valere [I e III singol. pres. cong. vaglia; III plur. pres. cong. vaglian; III singol. pres. cond. varria; partic. pass. valuto]
Compare in tutte le opere, compresi il Fiore e il Detto (una sola volta nella Vita Nuova), con il significato fondamentale di " aver valore ", secondo le varie accezioni di quest'ultimo vocabolo.
Per quanto il numero delle sue presenze sia più alto di quello attestato per ‛ valore ' (v.), a differenza di questo sostantivo non può essere considerato una delle parole-chiavi del lessico dantesco, e questo perché il suo uso, oltre a essere in gran parte incentrato in un'accezione di scarsa rilevanza concettuale, è suggerito da motivazioni occasionali, non collegate con l'ampliamento e l'approfondimento dei temi della poesia dantesca, come invece avviene per ‛ valore '.
In un primo gruppo di esempi v. ha per soggetto una persona ed è usato assolutamente. In questo caso indica il possesso delle virtù cortesi che rendono meritevole di pregio l'uomo innamorato (Rime XCI 59 s'io procaccio di valere / ... penso... / a colei che m'ha in sua podestate; Rime dubbie XXII 8 e 10, Detto 47 come ch'i' poco vaglia: ‛ v. poco ' è sintagma spesso ricorrente come altri analoghi [v. oltre]); è usato con riferimento alla potenza e autorità che pongono la Vergine in grado di ottenere per altri una grazia da Dio (Pd XXXIII 13 Donna, se' tanto grande e tanto vali, / che qual vuol grazia e a te non ricorre, / sua disïanza vuol volar sanz'ali), ma può scadere anche all'individuazione di una furbesca capacità di sapersi destreggiare, e in questo senso lo usa Alichino rivolgendosi a Ciampolo di Navarra: If XXII 117 Lascisi 'l collo, e sia la ripa scudo, / a veder se tu sol più di noi vali.
Un'ancor più marcata accentuazione del fraseggiare familiare è avvertibile allorquando lo usa la Vecchia per esprimere il suo giudizio, altrettanto cinico quanto perentoriamente negativo, sull'impossibilità che il povero " serva a qualche cosa " dal punto di vista della donna che voglia far fruttare le sue grazie: In pover uom non metter già tu' amore, / ché non è cosa che pover uom vaglia (Fiore CLXIX 2).
A qualche incertezza interpretativa ha dato luogo il senso che il vocabolo ha nell'aspra valutazione formulata da Ugo Capeto sui suoi discendenti: Mentre che la gran dota provenzale / al sangue mio non tolse la vergogna, / poco valea, ma pur non facea male (Pg XX 63); in poco valea è stato visto un accenno allo scarso valore militare dei Capetingi (Sapegno), alla loro mediocre potenza politica (Mattalia) o anche all'ignavia del loro comportamento morale (Casini-Barbi: " non si distinsero né per opere di bene né per opere di male ").
Quando il soggetto è un nome di cosa, v. assume l'accezione di " aver forza ", " aver efficacia " in rapporto a un fine, nell'ambito di un sistema giuridico o di un ragionamento logico, ecc. Quando l'angelo della misericordia lo abbaglia con la sua luce, D. domanda a Virgilio: Che è quel, dolce padre, a che non posso / schermar lo viso tanto che mi vaglia...? (Pg XV 26), riparare i miei occhi tanto che essi " siano in grado di adempiere il loro compito ". E così in Cv II XII 2 la mia mente... né 'l mio né l'altrui [dolore] consolare valea, " era capace di... "; If XXVI 66 assai ten priego / e ripriego, che 'l priego vaglia mille, " abbia l'efficacia " di mille preghiere. In Fiore CCXIX 12 Venere e Amore, dopo aver prestato giuramento su archi, saette e fiaccole, disser ch'altrettanto vale, affermarono che tale giuramento è " altrettanto valido " di quello prestato sui Vangeli.
Per dimostrare che la virtù morale deriva dalla nobiltà, D. osserva che, poiché entrambe convengono nel fine di procurare lode alle persone che ne sono dotate, bisogna ammettere che o l'una deriva dall'altra, o tutte e due da una terza; ma se si dimostra che la nobiltà " ha efficacia e pregio " maggiori della virtù, questa deriverà piuttosto dalla prima: ma se l'una val ciò che l'altra vale, / e ancor più, da lei verrà più tosto (Cv IV Le dolci rime 98, ripreso in XVIII 3); altri esempi ancora in XVIII 3 (prima occorrenza), al § 6 e in XIX 3.
Il maggior numero di esempi si ha quando v. assume l'accezione di " esser utile ", " giovare ", " servire ". In questo senso, il verbo è usato o assolutamente o con l'indicazione, al dativo, della persona cui una data cosa risulta utile; la costruzione più frequente è quella del verbo accompagnato da negazione; la cosa che serve è indicata da un sostantivo o da un infinito (anche sostantivato) o da una proposizione infinitiva o dichiarativa; lo scopo per cui la cosa serve è di solito sottinteso; spesso il verbo è determinato da un complemento di misura rappresentato da un avverbio. In qualche caso compare l'espressione interrogativa ‛ che vale...? ', nel senso di ‛ a che giova o è giovato...? '.
Le strutture sintattiche ora indicate sono documentate dai seguenti esempi: Rime LXXIII 7 E non le val perché dorma calzata; Cv II XII 1 io rimasi di tanta tristizia punto, che conforto non mi valeva alcuno; If I 83 vagliami 'l lungo studio e 'l grande amore / che m'ha fatto cercar lo tuo volume; XVIII 47 quel frustato celar si credette / bassando 'i viso; ma poco li valse; Pg VI 88 Che vai perché ti racconciasse il freno lustinïano, se la sella è vòta?; XIV 147 voi prendete l'esca, sì che l'amo / de l'antico avversaro a sé vi tira; / e però poco val freno o richiamo; XXX 133 Né l'impetrare ispirazion mi valse, / con le quali e in sogno e altrimenti / lo rivocai; sì poco a lui ne calse!; Fiore LII 3 La Vecchia... / servi ed onora... / ché, s'ella vuol, troppo ti può valere; LXXXII 14 no lle valse nulla su' sermone; Detto 240 Il su' danzar e 'l canto / val vie più ad incanto / che di nulla serena (" giova assai più ad incantare le menti che non di nessuna sirena " [Sapegno]).
Altri esempi in Rime XLVII 9, CIII 9, CIV 12, CVI 109, Rime dubbie XXVII 8; Cv IV XXI 13, XXIV 12; If XXII 127, XXIV 57, XXX 81, Pg IV 135, Pd XI 67 e 70; Fiore XIV 14, XV 8, XXXIII 4, XLVI 4, XLVII 8, LXV 7, LXXI 12, LXXVII 1, CXXII 7, CXCVII 8, CCXVI 14, CCXXI 13, CCXXX 6, Detto 214.
In due casi, in funzione di verbum impediendi, ha il significato di " non poter impedire che ": Pg XXX 53 né quantunque perdeo l'antica matre, / valse a le guance nette di rugiada / che, lagrimando, non tornasser atre; e così in Cv II Voi che 'ntendendo 38, ripreso in IX 8.
Appartiene solo al Fiore e al Detto la locuzione ‛ v. meglio ', " esser meglio ", " esser preferibile ": Fiore LXXV 14 me' ti varria avermi servita; e così in XXIII 13 (gli varria me' che fosse in Catalogna; lo stesso costrutto in CCIII 12), XC 6 (se tu lor presti, me' val a chitarli), Detto 16 (vai me' c'altro avere).
Non del tutto chiaro è il significato dell'espressione in Fiore CCXIV 8 Amor allor procaccia / che tra lor una trieva sì si faccia / di venti dì, o di più, che me' vaglia. Il Parodi spiega " o di quei più che tornin meglio "; il Petronio, ritenendo poco chiara questa interpretazione, propone di leggere che me vaglia, " una tregua che mi giovi, che sia a mio vantaggio "; si potrebbe anche vedere in che non un pronome relativo ma una congiunzione finale, e spiegare quindi: " una tregua di venti giorni, o anche più lunga, affinché ‛ abbia miglior efficacia ' ".
Poiché ‛ valore ' indica le qualità che sono causa di lode e di vanto, v. può significare anche " avere pregio ", con riferimento a beni sia spirituali sia materiali. Anche quest'accezione è, in pratica, attestata solo nei poemetti attribuiti: Cv I XI 20 lo pusillanimo sempre le sue cose crede valere poco, e l'altrui assai; Fiore CLVIII 8 'l cuor che n'ama un sol, non val un fico. Con allusione al valore economico di un dono o di un oggetto: CLVI 12 Se dai presenti, fa che vaglian poco; e così in CXC 9 (v. GUARI), CXXXVII 8.
Un certo interesse hanno gli esempi di Detto 251-252; l'Amante, dopo aver descritto le bellezze della donna, continua: ell'è di sì gran pregio / ch'i' non troveria pregio / nessun, che mai la vaglia, e conclude ammettendo che, se Dio mi vaglia, sarebbe pazzia da parte sua pensare in modo diverso. Secondo le norme che regolano il funzionamento della rima equivoca, i due vaglia devono avere accezioni diverse; perciò il primo potrà essere interpretato " che abbia il suo valore, i suoi pregi ", al secondo sarà da attribuirsi una funzione ottativa, esprimibile con " possa Dio aiutarmi, giovarmi ".
Riferito a vocaboli, indica equivalenza di significato. In questo senso D. lo usa o per chiarire secondo quale accezione abbia adoperato una parola italiana (Cv III IX 4 tu fai costei umile, e quella la fa superba, cioè fera e disdegnosa [cfr. Amor che ne la mente 76], che tanto vale), o, più spesso, per spiegare il significato di vocaboli greci: XI 5 tanto vale in greco ‛ philos ' com'è a dire ‛ amore ' in latino; altro esempio nello stesso paragrafo, e così in IV VI 5 (due volte) e 15. Analogamente, con uno spunto offerto da Uguccione da Pisa (cfr. anche la Vita Dominici di Teodorico d'Appoldia, citato dal Fallani a Pd XII 81), v. serve a dar rilievo all'identità tra il significato che in ebraico ha il nome di Giovanna (" Dio fa grazia ") e il dono che una donna così chiamata ebbe da Dio quando dette alla luce s. Domenico: oh madre sua veramente Giovanna, / se, interpretata, vai come si dice!
Il participio ‛ valente ' è sempre usato come aggettivo, per lo più in funzione attributiva e solo raramente come predicato o sostantivato.
Omo valente (Vn XX 5 14) è l'uomo di animo nobile. Perciò il vocabolo ricorre con particolare frequenza nel Convivio, in connessione con la trattazione del tema della nobiltà, specie là dove si confuta l'opinione che ritiene nobili coloro che discendono da avi gentili: IV Le dolci rime 36 uom chiama colui / omo gentil che può dicere: ‛ Io fui / nepote, o figlio, di cotal valente ' (ripreso due volte in VII 2); altri esempi nei §§ 8 (tre volte; in due si chiarisce che non valente è sinonimo di vile) e 9 (due volte; in un caso l'aggettivo è sostantivato), in XI 13, XXIX 5 e 7 (due volte).
Ha senso più ampio nell'ironica apostrofe rivolta da Belacqua a D.: Or va tu sù, che se' valente! (Pg IV 114), sali tu il monte, tu che sei " così bravo ", " così in gamba! ".
Assume l'accezione di " giovevole ", " efficace ", in Cv I IV 11 queste macule alcuna ombra gittano sopra la chiarezza de la bontade, sì che la fanno parere men chiara e men valente.