Unione economica europea
Il coordinamento delle politiche economiche che ha accompagnato il processo di integrazione europea (➔ Unione Europea ) ed è culminato nella formazione dell’Unione Economica e Monetaria (➔ UEM) incentrata su una moneta comune, l’euro (➔). In campo macroeconomico l’integrazione europea non è completa, ma ha raggiunto livelli molto avanzati: l’Unione Economica e Monetaria prevede infatti il coordinamento delle politiche economiche e di quelle fiscali, con limiti al deficit e al debito pubblico (➔ Patto di stabilità e crescita), e in particolare una politica monetaria indipendente, svolta dalla Banca Centrale Europea (BCE), con una valuta comune. Anche i Paesi che non usano l’euro, ma fanno parte dell’Unione Europea, coordinano le proprie politiche monetarie con quella della BCE.
Nella teoria dell’integrazione internazionale l’unione economica (➔) rappresenta lo stadio più avanzato di collaborazione tra Stati sovrani e consiste nel coordinamento di un insieme di politiche economiche, con un grado variabile di trasferimento della sovranità nazionale verso istituzioni comuni, fino al limite della centralizzazione. Per ciascuna politica l’intensità dell’integrazione può essere valutata alla luce dei criteri offerti dalla teoria economica delle istituzioni internazionali.
In un gruppo di Paesi la centralizzazione di una politica può risultare più efficiente del suo esercizio autonomo a livello nazionale, se questo genera effetti esterni rilevanti sugli altri Paesi, non presi in considerazione nelle decisioni dei governi nazionali. Altri vantaggi possono emergere se una politica centralizzata risulta più efficiente della somma delle corrispondenti politiche nazionali in termini di costi, raccolta delle informazioni, o capacità di coordinamento. Con particolare riferimento alle politiche macroeconomiche, infine, la centralizzazione può rivelarsi come un sistema di condivisione dei rischi di instabilità del ciclo più efficace della loro gestione nazionale. Questi vantaggi di efficienza della centralizzazione vanno confrontati con i costi derivanti dalle maggiori difficoltà che le istituzioni centrali devono talvolta superare, per ottenere informazioni di qualità adeguata sulle condizioni e sulle preferenze locali. Inoltre il decentramento nazionale può consentire un grado di differenziazione locale delle politiche difficile da raggiungere per istituzioni centrali.
Dal punto di vista dell’equità, la centralizzazione delle politiche può facilitare gli interventi redistributivi, sia all’interno dei Paesi sia nei rapporti internazionali. Nel primo caso essa consente di ridurre il rischio che una misura redistributiva venga neutralizzata dalla fuga in altri Paesi dei soggetti che ne verrebbero colpiti, o da un eccessivo afflusso di potenziali beneficiari dall’estero. Nel secondo, se il miglioramento dell’equità richiede trasferimenti di reddito tra Paesi, è più facile che essi vengano realizzati all’interno di un sistema centralizzato. Infine, anche quando i benefici della centralizzazione appaiano superiori ai costi, va verificato se gli stessi risultati non possano essere raggiunti meglio limitandosi a qualche forma affidabile di coordinamento delle politiche nazionali, che ne salvaguardi l’autonomia. Il criterio discriminante è dato dagli incentivi presenti nell’accordo internazionale: l’opzione del coordinamento spontaneo è credibile soltanto se i vantaggi che ne derivano per i singoli governi superano i benefici che ciascuno di essi potrebbe trarre sottraendosi alle regole comuni.