Un teatro piccolo, povero, nuovo
Il rapporto tra teatro e territorio è da sempre tanto obbligatorio quanto problematico, almeno per via della differenza che passa tra il nomadismo dell’attore e la residenzialità dello spettatore. La soluzione di un luogo teatrale stabile, capace di ospitare un modo scenico in perpetua mobilità e feconda precarietà è stata ritenuta – per secoli ma non da sempre – l’unico e il più giusto compromesso. In realtà si tratta, però, di un’instabile e illusoria ‘quadratura del cerchio’ fra le esigenze dell’artista e le prepotenze della polis, oggi sostituita dalla parola territorio e dai confini di questo. Le dinamiche locali e le dimensioni globali da un lato, la fuga in avanti di sperimentazioni e innovazioni performative, dall’altro, hanno mutato sia il quadro politico del territorio sia il cerchio artistico del teatro, entrambi diversamente attraversati da un’analoga contraddizione tra mutamento e stabilità.
In Italia, in particolare, sia la costruzione del sistema teatrale sia l’evoluzione dell’arte scenica degli ultimi decenni hanno attraversato – in parallelo ma non in sintonia – questa contraddizione: si sono succedute, proprio a partire dall’istituzione delle regioni (1970), operazioni politiche e proposizioni poetiche che hanno infine dimostrato come sia ancora e sempre la politica a dominare la geografia del teatro ma non a fertilizzare la sua storia. Si è così assestato, nella ‘geografia teatrale’, un panorama dominato da teatri stabili pubblici e privati sempre più potenti, e attraversato da circuiti regionali sempre meno efficienti, mentre la storia ha registrato fermenti e movimenti di nuove proposte sceniche, più incisive e rappresentative delle pur numerose resistenze e insistenze di compagnie teatrali meglio quotate e più datate.
A partire dal 1970 si affermano la dimensione e la definizione di un ‘nuovo teatro’, che si estende dai vertici di una già affermata avanguardia fino a un’imprevista ed estesa base di teatri di ricerca e di sperimentazione, che prende sempre più spazio e senso, fino a costituire – prima di fatto e poi di diritto – il ricambio generazionale del teatro italiano. In parallelo e in sintonia, nasce e cresce un nuovo ‘pubblico’ in tutti i sensi: sia un pubblico teatrale che si produce per affezione o perfino per gemmazione attorno alle avventure del nuovo teatro; sia un ente pubblico che, mentre riprende slancio dalle parole d’ordine della partecipazione e del decentramento (nei proclami e nei programmi di tutte le regioni), sviluppa interesse e attenzione verso le varie attività culturali e artistiche giovanili, quelle teatrali comprese. Anzi, queste ultime vengono per prime – sia nei numeri sia nei progetti –, mantenendo per anni una paradossale supremazia sui molti altri generi culturali e spettacolari.
Cambiano dunque da una parte le dimensioni e i connotati di un teatro che si moltiplica e si diversifica come un’attività diffusa e complessa, sostenuta da una vocazione sociale e da un’ambizione artistica in un costante reciproco equilibrio; dall’altra, variano anche le esigenze politiche e le responsabilità culturali di un territorio che chiede alle manifestazioni culturali, e a quelle teatrali in particolare, sempre maggiori ricadute funzionali. Nasce così un’opposizione ma anche una complementarità fra un teatro che si dilata e varia fino a diventare indefinibile e un territorio che al contrario precisa continuamente i suoi confini e potenzia i suoi servizi: due tendenze diverse che non eliminano la continua ricerca di un compromesso, se è vero che per i teatri la stabilità è comunque una garanzia di sopravvivenza e per i territori la mobilità della proposta teatrale serve alla fecondazione di una politica culturale, dapprima in statu nascenti ma poi, fin troppo rapidamente, in statu di eccessiva effervescenza e dominanza. La storia e la carriera, la proliferazione e la sopravvalutazione degli assessori alla cultura sono la prova ma infine anche il frutto di una politica culturale che si è sovrapposta alla cultura politica.
Queste le ragioni che motivano la scelta di considerare importante il periodo dal 1970 al 2000 e di privilegiare quel nodo politico-culturale in cui si incontrano e si scontrano le esigenze della stabilità e le tendenze al mutamento dei nuovi soggetti e progetti teatrali. Un teatro ‘piccolo’, ‘povero’ e ‘nuovo’ – avremo modo di specificare – che impegna e interessa le successive ondate di cultura giovanile e ha un’estensione sociale maggiore della sua elevazione artistica, ma anche per questo promuove forme e sfide inedite che permettono al teatro tutto intero di sopravvivere entro l’attuale mercato dello spettacolo mediatico.
Accanto a questo piccolo, povero e nuovo teatro, ne resta imponente e perfino prepotente un altro, per così dire tradizionale o ufficiale: occupa quasi per intero la zona della stabilità e il ruolo di servizio pubblico, ma quanto a mobilità o vitalità artistica resta comodamente arretrato. Con diffidenza e lentezza si apre solo in parte alle innovazioni della cultura teatrale contemporanea, che invece vede protagonisti e interpreti la moltitudine dei teatranti precari e dei gruppi minori. Dagli anni Settanta in poi, i piccoli, poveri e nuovi teatri costituiscono nel loro insieme una possente retroguardia delle precedenti avanguardie degli anni Sessanta, dalle quali ereditano almeno la libertà se non la qualità della ricerca: un confuso fenomeno di rilancio di una cultura teatrale che supera e in qualche modo archivia l’antica società del teatro.
Ecco perché prima della società, ovvero del sistema teatrale, è la cultura teatrale che si propone come l’oggetto principale della nostra attenzione e analisi. Una cultura che in questo periodo cambia, o meglio scopre se stessa, ricapitolando e rinnovando il bagaglio di teorie e di pratiche accumulato in un secolo, e diffondendosi in un ventaglio di pratiche che invadono il sociale proprio per evadere dalle convenzioni e dalle definizioni tradizionali. Una cultura che rimette in discussione e rinnova la posizione del teatro, a partire dal suo rapporto con la storia e dalla sua collocazione nella geografia.
Quale storia ha il teatro? E ne esiste davvero una? Alcuni artisti non sembrano crederla possibile né utile: secondo Carmelo Bene (1937-2002), è ridicolo tentare di fare una storia dell’effimero; secondo Jerzy Grotowski (1933-1999), le ‘sorgenti’ del teatro si trovano soltanto al di fuori e prima della sociologia e della storia; secondo Eugenio Barba, il teatro e l’attore ‘viaggiano nel tempo’ proprio opponendosi al tempo storico in cui vivono. Non sono atteggiamenti estremisti ma appelli estremi per liberare il processo creativo dal suo stesso prodotto spettacolare, distinguendo così la vita dell’arte scenica dalla storia della letteratura drammatica e perfino dalla cronaca degli spettacoli.
Sembrerebbe, questa, un’esigenza dell’artista che il teatro lo fa e non del pubblico che lo vede, ma – a guardar bene – non solo la creazione ma anche la fruizione rappresenta un processo: a differenza delle altre arti, il teatro non si deposita né si consegna come un oggetto, ma si consuma come una relazione fra soggetti ogni volta diversa e si offre come un evento tante volte replicabile e tuttavia irripetibile. Naturalmente questa relazione è anche sociale e ogni evento è infine storico, ma in qualche modo soltanto ‘per finta’; oppure, detto ‘in verità’, il tempo scenico si colloca nel tempo storico ma come un suo antidoto. Certo, gli uomini e le donne di teatro hanno biografie radicate nel tempo e le loro performance sono segnate dalla società e dalla cultura della loro epoca, ma questo non annulla e anzi alimenta l’alterità della scena in cui lavorano e vivono. E nel rispetto e nel dispetto di questo contrasto con la storia, anche lo spettatore vive la sua parte, altrimenti non riceverebbe dal teatro un letterale divertimento o un’efficace distrazione. Insomma, per gli uni (gli attori) e per gli altri (gli spettatori) cambiano le quote ma non la qualità di un’indispensabile contraddizione fra teatro e storia. Se cioè nessuno può negare che il teatro accade dentro la storia, non si può dire che questa sia la ‘sua’ storia. In un certo senso, è come se la storia e il teatro viaggiassero insieme ma come due parallele che non si incontrano mai.
Se però la peculiarità della non-coincidenza riguarda tutte le opere d’arte – dal momento che tutte aspirano al superamento dello spazio sociale e del tempo storico in cui sono nate –, la regola dell’incontro e del confronto con un preciso contesto storico-sociale è imprescindibile per il teatro e il suo spettacolo. Situarsi dentro la storia e la società è anzi una condizione del suo processo creativo e del prodotto spettacolare: stare ‘fuori’ sarà magari la sua sfida, ma accadere ‘dentro’ è la sua unica prova e ragione di esistenza. Non si dà teatro se non in presenza di un pubblico, che è poi anche il soggetto autorizzato a raccoglierne – davvero dal suo punto di vista – la memoria. D’altra parte però – da quella dell’arte – c’è anche la memoria di chi va in scena, di chi più del punto di vista possiede una linea d’azione. Il risultato paradossale è che il teatro, diviso e unito nei ruoli dello spettatore e dell’attore, mette in atto due memorie e ha dunque, in potenza, due storie.
C’è in effetti una storia del teatro che, pur tenendo conto della libertà e dell’alterità dell’arte scenica, è in definitiva fatta a immagine e somiglianza del suo pubblico: una storia del consumo culturale e delle funzioni sociali che avvolgono e travestono le poetiche dell’arte scenica. C’è però anche una storia dell’arte scenica che, all’inverso, privilegia quell’autonoma ricerca di forme e domanda di senso che viene prima e vuol andare oltre la funzione sociale e il successo mondano dei suoi testi e spettacoli. Mettere insieme queste due storie è possibile, ma è davvero difficile metterle in fila, ovvero piegarle all’ordine cronologico e sottometterle al contesto sociale nel quale queste stesse storie si producono e però da subito si separano.
In definitiva, il teatro – sia dell’attore sia dello spettatore – ha uno strano senso della storia, se è vero che oscilla arbitrariamente fra regressioni e invenzioni, mescola liberamente tradizioni e innovazioni, si muove nel mare di un repertorio che è insieme sedimento e fluttuazione di antiche e nuove scoperte. In conclusione si può dire allora che il teatro si muove come un nomade nella sua stessa storia, ed è così che – di conseguenza, ma anche per convenzione – rivendica il privilegio di distinguersi dal tempo reale e dallo spazio sociale che lo accoglie ma non lo determina.
Altrimenti, ci si può chiedere, che teatro sarebbe e a chi mai potrebbe servire?
Qual è, dunque, oggi la geografia del teatro? Nell’attuale contesto, dove e come si colloca un teatro che è ormai uscito dai confini e dai destini di essere l’arte dello spettacolo per eccellenza o per antonomasia, in una società che un tempo gli assegnava un luogo deputato e un ruolo preciso?
Nell’odierna cartografia del mercato culturale globale, si può dire che il teatro sia in nessun luogo e in ogni luogo: non ha un posto fisso né una posizione coerente per via della imprevedibilità che caratterizza uno ‘spettacolo vivente’; ma intanto, proprio per questo, il teatro nasce e muore in ogni spazio o località che si voglia rendere visibile e fingersi vivibile. In altri termini, il teatro è per dimensione local e per vocazione global, ma la dinamica concreta e imperante della mondializzazione non lo considera, se non come un fantasma che si aggira in una società dello spettacolo totalizzante e totalitaria: al suo interno infatti – sia come un antenato residuale sia come un neonato casuale – appena appare e subito scompare.
Se lo si vuole concretamente toccare e fissare, bisogna dunque scendere di scala e ricominciare dalle mappe locali, visto che il rapporto del teatro con le comunità più piccole è il fondamento della sua stessa sopravvivenza.
Tuttavia non è più possibile leggere questo rapporto come un radicamento, anche quando una città o una regione gli danno un certificato di nascita o di residenza: anche in quel caso, non si può più fare una geografia del teatro basata sulla sua sede perché – nomadismo a parte – sono cambiati sia i modi sia i luoghi dell’arte scenica contemporanea. In breve, non è più pensabile un’arte teatrale che non si fondi su un patrimonio di teorie e pratiche per così dire ‘internazionali’, o che non si confonda con paesaggi e linguaggi di una vastità e varietà indefinita; d’altra parte, non è più possibile e nemmeno auspicabile che il suo pubblico coincida con una cittadinanza coerente e coesa. La mobilità non è più soltanto un’antica aspirazione dell’arte, ma una nuova ambizione della cultura e della società, prima ancora dell’avvento del mercato globale.
Tutto questo non toglie nulla al rapporto o all’impegno nel ‘proprio’ territorio di origine e residenza, ma non è più come quando il linguaggio e il paesaggio davano identità e continuità a un teatro cittadino, regionale o perfino nazionale. Non che non ci siano più artisti e opere che si abbeverino alle tradizioni di specifiche regioni o città: forse ancora oggi i migliori testi e spettacoli restano debitori della cultura e della società locale, da cui prendono linfa e lingua, temi e stili e aspirazioni. Ha ancora e sempre ragione Jean Duvignaud, il primo sociologo del teatro, quando sostiene che «più di ogni altra arte il teatro non potrebbe mai essere separato dalla regione dove nasce» (1965; trad. it. 1974, pp. 46-47), ma in Italia non ci sono più le consolidate e autonome aree regionali (il Veneto e Napoli, la Sicilia e Firenze, ecc.) che partoriscono e consumano un teatro proprio, così come non ci sono teatri che si limitino a riflettere e criticare una specifica realtà e comunità. Si sono interrotte la volontà e la capacità di rappresentazioni che funzionino come rappresentanze. A ripercorrere le vecchie categorie – circa il valore riflessivo e la funzione speculare dell’atto scenico, la comunità del pubblico, la critica sociale e infine politica, ecc. –, i concetti e i programmi del teatro sembrano gli stessi ma hanno cambiato significato, ovvero il loro rapporto con il luogo sociale e il tempo storico. Entrambi vicini ed entrambi distanti.
Oggi, il pubblico e la scena sono ancora complementari e contrapposti, ma non hanno una storia e nemmeno una geografia in comune. E, forse, il distacco geografico è più forte e molto più datato, almeno da quando il coro della tragedia greca ha cessato di fare le veci del pubblico, ovvero di dare a esso la voce: altro è stare fermi per così dire a casa propria ad aspettare il passaggio dei comici, altro è aspettare Godot nello spazio vuoto e sospeso di una scena fuori dal mondo, eppure cuore del mondo. Certo, c’è una storia sociale del teatro che può raccontarlo e c’è una geografia politica che può raccoglierlo; ma è altra la storia poetica della ricerca e la geografia fisica della proposta scenica, anche quando (e proprio perché) il rapporto con la regione di origine si fa più profondo e diventa miniera intima di energie e linguaggi di un teatro che si proietta altrove, e si rivela universale. Se sembrano pochi gli esempi espliciti (autori e/o attori come Annibale Ruccello, 1956-1986, Spiro Scimone, Enzo Moscato, Franco Scaldati, 1943-2013), sono molti gli artisti della scena che si fanno impliciti interpreti di questo aperto e segreto rapporto con le culture locali di ‘appartenenza’ (stavolta nel senso inverso di un artista non più dipendente ma padrone della cultura che gli appartiene). E intanto, però, proprio la moltiplicazione delle differenti miniere e maniere artistiche locali, caratterizza e anzi realizza una geografia nazionale dell’arte scenica.
Si vuol dire – e si può finalmente dire – che, dopo gli anni Settanta, le regioni hanno unito l’Italia anziché dividerla, proprio perché il nomadismo del teatro ha funzionato in profondità (più della superficialità del cinema e della pervasività della televisione), attivando un rinnovato sistema circolatorio degli infiniti particulari che da sempre confluiscono nella strana universalità della cultura italiana: nel suo ‘teatro’ si dovrebbe dire, al quale l’arte e la parte dell’attività scenica dà continue alimentazioni e conferme.
C’è ancora, oppure c’è di nuovo, un ‘teatro all’italiana’? ‘C’è ancora e c’è di nuovo’ è la risposta corretta.
Ancora, perché i teatri e i teatrini storici – replicati per secoli con le modalità e le soluzioni barocche della scena all’italiana – sono tuttora gli edifici che impongono la definizione corrente di teatro; ma quel che è più grave è che si propongono tutt’oggi come le sedi naturali per l’allestimento e la programmazione degli spettacoli teatrali, con una vistosa ma ignorata inadeguatezza sia per il lavoro degli attori sia per la fruizione degli spettatori. Inutile sottolineare che, in Italia, la presenza e il prestigio di questo patrimonio ‘monumentale’ ha fin qui giustificato la scarsa attenzione e il magro investimento dedicato alla costruzione di teatri più moderni e meglio attrezzati per le nuove esigenze dell’arte scenica: sono poche le sale e le scene dove è possibile variare lo spazio dell’azione e della visione, in un’epoca che si è caratterizzata proprio per la contestazione dello spazio teatrale tradizionale e in cui si sono prodotti molti spettacoli basati sulla mobilità degli spettatori e sulla rivoluzione dello spazio scenico.
Di nuovo, perché l’arte scenica italiana prosegue tuttora la sua vocazione neobarocca alla sperimentazione, come inseguendo l’esempio e lo spirito che hanno caratterizzato la sua storia plurisecolare. Non sempre il teatro italiano è stato all’avanguardia, ma è stato ed è ancora costantemente animato da un’ansia di ricerca e una febbre di spettacolarità che sono la virtù o il vizio culturale che lo distinguono, in un panorama internazionale che è – oggi più di ieri – un ambiente integrato e un riferimento obbligato. Si tratta per la verità di forti ‘dosi’, più che di peculiari ‘doti’, di sperimentazione, ma è poi la quantità del lavoro verso un continuo mutamento del teatro a dettare la qualità di atteggiamenti e di scelte che confermano – pur nel quadro della globalizzazione e nel segno dell’omologazione – le attuali originali caratteristiche del teatro all’italiana.
Prima fra tutte le sue originalità è proprio l’apertura ai teatri degli altri e la capacità di assorbirne le influenze e di sposarne le tendenze. In altri Paesi o in altri sistemi teatrali non ci si mostra altrettanto avidi verso le scuole e i maestri, le teorie e le pratiche, le sfide e le mode del teatro mondiale. Gli artisti della scena all’italiana sono stati invece festosamente travolti da frequenti ‘invasioni barbariche’, e felicemente sconvolti dalle lezioni dei più grandi esempi del teatro contemporaneo occidentale. Gli stessi protagonisti e gli stessi fenomeni hanno magari riguardato tutta l’Europa, ma il modo intenso e il senso profondo della contaminazione che c’è stata in Italia avrebbero letteralmente spaesato ogni altro teatro europeo. Né la Francia o la Spagna, né la Germania e tanto meno l’Inghilterra, si son mai volute e potute spalancare come ha fatto la scena italiana alle rivoluzioni del Living theatre, alle evangelizzazioni di Grotowski, alle maestrie di Peter Brook, alle colonizzazioni dell’Odin teatret; e non si possono non citare i nomi di Tadeusz Kantor (1915-1990), Pina Bausch (1940-2009), Robert Wilson e dei molti altri gruppi e modelli importati, e tutti importanti, che sono arrivati – e spesso si sono ‘accasati’ e riprodotti – in Italia. Numerose compagnie e molti artisti stranieri, tra i quali Kantor, hanno avuto per anni residenza nel nostro Paese; altri, come Grotowski e il suo Workcenter, il Living theatre e, prima, la Comuna Baires, hanno scelto l’Italia come sede stabile del loro lavoro; altri ancora, come Thierry Salmon (1957-1998), César Brie e soprattutto l’Odin teatret, hanno nei fatti acquisito un’identità oriunda, mentre hanno aiutato il nuovo teatro italiano a dotarsi di una carta di identità internazionale. Il teatro all’italiana degli ultimi decenni ha così ritrovato il desiderio e il prestigio di ‘teatro viandante’, mentre si è disposto e proposto come ‘la scena stabile’ di un’acculturazione incessante, senza temere di perdere nulla ma anzi avendo tutto da guadagnare.
Questa apertura non riguarda la superficiale esterofilia della cultura italiana, ma si basa sulla certezza di una forte tradizione e di una solida vocazione teatrale – che molti ritengono un tratto culturale tipico del nostro popolo – unita alla fragilità di un sistema teatrale che non riesce a darsi forma e fondamento istituzionale. Insomma, a un formidabile appetito, che è indice di uno stato di salute della nostra cultura teatrale, pare corrispondere – soprattutto dopo il fascismo – una (forse altrettanto salutare) incertezza e frammentarietà dei modi organizzativi e delle scelte politiche dei teatri. Si tratta della classica contraddizione tra imponenza culturale e impotenza politica che non segna soltanto il teatro, ma che nel teatro cambia di segno: la sua non risoluzione acquisisce anche il senso di una felice assoluzione. Non è sempre vero, cioè, che la disattenzione e l’indecisione istituzionale siano un peccato, se si considera che il ritardo e perfino l’incuria dell’intervento politico – una legge che regoli il settore è attesa inutilmente da tempo – hanno liberato un’inventiva e una spregiudicatezza tanto estetica quanto organizzativa, costringendo la politica a un lento ma rispettoso inseguimento, invece che a un precoce e autoritario inquadramento.
Il teatro all’italiana appare allora come il luogo dove un ‘popolo’ di artisti, sorprendentemente attivo anche nei momenti di crisi e stagnazione, fa il paio con un pubblico potere che resta insieme stupito e spiazzato davanti alla vivacità di un’arte, che infine è ancora considerata costume, esattamente come in epoca barocca. Se poi si considera l’incremento della politica culturale degli ultimi decenni, si ha la controprova e la conferma di quanto abbiamo detto: un atteggiamento più favorevole e un’attenzione più esplicita da parte della politica non hanno affatto mutato la marginalità e però anche la libertà dell’arte e della cultura teatrale. Sul piano locale, per es., a fronte di un esercito di assessori alla cultura che si fingono mecenati per ottenere il consenso del pubblico, ci sono gli attori, i quali, invece, non raccolgono che briciole di successo, ma hanno la libertà dell’essere felicemente lasciati a se stessi.
Lasciandosi tentare dalla storia e dunque chiudendo a oggi i suoi conti, si potrebbe concludere che alla mobilità dell’arte scenica è fin qui convenuta la stabilità del teatro di pubblico servizio. Come se un involontario patto fra poetica e politica le volesse separate in casa e unite fuori, l’una e l’altra alla ricerca di una ‘legge’ che fissi le regole e le sovvenzioni, ma anche di un inganno che consenta sia l’arbitrio del politico sia l’anarchia dell’artista. Un’anarchia come aura, se non come scelta: l’artista di teatro non si alimenta – come il politico – di consensi a priori, ma neppure i successi certificati a posteriori si possono capitalizzare in duraturo prestigio. Ogni teatrante, in ogni spettacolo, deve dar prova di sé, e però intanto ogni prova deve ricominciare daccapo, come una promessa o una scommessa sempre nuova, sempre ‘alla ricerca’.
C’è un motivo, o si può dire un motore, tutto italiano che radicalizza tale situazione e la spiega. Sia l’apertura a tutte le influenze e innovazioni, sia la combinazione fra le impotenze pubbliche di un sistema teatrale indefinito e la prepotente libertà delle proposizioni artistiche individuali trovano una ragione nella caratteristica principale del teatro all’italiana: la centralità, anzi l’egemonia dell’attore.
Il nostro è un teatro d’attore, che si è sempre confermato tale, anche dopo un secondo dopoguerra in cui pareva dovesse affermarsi un moderno teatro di regia. In realtà, pochi grandi nomi come Giorgio Strehler (1921-1997), Luigi Squarzina (1922-2010) e poi Luca Ronconi hanno magari dato forza al ruolo ma non dato vita o fatto scuola a generazioni nuove di registi-demiurghi al loro livello. A conti fatti e con il passare dei decenni si può dire che il regista non ha mai avuto la meglio su chi in scena ci va, e si produce e si consuma in prima persona. Il teatro italiano è caratterizzato e meglio rappresentato da attori come Eduardo De Filippo (1900-1984), Dario Fo, Bene, Carlo Cecchi, Leo De Berardinis (1939-2008) e Paolo Poli, che sono diventati uomini-teatro riassumendo in sé i compiti della regia e della drammaturgia (e la supervisione della scenografia, dei costumi e di tutte le componenti tecniche dell’arte scenica). Alcuni poi sono stati favoriti in quanto autori, ma infine autori lo sono tutti, almeno da quando la letteratura drammatica non ha più nessun primato da rivendicare rispetto alla scrittura scenica.
Ma il confronto impari fra gli attori e i registi del teatro italiano non si deve al rispettivo successo, bensì alla continuità del teatro dell’attore-autore, rispetto alla intermittenza di figure di registi pure importanti. Passando alle generazioni più recenti, più volte si è registrato il successo di giovani registi, ma la loro sottile linea genealogica non conta quanto quella ben più solida degli attori-autori, che restano numerosi e ancora rappresentativi di un’italica peculiarità. Fare e confrontare i nomi non vale – anche perché da più di trent’anni si nasce nello stesso ‘gruppo’ prima di sposarsi in compagnia –, ma l’elenco dei registi, a partire da Federico Tiezzi, Mario Martone, Giorgio Barberio Corsetti, Romeo Castellucci, Marco Martinelli, nati tra gli anni Cinquanta e Sessanta, fino a quelli appartenenti alle generazioni successive, potrà compensare il peso, ma non competere con il senso di tutti quegli attori che, anche fuor di scrittura, fanno un loro teatro (o fanno loro il teatro dei registi). Ai nomi di attori ‘associati’, come quelli di Sandro Lombardi e Peppe Servillo, si possono aggiungere e perfino premettere molti attori ‘indipendenti’, come Claudio Morganti, Alfonso Santagata, Antonio Neiwiller (1948-2003), Danio Manfredini, Pippo Delbono, Armando Punzo, nonché gli attori-narratori, come Marco Baliani, Marco Paolini e Ascanio Celestini; tra le tante attrici che si fanno autrici della propria arte si possono inoltre citare Luisa (1957-2013) e Silvia Pasello, Ermanna Montanari, Elena Bucci, Laura Curino, Daria Deflorian. Tuttavia, non sono tanto i nomi a contare, quanto una cultura dell’attore e dell’attrice che trascende le differenze dei ruoli e le spartizioni dei poteri di scena. L’attore, in definitiva, anche nei teatri dove non appare come persona o ruolo dominante, è comunque – almeno in Italia – un termine che sovrasta e intanto unifica tutti gli artisti della scena: è in fondo il cognome di tutta la famiglia dei teatranti, anche di quelli che hanno altri compiti ‒ perfino più prestigiosi ‒ di autore, regista, scenografo.
Un complemento o un corollario del teatro d’attore è l’accentuata singolarità dello spettatore, che non si confonde più nella plurale e indistinta comunità del pubblico. Il fenomeno di uno spettatore promosso a seconda persona di una relazione continua con l’artista (prima che con il suo spettacolo) non è certo una caratteristica del teatro italiano. Si registrano in effetti ovunque – almeno in Europa – le mutazioni sociali e le esperienze teatrali che lo hanno fatto nascere e crescere: soprattutto quelle che hanno instaurato una nuova ritualità oppure inaugurato nuove spazialità. Ma, in aggiunta a queste inedite convenzioni di tutti i teatri, anche la tradizione nostrana dell’attore è importante, perché rafforza il rapporto e induce al confronto per così dire ‘interpersonale’, sia pure nel quadro di un’ammirazione distante o di una devozione divistica. Man mano che poi si passa o si scende al teatro minore o giovane, è più facile che la relazione attore-spettatore sia meno mediata o deviata dal successo dello spettacolo. Anche in Italia allora – e, visto il numero dei giovani gruppi, nel nostro Paese più che altrove – nasce e cresce uno spettatore coetaneo e contiguo all’attore. Spesso iniziato alla pratica e comunque interessato alla teoria del teatro, non esprime una domanda di mercato ma è portatore di una sua offerta parallela a quella dell’attore: una combinazione di due offerte culturali che si incontrano e talvolta si mescolano nelle occasioni dei festival, nelle situazioni di studio e perfino nelle progettazioni creative.
Del resto, sia in Italia sia altrove, il pubblico di cittadini che in altre epoche aveva la forza di una committenza, è sparito. Soltanto la politica dei teatri stabili (ovvero anche la stabilità del ‘teatro’ della politica) finge ancora di dover rispondere a una domanda del pubblico, ossia di mercato. Ed è così che un pubblico per così dire all’antica resiste nelle cifre e nei proclami dei teatri ‘ufficiali’, che si ostinano a rilanciare il teatro come consumo culturale di prestigio: tutti i grandi teatri pubblici e privati vogliono e vantano un pubblico di abbonati e di abituali che recitano ancora la loro parte mentre salgono sia di numero sia di importanza. Ed è ancora questo il pubblico che non conta ma che viene contato, incrementato e fidelizzato secondo gli imperativi e con i dispositivi di un mercato che forse economicamente lo ignora, ma culturalmente lo assedia. E, infine, politicamente lo salva.
Dentro questi teatri e verso questi pubblici resta spesso ferma e per così dire ‘classica’ la proposta artistica, mentre si pone attenzione al restauro di una mondanità in grado di appagare l’utente di un ente teatrale che non è più dell’attore ma nemmeno dello spettatore. Forse la differenza ‘all’italiana’, rispetto ad altre realtà teatrali nazionali, sta proprio nel fatto che, da noi, gli spettatori nuovi e il pubblico all’antica sono ancora e sempre più divisi, fino a non poter essere sommati insieme nella stessa audience teatrale.
Vorrebbero invece tirare queste somme quelle ‘terze persone’ che in teatro ricoprono una parte diversa dall’arte: non gli inservienti di sala o i servi di scena, ma la sempre più nutrita schiera di funzionari, direttori e amministratori che occupano del teatro, in tutti i sensi, i piani superiori. Sono loro che possono farla da padroni del locale teatro, ma che non sempre sono veri impresari d’arte. Reggono la stabilità dell’edificio e la funzionalità del servizio, mentre gestiscono i fondi e fanno tutte le scelte di programmazione e produzione. E però la zona piccola, povera e nuova dell’arte scenica non è di loro competenza, anche se si sottomette alla loro potenza.
Ogni teatro si trova diviso tra chi lo fa e chi lo ha, come se l’arte non riguardasse la parte di chi si occupa di ospitare, accompagnare, valorizzare gli attori, e nello stesso tempo di attrarre, accogliere e perfino istruire gli spettatori. In realtà non si tratta più di una parte o di una professione specificamente organizzativa, ma di persone che ricoprono ormai un ruolo di comando e insieme una funzione di mediazione che irresistibilmente si prende tutto il campo della relazione e tutta la responsabilità dell’evento teatrale: il contenuto (quello che si fa in scena e si vede in sala) rischia di diventare intercambiabile o addirittura trascurabile a fronte di un contenitore (il cartellone o il festival o altre mille occasioni e confezioni) che sempre più si sostiene e si giustifica da solo davanti a un consumatore di cultura che non è più spettatore del teatro.
Altrove accade forse lo stesso, ma conta di meno. In altri Paesi o sistemi teatrali sembra che ancora il prestigio degli artisti, il giudizio dei critici e il favore del pubblico facciano sì che la scena prevalga sulla sala. Da noi, invece, fra l’arte scenica e la sala pubblica sembra di nuovo valere la separazione ma anche la sproporzione dell’epoca in cui gli spettatori-proprietari si pavoneggiavano e spadroneggiavano dentro l’antico teatro all’italiana.
Un’ultima caratteristica del teatro italiano contemporaneo è l’intenso ma modificato rapporto con la sua tradizione. L’atteggiamento ‘all’italiana’ non è mai stato quello di un profondo legame ma di un vanto e di un ricorso. Forte della tradizione e della sua fama artistica, il teatro italiano ha sempre cercato altro, ed è sempre andato oltre. Se poi la tradizione come sostanza tecnica e densità teorica cammina dentro la scena come trasmissione ‘corpo a corpo’, il suo bagaglio di glorie e di repertorio è più nell’orgoglio dello spettatore che nella memoria dell’attore.
Più del repertorio, nel teatro dell’attore conta ancora un lignaggio, che però ha cessato di esprimersi in famiglia o bottega d’arte, a parte le sporadiche eccezioni rappresentate dalle ‘botteghe’ dei mattatori, come Vittorio Gassman (1922-2000) e poi Gigi Proietti; ancor meno da noi si fa scuola o si va a scuola (fatti salvi alcuni casi, come la Scuola d’arte drammatica ‘Silvio D’Amico’ di Roma o la Scuola civica di teatro ‘Paolo Grassi’, oggi della Fondazione Milano), ma semmai si vanno ‘a sentire i pifferi’, come accade a Pinocchio. Ci si infila cioè nei teatri dei migliori mangiafuoco e si cerca di vedere e di rubare, ogni attore nascendo come ammiratore di un altro che lo precede e lo ispira.
Quanto alla drammaturgia e alla regia, non sono molti gli autori o gli spettacoli del primo Novecento teatrale che restano nella memoria o nella scrittura di scena: le eccezioni di Luigi Pirandello (1867-1936) e magari di Gabriele D’Annunzio (1863-1938) non compensano un cartellone che si rinnova piuttosto con autori europei e con i drammaturghi del nuovo teatro americano, che il teatro ha finalmente il potere e il dovere di non considerare ‘stranieri’. È peraltro da più di un secolo – da André Antoine (1858-1943) e Konstantin S. Stanislavskij (1863-1938) in poi – che la via e la vita del teatro contemporaneo sono unitarie e davvero transnazionali.
Diverso è il discorso e l’atteggiamento verso le tradizioni popolari, ovvero il rapporto con le miniere culturali e le maniere sociali delle cento città e regioni d’Italia. Dagli anni Settanta in poi – in coincidenza non casuale con l’istituzione delle regioni – gli interessi e gli interventi verso le culture locali e le specificità sociali di ogni pur piccola realtà hanno coinvolto il teatro prima e più delle altre arti. Si può addirittura dire che lo sviluppo e la fortuna accademica delle scienze umane (storia, sociologia, semiologia e, soprattutto, antropologia) hanno avuto nel teatro una collaborazione e una complicità che non possono essere dimenticate. La nascita del DAMS (Discipline delle Arti, della Musica e dello Spettacolo) di Bologna – e la successiva ed eccessiva proliferazione di corsi di laurea analoghi in quasi ogni sede universitaria – è solo una delle prove di quanto l’arte come conoscenza e la scienza dell’arte si siano dimostrate interessanti per le nuove generazioni di studenti e docenti; e anche, in quel quadro, il teatro e i teatranti – insieme «uomini di scena ma anche uomini di libro» (Taviani 1995) – hanno svolto un ruolo primario e fondamentale. Fra i ricercatori e i valorizzatori delle tradizioni popolari e più in generale delle culture minori e subalterne, non si possono non annoverare teatranti come Giuliano Scabia o Fo e, più in generale, i protagonisti della prima animazione e dell’ultimo teatro politico, prima ancora della fioritura di un teatro antropologico o dell’invenzione della ‘Antropologia teatrale’ di Barba. A questo proposito, c’è da segnalare che tanto l’esplorazione dei primi animatori quanto il teatro di intervento politico degli anni Settanta (con al centro il circuito alternativo dei circoli La Comune), come infine l’avventura ‘antropologica’ del teatro – durata almeno per tutti gli anni Ottanta – hanno agito contemporaneamente in estensione e in profondità: verso il global e dentro il local si potrebbe oggi dire.
Se poi con l’animazione sociale e la comunicazione politica il ‘globale’ rimane ancora riferimento ideologico, esso diventa davvero geografico con il ‘teatro antropologico’. Sono stati numerosi – soprattutto sull’esempio o sulla scia dell’Odin teatret – i gruppi teatrali orientati verso l’America Latina e l’Asia e perfino l’Australia (esplorata dal Teatro dell’IRAA, Istituto di Ricerche Antropologiche sull’Attore); nello stesso tempo, quasi ogni piccolo e nuovo teatro ha moltiplicato scavi e interviste dentro la memoria delle comunità locali italiane che gli davano residenza o si incontravano nelle tournée.
L’aspetto essenziale e originale è che tutti questi teatri hanno agito ai fini di alimentare la propria alterità attraverso la conoscenza e lo sfruttamento delle residue culture ‘altre’ che la tradizione popolare rendeva disponibili. Non dunque per politica, ma piuttosto per poetica, hanno orientato le loro ricerche verso le radici del nostro patrimonio culturale con il fine di far proliferare i rami fruttiferi dei loro spettacoli. In definitiva non si è trattato cioè – come spesso narrano i libri e vogliono gli studiosi – di operazioni di restauro e riproposizione della tradizione, ma di rifunzionalizzazione, nell’arte e nello spettacolo, di tutti i reperti etnici e repertori linguistici disponibili.
L’uso del dialetto può aiutare a chiarire la questione del rapporto tra nuovo teatro e vecchie tradizioni. Da tempo, nemmeno più il teatro amatoriale usa il dialetto per avvicinare e divertire un pubblico di paese; quello di ricerca e di sperimentazione, poi, rovescia decisamente il modo e il fine dei mille dialetti da riscoprire e riadoperare. Il dialetto si restaura e si aggiorna nello stesso tempo: è insieme una lingua più quotidiana e più criptica, più immediata e più nascosta. Gradualmente passa da sorgente a deriva linguistica: da gergo antico popolarmente diffuso e capito, il dialetto diventa il gorgo di un’oralità in cui si conservano le voci più remote mentre si assimilano tutti gli slang più innovativi e periferici delle subculture attuali. Proprio questa sua ambiguità, anzi ubiquità, lo rende prezioso per chi fa teatro: un vocabolario di suoni forti e segni vitali, in grado di collegare l’antico al postmoderno e dunque di avanzare ben oltre le possibilità espressive di una lingua nazionale che in Italia ha magari fatto scuola ma non è mai passata nella quotidiana sociabilità.
Diversamente dal cinema della commedia all’italiana, il nuovo teatro raramente usa il dialetto per dare spazio e rappresentazione a ceti o mondi particolari, ma se ne serve per sfidare e sfaldare la lingua scenica e per dar forza a una recitazione che ritrovi un’efficacia musicale e perfino un’altezza poetica. Il dialetto così diventa anch’esso nuovo: gli esempi e i nomi possono essere infiniti, ma il percorso nel dialetto romagnolo di un’attrice come Ermanna Montanari e il ricorso al tono dialettale veneto del narratore Paolini, possono fare da poli di un ventaglio ampio di possibilità, molte già esplorate e molte ancora di là da venire, di drammaturgia d’attore.
Al centro, da non dimenticare, c’è il mezzo della letteratura: ci sono cioè anche i versi e i testi di grandi poeti e di scrittori maestri di letterature orali locali, da sempre e ‘per natura’ vicini al teatro. E le regioni più ricche di autori e attori del dialetto sono sempre quelle che hanno mantenuto il proprio carattere linguistico, per forza di alterità culturale oppure in forza di una marginalità politica che ancora fa la storia e disegna la geografia del Paese. Così, anche il teatro nuovo si imbeve di dialetto nelle solite aree: dalla Sicilia alla Campania passando per quasi tutto il nostro Meridione, fino alla Romagna e al Veneto e a rare isole poco coltivate nel resto del Nord; al Centro, poco o nulla (ma più nulla che poco). Quello che però vale dappertutto, facendo la somma delle regioni e delle città italiane, è che il teatro si è dato il compito di mescolare, in una sua indefinita κοινὴ διάλεκτος, tutti i suoni e i significati di cui la cultura policentrica nazionale (un ossimoro davvero all’italiana) è dotata, perfino eccessivamente. Il teatro nuovo è forse allora il primo vero teatro nazionale, proprio perché le lingue e le tradizioni locali non sono più riserve separate, ma si estendono come un panorama tutto accessibile e disponibile per ogni scavo o furto creativo.
Infine, se il dialetto non è più la base per l’identità dello spettatore o della comunità del pubblico, tanto meno lo è per l’attore che da sempre si sceglie liberamente la sua patria di adozione e la sua lingua di formazione. Così, per es. – e sono i migliori esempi di attori contemporanei ‘all’italiana’ –, il toscano Cecchi si ribattezza napoletano e, all’inverso, il leccese Bene respira un toscano senza inflessione ma da vocazione. Per finire con il poliglotta Fo, che si inventa e indossa un grammelot che non è più lingua ma una bocca che inghiotte ed erutta suoni e toni di ogni patria regionale o internazionale.
Il nomadismo dell’attore celebra dunque con la tradizione il suo ultimo atto: quello di una transculturalità che cammina al di sotto e però si eleva al di sopra delle pretese culture di appartenenza o di residenza. Nulla patria in propheta: così Bene intitola nel 1995 una poesia piena di distillato rimpianto salentino. Il fatto è che l’attore all’italiana non è mezzo ma fine del teatro, almeno quando riesce nel suo volo. Il punto di partenza è importante e fa da àncora costante, ma non ferma la regola di fuggire dalla realtà e il desiderio di sfuggire a ogni identità, a cominciare dalla propria.
Per entrare più nel merito e riesaminare con maggior metodo l’attuale teatro all’italiana – cercando per quanto si può di risalire la sua recente storia e di atterrare nella sua concreta geografia – ci si servirà dei tre attributi ‘piccolo’, ‘povero’ e ‘nuovo’ che insieme misurano la quantità e definiscono la qualità dell’attività teatrale contemporanea. Ciascuno di essi ha titolo per essere scelto come fulcro attorno a cui sviluppare i temi della politica, dell’economia e della poetica del teatro italiano contemporaneo, sempre privilegiando le espressioni e le esperienze più significative, che poi sono davvero – a conti e racconti fatti – le più piccole, povere e nuove.
Il teatro è ‘piccolo’ ma le sue dimensioni non c’entrano con la sua importanza, che non viene solo dal prestigio artistico ma anche dall’essere in ogni luogo e per ogni collettività l’unico o l’ultimo ‘tempio laico’ dove la politica fa ancora rima con la comunità e può persino celebrare la sua sacralità. La prima funzione liturgica della Liberazione e quindi dell’avvio della ricostruzione nazionale avviene non a caso in un teatro, quando, l’11 maggio 1946 al Teatro alla Scala di Milano, Arturo Toscanini (1867-1957) officia un concerto d’opera. Il teatro è strapieno – si dice – ma si tratta pur sempre di un pubblico scelto di pochi testimoni che hanno il privilegio e la responsabilità di rappresentare l’intero popolo italiano. Prima ancora di rifondare la politica e scegliere tra monarchia e Repubblica, si ricomincia dalla cultura e dall’arte nel piccolo di un grande teatro.
Qualche anno dopo, ancora a Milano, nasce per iniziativa di un organizzatore, Paolo Grassi (1919-1981), e di un regista, Strehler, il primo progetto di teatro nazionale, stavolta piccolo di nome e non solo di fatto. Il Piccolo teatro di Milano interpreta però il suo aggettivo come un limite più che come una scelta: Perché un piccolo teatro è il titolo del suo primo programma di sala (17 maggio 1947) e insieme l’incipit di un manifesto di intenti che comincia col dichiarare che «questa è la condizione che abbiamo dovuto accettare in partenza», aggiungendo però che «anche in questa limitazione, vorremmo trovare un significato felice».
Le promesse di grandezza futura e la predizione di diventare un modello da diffondere in tutta la nazione saranno poi mantenute: l’intera rete dei teatri stabili italiani continuerà per decenni a ispirarsi alla sua forma organizzativa da ‘teatro d’arte aperto a tutti’ con intenzioni di educazione civile e con funzioni di servizio pubblico. Ma la moltiplicazione dei grandi teatri stabili non potrà mai ovviamente annullare il limite dimensionale di ogni teatro, e infine di tutto il teatro. Che, è bene ricordarlo subito, significa due cose diverse ma non divise: un luogo e un modo. Di regola e da dizionario, un edificio e un’arte, un luogo del vedere e un modo dell’agire complementari, al punto che non è facile né sempre felice distinguerli. Tanto più se è vero che l’una o l’altra definizione non correggono il dato di fatto di un teatro ‘piccolo’, anche quando l’edificio è imponente o quando la sua arte è davvero grande.
Il teatro è dunque piccolo per dimensione, per paragone o per convinzione?
Di sicuro ogni teatro è dimensionato a misura di una relazione – fra attori e spettatori – che non può permettersi dilatazioni che minaccino la felicità della compresenza o disturbino l’efficacia della rappresentazione. Ancora si discute sulla capienza e la concentrazione necessaria di un teatro ideale, ma oggi più di ieri è lo spettacolo che detta le regole del suo spazio e del suo tempo: in ogni caso resta ‘piccolo’, anche quando si rinnova la tecnologia e si allargano le ambizioni, visto che infine è l’incontro ‘corpo a corpo’ quello che deve avvenire perché il teatro resti tale. L’incontro il più possibile ravvicinato è poi quello che finisce per prevalere e per durare, visto che quella ridotta dimensione che ieri era limite diventerà sempre più chiaramente una scelta, anzi la soglia oltre la quale il teatro rischia di perdere la sua differenza e di disperdere la sua stessa essenza.
È così che allora – a paragone di un’industria culturale in continua espansione commerciale e rivoluzione tecnologica – il teatro non si può che collocare all’ultimo posto, e nel più nascosto reparto dei consumi spettacolari. Sono da tempo altri i mezzi e i linguaggi che hanno conquistato tutta la parte di mercato possibile e di pubblico disponibile nell’attuale società dello spettacolo. E questo ogni teatro lo sa, anche quando finge di non saperlo. Del resto, anche prima dell’arrivo e del successo di cinema, radio e televisione, anche cioè nella sua storia remota, il teatro ha sempre avuto alternative spettacolari di maggiori dimensioni e di proibitiva concorrenza: dai giochi e dalle gare dell’anfiteatro alle feste rinascimentali e poi barocche, fino agli stadi delle manifestazioni sportive di ogni tempo e dei concerti rock e pop della nostra epoca, sono sempre altri gli spettacoli con maggiori presenze e frequenze del ‘piccolo’ teatro.
È dunque fondata la convinzione di una ‘minorità’ che però, nel corso dei decenni, passa sempre più da stigma quantitativo a rivendicazione qualitativa: benché i suoi numeri siano bassi, la classifica pone ancora al vertice l’arte teatrale, se è vero che la sua condizione minoritaria si è convertita nel tempo in vocazione, e la stessa limitatezza dei suoi modi e luoghi ha infine favorito la ricerca di altezze poetiche e profondità interpretative; quando addirittura non è riuscita a riconquistare vette di ‘maraviglia’, anche facendo proprie quelle tecnologie avveniristiche che parevano averlo emarginato.
E ancora – tornando alla storia del teatro del presente – un ulteriore paradossale riscatto ha segnato il piccolo teatro di prosa anche nei confronti di quel grande teatro musicale che ha dominato la storia e la geografia del Belpaese. Ora, è innegabile che la tradizione e la qualità assegnano al nostro teatro d’opera una supremazia imbattibile ma – anche a prescindere dal suo essere assegnato al settore dello spettacolo musicale – proprio la sua qualità e la sua eternità hanno finito per promuoverlo a bene culturale, lasciando per intero al piccolo teatro di parola e di azione il campo e la sfida da attività culturale.
Inutile segnalare il fatto che la politica culturale italiana ha sempre privilegiato i beni rispetto alle attività, se non altro per il culto che si deve al patrimonio artistico più ricco del mondo, ma infine, in modo sempre più evidente e dichiarato, per il profitto che si potrebbe trarre da un efficace sfruttamento turistico ancora di là da venire. Le attività culturali costituiscono dunque il secondo più trascurato capitolo del Ministero per i Beni e le Attività culturali (MIBAC), ma come dato quantitativo, e perfino come effetto qualitativo, nel sociale esse hanno un rilievo maggiore, tanto più quando si scende di livello, passando dal governo nazionale all’amministrazione locale: quanto più, cioè, la politica si fa piccola tanto più crescono nei fatti sia la visibilità sia l’importanza di attività culturali e iniziative spettacolari, fra le quali – ulteriore sorpresa – il piccolo teatro fa la parte del leone.
Il terreno delle attività culturali è vasto e al limite indefinito, ma proprio per questo la piccola dimensione, la leggerezza della relazione, l’immediatezza dell’evento favoriscono il teatro davanti a scelte più complesse, tecnologie più costose, processi più lunghi di formazione e infine risultati meno gratificanti e garantiti (si pensi al cinema, alla musica, alle arti e al loro più difficile insediamento in piccoli centri e meno facile decentramento nel territorio).
Il teatro è, dunque, ‘un luogo’ ma anche ‘un modo’, e se la sua distribuzione deve conquistare molti luoghi, la sua processualità e produttività si compone e si scompone in molte maniere. Per di più da sempre i suoi luoghi e i suoi modi si aprono a tutti gli altri mezzi e linguaggi dell’arte: in teatro ogni altra forma d’arte può confluire, in teatro quasi ogni nuova tecnologia può intervenire, in teatro ogni elemento e momento dell’atto estetico sono anche un fatto ludico. Il teatro si situa cioè fra arte e gioco, e può dividersi e giustificarsi sia come gioco dell’arte sia come arte del gioco, sempre risolvendo i suoi procedimenti e sempre assolvendo i suoi risultati. La sua duttilità e la sua ambiguità possono alzare la posta ma anche abbassare le pretese di un gioco-arte che ha per di più il vantaggio di essere insieme ‘modo’ di attori e ‘luogo’ di spettatori: di essere cioè manufatto artistico ma anche fatto sociale.
Se inoltre il teatro risponde prima e meglio alle esigenze della politica locale – che vede e vende le attività culturali come interventi per il miglioramento della qualità della vita – è anche perché, da piccolo, può diventare ingrediente di molte altre attività. Infine, la sua dimensione lo rende accessibile e ne favorisce sia la moltiplicazione sia la frammentazione. E ciò è avvenuto in quel tempo presente che stiamo commentando.
Dagli anni Settanta a oggi un’improvvisa e davvero imprevista fortuna ha rilanciato la vita del teatro, prima ancora che come fatto artistico come fenomeno culturale. Il teatro è cresciuto e soprattutto si è moltiplicato e – se volessimo inseguire le sue applicazioni dentro il campo delle attività culturali – si è addirittura polverizzato.
I dati relativi a quegli anni parlano chiaro: le pur numerose ‘nascite’ di importanti artisti della scena non sono niente rispetto all’impennata di un indice di natalità teatrale che sarà destinato a salire per almeno due decenni. Dapprima si è trattato della ricerca di modi organizzativi e produttivi all’altezza dei tempi e della limitatezza delle risorse: per es., sono nate le cooperative teatrali, che in pochi anni, dal 1973 al 1976, aumentano da 17 a 90 (De Lellis 2009, p. 38); quindi, appena a seguire, proliferano piccole forme di vario tipo e vago regolamento che si riassumono nella formula del ‘gruppo’ (all’epoca, peraltro, termine niente affatto neutro, in quanto molecola aggregativa già collaudata dalla musica e consolidata dalla politica giovanile). La diffusione esterna ma anche la densità interna dei gruppi teatrali li premia come nome e come fatto, tanto da caratterizzare e battezzare una galassia di diversi orientamenti artistici e stili organizzativi. Il teatro di gruppo si dividerà poi in tendenze diverse, come ‘terzo teatro’ o postavanguardia (a seconda della scelta di operare sulla causa della recitazione o sull’effetto dello spettacolo), si arricchirà di etichette diverse e più durature, quali ‘ricerca’ e ‘sperimentazione’, ma resterà per tutti gli anni Ottanta il fenomeno culturale che rivoluzionerà il settore, in ogni senso, dalla base.
Considerando la parallela storia e l’influenza della militanza politica giovanile, parrebbe che i numerosi piccoli teatri siano espressione dei movimenti, mentre al contrario vanno a comporre essi stessi un ‘movimento di ricambio’ – potremmo dire – negli anni in cui il riflusso della politica induce molti giovani studenti a trasferirsi nella politica culturale. Il teatro appare allora come il modo e il luogo in cui può e deve proseguire, appunto, una vita di gruppo e magari un attivismo capace di recuperare, se non gli obiettivi, certo alcuni metodi e valori della militanza. Per es., quello del rigoroso estremismo dell’impegno personale, che nel gruppo di teatro si traduce in ‘dichiarazione di professionismo’, anche a dispetto di situazioni e condizioni francamente amatoriali. Nel confine tra dilettanti e professionisti erano peraltro già passate le ultime generazioni dei teatri universitari degli anni Sessanta; e in qualche modo molti ‘teatri di base’ degli anni Settanta di fatto ne ereditano l’ambiziosa collocazione da teatro di cerniera fra tradizione e innovazione: tradizione appunto politica, ossia ricerca di un pubblico popolare, e innovazione artistica, ossia ricerca, studio e infine imitazione delle più note ed evolute avanguardie artistiche.
Non si vuole sopravvalutare la novità dei teatri minori fino a ignorare quel teatro di stabile istituzione e di sicura professionalità che resta il luogo deputato e il modo ordinario delle attività produttiva e distributiva, e quindi anche l’interlocutore privilegiato dalla politica culturale. Non si tratta nemmeno di fare distinzioni fra tradizione e innovazione, due anime complementari che in teatro – in tutti i teatri, piccoli o grandi – da sempre si confondono e si combattono. Ma il paradosso che si propone negli anni Settanta e poi si impone nel decennio successivo è quello di un Teatro (con la maiuscola e quindi complessivamente considerato) che si trova a essere in larga parte ridefinito da molti teatri piccoli in continua insorgenza, spesso ovviamente misconosciuti e talvolta artisticamente insignificanti. Un fenomeno in primis sociologico, che però si rivela come l’ambiente culturale adatto alla fermentazione di una ‘motivazione teatrale’ che per i decenni successivi attiverà attori e attirerà spettatori in quantità e di qualità insospettabili.
C’è quasi un fastidio – da parte sia dei critici sia dei politici, e anche dei teatranti – ad ammettere che la società teatrale attuale sia in fondo sostenuta da una base tanto ampia quanto oscura di aspiranti all’arte scenica, in ogni tipo di ruolo, compreso quello del ‘nuovo spettatore’. Eppure è questa nebulosa di piccoli gruppi a svolgere – in Italia più che altrove – un’indispensabile funzione ecologica: a fare da costante humus al modo teatrale, ma anche da cielo alla sua più effimera e incostante moda. Già, perché nemmeno il vento della moda – man mano calante sul finire degli anni Novanta – va sottovalutato, visto che è stato proprio questo ‘effetto’ a far da sostegno e rilancio alla ‘causa’ di un’arte che i tempi nuovi avrebbero potuto archiviare. È grazie alla sua moda, sia pure minoritaria, che l’arte scenica ha potuto catturare l’attenzione e l’interesse delle giovani generazioni di almeno tre decenni: una ‘tenuta di immagine’ che, lo si creda o no, ha indirettamente nutrito tutta la ripresa e ogni impresa teatrale, soprattutto quelle più grandi, stabili e istituzionali.
Quali sarebbero oggi i numeri degli abbonati, delle repliche e dei successi che vantano i teatri stabili, senza la moltiplicazione degli attori e degli attivisti dei gruppi e senza la proliferazione di una perfino spicciola attività teatrale che si è mossa e promossa ben oltre i limiti e perfino gli obiettivi di pubblico servizio che il manifesto del Piccolo di Milano preconizzava?
Prima degli anni Settanta i dati statistici riferiti al teatro parlavano chiaro e tragico: il numero degli spettacoli del 1963, anno del miracolo economico, toccava il più basso livello: «è l’anno zero del teatro di prosa», commentavano gli osservatori. Il numero delle imprese del ‘teatro primario’ (distinto nelle classificazioni della SIAE per «l’adeguata capacità professionale, artistica e organizzativa») era inferiore a 60. Quindici anni dopo, nel 1978, arriverà a 200. Di conseguenza, le rappresentazioni teatrali nel loro complesso faranno registrare, per tutti gli anni Settanta, incrementi annuali perfino del 150%, facendo concludere per la prima volta gli esperti del mercato che «l’offerta di teatro aumenta più della domanda e della relativa spesa» (Ruggieri 1981, pp. 107 e segg.).
Il fenomeno però non sta tanto nei numeri, ma nella sostanza di un’offerta che si rivela autonoma e che anzi diventa totalmente indipendente da qualunque domanda di mercato. Da anni, e forse da sempre, l’offerta in teatro precede la domanda, ma la novità che si impone nel periodo e in virtù del fenomeno del teatro di gruppo è un’altra: l’attività teatrale si afferma come domanda degli stessi candidati attori, come se l’arte scenica fosse un personale consumo culturale, prima di vendersi come offerta al pubblico. Tutto questo non c’entra però con l’hobby del dilettante, ma si struttura come un impegno immediatamente professionale: il fare teatro sopravanza e perfino sostituisce il vedere teatro, diventando un obiettivo di formazione e realizzazione personale più importante dell’eventuale riscontro sociale e dello sperato, ma non garantito, guadagno economico.
Molti gruppi nascono e muoiono senza mai arrivare a un effettivo professionismo, eppure spendono tutto il tempo e il denaro per il fine di una rigorosa professionalità. Il loro dialogo con la politica locale e l’inventiva delle loro proposte di ‘servizio’ è essenziale per la loro sopravvivenza e determina anche la scelta della loro residenza; ma questo scambio serve a garantirsi un’isola di libertà in cui praticare (cioè consumare) la propria attività creativa. È questa – come si vede – una forma di consumo esterna e perfino opposta alla logica del mercato, ma conviene chiamarlo consumo per spiegare come e perché una personale domanda artistica possa vivere separata dalla sua stessa offerta spettacolare. Il fare teatro, cioè, non coincide con il suo manufatto, si potrebbe dire: è, al limite, un mezzo che non giustifica nessun fine.
Davanti al ‘fare teatro’, celebrato come scelta o consumo personale, il pubblico e il territorio restano referenti importanti, ma non sono né clienti né committenti: è semmai il piccolo teatro che – quando vuole e quando può – si incarica di andare a cercarli, a coinvolgerli, convertirli e farli confluire nella sua festa. Così nascono festival e rassegne sempre più frequenti, che – prima ancora del loro effetto pubblico – servono alla causa privata di esporre e scambiare sia le prove sia gli spettacoli del teatro di gruppo in raduni che sembrano fiere, nel senso e secondo la voga di mercati alternativi dove, accanto agli spettacoli, gli ‘studi’, le dimostrazioni di lavoro, i seminari sulle teorie e le tecniche dell’arte scenica, occupano non poca parte del programma.
Nel corso degli anni e per le successive generazioni, gli inizi saranno diversi ma non cambieranno i principi. I nuovi gruppi teatrali troveranno un terreno già arato dalle generazioni precedenti, ma dovranno anche pagar loro il pedaggio. Più che una filiazione funzionerà una sfida, fatta insieme di imitazioni e di concorrenze, di apprendimenti e di tradimenti che sposteranno progressivamente l’asse dalla formazione dell’attore all’invenzione dello spettacolo. Dall’attore come fine ci si sposterà sull’opera come mezzo, ma al suo interno il processo resterà sempre aperto e sempre più importante del prodotto.
A partire dagli anni Ottanta ci saranno, dunque, più opere-spettacoli ma dentro il magma delle precedenti operazioni; ci saranno festival più numerosi e meglio organizzati e perfino finanziati; nasceranno centri di sperimentazione e di ricerca interessati a far crescere altre vocazioni e a sviluppare corsi di formazione. Così faranno anche tutti quei gruppi che si saranno trasformati in imprese e che, accanto all’aumento della loro produzione, moltiplicheranno le iniziative di sperimentazione, i luoghi di discussione, i laboratori di creazione, aprendoli a nuovi candidati-attori e neonati-spettatori. Si tratterà più di incrementi che di cambiamenti, se è vero che il ‘fare teatro’ continuerà comunque a giustificarsi in modo autonomo, e anche a diffondersi in modo indipendente dal ‘vedere teatro’. Forse è ingiusto accumunare il fare e il vedere teatro come forme – attive o passive – di consumo culturale. Ma la ragione del riconoscersi e del confondersi – fra nuovi attori e nuovi spettatori – nasce proprio da quel consumo in comune.
Tornando al sistema teatrale tutto intero, questa moltiplicazione delle forze e questa mutazione delle forme va riconosciuta nel suo giusto peso e senso: se non sempre sarà grande il merito di questo fermento, è certamente grande il debito che l’istituzione teatrale ha contratto con quelle nuove generazioni e aggiornate motivazioni che sono nate e cresciute (e talvolta morte) fuori dai suoi fini e confini tradizionali.
Lo sconfinamento più importante del teatro di quel periodo si chiama animazione teatrale: un fenomeno prima interno e poi attiguo al teatro di ricerca, che è poi rimasto il più imponente e diffuso modo di fare attività teatrale. Accanto alla moltiplicazione dei piccoli teatri che si insediano nel territorio (spesso privilegiando piccoli paesi ‘a misura di gruppo’), va considerata la frammentazione e la diffusione di una teatralità che si immerge nel sociale e si impone come intervento in molte situazioni e direzioni fuori dal teatro. Anche qui la causa non va confusa con l’effetto: è il teatro che vuole andare fuori di sé e non il sociale che ne domanda l’incontro. Anche qui la storia politica sembra precedere la geografia della cultura: le fabbriche, le scuole e i quartieri che erano stati le naturali destinazioni della mobilitazione dei movimenti studenteschi e poi dei gruppi della nuova sinistra, saranno anche le sedi dove si sperimenterà un teatro prima di propaganda e poi di partecipazione.
Tuttavia l’animazione teatrale è un’operazione diversa: non si orienta o si spende nella costruzione dell’alternativa politica ma piuttosto come ricerca e incontro delle alterità culturali. Sono le situazioni marginali o i soggetti più trascurati ad attrarre esperimenti e motivare esperienze ‘animatoriali’: certamente la scuola, in quanto scena sociale dell’infanzia e dell’adolescenza, oppure l’ospedale psichiatrico improvvisamente accessibile e immediatamente compatibile con la ‘follia’ teatrale, oppure la campagna e la montagna degli ultimi contadini ovvero delle più marginali e residuali comunità. Se si fa riferimento alle iniziative di Franco Passatore o alle avventure di Giuliano Scabia, si possono già individuare – nei primi e più gloriosi tempi dell’animazione – le due direzioni del gioco e del rito, in cui il teatro esce da se stesso aprendosi in manifestazioni e applicazioni in cui ritrova la sua capacità e la sua vocazione di rianimare il sociale. Dunque, nascono da subito una via pedagogica e una antropologica, che poi diventeranno autostrade del servizio teatrale, ma che allora – negli anni Settanta – non erano che deviazioni o compensazioni che aiutavano il teatro a tenersi tangente ma esterno alla sociologia e alla politica propriamente intese.
L’animazione teatrale si pone in aggiunta, ma anche in autonomia, rispetto allo stesso ‘teatro piccolo’: se poi potrà rendersi utensile necessario alla sopravvivenza dei gruppi teatrali, o se potrà trasformarsi in salvagente di spettacolazioni semplici e di artisti deboli, non si può per questo dimenticare che essa si è originata come «il prodotto esuberante e il processo di conquista di un teatro in grande stato di salute, che credeva di potersi sviluppare e di doversi proiettare negli atti e nei fatti della vita sociale» (Il teatro salvato dai ragazzini, 2011, p. 48). L’invenzione dell’animazione teatrale – almeno in Italia, sul finire degli anni Sessanta e per tutti gli anni Settanta – inaugura o intensifica quelle rotture della convenzione e quella sfida ai limiti dimensionali e alle logiche istituzionali che il movimento teatrale di quegli anni perseguiva: l’animazione ha costituito in sé, e offerto a tutti i teatranti, un laboratorio aperto alle contaminazioni culturali e attento alle problematiche sociali, ma nel segno e nel sogno dell’autonomia della cultura teatrale. È poi vero che, in seguito, il suo stesso successo, ovvero la facilità dell’accesso, ha innescato una rapida parabola che ha reso quella cultura irriconoscibile ai suoi stessi fondatori, che non a caso ne hanno decretato la morte già nel 1980 (nel Manifesto in morte dell’animazione, a firma di Remo Rostagno, Marco Baliani e Maia Cornacchia). Una morte che, da un altro punto di vista e d’azione, è stata fin troppo prolifica, comportando lo sviluppo inarrestabile di un esercito di animatori e/o operatori teatrali che – appunto dagli anni Ottanta – ha davvero invaso le scuole ma anche altri ambiti e servizi, completando l’integrazione culturale e però anche la sottomissione politica dell’attività teatrale tout court.
Da allora ogni proposta di teatro (di intervento o spettacolo, d’animazione o d’arte) ha dovuto strutturarsi come operazione e si è voluta giustificare con la sua funzione. La gratuità e la libertà della sperimentazione scenica diventa gradualmente un lusso che pochi artisti di teatro possono rivendicare, anch’essi pagando pegno alla funzione sociale e nascondendo la propria domanda di senso. Dall’altra parte – che è poi la parte più grande – il consumo o l’orgoglioso autoconsumo del fare teatro finisce per cedere il posto al servizio, ovvero anche al corso e ricorso di una formazione teatrale di tutti e per tutti, con tutti gli adattamenti della vita e tutte le ipocrisie sulla carta che i piccoli teatri (anche quelli nel tempo diventati grandi e famosi) danno ormai per scontati.
Una tassa di residenza nel sociale e di sudditanza alla politica locale è stata ed è ancora tanto necessaria quanto benvenuta: la sopravvivenza di molti teatri e di tutti i teatranti diventa possibile grazie alle funzioni giustificative degli obiettivi ricreativi, pedagogici e perfino terapeutici delle proprie iniziative. Anche gli spettacoli devono fare i conti con questa logica funzionale che diventa più forte della classifica estetica, visto il potere e la responsabilità di mediazione dei ruoli organizzativi e la relativa sparizione della critica specialistica. Del resto, in presenza soltanto dell’offerta e in mancanza di domanda e dunque di un ‘vero’ o ‘finto’ mercato, l’economia della politica culturale si organizza di conseguenza, e deve trovare criteri quantitativi e valutazioni qualitative che non possono uscire dalle logiche della funzionalità del servizio.
La vita del teatro e la sua ricerca di senso alto e altro restano evidentemente in piedi, ma la sua verticalità non ha modo di essere premiata e spesso nemmeno di essere vista, se non nei casi più eclatanti di successo, anzi di incanto e di incontro con quello ‘spettatore estetico’ di cui già Bene, molti anni addietro, lamentava la scomparsa.
‘Teatro povero’ prima di essere un’opzione estetica è una ridefinizione fenomenologica proposta da Grotowski (1970), negli anni in cui – davanti allo sviluppo e all’egemonia di più potenti e diffusi linguaggi e mezzi spettacolari – non restava che rivendicare la differenza dell’arte scenica, ovvero di ridurla alla sua essenza: la relazione tra l’attore e lo spettatore, ossia tutto quello che è necessario e sufficiente per distinguere il teatro come spettacolo vivente. Nella pratica e nella proposta teatrale poi, ciascun artista di teatro può scegliere se radicalizzare o nascondere questa povertà, ma non la può ignorare, perché detta la regola e il confine di un’arte spettacolare vitale come un evento e vissuta come una relazione. Ed è proprio a partire dal ‘nuovo testamento’ del teatro povero di Grotowski che questi due termini – in cui si sintetizza l’ultima e l’unica definizione di teatro – sono diventati gli aggettivi e gli obiettivi qualificanti della nuova politica culturale.
Man mano che si esportano, però, la relazione e l’evento perdono senso e acquistano funzione, nel contesto di un impressionante investimento, prima politico e poi economico, sulla cultura e il suo spettacolo: dagli anni Ottanta – sulla scia, ma non con lo stesso impegno, dell’Estate romana del ‘primo assessore alla cultura d’Italia’, Renato Nicolini (1942-2012) – non ci sono comune e regione che non riversino sulle virtù relazionali e le sorprese evenemenziali di infinite manifestazioni culturali le ambizioni e le aspettative della politica locale. Arrivano anche fondi e mezzi per qualche tempo ‘straordinari’, ma soprattutto si instaura un parallelo fra successo culturale e consenso politico che ricorda l’uso demagogico dei circenses, ma che in realtà è il suo contrario. Non si tratta di distrarre dalla politica ma di fare politica: gli eventi spettacolari, e le relazioni che sono in grado di suscitare, hanno l’effetto di produrre una circolazione di consumi culturali che infine mima e surroga sia la partecipazione sia il decentramento, principi programmatici della primitiva politica regionale.
Soprattutto su scala locale, ma poi anche nella dimensione nazionale, il piccolo teatro è il primo attore e il più generoso operatore che si renda disponibile; peraltro l’unico che sia anche capace di gestire con la massima tensione o la massima approssimazione quei valori della relazione e dell’evento che soltanto la pratica e la teoria teatrale può davvero animare. Nelle cento città e nei mille paesi d’Italia è spesso il teatro a fornire le forze e le idee che siano a misura di comunità e a finzione di identità. Così però avviene che, proprio nel connubio fra cultura teatrale e politica locale, la ‘povertà’ del teatro si traduce in convenienza economica: in modo diverso e pur calando gradualmente di presenza e di importanza, l’attività teatrale, lungo tutto il trentennio di fine secolo, offrirà alla politica culturale il massimo risultato al minor prezzo.
La politica culturale degli ultimi decenni è certamente varia, ma mantiene costante sia lo scopo vago della qualità della vita sia l’obiettivo concreto di ottenere spettacolare visibilità: così quel teatro piccolo e povero che tesse relazioni e realizza eventi diventa per molti anni e in tutti i luoghi lo strumento e il momento più richiesto, come se finalmente si fosse in presenza di una domanda del pubblico, ovvero del politico.
Il teatro forse non vince ma comincia a convincere. La politica non può più astenersi dal riconoscere e dal finanziare le attività teatrali, anche se questo interesse non aumenta poi il suo prestigio. Ci si comporta – dall’una e dall’altra parte – come se il teatro fosse la fucina di una sorta di volontariato, tant’è che lo si farà rientrare nel non-profit del terzo settore. In un certo senso, e in molti casi, la povertà diventa un abito che fa il monaco, e viene indossata con senso di sacrificio e di orgoglio perfino dai teatri maggiori, sempre in attesa cortigiana e in scusa penitente davanti a sovvenzioni che vengono vissute come ‘provvidenze’ (secondo la definizione delle prime circolari ministeriali), anche quando cominciano a rientrare nei capitoli ufficiali di spesa dello Stato.
Peraltro, la storia delle sovvenzioni è recente e quindi tardiva. A livello delle regioni, di teatro si parla da subito ma si paga poco e tardi: la battaglia con lo Stato per l’attribuzione delle competenze in fatto di spettacolo e turismo è stata lunga e controversa e – alla luce degli attuali progetti di revisione del titolo V della Costituzione – si può dire che ancora non è terminata; non avrà fatto da alibi, ma certo è stata un ostacolo che ha procrastinato, fino alla fine degli anni Novanta, una legislazione regionale di qualche solidità. In ogni caso, sul piano delle scelte e quindi delle spese degli enti locali, sono state sempre poche le risorse da devolvere alle attività teatrali, fatta eccezione per quei teatri stabili o quelle grandi manifestazioni che non potevano essere trascurate in anni in cui la politica dello spettacolo (e viceversa) ha avuto tanta parte nell’immagine della politica e nell’immaginario del suo pubblico elettorale.
Per quanto riguarda i rapporti con lo Stato, il settore, gestito dal 1959 dal Ministero del Turismo e dello Spettacolo (abolito da un referendum popolare nel 1993 e rinominato nel 1998 Ministero per i Beni e le Attività culturali), dopo decenni di circolari e l’intermezzo della l. 14 ag. 1967 nr. 800 del ministro Achille Corona (1914-1979), che non le sospese, solo nel 1985 vide finalmente l’istituzione di un Fondo unico dello spettacolo (FUS), con la l. 30 apr. nr. 163, che costituisce l’unica ‘prima pietra’ di un sistema teatrale imperfetto e arretrato rispetto alle caratteristiche e alle esigenze del panorama emergente di cui abbiamo parlato. D’altra parte, la motivazione politica e l’attenzione economica del FUS poco riguardano il teatro di prosa, mentre – a dispetto dei richiami espliciti del suo regolamento, sempre denso di dichiarazioni a favore dell’innovazione – ancor meno e molto tardi entrano davvero in stretta relazione con il teatro piccolo, povero e nuovo.
Com’è giusto – o almeno così appare per tradizione inalienabile e convinzione inalterabile – è il teatro lirico il destinatario di metà del budget ministeriale; quindi, sottratte le quote del cinema e della musica, al teatro di prosa non resta che poco più del 15% di una torta di non grandi dimensioni. Per dare indicazioni più precise, basta considerare che, al principio degli anni Duemila, il totale dei fondi del FUS si attesta intorno ai 400 milioni di euro, con una quota per il teatro di prosa che non arriva a 100 milioni e che dovrà essere divisa fra un numero di soggetti in costante aumento, rispettando inoltre una graduatoria di imprese e progetti molto diversificata e basata più sulla solidità storica delle vecchie glorie che sulla fluidità e sulla sorpresa delle nuove proposte (De Lellis 2009, pp. 64-70). Infine, è ancora soltanto il ‘teatro primario’ il destinatario dei fondi FUS, poiché questi vengono erogati soltanto ad attività continuative e proposte solidamente organizzate. In breve, accede a essi solo quella parte di attività teatrale che risponde a requisiti qualitativi accertati ‘storicamente’, ma soprattutto a criteri quantitativi (produzione, distribuzione, personale messo in regola, giornate lavorative, ecc.) che non sono certo adeguati alle scommesse e/o alle promesse emergenti.
Tuttavia, il quadro complessivo dei soggetti che riescono a inserirsi nella gara delle sovvenzioni ministeriali è vasto e in qualche modo rappresentativo del complesso panorama delle attività teatrali; e ci dà anche la misura di quanto – nel corso del tempo presente – sia aumentata e si sia diversificata l’offerta teatrale. Con percentuali differenti e sperequazioni notevoli, sempre nei primi anni Duemila il Ministero per i Beni e le Attività culturali arriva a riconoscere e dunque a finanziare più di 30 teatri stabili, pubblici e privati, e più di 40 teatri stabili d’innovazione (equamente divisi fra ‘teatro ragazzi’ e ‘teatri di ricerca e sperimentazione’), quasi 200 imprese di produzione teatrale (ossia le compagnie un tempo definite ‘di giro’), una ventina tra ‘teatri di figura’ e ‘artisti di strada’, 13 ‘circuiti’ o ‘organismi di promozione e formazione del pubblico’. In ogni senso in fondo alla lista, a tutti questi enti e imprese si aggiungono alcuni teatri municipali autonomi, decine di iniziative di promozione e perfezionamento professionale, una ventina fra festival e rassegne, rari progetti speciali e, infine, la sola scuola di alta formazione riconosciuta, ossia l’Accademia nazionale d’Arte drammatica ‘Silvio D’Amico’.
Inutile ribadire che questa è solo la punta dell’iceberg di una miriade di soggetti – anch’essi ‘primari’ – che restano per così dire ‘in nero’, perché non trovano conveniente fare domanda al Ministero, visto che, in contropartita, si richiedono una mole di lavoro e un impegno di spesa legalmente certificata, per la quale occorrono stabilità vere oppure ‘carte false’. Se poi si volesse allargare lo sguardo al panorama fluido dei più piccoli, poveri e nuovi teatri, il censimento risulterebbe di fatto impossibile, anche nelle attuali condizioni, più critiche e meno fertili di qualche decennio fa. La crisi non è e non è stata solo economica, ma anche culturale e infine artistica: il teatro ha passato una troppo lunga e fortunata stagione che, dagli anni Sessanta alla fine del 20° sec., ha visto rivoluzioni e realizzazioni forse di livello pari a quello delle ‘grandi riforme’ del primo Novecento (da Stanislavskij ad Antonin Artaud, è lunga e nota la fila dei maestri ‘riformatori’ o ‘rifondatori’ dell’arte scenica) che hanno dato origine al teatro contemporaneo. Non si poteva e non si può, dopo quella stagione, non pagare il prezzo di una certa stanchezza e sbandamento. La crisi allora, nel senso di una certa debolezza creativa o ripetitività ideativa, era inevitabile, benché, letta dal punto di vista estetico o poetico, vale anche come annuncio di un mutamento del processo e del prodotto teatrale in epoca di ormai consolidata e irreversibile globalizzazione. E in effetti dentro, ma anche contro, questa mutazione, sia pure in modo carsico, continuano a succedersi presenze attoriali e proposte teatrali che – nella oramai incontenibile potenza dei vecchi e nuovi media – riescono a tenere in vita e perfino in concorrenza la nuova arte scenica, nel fuori-tempo e nel non-luogo più antico che ci sia.
Si potrebbe dire che un teatro nuovo sia sempre esistito poiché le riforme e le rivoluzioni sono state incessanti nel corso della storia di quest’arte. Tuttavia ciò non è del tutto vero e nulla toglie alla novità della definizione di ‘teatro nuovo’. Da pochi decenni – ancora una volta, a partire dagli dagli anni Settanta – il ‘nuovo’, promosso da aggettivo a sostantivo, è diventato l’etichetta stabile eppure sempre diversa di ogni successiva fase e/o moda teatrale. Non c’è altro attributo – anzi apposizione – che si possa proporre per segnalare scansioni (che poi non sono separazioni) nel movimento e nel mutamento del teatro di fine secolo e poi del nuovo millennio. Finalmente, un incalzante ‘Nuovo teatro nuovo’ non è solo l’indovinata denominazione di un piccolo teatro di Napoli, ma indica la rincorsa e il sorpasso di successivi teatri di ricerca che non hanno altro modo di definirsi se non come ‘novità’.
Sarebbe sbagliato, però, ricondurre l’irruzione e poi la continuazione del ‘nuovo teatro’ dentro l’eterna battaglia tra tradizione e innovazione: abbiamo già detto che la tradizione e l’innovazione si scontrano e però si fondono da sempre, e comunque nemmeno i loro partiti estremisti basterebbero a separare l’attualità dalla classicità del linguaggio e del paesaggio teatrale. Il ‘nuovo’ di cui stiamo parlando – in teatro, ma anche altrove – non nasce contrapponendosi all’antico ma interpretando, anzi incorporando, una febbre di accelerazioni e una fame di superamenti che sta prima di tutto nella cultura e nella società, anche quando si esprime come controcultura o antisocietà. È il progresso che, mentre si fa norma, arma la sua stessa fuga. Nei confini e nei confronti del progresso culturale, il teatro sembra uno spazio e un modo arcaico, ma è invece anacronistico e utopico in senso proprio e pieno: il suo non-luogo e fuori-tempo si evidenzia come l’area ideale di proposizioni e manifestazioni che vanno oltre e chiedono altro, incessantemente.
Il ‘teatro nuovo’ ha avuto un inizio quando un’assemblea di giovani artisti e critici ha bussato alla porta e contro la parte del teatro cosiddetto ufficiale: gli storici sono concordi nell’indicare come tempo e luogo della sua nascita il Congresso di Ivrea del 1967, ma in realtà quello è stato il luogo e il tempo della sua autodefinizione, mentre la sua emersione e il suo consolidamento erano già avvenuti negli anni Sessanta, in quel letterale underground delle ‘cantine romane’, abitate e animate dai primi protagonisti di un’effettiva avanguardia teatrale italiana.
Prima e più dello stesso Convegno, ha avuto valore e risonanza il manifesto di convocazione, il Convegno sul Nuovo teatro di Ivrea (pubblicato nel periodico «Sipario», 1966, 247), che è stato e ancora può essere considerato la Carta costituzionale di molte, se non di tutte, le successive generazioni del ‘nuovo teatro’. Elaborato da un’eterogenea formazione di artisti e critici – che non sarà stato facile al coordinatore Franco Quadri (1936-2011) mettere insieme –, il documento porta le firme di Bene e De Berardinis (i due ‘attori’ che restano i maggiori referenti di molti teatri di ricerca italiani), di Perla Peragallo (1943-2007), Mario Ricci e Carlo Quartucci, ma anche di critici come Giuseppe Bartolucci (1923-1996) e Corrado Augias, nonché di musicisti performers come Sylvano Bussotti e Cathy Berberian (1925-1983) e di registi come Aldo Trionfo (1921-1989), il giovane Luca Ronconi e il giovanissimo Marco Bellocchio. Ma ancora una volta i nomi sono meno importanti della sostanza di un documento che – fingendosi di opposizione contro il teatro ufficiale – segna in realtà, più della rottura, la prima proposizione di apertura verso la ricerca, che passa da attività collaterale a denominazione fondamentale del nuovo teatro. Il teatro non si giustifica più come missione sociale o servizio pubblico ma come autonoma e ininterrotta sfida a se stesso e in se stesso. «La lotta per il teatro è qualcosa di molto più importante di una questione estetica», si dichiara nell’incipit, e dopo aver rivendicato la necessità di strumenti critici ed elementi tecnici adeguati, il manifesto si conclude con un atto di fede che resterà valido per tutte le generazioni del nuovo teatro:
Crediamo che ci si possa servire del teatro per insinuare dei dubbi, per rompere delle prospettive, per togliere delle maschere, mettere in moto qualche pensiero. Crediamo in un teatro pieno di interrogativi, di dimostrazioni giuste o sbagliate, di gesti contemporanei (Quadri 1977, 1° vol., pp. 135 -37).
Non ci sono limiti e nemmeno esiti in una ‘ricerca impossibile’ – come la definirà Bene – che, fuori da ogni convenzione e da ogni sudditanza sociale e politica, si giustifica e si compie nella scena e per la scena, addirittura come ‘atto critico’ contro la stessa arte scenica. Infine, il punto primo e il punto fermo da cui inizia e sul quale sosta per tutti i decenni a venire il teatro nuovo è la rinuncia, anzi il rifiuto, della ‘rappresentazione’, del suo obbligo e limite, del suo stantio proporsi come specchio, del suo ritenersi al centro del modo-mondo del teatro occidentale. È ancora Bene a spiegare, o meglio a gridare, questa verità che impone la novità: Contro il teatro tolemaico è il titolo del più breve e più esatto manifesto della rivoluzione copernicana che, persino contro voglia, ogni nuovo teatro ha dovuto e deve ancora volere. O subire (Bene 1982, ultima pagina non numerata).
L’autonomia e la libertà del teatro di ricerca non può non essere totale, con tutti i rischi e gli equivoci che questo comporta a livello di minor rigore o di maggiore superficialità. La ‘lotta per il teatro’ può essere partecipata da molti ma in realtà è seriamente affrontata e patita da pochi. Ai piani alti, la qualità è una meta verticale sia dell’opera sia del mestiere, e si raggiunge quando l’impegno e il rigore diventano un patto che ogni artista fa con se stesso e per se stesso; il successo, ossia il consenso del pubblico, non è più la misura o la regola, tranne quando viene raggiunto, anzi estorto, dall’eccezionalità di un evento o dall’intensità di una relazione che sorprende e converte lo ‘spettatore estetico’. Ai più diversi e perfino più bassi livelli, la ricerca è però ugualmente un campo libero da cui nessuno è escluso a priori: anzi, i fraintendimenti e le furbizie, le ingenuità e le impotenze del teatro davvero ‘piccolo’, non minacciano la verticalità della ricerca ma ne diffondono i precipitati in orizzonti più ampi, dai quali possono poi emergere nuovi teatri nuovi, ovvero nuove tendenze e nuove generazioni teatrali.
Così, il teatro di ricerca e la ricerca del teatro si sono confuse e diffuse insieme nel corso dei decenni considerati, ma proprio l’estensione della base e perfino la superficialità delle mode ha permesso l’emersione di nuovi vertici dell’arte scenica. Negli anni Ottanta, molti giovani gruppi bruciano rapidamente i loro caotici inizi e – a forza di prove – trovano altrettanto celermente la via del ‘loro’ teatro. Alcuni crescono come attori, altri si realizzano attraverso le opere, ma la divisione fra ‘terzo teatro’ e postavanguardia è solo un paesaggio, o forse un passaggio per arrivare a un teatro nuovo che infine accumuna i processi e accumula i prodotti. Le scelte stilistiche e le vie estetiche si moltiplicano al punto che non ha più senso separare le tendenze, ma conviene riconoscerle tutte dentro un’istanza di ricerca e sperimentazione, tanto sconfinata all’esterno quanto animata all’interno da un’esigenza di sfida comune.
I festival di Santarcangelo di Romagna o di Polverigi – i primi che si qualificano come rassegne e residenze del nuovo teatro nuovo – dimostrano come non abbia senso dividere le proposte spettacolari, pur vistosamente diverse; ha più senso invece metterle a confronto nella stessa unità di luogo, di tempo e di azione del teatro di ricerca. Non ha senso cioè separare esperienze teatrali che nascono già separate ma nella stessa ‘casa’: un cartellone degli anni Ottanta può mettere insieme la superficialità corale del Teatro Settimo diretto da Gabriele Vacis e la profondità attoriale di Alfonso Santagata e Claudio Morganti, i trampoli del Teatro Tascabile di Bergamo e il laser di Krypton, le istallazioni gestuali di Parco Butterfly, le architetture poetiche della Valdoca, la minidrammaturgia magica di Sergio Bini detto Bustric. Non ha nemmeno senso distinguere le generazioni a seconda del loro certificato di nascita, quando, per es., i più attempati Magazzini criminali (già Carrozzone e poi Compagnia Tiezzi-Lombardi) prolungano la loro stagione dentro lo stesso festival in cui la Socìetas Raffaello Sanzio è al suo debutto.
Piuttosto, malgrado la varietà delle singole poetiche perseguite, si può tentare di fare un elenco delle libertà acquisite: uno spazio scenico che si dilata accampandosi ovunque (e il teatro di strada ritrova vigore e funzione), così che può concentrarsi e concepirsi come spazio rituale; un tempo di elaborazione indefinito e poi, magari, un tempo di durata dello spettacolo – ma è meglio dire ‘dell’incontro’ – che può essere fulmineo come un ‘atto’, ovvero diluito per diventare ‘ambiente’; un modo di attrarre, o invadere, od ospitare, o imprigionare il pubblico, invitandolo a una partecipazione silente o itinerante (non per resuscitare l’happening, ma per stimolare in ciascuno spettatore una sensibilità fruitiva, una complicità emotiva, una sensazione di autonoma creatività); un testo delle azioni quasi senza parole per liberare il corpo e la sua danza, oppure – più tardi – un tessuto di parole e scritture e narrazioni che rendono il corpo portavoce del senso; una scenografia meno che essenziale e perfino assente, ovvero, al contrario, una pioggia di effetti e un uso sapiente ma sempre immanente (teatrale) di tecnologie e di linguaggi rubati ai media.
In definitiva, l’apertura sfiora l’anarchia e non sempre il teatro vince la sfida, ma resta in campo e si inoltra – molto più delle altre arti spettacolari – nelle sperimentazioni più azzardate e nelle contaminazioni più rischiose.
Nel corso degli anni Novanta da questa imprendibile varietà cominceranno a formarsi delle linee più chiare e forse anche delle mode più stabili. Come scrivono due giovani critici, «il corpo si definisce per sottrazione, per negazione», arrivando al corpo senza organi, al corpo malato, al corpo macchina; la scena si fa ‘gabbia’ e la scenografia prende tutto il campo della visione; lo sguardo dello spettatore viene manipolato o disturbato o invitato a spiare, mentre la relazione funziona come un doppio autismo; la musica «ricopre una funzione centrale, è parte integrante dell’opera», mentre il sistema audiovisuale si fa incombente e forse ingombrante (Chinzari, Ruffini 2000, pp. 191-201).
Non si può contestare che si debbano cercare e si possano trovare le tendenze o gli ingredienti dominanti di una fase o di una generazione (e quella degli anni Novanta è davvero stata ‘generata’), e quindi si può forse tentare di leggerne il ‘genere’; ma non si può evitare di dire che ogni legittima lettura del teatro – anzi, dei molti nuovi teatri nuovi – non fa comunque storia.
Certo è che anche agli artisti sfugge la loro stessa storia; così, d’altra parte, nemmeno i critici più intelligenti e diligenti riescono a tenere fermo o dare per certo il racconto di quanto dentro il teatro succede, se non diventando a loro volta interpreti e quindi attori di una visionarietà e di una sperimentazione che aspira a essere imprevedibile e finalmente indefinibile. Si individuano, al massimo, aree e linee, tendenze e tentativi, denominazioni e intenzioni che sempre variano e spesso muoiono prima ancora di diventare fenomeni di moda. Il tutto nella moltiplicazione e nella diaspora di tanti teatri singolari che – a partire dai primi anni Duemila – cominciano a non rispondere nemmeno più al cognome unitario di ‘teatro’.
Non è una questione estetica – avvertiva il manifesto del Convegno di Ivrea – e non c’è comunque né giudice né metro che possa misurare il livello toccato o sfidato (o fallito) di chi fa nuovo teatro di ricerca. Tanto più quando la politica del consumo culturale ha liberalizzato un diritto all’espressione artistica e promosso un’ideologia della creatività che hanno incoraggiato e contaminato tutti i settori dell’arte – con il teatro sempre in primo piano. Tanto più quando anche la tradizionale mediazione dei critici d’arte e di teatro ha sofferto emarginazioni e svalutazioni eccessive.
Il ruolo del critico teatrale a partire dagli anni Settanta è cambiato, non essendo più quello di orientare il pubblico ma quello di interloquire con l’artista e di farsi interprete e perfino collaboratore delle sue opere. Ci sono state per fortuna in Italia alcune eccezioni che hanno stabilito le regole di una nuova critica. I nomi di Bartolucci e Quadri sono obbligati, anche perché necessari a illustrare i due modi diversi ma non divisi di un’attività di incoraggiamento e di accompagnamento del processo e del prodotto del nuovo teatro: da un lato, un costante impegno teorico e perfino un’aperta condivisione della ricerca teatrale in corso; dall’altro un’attenta e continua opera di documentazione dei processi e dei progetti messi in campo dagli artisti della nuova scena. Animatori di riviste e direttori di festival o rassegne (e, nel caso di Quadri, con un secondo lavoro di editore di testi teatrali, ma anche dal 1979 di un annuario come Il patalogo, strumento indispensabile sia di interlocuzione sia di documentazione), sono stati in effetti due uomini di teatro che hanno anticipato – con il massimo del rispetto e del rigore – la confluenza, o meglio il cortocircuito, fra la creazione come atto critico dell’attore e la critica come atto creativo dello spettatore.
Dopo di loro, altri hanno inseguito tale metodo (magari con minor merito), mentre la pattuglia dei critici specializzati e autorizzati a scrivere nei giornali si è ridotta a poche unità. Dopo di loro, peraltro, l’effettiva funzione di mediazione fra attore e pubblico è passata nelle mani (politiche) e nelle disponibilità (economiche) di un ceto di organizzatori e di assessori, mentre il commento culturale e il giudizio estetico sugli spettacoli si sono democratizzati, trasferendosi a loro volta nelle teste e nelle penne (o nei blog) di tutti gli spettatori di buona volontà e di qualunque cultura.
La crisi della critica non si può però valutare a senso unico e come un fatto negativo: è una crisi di autorità, ma forse anche la fine di un autoritarismo che ha reso accessibile e appetibile un dialogo fra attore e spettatore e che consolida il rapporto e/o il consumo di teatro. Se lo studio di chi guarda o l’impegno di chi fa teatro non sono sempre profondi e proficui, è anche vero che la discussione (anche quando si diluisce in chiacchiera) ha sempre sostenuto se non la vita certamente la sopravvivenza del teatro, dall’epoca dei loggioni e dei fumoirs ai tempi e ai modi attuali.
Il nuovo teatro, infine, non è che la prosecuzione o appena la scia di quell’incessante tradizione delle avanguardie che ha caratterizzato più di un secolo di teatro contemporaneo, ma la sostanza e il successo della sua rinnovata novità si devono alla resistenza e all’insistenza con cui è stato in grado di distinguersi e paradossalmente di sfidare le innovazioni incomparabili e la concorrenza imbattibile delle forme mediatiche e tecnologiche dell’arte e del consumo spettacolare. In realtà, l’attuale e ultima avanguardia non si giustifica più nel contrasto con la conservazione o la convenzione, ma al contrario – ritrovando il limite e il ruolo della ‘piccola e povera’ scena – si dà il compito di resistere e insistere contro la grande innovazione del dominio mediatico e del mercato della società dello spettacolo.
C’è in effetti una contraddizione – da sempre aperta ma spesso ignorata – che è quella fra teatro e spettacolo: quello che fa spettacolo non necessariamente fa teatro. E magari, viceversa, non tutto il teatro fa davvero spettacolo – come testimoniano le fughe di Grotowski e le sfide di Bene, tanto per citare soltanto i maggiori e i migliori.
La nuova spettacolarità degli anni Novanta e poi del primo decennio degli anni Duemila sembra tuttavia arrivare al livello di fusione e corre volentieri il rischio di confusione fra teatro e spettacolo, ma, come testimoniano le produzioni più tecnologicamente contaminate e linguisticamente avventate (gli undici episodi della Tragedia Endogonidia (2002-2004) di Romeo Castellucci, per fare l’esempio che ha avuto maggiore risonanza mondiale), finisce per esaltare la scena come luogo di ‘cause’ e modo di ‘effetti’ più sorprendenti e più efficaci di qualunque altro non-luogo o nuovo-mezzo spettacolare.
Al contrario, l’eccessivo sviluppo del diritto di tutti al teatro – dimenticandosi del dovere di dare efficace spettacolo – può comportare un fare teatro di eccessiva superficialità e di generale applicabilità. Il termine e la moda della performance, fraintesa come azione immediata e visione separata, ovvero come atto espressivo senza adeguato atto riflessivo, sta sfiorando rischi più gravi e superando limiti davvero proibiti.
Nel primo quindicennio degli anni Duemila, un’abbondante pioggia performativa renderà ‘liquida’ l’attività teatrale, a immagine e somiglianza della società di cui parla Zygmunt Bauman: l’area sempre più vasta e frequentata delle performing arts non si offre soltanto come terra di conquista o di ricovero del teatro, ma si rivela anche come il deserto o la giungla che lo assorbe e rischia di spegnerne i significati o di cambiarne i connotati.
L’ultimo eccesso dei nostri tempi e mondi – allora – è quello di un teatro ormai senza confini e insieme senza sostanza: le incoraggiate e infinite varianti performative, che si esaltano nell’azione reale e si diluiscono nella scena sociale, possono diventare pericolose quanto effimere vittorie. Nel corso degli ultimi decenni, le conquiste dell’animazione si sono tramutate in ‘servizi’, e la moltiplicazione degli eventi teatrali è concisa con la loro riconversione in consumi (contro i quali – se ci si ricorda bene – quegli eventi erano nati). In altri termini, il teatro ha dimostrato che può diventare tutto e intanto ridursi a niente. Può conquistare la realtà e perdere la sua vita, può occupare la società e perdere la scena, può contaminare ogni fatto e convertire ogni atto, rischiando però di ridursi da sostanza a ingrediente, da motore a colore, da dimensione a sensazione.
Così facendo, l’attività performativa ha in effetti guadagnato il diritto a non avere più una definizione (ed era ora), ma sta inavvertitamente rinunciando anche al dovere di conservare una sua rigorosa e volontaria delimitazione: solo nella prigione volta a volta diversa della poetica e della politica che ciascun teatro si sceglie, si apre il cielo della sua infinita libertà – insegnava, con parole diverse e immagini più precise, Grotowski quando il nuovo teatro era ancora agli albori. In conclusione, per tornare al nodo che lega e distingue il teatro e il suo spettacolo occorre ricordare che, se l’indispensabile relazione spettacolare con il pubblico è orizzontale, la irrinunciabile vocazione teatrale è quella della ricerca, ovvero di una sua illimitata libertà verticale. Questo è il traguardo ma anche il principio di un teatro d’arte, o appena dell’arte: e difatti così è – o almeno così era – della poesia e della musica e della pittura e infine di tutte le arti che talvolta, a teatro, si danno appuntamento e prendono corpo.
Alla luce o nell’ombra dei teatri piccoli e poveri e nuovi, si può infine tornare brevemente sulla storia sociale e la geografia politica dell’arte scenica del tempo presente. Non come contesti che lo stabilizzano, ma come ambiti che il nomadismo del teatro attraversa o perfino si inventa.
Vista e vissuta dal teatro, la sua recente storia sociale appare come la somma degli incontri e degli interventi di almeno un trentennio dentro le minoranze e le differenze della società, alla progressiva scoperta e poi conquista di soggetti e contenuti ‘altri’, rispetto agli attori e anche agli spettatori, ordinari o straordinari che siano. Nel suo complesso, il nuovo teatro non ha soltanto aspirato a diventare continuamente altro dal teatro di prima e altro da sé, ma ha anche promosso la nascita, lo sviluppo e il successo di una molteplicità di ‘teatri degli altri’.
Il teatro politico e antropologico e la stessa animazione testimoniano solo, in un certo modo e fino a un certo punto, questa ansia e conquista di alterità. Il settore creativo e imponente del ‘teatro ragazzi’ (come anche i significativi progetti di teatri della follia, dell’handicap o dell’emigrazione, nel vasto pianeta del teatro sociale) aggiunge esperienze essenziali e raggiunge risultati importanti, ma non rappresenta che una parte della storia o della corsa di un teatro che va incontro al sociale: una corsa verso e dentro un teatro degli altri – o con gli altri o per gli altri – che in Italia è arrivata a vertici stupefacenti, tali da rivoluzionare il classico rapporto di importazione del teatro nella società. Ci sono stati cioè artisti e gruppi che hanno saputo oltrepassare la soglia della relazione con le minorità culturali o le alterità sociali per arrivare all’effettiva creazione di ‘teatri fuori del teatro’, eppure radicati nella sua più intensa intimità.
I soggetti che si sono messi a questa prova sono stati numerosi e tutti generosi, ma un ‘altro teatro altro’ – come si può e si deve dire – si è imposto con evidenza in tre eccezionali progetti. Stavolta i nomi contano, perché si tratta di esempi che non hanno pari nel panorama nazionale e internazionale del teatro di ricerca: si tratta dell’avventura del Teatro infantile di Chiara Guidi della Socìetas Raffaello Sanzio, del programma e del metodo della ‘non scuola’ del Teatro delle Albe di Ravenna e del Teatro stabile del carcere di Volterra, istituito di fatto, se non ancora di diritto, dalla Compagnia della fortezza diretta da Armando Punzo. Una storia del teatro vista da fuori collocherebbe forse separatamente queste esperienze difformi, e invece – anche se gli ambiti dell’infanzia, della scuola, della prigione restano distanti – si tratta di proposizioni che hanno in comune il completamento di un’azione radicale ed efficace (di una performance in senso letterale, dunque), in grado di capovolgere l’obiettivo e il senso del teatro sociale. I bambini di Cesena, gli studenti adolescenti di Ravenna (e poi di molte altre città, in Italia e nel mondo), i detenuti del carcere di Volterra, catturati e curati ‘ad arte’ rispettivamente dalla Guidi, da Martinelli e da Punzo, non sono mai stati i destinatari di un servizio o i clienti di un consumo, ma gli attori-autori protagonisti di un loro teatro.
La storia allora ‘eppur si muove’, se è vero che queste nuove sostanze e forme di teatro – non importa se occasionali o stabili – sono andate al di là del già ambizioso proclama di Ivrea che reclamava «attori fuori dalla linea accademica e quotidiana» (corsivo nostro). Certo, nel corso del periodo storico da noi considerato ci sono stati e ci sono ancora artisti e spettacoli di più alta e sicura qualità, ma il valore di traguardo storico di queste proposte è innegabile e dà validazione e spiegazione all’intero percorso del teatro piccolo, povero e nuovo.
Passando alla geografia politica, si deve constatare che anche verso il territorio il nuovo teatro sa proporsi e disporsi in modo diverso dalle abitudini dei consumi e dalle esigenze dei servizi.
Una mappa delle insorgenze e delle residenze è impossibile fissarla, ma si può indovinare un ‘territorio del teatro’ se ci si abitua alla sua dinamica e se poi si osserva da ‘spettatore diacronico’. Certo è che si deve tener conto che al nomadismo della libertà si associa anche un nomadismo della necessità, che varia per tutti i teatri e in ogni momento. Ci sono delle stanzialità che resistono, ma anche dei traslochi obbligati, oltre ai sempre più rari viaggi della volontà o del desiderio.
L’Italia è comunque sempre affollata di teatri – piccoli, poveri, nuovi – durante tutti i decenni considerati, ma mutano sia le loro aree di attrazione sia quelle di convenienza e infine anche quelle di importanza culturale. Dagli anni Settanta in poi – viste dal teatro e non solo dal teatro – le capitali della cultura variano, passando per es., molto lentamente, da Milano a Roma, dopo avere attraversato il breve ‘rinascimento’ di Napoli e poi quello più sorprendente di Palermo. In generale si può dire che, mentre il Nord ha solo confermato la sua preminenza storica e si è rafforzato in stabilità, è il Sud che ha cominciato a darsi sedi o modi organizzativi efficaci e duraturi, sia pure con le alterne vicende che subiscono gli avamposti.
Il momento e il modello dei Centri di ricerca teatrale (CRT) e di sperimentazione degli anni Ottanta è stato essenziale ovunque, anche se non tutti hanno saputo funzionare come quello di Pontedera (oggi Fondazione Pontedera teatro, il più importante d’Italia), oppure come il Centro San Geminiano di Modena, o infine come il Centro di ricerca teatrale di Milano, il capostipite della formula (nato nel 1974) e ‘padre’ della legge che li ha poi istituiti.
Sicuramente i centri hanno dato al teatro nuovo molto più di quanto abbiano loro offerto i ‘circuiti regionali’, ma forse ancora più importanti e stimolanti sono state la crescita del settore e la spinta del motore del ‘teatro ragazzi’ che – dalle capitali di Parma con il suo Teatro delle briciole, Piacenza con il suo Teatro gioco vita, Torino con, soprattutto, la Compagnia teatrale Stilema – si è diffuso ovunque, aprendo opportunità vere sul piano artistico, e sollecitando gli opportunismi utili e leciti di gruppi altrimenti vocati, e però ugualmente impegnati nell’unico settore dove il pubblico servizio e l’innovazione ardita potevano e dovevano coniugarsi. In Puglia, per es., sia il Teatro Kismet di Bari che i Cantieri teatrali Koreja di Lecce, devono alle produzioni per ragazzi sia molta della loro sopravvivenza sia parte importante della loro inventiva e vita artistica.
A dare ovunque e a tutti sopravvivenza e residenza – e dunque a fare da punti fissi nella carta della geografia politica del teatro – sono stati i numerosi festival, rassegne e premi che si sono accesi con frequenza e hanno garantito continuità al movimento e mutamento del nuovo teatro. Per decenni – per fare l’esempio più meritevole – il Premio Scenario ha sondato e sollecitato decine di nuove emergenze artistiche. Nel corso degli anni Novanta nascono poi molti nuovi appuntamenti o accampamenti teatrali: alcuni festival più fortunati e offensivi (come quello di Drodesera nel Trentino o quello delle Colline torinesi in Piemonte) e altri più provvisori e difensivi nelle regioni meno servite o affollate dal teatro (dall’Umbria alla Sardegna alla Calabria); ma in fondo tutte queste sedi festive continuano a dipendere più dagli enti locali che dai soggetti teatrali, e pertanto disegnano mappe più politiche che geografiche.
Forse allora, nella geografia politica teatrale, soltanto una legge vale per tutto il periodo e tutto il teatro: al solito una regola dell’eccezione, come vuole il controsenso e il fuoriluogo della cultura e della natura teatrale. Mentre il sistema istituzionale tenderebbe a distribuire fondi e far nascere forze in modo da costruire una rete più equilibrata nel territorio nazionale, in realtà le attività e le imprese teatrali si concentrano e si moltiplicano nelle zone già ricche di presenze e proposte. A dispetto della logica del servizio e della legge della concorrenza, è la densità dei teatri che funziona come culla riproduttrice di altri teatri nuovi.
Così per es. – ed è l’unico esempio su cui concordano i critici, gli storici e perfino gli artisti – si è affermata l’eccezione costante e crescente della Romagna felix, dove la fertilità del nuovo teatro sembra non conoscere soste e raggiunge anche sul piano estetico-culturale i livelli più alti: attorno al Festival di Santarcangelo di Romagna – attivo dal 1971 e ancora incisivo (anzi ‘riproduttivo’) – in tutta la regione, soprattutto dopo gli anni Ottanta, il nuovo teatro arriva a risultati notevoli per quantità e qualità.
Il successo nazionale e internazionale di gruppi come la Socìetas Raffaello Sanzio e il Teatro Valdoca, entrambi di Cesena, oppure come le Albe di Ravenna parlerebbe da solo, ma in realtà il fatto più importante è che tutto attorno – anche in virtù del loro modello estetico e del loro aiuto pedagogico – continuano per decenni a nascere altre importanti realtà: dal Teatro due mondi di Faenza, al Masque Teatro di Forlì, ai Motus di Rimini, a Fanny e Alexander di Ravenna, fino ai più recenti Menoventi, ancora di Faenza, sono molti i nuovi segnali che confermano la Romagna come territorio di residenza e di elezione del nuovo teatro italiano, anche per i modelli organizzativi e formativi che via via vengono sperimentati e incrementati.
La geografia del nuovo teatro italiano non potrà dunque mai concretizzarsi in una mappa ordinata o stabile, ma è certo che ha (o fin qui ha avuto) una regione che può passare alla storia: una zona di concentrazione e anche di irradiazione, se è vero che, attorno alla Romagna, per induzione e per imitazione, anche la restante Emilia e la Toscana conoscono da tempo una fertilità organizzativa per via di una politica istituzionale più aperta alla sperimentazione.
Forse, allora, è questo l’atteggiamento giusto da far ‘passare in politica’: una politica culturale più attenta alla ricerca, ovvero noncurante dei limiti del piccolo, delle impotenze del povero, dei rischi del nuovo teatro.
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