VALENTINIANO I imperatore
Imperatore romano d'Occidente dal 364 al 375. Flavio Valentiniano era nato in Pannonia da un certo Graziano, di oscura famiglia, nel 321. Come il padre, entrò nell'esercito e vi fece carriera, ma poi, per la sua fede nicena, cadde in disgrazia di Costanzo II. Anche con Giuliano non doveva avere fortuna. Avendo infatti un giorno colpito al viso durante una processione un sacerdote pagano, che gli aveva spruzzato il mantello d'acqua lustrale, fu dall'imperatore allontanato dal servizio e dalla corte. Per questo la Chiesa lo considera confessore. Sotto Gioviano fu invece reintegrato nei suoi gradi e promosso tribuno delle scholae palatinae. Fu eletto imperatore dai dignitarî civili e militari convenuti a Nicea dopo la morte di Gioviano per scegliere un successore a quest'imperatore il 17 febbraio 364. Il 26 dello stesso mese nel Campo di Marte presso la città fu riconosciuto e acclamato Augusto dall'esercito che volle si scegliesse un correggente. Questi fu il fratello, Flavio Valente (28 marzo); a lui V. affidò la Tracia, l'Oriente e l'Egitto, ed egli si riservò l'Illirico, l'Italia e il resto dell'Occidente; operò poi in Sirmio la divisione dell'esercito in due grandi armate, una per l'Oriente, l'altra per l'occidente, e si insediò quindi in Milano.
V. professava il credo niceno e non era affatto tiepido nelle sue convinzioni: quel che dunque fa meraviglia è da un lato come non nascesse mai un conflitto tra lui e il fratello, che era ariano e proteggeva gli ariani; dall'altro, la tolleranza a cui s'ispira la sua politica religiosa. È stato giustamente notato come dopo di lui per parecchi secoli la libertà di coscienza doveva scomparire dalla terra. La tolleranza non si limitò infatti alle confessioni cristiane, ma si estese anche al paganesimo e ai Giudei. Ne erano esclusi i soli manichei, contro i quali è un decreto del 372; e così pure furono proibiti i sacrifizî magici e la stregoneria. Il culto pagano fu protetto dalle violenze dei fanatici, l'altare e l'immagine della Vittoria, che Giuliano aveva restituiti al Senato romano, furono lasciati al loro posto Ciò non gl'impedì di tenere una politica religiosa ispirata al cristianesimo: tra l'altro, sin dal 364, abrogava la legge di Giuliano sull'insegnamento.
Merita lode anche la sua politica economica e tributaria. Come il fratello Valente, si studiò di migliorare le condizioni delle classi umili. Represse gli abusi nelle esazioni delle imposte, instaurò un regime di parsimonia anche nella vita della corte, allo scopo di limitare i bisogni e di non dover ricorrere alle estorsioni, ormai così abituali. Nel 365 impose al defensor civitatis, in funzione sin dai tempi di Costantino, e che d'ora in poi fu detto defensor plebis, la tutela degli umili contro le angherie dei potenti.
Nonostante queste rette intenzioni, l'opera di V. fu in gran parte senza effetto. Da un lato la povertà dei suoi tempi e l'esaurimento del pubblico tesoro lo costrinsero, mentre emanava buone leggi, a veder con piacere ogni occasione per far danaro, tra le quali anche le condanne capitali con le conseguenti confische di beni; a lui si devono tra l'altro leggi che sempre più affrettarono la decadenza e l'abbrutimento della società romana, come quella del 13 luglio 371, che estese all'Illirico l'appartenenza alla terra dei coloni, già in uso nelle altre regioni; d'altro lato il suo carattere chiuso, taciturno, duro, gli faceva anche prendere serî abbagli nella scelta delle persone e volgere in male le sue buone intenzioni. Così avvenne che troppi fossero i funzionarî che abusarono del loro potere esercitando la più ignobile oppressione. In Roma il praefectus annonae, Massimino, nativo, come l'imperatore, della Pannonia, infierì nel 369 e 370 contro i membri della migliore nobiltà. Quando poi da Roma fu mandato alla prefettura del pretorio gallica, quivi pure commise le stesse crudeltà. Il praefectus praetorio per Illyricum, Sesto Petronio Probo, poté straordinariamente arricchirsi a danno dei contribuenti. Ma tutti li superò per nequizia il conte dell'Africa, Romano, il quale, dal 364 al 373, angariò la disgraziata regione, trascurandone completamente la difesa, non ultima causa delle grandi sventure che colpirono quelle provincie attorno a quest'epoca.
Per ciò che riguarda l'esterno, il regno di V. fu quasi tutto assorbito dal gravissimo problema della difesa. La pressione dei barbari si fece in quegli anni di nuovo duramente sentire. Dappertutto l'edificio dell'impero vacillava e dava segni di volersi sfasciare. Dopo la partenza di Giuliano per l'Oriente, le Gallie erano piombate nel più tremendo disordine, infestate com'erano da masnadieri e minacciate sul confine dagli Alemanni. Nello stesso tempo nella provincia romana di Britannia stavano penetrando i Pitti e gli Scoti. Nell'Africa i donatisti e i circoncellioni incitavano a ribellarsi le popolazioni duramente oppresse dal malgoverno dei funzionarî, e anche qui i barbari del deserto mettevano duramente alla prova le insufficienti soldatesche. Da tali distrette V. fece ogni sforzo per uscire vittorioso. Contro gli Alemanni correva egli in persona appena gli fu possibile (autunno 365). In Britannia affidava il comando al conte Flavio Teodosio, valente generale, il padre del futuro imperatore d'egual nome. La campagna contro gli Alemanni fu lunga e difficile. Condotti da valenti capi, come Viticab e Macriano, essi avevano nel 365 attraversato il Reno e inflitto una grave sconfitta alle forze imperiali; quindi avevano saccheggiato Magonza (Pasqua del 367).
V. prima coprì Reims e Parigi, poi, nel 367, nonostante una grave malattia a cui sembrò dovesse soccombere, portò la guerra in Germania stessa. Presso Solicinium (Sulz), nel Neckar superiore, riportò una grande vittoria, che però non fu affatto decisiva. Il 24 agosto aveva elevato al grado di Augusto suo figlio Graziano, che aveva appena 8 anni. Nel frattempo Teodosio aveva ristabilito l'ordine in Britannia, liberandola dal nemico e respingendolo oltre i valli di Adriano e di Antonino (369). Ma ciò nonostante la guerra, o meglio la guerriglia, contro gli Alemanni e altri barbari germanici, continuò a tenere impegnato l'imperatore finché visse. Questi non poteva infatti riunire tutte le forze a difesa del Reno e della Rezia, dato che la rivolta di Firmo, scoppiata in Africa, lo costrinse a inviare colà, dopo una breve permanenza in Gallia, Teodosio, ch'era il migliore generale che avesse. Alla distretta germanica si aggiunsero poi a un certo momento difficoltà serissime anche in un'altra parte non meno vitale dell'Impero: la Pannonia. Mentre V. si trovava occupato a costruire il castello di Robur, presso Basilea (estate 374), i Quadi, provocati dal governatore romano della Valeria (una provincia pannonica), Marcelliano, irruppero al di qua del Danubio, insieme con schiere di Sarmati e di Iazigi. Tutta la linea del Danubio fino a Sirmio fu spezzata e travolta, e le forze imperiali non poterono più nemmeno arrischiarsi in campo aperto. Dovette così accorrere l'imperatore in persona. Accompagnato dal piccolo figlio Valentiniano e dall'imperatrice Giustina, partì nella primavera (375) per la Pannonia. Nel corso delle operazioni che egli e i suoi generali condussero in questa regione, morì improvvisamente per un colpo apoplettico il 17 novembre del 375 a Brigezio, quando già i Quadi imploravano la pace. Egli scompariva senza poter condurre a termine l'opera nella quale aveva speso quasi tutto il tempo del suo regno: la definitiva vittoria sugli Alemanni.
Bibl.: Lenain de Tillemont, Hist. des Empereurs, V, Venezia 1732, p. 1 segg.; G. F. Hertzberg, Storia dell'Impero romano, trad. it., Milano 1895, p. 1030 segg.; O. Seeck, Gesch. des Untergangs der antiken Welt, V, Berlino 1913, p. 1 segg.; id., Regesten der Kaiser und Päpste, ecc., Stoccarda 1918, p. 215 segg.; W. Heering, Kaiser Valentinian I., Diss. Jena 1927; E. Stein, Gesch. des spätrömischen Reiches, Vienna 1928, p. 266 segg.; A. Solari, La crisi dell'Impero romano, I, Milano-Napoli 1933.