memorie di casa Valori, a cura di L. Polizzotto - C. Kovesi, Firenze 2007); Corrispondenza degli ambasciatori fiorentini a Napoli, IV, Francesco Valori (agosto 1487-giugno 1488), Piero Vettori (giugno 1488-giugno 1489), a cura di P. Meli, Battipaglia 2011.
P. Litta, Famiglie celebri italiane, dispensa XVII, Milano 1824; R. Davidsohn, Storia di Firenze, I-VIII, Firenze 1956-1968, ad ind.; G. Brucker, The civic world of early Renaissance Florence, Princeton 1977, ad ind.; D. Kent, The rise of the Medici. Faction in Florence. 1426-1434, Oxford 1978, ad ind.; J.M. Najemy, A history of Florence, 1200-1575, Oxford 2006 (trad. it. Torino 2014, ad ind.); M. Jurdjevic, Guardians of Republicanism. The Valori family in the Florentine Renaissance, Oxford 2008.