DA POS, Valerio
Nacque a Carfon, frazione di Forno di Canale (ora Canale d'Agordo), valle del Biois (prov. di Belluno), territorio della Repubblica veneta, il 13 maggio 1740 da Giovanni e Orsola Da Collò, contadini proprietari di qualche terreno ma di modeste risorse.
Dopo aver appreso a leggere e scrivere e far di conto da un sacerdote del luogo, il D. fu associato ai lavori rurali della famiglia, indi, all'età di quattordici anni, nel 1754, rimasto orfano di padre, venne mandato dalla madre a Venezia ad apprendere ed esercitare un "qualche mestiere meccanico" (Autobiografia..., p. 12). A Venezia, uno zio che esercitava il mestiere del filatore gli aveva trovato un posto da garzone apprendista presso un mastellaio. "Il mestiere non mi piaceva, si sa che li garzoni sono una specie di schiavi; ebbi dapprima qualche difficoltà, ma mi avezzai" (ibid., pp. 12 s.). Dopo dodici mesi egli ebbe il contratto per i consueti cinque anni di apprendistato. Nella casa del mastellaio, nella quale egli era ospitato, alloggiava anche un prete di Oderzo il quale diceva messa all'ambasciata di Francia e si dilettava di poesia e di violino. Da questo prete il D. ricevette le prime suggestioni alla poesia, ebbe in prestito libri e fu introdotto alle frequentazioni del teatro comico: tre passioni che gli sarebbero rimaste.
Nel 1765 (nel frattempo da garzone era diventato lavorante), il D. tornò a casa a Carfon dove vivevano la madre e due sorelle e riprese in mano il governo dei modesti affari della famiglia. In autunno discese nuovamente a Venezia e, licenziato dal mastellaio, passò l'inverno e la primavera ingegnandosi a prestar la sua opera come gli capitava; riguadagnò quindi i suoi monti per i lavori agricoli estivi. In tal modo, per alcuni anni, distribuì le sue stagioni di lavoro tra Venezia e Carfon. Infine prese la risoluzione definitiva di starsene stabilmente nel paese natio.
Da Venezia egli si era portato un bagaglio di molteplici esperienze: dimestichezza con i libri (nella Autobiografia egli si ricorderà assiduo frequentatore dei banchi dei librai: Goldoni, Chiari, Marino ecc....); esercitazioni di scrittura poetica coltivate assieme ad amici (con simpatia egli rammenterà un giovane bergamasco col quale passava notti a discorrere di poesia, finché questi non fu costretto ad abbandonar Venezia per disavventure con la giustizia); acquisizione del dialetto veneziano del quale si avvarrà, accanto all'italiano, per il suo poetare; assimilazione di modi disincantati di affrontare la vita e di valutare le mistificazioni di uomini e situazioni dei suoi tempi.
Dagli inizi degli anni Ottanta, il D. ebbe al paese natio la carica di scrivano della piccola comunità cui apparteneva, della "vicinia". Mortagli la madre, rimase preso dalle faccende domestiche, dal lavoro sulla terra, dalle incombenze del modesto impiego e dalla poesia. Tutte queste occupazioni, assieme a una certa sfiducia circa la sincerità delle donne (gli era capitato un innamoramento che risultò mal riposto per una giovane del paese), assieme a una certa paura per l'ipotesi di un rapporto con i figli in tempi che gli parevano sempre più difficili, assieme alla considerazione che il mondo era già popolato abbastanza anche senza un suo contributo, lo determinarono, come racconta nell'Autobiografia, a decidersi per il celibato. Aiutato dall'arciprete di Forno di Canale, don Benedetto Tissi, e da un giovane dotto friulano, Francesco Piker, il D. si applicò con alacrità ad affinare la tecnica del comporre poetico e la sua cultura (imparò il latino e il francese). La gente della valle del Biois e dell'Agordino prese a conoscerlo come poeta e molti gli chiedevano composizioni d'occasione. Ebbe, in questo periodo, qualche delusione circa i rapporti tra poeti e potenti, per esempio quando compose un capitolo (pubblicato a sua insaputa) per monsignor Sebastiano Alcaini eletto nel 1785 vescovo di Belluno ("...devo dirlo a mia confusione, quella fu la prima, e l'unica volta, ch'io prostituii il mio scarso talento nell'adulazione, vizio a cui ho giurato una implacabile avversione ed una eterna inimicizia", Autobiografia..., p. 21). Ebbe altresì qualche lieve disavventura con il S. Uffizio per causa di alcuni versi sciolti ch'egli aveva scritto (peraltro a richiesta del parroco) a commemorazione del passaggio quaresimale da Forno di un noto predicatore, versi che erano stati giudicati troppo satirici.
Ogni anno, verso dicembre, il D. si portava a Belluno per regolare il pagamento delle imposte dovute dalla "vicinia" di cui era lo scrivano e anche qui si fece conoscere come poeta. Taluni uomini di cultura della città lo apprezzarono: in particolare fu incoraggiato dal letterato conte Giuseppe Urbano Pagani Cesa, il quale, con altri, si adoperò per farlo accogliere, nel 1789, nell'Accademia degli Anistamici di Belluno.
Ironico e divertito il racconto, nell'Autobiografia, della prima personale lettura di una propria composizione poetica (tema, la passione di Gesù Cristo) agli Anistamici, con il conte Pagani Cesa che, ad ogni buon conto, gli aveva fatto bere, prima che si mettesse a leggere, una bella tazza di vin di Borgogna.
Nella sede, del sodalizio, il D. farà altre due comparse con lettura di composizioni poetiche sui temi de "La poesia" e de "L'astronomia". Cessato poi dalla carica di presidente il Pagani, Cesa, la differenza sociale tra il contadino D. ("Pallida e smunta, in rozzi panni avvolta, / Ripiena di difetti e di magagne, / Senza eleganza, rabbuffata e incolta / La poesia son io delle montagne", aveva a suo tempo esordito all'Accademia: Girotto, Vita..., p. 293) e gli altri cominciò a farsi sentire, portando alla sua emarginazione di fatto dall'Accademia medesima. Fortunatamente, qualche appoggio concreto (aiuti a sbrogliare pasticci economici, libertà di avvalersi delle loro biblioteche ecc. ...), oltre che dal Pagani Cesa, gli venne da nuovi estimatori come il conte Pietro Crotta, i fratelli Girolamo e Antonio Manzoni e il medico Paolo Zannini che sarà per lui una sorta di confidente intellettuale oltreché il suo primo e più attendibile biografo.
Il mondo intanto stava cambiando e i grandiosi rivolgimenti degli anni Novanta investirono, alla fine del 1796, anche i territori dello Stato veneto, anche le valli bellunesi compresa quella del Biois, che divennero luogo di passaggio e di scontro delle truppe austriache e francesi napoleoniche con sofferenze e lutti delle popolazioni, impotente la Repubblica di S. Marco ad altro se non ad opporre la propria non belligeranza in attesa di verificare, il 12 maggio 1797, i modi della propria fine. "Nell'anno 1797 [sic] passarono le Alpi i Francesi, e regalaron l'Italia di quella chimera da loro detta Libertà;furono cancellate dalla categoria delle Repubbliche Venezia, e Genova; fu posto sul teatro dell'Italia la farsa della Democrazia; Governo Centrale nelle città, Municipalità senza numero dappertutto. In questa commedia ebbi qualche parte anch'io; finalmente dopo otto mesi giunse all'ultimo atto. La Casa d'Austria ebbe lo Stato Veneto; sotto di quel dominio io fui senza incarichi:'attesi al mio solito modo di vivere, passandomela alla meglio ch'io potei" (Autobiografia..., p.28).
Dopo la prima dominazione austriaca, tornarono, agli inizi del 1806, i Francesi col Regno d'Italia: "A me pure - scriverà il D. - toccò nella nuova Costituzione di essere Sindico della nostra picciola Vicinia; me ne sbrigai alla meglio" (ibid., p. 29). Dopo il Regno d'Italia, nel 1815, di nuovo venne l'imperiale governo austriaco. Di tutti questi anni d'alterne situazioni, egli ricorderà: "...quante buffonate mai si videro! e quante se ne vedon tuttodì!" (ibid.). Icambiamenti che le dominazioni straniere avevano portato non erano di quel genere che il D. (cui pure, come scrisse, sarebbe piaciuto esser giacobino almeno "per metà") e le popolazioni povere e contadine avrebbero potuto capire e forse, alla lunga, appoggiare e sostenere: se non erano mancate novità di filosofie, di guerre, di saccheggi, di spoliazioni, non si erano invece visti i segni di cambiamenti sociali che andassero a favore dei gruppi popolari oltre che dei gruppi borghesi che si accingevano a sostituirsi ai vecchi ceti dirigenti. Magari venivano aboliti per decreto i titoli di "eccellenza", ma - l'ironia è in un sonetto del D. del 1797 -"...mala pelle / Ad intaccar de le persone basse / Sussiston le Finanze e le Gabelle" (ibid., p. 91).
Dopo il 1797, il D. intensificò la produzione poetica di carattere satirico, genere che gli era congeniale (tra i suoi autori prediletti: Marziale, Giovenale, Aretino, Berni, Casti...), attaccando violentemente il regime napoleonico e Napoleone in persona e poi gli Austriaci. Tuttavia, s'egli continuò a guardare con devota ammirazione ad uomini come Carlo Gozzi ed Angelo Dalmistro che gli ricambiarono stima, se polemizzò con gli atteggiamenti filonapoleonici del Foscolo, con il conformismo del Monti, con la meschinità da voltagabbana del Cesarotti e di molti altri, pure la sua scrittura non respinse, le suggestioni delle novità formali della poesia montiana e foscoliana in qualche parte assimilandole.
Scrisse fino alla più tarda età e, negli ultimi anni di vita, affidò all'amico Paolo Zannini una sua stringata ma efficace autobiografia con, a conclusione, una proposta di scanzonato epitaffio che si concludeva con i due versi: "Morì pieno di debiti e fallito: / Fu matto fin che visse, or è guarito." (Autobiografia..., p. 30). Verso la fine della vita collaborò alla scelta di un gruppo di sue poesie che vennero pubblicate nel 1822 con un'ampia presentazione biografica dello stesso Zannini. Gliene venne qualche guadagno e furono i primi soldi che il lavoro di poeta gli fruttasse (la sua produzione era stata amplissima sia dialettale sia in lingua, ma, tranne qualcosa ch'era stata stampata in occasione di qualche celebrazione, era rimasta inedita).
Irresistibile per quasi tutti coloro che si occuperanno del D. (dallo Zannini al Fontana al quale si deve la pubblicazione di altre due nutrite antologie di composizioni del D.) saranno le suggestioni dell'etichetta di "poeta contadino", o "contadino poeta" con cui già i contemporanei lo qualificarono. Qualche storia letteraria recente lo ha collocato tra i "poeti popolari incolti" e "improvvisatori" (Natali). In realtà egli fu - sia nella poesia in veneziano sia in quella in italiano - tutt'altro che incolto ed improvvisatore: anzi, un eccesso di attenzione e riverenza per la produzione letteraria del suo tempo poté raffrenare e togliere spazi espressivi al poetare cui egli era naturalmente vocato e attraverso il quale, con pacata ironia nutrita di esperienza della realtà, si sforzava di comunicare una risentita e disinteressata intelligenza della società in cui si era trovato a vivere.
Morì al paese natio il 13 luglio 1822 e fu sepolto nel cimitero della chiesetta di S. Simon di Vallada.
Nel 1897 i valligiani lo commemorarono con una lapide apposta al muro esterno della chiesa ricordandolo povero ed indipendente poeta, figlio e cantore addolorato del "Veneto Leone" che cento anni prima aveva cessato di essere simbolo di una patria. Si ricordò ancora di lui la Gioventù anticlericale della valle del Biois che nel 1909 pubblicò in opuscolo il suo lungo poemetto Canale convertito (una ironica satira della "missione" di tre preti che nel corso di un carnevale della fine degli anni Settanta del '700 avevano aggredito di moralizzazioni Forno di Canale) premettendo al testo del D. una colorita prefazione accesamente anticlericale e ateistica aperta dalla battuta famosa di Marx "la religione è l'oppio dei popoli" e chiusa da alcuni versi in tono dello Stecchetti. Altre manifestazioni celebrative (una seconda lapide, la riedizione anastatica dell'antologia del 1822ecc. ...) furono promosse dai circoli culturali della valle del Biois nel 1972.
Gran parte dell'opera del D. si conserva manoscritta (per lo più autografi raccolti in volume) in Belluno, Bibl. civica, mss. nn. 389, 401, 471, 472, 473, 864, 893, 929, 995.Parecchi dei suoi lavori furono pubblicati in: Poesie di Valerio Da Pos contadino delle Alpi Canalesi, Venezia 1822 (ristampa anastatica, Falcade 1972); V. Fontana, V. D. contadino poeta. Studio critico-biografico con appendice di poesie inedite, Belluno 1897 (recensito da A. Lumbroso, in Riv. stor. del Risorg. ital., II [1897], pp. 594 s.); Autobiografia e poesie inedite del contadino Valerio Da Pos, a cura di V. Fontana, Belluno 1898 (in queste due ultime raccolte, molte le poesie in dialetto veneziano scarsissimamente contaminate da espressioni dell'Agordino, e molte anche le composizioni di polemica civile-politica sul filo degli avvenimenti post 1797). Astampa comparve pure il poemetto Canale convertito, a cura della Gioventù anticlericale della valle del Biois, Forno di Canale 1909. Singole composizioni poetiche furono pubblicate - qualcuna durante la vita del D. - in circostanze di nozze, insediamenti di ecclesiastici, partenze di rettori veneziani.
Fonti e Bibl.: Oltre ai profili biogr.-critici premessi dallo Zannini al cit. Poesie di V. Da Pos...e dal Fontana al cit. V. D. contadino...cfr.: Belluno, Bibl. civica, ms. 394; G. U. Pagani Cesa, A messer V. D., lettera ed osservaz. critiche benevole; G. Veludo, V. D., in Biografia degli Ital. illustri nelle scienze, lettere ed arti...,a cura di E. De Tipaldo, IV, Venezia 1837, pp. 145 ss.; Nell'ingresso di D. Bortolo De Luca a Pievano di Valle di Cadore, Belluno 1865 (l'opuscolo è formato da una "lettera" inedita di Carlo Gozzi a D. Tommaso De Luca del 10 marzo 1802 in versi, in cui viene elogiato l'uomo D. e la sua poesia); G. Da Vià, Un contadino poeta: V. D. nel primo centenario della morte, in Il Gazzettino illustrato di Venezia, 16 luglio 1922, p. 8; A. Lanza. V. D. (1740-1822), Belluno 1927; G. Pellegrinon, V. D., note biografiche, Belluno 1958; G. Natali, Storia letteraria d'Italia, V, Il Settecento, I,Milano 1964, p. 118; L. Girotto, V. D. "poeta contadino", tesi di laurea, univers. di Padova, fac. di magistero, a. a. 1972-73, depositata presso la Bibl. civ. di Belluno; L. Girotto, Vita e opere di V. D.,in Riv. bellunese,I, (1974), 3, pp. 289-297.