Ulisse
Personaggio del canto XXVI dell'Inferno: di lui si fa pure menzione in Pg XIX 22-23, nel canto della sirena che a sé lo attrasse sviandolo dalla meta a cui tendeva, e in Pd XXVII 83 in cui si accenna all'ultima sua disperata impresa. Compare nella bolgia dei cosidetti, non da D., consiglieri frodolenti (meglio si direbbero i ‛ politici ', i machiavellici che dell'ingegno si valsero a ingannare altrui a pro della loro patria o della loro Parte), avvolti dentro mobile fiamma. Non a lui in particolare e tanto meno al suo folle volo si riferiscono i versi di If XXVI 19-24 che indirettamente dichiarano il peccato punito in questa bolgia, il malo uso dell'ingegno, con un insolito accenno del poeta a sé medesimo e alla tentazione a cui dallo stesso suo ingegno può essere esposto (come " uomo pubblico ", " negoziatore politico " secondo il D'Ovidio e il Porena): che qui in questa ancor vaga designazione non sia nessun sottinteso, alcun riferimento alla navigazione oltre le colonne d'Ercole, né anticipato un giudizio sull'impresa e il monito che ne deriva com'è parso a taluno (Momigliano) e, in forma più sfumata, al Sapegno, è chiaramente detto ai vv. 18-19 Allor mi dolsi, e ora mi ridoglio / quando drizzo la mente a ciò ch'io vidi: " ciò ch'io vidi ", ossia la bolgia quale allora apparve alla vista del poeta con tutte quelle fiamme vaganti; la pena dunque degl'ingannatori, non il destino di uno di essi di cui avrà in seguito notizia.
É da notare anche come, a differenza delle pene delle altre bolge, questa non abbia niente di ripugnante o di orroroso - la prima impressione è soltanto di una diffusa mobile luce, simile a quella delle lucciole in una sera d'estate -, anche perché i dannati e le loro sofferenze sono nascosti dentro le fiamme. Al tormento di U. e Diomede alludono soltanto i verbi che vorremmo dire tecnici, privi d'intensa connotazione sentimentale, in cui vano sarebbe ravvisare una rappresentazione della loro sofferenza col climax delle pene significate dalle tre diverse voci, che può essere stata nell'intenzione di D. ma resta soltanto un saggio di retorica variatio: ancor più vana e assurda l'interpretazione romantica del Donadoni (ma non di lui solo) per cui i due indivisibili compagni d'arme nel mondo sarebbero nemici laggiù e il reciproco odio senza fine sarebbe la più grave pena per i peccatori i quali vivono in una rissa continua. Se nel canto seguente le parole di Guido da Montefeltro saranno improntate di un penoso e segreto tormento fin dal primo faticoso erompere dalla fiamma in cui quello spirito è racchiuso, nessun accenno alla pena che soffre è nel discorso di U., che si leva senza stento e senza sforzo, mentre l'agitarsi della sua fiamma dà soltanto l'impressione di un'aperta libera atmosfera, quasi presentimento del grande racconto marino: Lo maggior corno de la fiamma antica / cominciò a crollarsi mormorando, / pur come quella cui vento affatica, vv. 85-87. La fiamma sempre presente nel dolore e nelle parole di Guido da Montefeltro (vedi che non incresce a me, e ardo, XXVII 24; la fiamma dolorando si partio, / torcendo e dibattendo 'l corno aguto, vv. 131-132) non ha qui altro effetto per U. che di nasconderlo, di farne un puro spirito, una voce che s'innalza sicura e serena dal fondo della bolgia infernale, anzi diremmo da un tempo remoto, dall'età stessa di quelle gesta e dell'epopea di cui essa è l'ultimo grande episodio.
Di fatto, oggetto del canto non sono le frodi per cui U. è punito insieme con Diomede, bensì il grande racconto della sua ultima ardimentosa infelice impresa, e la sua narrazione è preparata da un preambolo così ampio e vario e solenne come nessun altro episodio del poema (alle colpe di U. si fa soltanto un cenno sommario, un elenco secondo una gradazione della loro gravità, " stratagemma militare ", " inganno a fine politico ", " furto sacrilego ", e si è notato che le colpe più gravi attribuitegli dalla tradizione sono passate sotto silenzio): ma quel cenno pur necessario e suggestivo per i grandi nomi che evoca, non esaurisce il desiderio, l'ansiosa attesa di D., che Virgilio comprende e di cui si fa interprete con un discorso retoricamente sostenuto come si conveniva al poeta dell'Eneide e a un eroe dell'epopea antica quale mai non abbiamo udito rivolgersi nell'Inferno a un dannato. Quel che D. attende, il segreto che vuole svelato, quel che altri non può aver inteso e sarà rivelato dalla sua poesia, è detto nelle parole ultime di Virgilio l'un di voi dica / dove, per lui, perduto a morir gissi, ossia " in quale luogo (dove) partito verso l'ignoto senza ritorno (perduto) andò a finire la sua vita (a morir gissi) " - (Pagliaro) - e il perduto non sarà da intendere come è stato erroneamente (Marchesi) " dannato ", bensì (ha ricordato il Rajna) " come vocabolo da potersi dir ‛ tecnico ' dei romanzi in prosa della Tavola Rotonda usato dai cavalieri che postisi in avventure, entrati nelle foreste, non hanno più dato sentore di sé e che si temono o si credono morti ".
Qui è il centro del canto: la narrazione dell'eroe presente nell'ansiosa attesa e preparata dalle battute di D. e di Virgilio, si dispiega sin da principio piana, senza enfasi. Nessun esordio, nessun commento, il fatto soltanto, tutto è detto con l'accento della ‛ modestia ', per citare il Torraca che meglio di ogni altro commentatore ha inteso il tono dell'episodio. " Nessun vanto, nessuna vampata d'orgoglio, tutto è detto, anche quando affronta l'intentata impresa con semplicità e modestia ": la partenza da Circe, l'ardore di conoscenza, per cui rinuncia al ritorno in patria superando il richiamo degli affetti più cari (non disconosciuti né negati) e riprende coi pochi vecchi compagni la navigazione per il Mediterraneo giungendo fino ai riguardi posti da Ercole, vale a dire gli avvisi (non i divieti) che più oltre non era dato procedere perché più non vi erano terre abitate. (Valga per tutti quanto sulle colonne d'Ercole è scritto nel commento del Lana: " Saputo che terra non era più da lì in là per notizia di naviganti fece porre suso per la riva e da lato di Sibilia e da quello di Setta molte colonne di marmore, nelle quali era scritto di più maniere lettere: nullo si metta a navigare più innanzi, imperquello che oltre queste mete non troverà porto di salute ").
Non lo ignora U. che, fatto esperto dei vizi umani e del valore, nelle tante terre da lui percorse, ora sa che dinanzi a lui si apre il mondo sanza gente (v. 117), e verso quel mondo si spinge al di là dello stretto, e dopo averlo oltrepassato si rivolge ai compagni rinnovando il discorso di Enea ai suoi Troiani, anche se non può promettere alcun approdo, alcun vantaggio, né prossimo né futuro, né fare appello ad altro che alla comune umanità, alla legge che a ogni uomo è posta di non vivere come bruto ma di seguir virtute e canoscenza (v. 120), di accrescere sino all'ultimo, anche quando la vita come per loro è prossima alla fine, la conoscenza del vero. Anche questo discorso, l'orazion picciola, essenziale per l'episodio, è del tutto privo di enfasi come quello di chi non mira a inaudite conquiste bensì persegue coi compagni un compito che ogni altro uomo giunto dove essi sono si proporrebbe. Di qui il tono del discorso familiare insieme e solenne, " costruito come un'orazione vera e propria con tutti gli espedienti dell'arte " (Sapegno): " vide quod captatio benevolentiae non solum fit per exordium, sed etiam per caeteras partes orationis: est enim velut sanguis diffusus per omnia membra vivificans totum corpus orationis " (Benvenuto). Ne sono scossi i compagni, pronti ad affrontare l'ignoto facendo ala per il volo che, post factum, gli si rivelerà folle, vale a dire temerario, vano. Perché l'impresa non può non riuscire vana, la catastrofe è implicita nel suo stesso assunto.
Dopo cinque mesi di navigazione (nessun particolare pittoresco, null'altro che la sottintesa presenza del mare), i naviganti intravvedono un monte di non mai veduta altezza e tosto per l'improvviso insorgere di una tempesta la nave s'inabissa. La tempesta non può essere se non un segno della volontà divina. L'accetta senza riconoscerla U., senza riconoscerla e senza ribellarsi, com'altrui piacque. Qui nella chiusa come in tutto il racconto, nessun indizio (sono ancora parole del Torraca) " di dolore, di rimpianto, di pentimento. Tutto è raccontato in serenità perfetta come se non fosse egli il protagonista del dramma ".
Il monte non può essere che il monte del Purgatorio, anzi del Paradiso terrestre: " a disporre a quella nuova scena l'immaginazione del lettore mira forse il poeta con questa parlata di Ulisse " (Tommaseo), anticipando un particolare essenziale della sua cosmografia. Né senza motivo indirettamente si richiamano a quella catastrofe i versi di Pg I 130-132 Venimmo poi in sul lito diserto, / che mai non vide navicar sue acque / omo, che di tornar sia poscia esperto, coi quali D. respinge, se pure le ha conosciute, le fioriture romanzesche e romantiche della Navigatio santi Brandani, di cui si è parlato come di un'Odissea monastica con quei monaci che vanno e vengono dall'isola del Paradiso terrestre e che gli sarà sembrata diminuire il mistero dell'isola remota, di quel mondo soprannaturale di cui così nettamente segna il confine secondo una concezione severamente classica e severamente ortodossa. Entro questo mondo s'inserisce la grande avventura di U., il suo ardimento e il suo dramma; non, come si dice, " un episodio ", strettamente congiunto com'è alla concezione stessa del poema e al viaggio di D., il quale assistito dalla Grazia e dalle guide che gli sono state inviate, perverrà là dove a U. pagano e fidente soltanto nelle sue forze non era stato dato giungere, riuscendo soltanto a intravvedere il monte del Paradiso terrestre, quasi punto estremo a cui può spingersi per la sua intrinseca natura l'umanità. Moltissimo aveva veduto per un vivente, per l'ardimento umano, poco in sé stesso, si potrebbe dire nulla, in confronto a quel mondo eterno a cui non gli è stato concesso approdare.
L'episodio, se così ancora vogliamo chiamarlo, è quindi come pochi altri parte essenziale del poema e le molte questioni che pone sono intimamente connesse col mondo speculativo di Dante. Ma ben distinto invece esso è dal mondo di Malebolge, anzi in certo senso dall'Inferno stesso, e a segnare questo distacco ha provveduto il poeta isolando una zona di alta tragedia così diversa dalla commedia infernale. Ce ne fa avvertiti il colore linguistico e stilistico di tutto il canto nel quale la parola greve di Malebolge si dissolve per dar luogo a parole più elette, a modi più aulici, e fa ad esempio bello spicco insieme con un classico ricordo la parola pira al centro della terzina (vv. 52-54), e nello studiato discorso di Virgilio il s'io meritai di voi (vv. 80-81; " si bene quid de te merui ") sottolineato dalla figura della ripetizione o ancora il priego / e ripriego, che 'l priego vaglia mille (vv. 65-66) o si notano latinismi quali audivi, orazion in senso di concione, faville, vigilia (v. 114), nel significato pregnante che ha nell'orazion picciola, surto, surgere, occidente, diserto, inceso, concetto, bruti, casso, turbo, del rimanente (" de reliquo ": ma è pure un francesismo) e il marin suolo che riprende un'espressione virgiliana ed è insieme un calco del tanto più frequente " aequor ". Non a caso le parole di Virgilio, di tutt'altro colore lessicale, Istra ten va, più non t'adizzo, le ascolteremo soltanto nel canto seguente (v. 21) e non dalla bocca di Virgilio, ma riferite dall'altro dannato, Guido da Montefeltro. La prima terzina di quel canto, quasi confine di due mondi, di due momenti, è ancora improntata dell'alto e pacato stile del racconto ulisseo e del suo preambolo (Già era dritta in sù la fiamma e queta / per non dir più, e già da noi sen gia / con la licenza del dolce poeta). Ma sta a sé nell'Inferno il racconto, dalla grande apertura con quell'enjambement iniziale da terzina a terzina (Quando / mi diparti'), dalla discreta rievocazione di moduli classici, il verso ovidiano " resides e desuetudine tardi " ripreso con senso rinnovato, le parole di Enea riecheggiate e scorciate, la descrizione virgiliana della tempesta infine parimenti ridotta all'essenziale, sì che tutto il discorso di U. viene a poggiare su motivi classici, mentre si dispiega con tanta, per citare ancora il Torraca, magnanima semplicità. Che vi è dunque di comune fra U. e Malebolge? Per questo il De Sanctis ha potuto scrivere: " Ulisse è il grande uomo solitario di Malebolge, è una piramide piantata in mezzo al fango "; e il Parodi: " Ulisse non è affatto contaminato da Malebolge ".
Alcuni critici e lettori son stati invece tentati, in ossequio alla coerenza di una rigida concezione dell'oltretomba dantesco, a stabilire una relazione fra l'impresa ultima e l'abito peccaminoso dell'eroe e si sono sforzati, contro lo spirito e la lettera di questo canto, di riconoscere nell'ardimentoso navigatore l'inveterato artefice di frodi, il quale conclude la sua vita con un nuovo e più grave peccato.
Il personaggio di U. deve perciò essere sempre e soltanto quello di un peccatore; così la sua storia rientrerebbe nella concezione della cantica, storia di un peccato e della sua punizione, e lo stesso discorso ai compagni di questo orditore d'inganni sarebbe un estremo tragico inganno. Così il Buti, il più rigido e scrupoloso dei commentatori trecenteschi - lo stesso non a caso che della magnanimità di Farinata aveva scritto: " da notare che questa magnanimità era in messer Farinata per vizio e non per virtù: cioè per superbia, imperocché in Inferno non può esservi virtù " -, commenta i versi 97-98 l'ardore / ch'i' ebbi a divenir del mondo esperto: " Manifesta la colpa sua imperocché questo amore non era da virtù ma da superbia: imperocché questa esperienza cercava per sapere più di tutti gli altri e per poter meglio ingannare gli altri e soprastare gli altri ". E nel secolo nostro uno studioso americano, il Lane Cooper, ha giudicato menzognero il racconto tutto di U. e menzognera la sua orazione, " figurazione così perfetta del consigliere frodolento da riuscire ancor oggi a trarre in inganno il lettore " (!); e con maggior sforzo di sottigliezza uno studioso quale il Vossler è giunto a scrivere che " Ulisse, il più scaltrito degli ingannatori, è spinto dal suo stesso slancio inesausto di perfezione nella tecnica della menzogna alla ricerca, alla scoperta, e dunque dalla colpa è mosso alla verità... In Ulisse la frode si fa tanto conseguente e intellettualmente tanto chiara da essere in procinto di partorire la verità. Di tutti i mentitori dell'Inferno, egli è il più grande, il più luminoso, il più bello; il più simile a Lucifero ".
Bastino questi tre esempi (ma altri ve ne sono più o meno sfumati), che abbiamo scelto come paradigmatici di tali interpretazioni: le stesse loro evidenti forzature ci confortano ancor più a distinguere i peccati del politico che Virgilio ha così chiaramente ed esaurientemente indicati, dall'impresa a cui l'eroe è stato indotto non certo da un movente politico ma dal solo amore di conoscenza. Anzi l'episodio di U. impone con maggiore urgenza di altri la rinuncia a una concezione del poema per cui ogni personaggio dovrebbe comparire come esempio di un peccato e la ragione poetica di ogni episodio coincidere con la ragione che ha assegnato questa o quell'anima per il suo peccato a questo o quel cerchio dell'oltretomba. Anche se non si accetta la distinzione crociana di struttura e poesia, si deve ammettere che assai più complessa è la concezione del poema e meno semplici o semplicistiche le relazioni fra la struttura morale dell'oltretomba astrattamente considerata nelle sue partizioni di peccati e di pene, e la poesia della Commedia che ora fa di quei peccati il proprio soggetto, ora li abbassa non diremo a pretesto ma ad antefatto di una storia ispirata a tutt'altri motivi, senza che per questo venga meno l'unità, varia e articolata unità, del poema dantesco. Altro è il caso del canto XXVIII, dove i peccatori sono evidenti ‛ exempla ' dei peccati e delle pene; altro, per citare i più vistosi, di Farinata, di Brunetto, di U., per i quali tutti non si può non rinviare a quanto, consentendo col De Sanctis, scriveva M. Barbi: " Dice cosa giustissima (il De Sanctis a proposito di Farinata); ed è quello che avviene nel poema per molti altri (ad esempio per Brunetto, per i tre degni Fiorentini e per Ulisse); e del peccato appena accennato il poeta si dimentica per ritrovare, nella loro vita e nella loro anima, quello che serve meglio ai suoi fini e alle sue creazioni immortali ".
Non per questo l'episodio di U. sta a sé come una lirica autonoma, poiché ci riporta, se non all'ambiente di Malebolge (che sta semmai come sfondo e a contrasto), a un più lontano mondo che è veramente suo, il mondo dei magnanimi del Limbo (bene illustrato da Fiorenzo Forti). Alla famiglia degli spiriti magni del Limbo, i magnanimi quali Aristotele ha definiti appartiene U.: se non si fosse macchiato dei peccati ricordati da Virgilio, non nel profondo dell'Inferno ma nel nobile castello sarebbe la sua sede.
Non si rispondono i versi che dicono la trepida ammirazione dantesca per gli spiriti magni che del vedere in me stesso m'essalto (If IV 120) e quelli che descrivono la sua ansiosa attesa delle parole di U., sanzionate dall'alto elogio di Virgilio? E il tono di cui si è detto della grande narrazione ulissea, non è conforme alla misura degli atti e delle parole dei grandi del Limbo, sia pur ancora contratti e irrigiditi, rispetto a questa tanto più libera e varia creazione?
Veramente un magnanimo è U. che altamente sente di sé medesimo e delle proprie capacità né esita ad affrontare le più ardue e rischiose imprese; magnanimo sopratutto per quella sete di sapere che era pure di D. e di cui nel Convivio e nella Commedia si discorre con accenti indimenticabili. Così l'ha inteso Benvenuto, con tanta maggiore aderenza alla lettera e allo spirito della poesia dantesca che non pochi sofisticati interpreti moderni, là dove afferma che il viaggio e il naufragio di U. non sono stati attinti dalla tradizione bensì inventati da D. " propter aliquod propositum ostendendum ". Quale proposito? " Videtur enim ex fictione ista velle concludere quod vir magnanimus, animosus qualis fuit Ulixes, non parcit vitae periculo, vel labori ut possit habere experientiam rerum, et potius eligit vivere gloriose per paucum tempus quam diu ignominiose. Et ista conclusio valde bene posse eligi ex verbis Ulixis ": le quali parole richiedono forse soltanto una correzione per quel " gloriose " che tocca certo un motivo profondo nell'animo di D. (il gran desio dell'eccellenza!) ma che nel racconto di U. e nel discorso ai compagni non c'è, facendosi valere unicamente l'amore del sapere per sé stesso, assolutamente disinteressato anche senza il premio della non nominata gloria.
Così com'è U. risponde a una tendenza profonda dello spirito dantesco di porsi dinanzi figure esemplari di cui massima è quella di Catone; ma accanto a Catone vi è pure U. che non era soltanto l'orditore d'inganni o il " dirus " il " saevus Ulixes ", bensì un esempio di virtù morali quale si era venuto atteggiando a opera della riflessione filosofica e morale. A Catone appunto, sia pure a lui posponendolo, Seneca lo aveva accostato ricordando come gli stoici avessero riconosciuto modelli di saggezza in U. e in Ercole, per i travagli superati, per lo sprezzo della voluttà, per la vittoria su ogni terrore; e Orazio (Epist. I II 17-18) tra gl'insegnamenti di Omero aveva ricordato l'" utile... exemplar " di U.: " Rursus, quid virtus et quid sapientia possit, / utile proposuit nobis exemplar Ulixen " (" virtus et sapientia ", virtute e canoscensa).
Ma forse più di ogni altro aveva toccato il cuore di D., come bene ha visto il Parodi, il passo del De Finibus (V XVIII 49) " dove Cicerone, traducendo i versi omerici della sirena che nessuno aveva ascoltato senza che ‛ variis avide satiato pectore Musis / doctior ad patrias lapsus pervenerit horas ' così li commenta: ‛ scientiam pollicentur: quam non erat mirum sapientiae cupido patria esse cariorem. Atque omnia quidem scire, cuiuscumque modi sint, cupere curiosorum; duci vero maiorum rerum contemplatione ad cupiditatem scientiae summorum virorum est putandum ". Son bastati quei pochi passi in cui l'epopea omerica e il suo eroe gli si presentavano come filtrati dal pensiero di una età più matura per offrire a D. lo spunto di un U. nuovo che è sì l'orditore di frodi, ma è pure colui che per amore di conoscenza fugge il richiamo degli affetti e degli stessi doveri familiari e si sente spinto dopo l'esperienza di tutte le terre visitate a procedere oltre verso l'ignoto per un impulso innato nell'uomo, di cui D. ha discorso nel Convivio e dirà ancora nel poema e che così forte avvertiva in sé medesimo, conscio dell'insufficienza di ogni cognizione parziale, del dubbio che risorge dopo ogni acquisizione di una verità.
D. sapeva come non sanno purtroppo tanti suoi lettori moderni, ‛ distinguere ': distinguere i peccati del politico dall'impresa che ha compiuto per disinteressato amore del vero, distinguere dalla catastrofe con cui, per una volontà superiore, essa si è conclusa e non poteva non concludersi, l'intrinseca nobiltà dell'ardore di U. esaltata in quell'orazion picciola, nella quale non si può, tranne che da spiriti sordi, non sentir pulsare il cuore stesso di Dante. Invece, più che gli antichi, i moderni sono stati incerti nel giudicare l'impresa di U.: esaltazione dell'umano ardimento o condanna di una ribellione alla divinità? L'ultima impresa di U. dovrà essere dunque considerata come un ulteriore peccato, non riconducibile all'abito del frodolento, ma tanto più grave così da parer rinnovare il peccato di Adamo, anzi di Lucifero?
La tesi è stata sottilmente sviluppata da B. Nardi il quale ha ricordato che dal Paradiso terrestre verso cui si volge la prora di U. erano stati cacciati i primi parenti dopo il peccato e che Dio ne aveva negato l'accesso a loro e ai loro discendenti: oltrepassando le colonne d'Ercole, che verrebbero a significare il divieto di Dio, l'uomo si è posto ancora una volta contro la divinità. " Appunto contro questo decreto divino cozza e si infrange l'eroica volontà dell'uomo che ha osato quel che gli era vietato di osare. In questo consiste la follia di Ulisse. Nella follia di Ulisse e dei suoi compagni vi è tutto l'orgoglio umano che spinse Adamo ed Eva a trapassare il segno gustando il frutto del bene e del male per essere simili a Dio: v'è anzi lo stesso orgoglio di Lucifero... Nel folle volo di Ulisse Dante scorge una continuazione del peccato originale, anzi una continuazione del peccato degli angeli ribelli... e simile a un dio ribelle ci appare veramente Ulisse dritto sulla prua della nave che solca l'Oceano sconfinato e misterioso ".
Ora, a parte certe espressioni così poco conformi al gusto dantesco e allo stile tutto del racconto ulisseo (" Ulisse simile a un dio ribelle ") e piuttosto di un certo gusto dannunziano a cui inconsapevolmente ha ceduto il severo studioso, è da ricordare quel che per confutare una tesi del Pietrobono sul colpevole desiderio di U. di tutto sapere condannato da D. - e per questo il maestro si frapporrebbe fra lui e il dannato per impedirgli un così pericoloso contatto e smorzare il suo entusiasmo! -, aveva già scritto il Barbi, negando che U. rinnovi la colpa di Adamo, in quanto Adamo aveva " contravvenuto a un espresso divieto del Creatore; ma nell'eroe greco, per quanto riguarda la sua ultima impresa, non fu colpa alcuna; che non potevano essere considerati come segno della volontà degli dei le colonne poste da Ercole sull'una o sull'altra sponda dello stretto onde si esce sull'alto mare aperto ". Anche per lui i riguardi non sono divieti e tanto meno il segno della volontà divina, né tali li sente U. che ai compagni parla soltanto dopo che essi han già superato lo stretto e non certo come chi sta infrangendo un divieto con accento di orgogliosa ribellione. Che poi " Dio abbia impedito, prosegue il Barbi, che gli ardimentosi navigatori approdassero all'isola di cui avevano avvistato l'altissima montagna, questo impedimento non è una punizione. Ulisse non ha tentato coscientemente e volontariamente di violare un inaccessibile mistero... Non bisogna calcare su una colpa cosiffatta ché nei riguardi di Ulisse non è colpa: altri sono i peccati per cui egli è condannato e Virgilio li ha enumerati ". Ben più, se colpa fosse, si può aggiungere, essa rimarrebbe in Inferno senza punizione, né ha valore la sottigliezza giuridica che essa sarebbe inglobata, per così dire, nella condanna del frodolento: una colpa maggiore sottintesa nella condanna di una minore ! I critici sono stati sempre più propensi ad accogliere e a svolgere una tesi contraria (Getto, Fubini, Sapegno, Forti, Pagliaro): poco credito hanno trovato tesi aberranti che puntavano su discutibili testimonianze che non sempre erano in relazione col testo dantesco quando non erano frutto di vistosi fraintendimenti (Rocco Montano) o di troppo parziali dimostrazioni (Padoan).
Ma respinta la tesi del Nardi (e lo si cita come il più autorevole sostenitore di un U. ribelle, nuovo Adamo e nuovo Lucifero) è rimasta nei critici moderni una perplessità, che in genere non era degli antichi, nel giudicare l'atteggiamento di D. verso questo suo personaggio: ammirazione o, se non condanna, forte riserva morale; o una duplicità di giudizio? Perciò V. Rossi parla di un " intimo dissidio fra Dante teologo e Dante poeta; ma vince il poeta, prosegue, che ammira e celebra, nella follia del varcare i limiti del conoscibile, il gagliardo e generoso operare dello spirito e prova un pietoso sgomento per l'oscuro destino degli uomini ". E addirittura di una dualità di motivi da cui risulterebbe l'episodio, e che non sono risolti nell'animo di D., discorre M. Rossi, colorando di drammatici colori un contrasto fra l'uomo e Dio e troppo lontano ci porta da questa pagina di poesia, anzi dal pensiero e dalla fede di Dante. Ma se non un dissidio una disparità di giudizio, in D., riconosce anche B. Croce: " Che Dante ligio alla parola rivelata e all'insegnamento della Chiesa, rispettoso dei limiti dell'umano conoscere, ossequente alla modestia e all'umiltà cristiana, dovesse giudicare peccaminoso l'ardimento ulisseo che viola i segni d'Ercole, e farlo punire da una misteriosa e religiosa forza della natura, esecutrice della collera divina, è indubitato. Ma Dante è qualcosa di più di quel che è e sa di essere dottrinalmente; e questo di più... gli apre l'anima alla grandezza degli atteggiamenti e dell'impresa tentata da Ulisse ". Anzi egli giunge a parlare di " sublime peccato ", un'espressione, a dire il vero, che ci sembra disforme così dal suo spirito come dallo spirito di D. quale egli ha così vigorosamente descritto e a cui si conforma pienamente anche la concezione di U.: " Che cosa è questo spirito dantesco? L'ethos e il pathos della Commedia... è il sentimento del mondo fondato sopra una ferma fede e un sicuro giudizio e animato da una sicura volontà ". E nessuna perplessità si avverte in questo episodio: la ferma fede che è sostanza della personalità poetica dantesca, si ritrova pur qui e impronta di sé ogni parola del canto, che tutt'altro accento avrebbe se dietro di esso fosse non so quale dissidio o dubbio o perplessità dell'animo del poeta, in cui invece si accordano senza dissidio o contrasto l'ammirazione dell'eroe e la sommissione alla volontà divina.
Vi è nell'impresa di U. il segno della grandezza e dell'insufficienza dell'umanità, vale a dire dell'umanità tutta priva del soccorso della rivelazione o, come il Pagliaro corregge, dell'umanità non assistita dalla Grazia. Perciò quella che abbiamo riconosciuto come celebrazione della natura umana, in una delle sue più nobili incarnazioni, è anche un'energica affermazione del limite che le è posto, insuperabile. Nulla è di peccaminoso nell'operato di U. (" Ulisse non pecca e non è punito, anzi segue una legge nobilissima della natura umana che va ad urtare contro invalicabile limite, che non è la punizione di una specifica, inesistente colpa, ma una legge naturale, il destino dell'uomo ", Getto). Né una punizione era per questo, bensì l'affermazione di un'inviolabile legge, dei limiti dei due mondi. Né si parli, come troppe volte si è fatto, di " collera " anzi di " terribile collera di Dio ". La vendetta di Dio si è compiuta col naufragio della nave, se pur di vendetta si può parlare e non di ristabilimento o riaffermazione di leggi che non potevano essere violate: come ben scrive V. Rossi, la morte di U. " non suona come condanna ". Dio e l'uomo, lungi dal contrastare nel cuore di D., hanno ciascuno una loro parte ben segnata, né sappiamo nelle sue parole o al di là di esse avvertire un contrasto irrisolto di due sentimenti, ammirazione per l'eroe e sgomento dinanzi alla sua inevitabile fine per volontà di Dio. Si potrebbe semmai parlare della tragedia di U. come di un contrasto hegeliano, non del torto contro la ragione, ma della ragione contro la ragione, della ragione umana che non può non procedere nella ricerca della verità, di dubbio in dubbio, di vero in vero e della superiore ragione divina che le pone, a un certo punto, un limite invalicabile.
Nemmeno si dovrà vedere, come si è veduto, un contrasto tra l'episodio di U. e l'innegabile tono ammirativo che gli è proprio e i versi di Pg III 34-35, in cui risuona così vivo il sentimento del limite posto all'umana ragione e così accorato il rimpianto dei grandi pensatori dell'antichità per la verità non raggiunta né raggiungibile. Come si conciliano l'esaltazione dell'impresa di U. e l'ammonimento State contenti, umana gente, al quia? Direi che i due passi rappresentano non tanto un'opposta concezione (in realtà, se ben si bada, rampollano dalla medesima concezione e dalla medesima fede) quanto due momenti dell'animo dantesco, che ora sente con dolore la finale inanità di un magnanimo sforzo verso il vero dei grandi pagani ora invece si esalta per la grandezza di quello sforzo pur vano nella sua conclusione, testimonianza dell'intrinseca nobiltà della natura umana: ne sono nate due pagine di poesia, intonata l'una a elegia, l'altra a epopea, a severa e drammatica epopea. Vi era nell'animo di D. posto per l'uno e l'altro motivo, l'uno e l'altro tono: ed è pretesa vana di moderni critici quella di voler a forza ridurre un episodio, per così dire, nell'ambito di un altro o di porre fra l'uno e l'altro, fra questo e quel canto, un insuperabile dissidio. Ancora una volta è da riconoscere una salda e intatta armonia del mondo e della mente di Dante.
In condizione non diversa di U., che a un certo punto vede troncata la sua impresa da una forza misteriosa, si trovarono i pensatori dell'antichità, i quali indagando il vero non giunsero, né potevano, alla conclusione ultima. Ma quel che è sentito come elegia, l'elegia della rinuncia e dell'inappagamento, era rappresentato come dramma in atto in questo canto dell'Inferno. È la grandezza e il dramma dell'umanità pagana, anzi dell'umanità in sé stessa; ma questo dramma non porta alla disperazione l'individuo che ne è stato vittima, né D. che così fortemente l'ha sentito e rappresentato; né annulla l'intrinseca nobiltà di quella ricerca, anzi, in un certo senso la consacra, mentre ci fa sentire che è necessario, a compimento, qualcosa di più che darà la rivelazione o la Grazia, una Grazia speciale come quella che sarà concessa a Dante.
È parso anche a chi non ha accolto la tesi di un U. ribelle che nelle sue azioni vi sia un eccesso, significato da quel folle, ribadito nel varco / folle di Pd XXVII 82-83. Un eccesso, un venir meno alla condizione posta da Dio agli uomini, disforme dalla medietas aristotelica. Così il Bosco dopo un'attenta analisi semantica di folle e follia nel linguaggio di D., e il Forti che dopo avere esaurientemente dimostrato l'errore della tesi di un U. ribelle, ammette invece " un ‛ fol hardiment ' ", un eccesso dunque della stessa magnanimità che non poteva non portare alla rovina. Certo U. va incontro a un limite, a un limite che aveva ignorato e che gli s'impone con quella catastrofe, ma non è, ripeto, una punizione. Del resto, come bene ha ricordato il Getto, il fallimento dell'impresa di U., il limite che fatalmente incontra, non è peculiare soltanto di una determinata concezione dogmatica e trascendente della realtà, non è, come pare a M. Rossi, una dura imposizione del Dio trascendente, è condizione intrinseca di tutti gli uomini che sempre, a un certo punto, si trovarono dinanzi a un limite. L'episodio di U. viene quindi a essere un momento essenziale e culminante di quella poesia dell'intelligenza illustrata dal Getto, il momento in cui l'intelligenza non può procedere più oltre ma non per questo viene rinnegata. Diremmo che l'intelligenza può dimostrare tutto il suo vigore e la sua libertà soltanto se spinta al suo limite estremo che coincide col suo fallimento. Se l'impresa non fallisse non si affermerebbe la potenza della legge divina; ma non si affermerebbe nemmeno la potenza e la magnanimità dell'uomo che ha il suo suggello in questa catastrofe. Soltanto in un altro ordine l'intelligenza umana avrà il suo pieno appagamento, sostenuto da una magnanimità non inferiore a quella di U.: il raffronto col viaggio di D. è inevitabile e l'episodio di U. si rivela ancor più necessario nella concezione del poema. Si veda per questo la più recente esauriente indagine del Pagliaro. Dentro il poema anche la tragedia di U. è superata e collocata nel posto che è suo, nella sua grandezza e nel suo fallimento, nell'ordine dell'universo e anche nell'ordine del poema.
Ci si fa ora più chiara la ragione perché proprio in Malebolge, nella bolgia dei frodolenti, D. abbia collocato il suo eroe e il suo dramma. Se U. per certi rispetti è legato alle anime del Limbo, non vi era nel Limbo spazio né agio per una simile pagina, né, com'è ovvio, vi sarebbe stato nelle altre cantiche. Essa poteva comparire soltanto nell'Inferno, volgendo ormai al termine il viaggio dei poeti nella cavità infernale, quasi ripresa ampliata e potenziata del Limbo, e insieme preannuncio, come bene osserva il Tommaseo, dell'altra cantica. Né può sfuggire che l'aver affidato quel grande racconto a un peccatore racchiuso nella fiamma infernale, ne rende maggiore la suggestione. La narrazione di U., checché ancor si voglia affermare contro l'evidenza di tante affermazioni, nulla ha che fare col suo peccato, ma il suo peccato, a cui le sue parole non alludono, è pure un presupposto necessario di quella narrazione, il suo chiaroscuro. Come Farinata non impersona veramente l'eretico, ma la sua pena fa spiccare maggiormente la sua magnanimità sullo sfondo infernale (ciò mi tormenta più che questo letto, X 78), come il peccato di Brunetto è per sé estraneo all'episodio, ma la condizione del dannato rende più patetiche le sue affettuose parole, così nella fiamma che lo racchiude viene a essere, in certo senso, potenziata la figura e la narrazione di Ulisse. Come sempre accade, del resto, nelle opere d'arte, si riconosce infine che tutto sta bene così com'è di per sé stesso e nel posto che occupa nell'insieme dell'opera.
Ma se la critica nonostante riluttanze o tesi aberranti sembra più o meno concorde con l'interpretazione che qui si è esposta, si deve tener conto della deformazione che l'episodio ha subito nel tempo per l'accentuazione di certi suoi aspetti che han finito per farne cosa profondamente diversa da quel che D. ha fatto e han giustificato anche certe reazioni di critici contro la retta interpretazione dell'episodio. Alludo soprattutto all'indiscriminata esaltazione della grandezza di U., al ‛ titanismo ' del personaggio e del suo poeta, al suo ardore faustiano. Degno di nota nel Rinascimento è l'interesse del Tasso per l'U. dantesco, rievocato nel discorso della Fortuna e celebrato per il suo infelice ardimento insieme con la vittoriosa impresa di Colombo: senonché l'U. del Tasso si distingue già dal personaggio dantesco per l'irrequietezza, per lo ‛ sprezzo ' dei " divieti / di Abila angusti " / (Gerus. lib. XV 31, 7-8) che avevano ristretto in " troppo brevi chiostri " (XV 25, 5) l'ardire dell'ingegno umano: avvertiamo in lui gli spiriti ribelli di altri eroi della Liberata. Ma nel Tasso vi è ancora un senso di misura; col Romanticismo e col Decadentismo l'U. dantesco sarà trasfigurato e disumanizzato. Nel poemetto del Tennyson l'Itacese è spinto a operare non da un solo dominante affetto, l'amore disinteressato per la conoscenza, bensì dal fastidio del consueto per cui rifugge dal vivere " with an aged wife ", dal reggere il suo rozzo popolo nella sua piccola isola, che vuole " bere il calice della vita fino alla feccia "; progenitore dell'U. dannunziano, il quale sdegna e disprezza gli affetti e gli obblighi della vita di ogni giorno, da null'altro mosso se non dall'immensa inappagabile brama: " Sol una è la palma ch'io voglio / da te, o vergine Nike: / l'Universo. Non altra " (Maia, Telemaco re dei porcari, 35-37). Siamo agli antipodi, occorre dirlo? dell'U. dantesco, ma non solo in queste raffigurazioni o trasfigurazioni poetiche che devon pur essere ricordate nella storia della fortuna della creazione dantesca: anche in pagine di critici si avverte, per effetto di una lettura romantica e decadente, un fraintendimento o un avvio al fraintendimento della semplice e grande creazione di Dante. Così nella pagina di uno studioso tedesco (il Rüegg) si può leggere: " Dante ha fatto dell'Ulisse del Medio Evo, vale a dire della tarda antichità, un autentico rappresentante del Rinascimento, una figura che per l'ardita concezione e la rappresentazione tragicamente grandiosa può essere accostata alle più grandi figure dell'umanità rinascimentale, a Cesare Borgia, come a Colombo, al Principe di Machiavelli come allo shakespeariano Riccardo III e al dottor Faust del dramma di Marlowe ". Non occorre rilevare l'assurdità di questi accostamenti, ma anche critici che bene hanno inteso e illustrato l'episodio, come I. Sanesi, si lasciano portare a simili accostamenti: " Ulisse è per me l'anticipazione di Faust "; e così con sue parole rifà il ragionamento di U. in maniera del tutto disforme dallo stile dantesco: " C'è dunque un limite? Si oltrepassi quel limite. V'è un divieto? S'infranga quel divieto. V'è un mistero? Si vada verso il mistero. V'è, forse, la morte? Si muova contro la morte ". Così parlerebbe un eroe romantico, non certo U., che nulla dice di limiti, né di divieto né di mistero e nemmeno della morte: la sua grandezza sta appunto nel presentare a sé stesso e ai compagni la straordinaria impresa come una naturale conseguenza e un naturale compimento di quanto hanno sino a quel punto fatto, un naturale adempimento del loro compito di uomini.
Sopratutto non vi è parola di " divieto ": se U. ritenesse d'infrangere col suo atto un " divieto ", avrebbero ragione coloro che considerano colpevole, peccaminoso il suo operato. Se mai sarà la sua impresa, come piace al Bosco e al Forti, un " eccesso di magnanimità " a cui non poteva non spingersi e che subito è, non diciamo punito, ma annullato dall'intervento divino. Ora, quest'ordine del mondo dantesco, questa misura del suo eroe, sono gravemente compromessi da troppi commenti dei moderni, come quello sopra citato, che han provocato reazioni di altri interpreti, i quali da parte loro han finito per disconoscere la sostanza di questo episodio e di questo personaggio.
Bibl. - Per le questioni poste da questo canto si veda anzitutto F. Mazzoni, in D.A., La D.C. - Inferno, con i commenti di T. Casini - M. Barbi e A. Momigliano, Firenze 1972, 533-536 (ivi anche esauriente bibliografia degli anni 1950-1971). Si vedano inoltre: A. Chiappelli, L'Odissea dantesca, in Pagine di critica letteraria, Firenze 1911; M. Porena, in La mia lectura Dantis, Napoli 1934; A. Bertoldi, U. in D. e nella poesia moderna, in " Rassegna Nazionale " 1 luglio 1904; G. Bertoni, Il canto XXVI dell'Inferno, in Cinque letture dantesche, Modena 1933; I. Sanesi, L'ultima navigazione di U., in Saggi di critica storica e letteraria, Milano 1941 (importante per sé e per il ricco apparato di note che discutono la varia letteratura sull'argomento); E. Donadoni, In commemorazione del VI Centenario della Visione dantesca, rist. in Scritti e discorsi letterari, Firenze 1921; E.G. Parodi, L'" Odissea " nella poesia medievale, rist. in Poeti antichi e moderni, ibid. 1923; M. Barbi, in Con D. e i suoi interpreti, ibid. 1941 (pagine che mettono, a mio credere, nella sua giusta luce il significato dell'impresa di U. confutando le tesi troppo complicate e sottili di quanti vi hanno scorto un atto di ribellione sacrilega). Sta a sé lo studio di M. Rossi, Il canto di U., in Gusto filologico e gusto poetico, Bari 1943 (acuto anche, ma viziato dal soverchio filosofismo).
Insistono particolarmente sul carattere peccaminoso dell'impresa ulissea studiosi meno recenti: R. Fornaciari, U. nella D.C., in Studi su D., Firenze 1901; U. Tria, Il canto XXVI dell'Inferno, in " Giorn. d. " XVII (1909); L. Valli, U. e la tragedia intellettuale di D., e Il canto XXVI dell'Inferno, in La struttura morale dell'universo dantesco, Roma 1935; B. Nardi, La tragedia di U., in " Studi d. " XX (1937), rist. in D. e la cultura medievale, Bari 1942, 89-99 (1949²) con una risposta alle obiezioni che gli sono state mosse; su cui si veda: M. Fubini, Il peccato di U., in " Belfagor " II (1947), rist. in Il peccato di U. e altri scritti danteschi, Milano-Napoli 1966, 1-36. Inoltre: B. Croce, La poesia di D., Bari 1921; K. Vossler, La D.C. studiata nella sua genesi e commentata, traduz. ital., II Il, ibid. 1927, 111-112; S.A. Chimenz, Il titanismo religioso di D., in " Humanitas " II (1947) 540-542, 548-551 (a cui si può muovere obiezione soltanto per il titolo, " il titanismo ", e che risolutamente nega un contrasto nel poeta fra l'ammirazione dell'eroismo dell'impresa di U. e la sua reverenza alla volontà di Dio); M. Apollonio, Dante, Milano 1951, 642-645 (respinge la tesi di un decreto divino o di un contrasto fra quel che suggerisce la poesia a D. e non so che divieti medievali imposti al seguir virtute e canoscenza); G. Getto, La poesia dell'intelligenza, in Aspetti della poesia di D., Firenze 1946, 41 ss. (importante per le pagine sul Limbo e particolarmente sull'episodio di U. " eroe dell'intelligenza " in cui si nega risolutamente un preteso peccato di U.: " Ulisse non pecca e non è punito, anzi segue una legge nobilissima della natura umana che però va a urtare contro un invalicabile limite che non è la punizione di una specifica e inesistente colpa, ma una legge naturale, il destino di ogni uomo che non può esaurire l'infinita serie dei problemi "); M. Fubini, Il canto XXVI dell'Inferno (1952), rist. in Lett. dant. 491-513, e in Il peccato di U., cit., 37-76. Sulla tesi del peccato di U. è tornato con insistenza R. Montano, Il folle volo di U., in " Quarta Dimensione " 14 giugno 1950 (rist. in " Delta " n.s., 2 [1952] 10-32), forzando anche il senso dei testi latini che D. avrebbe avuto dinanzi. Con ben altra misura, ma pur insistendo sempre sulla peccaminosità dell'impresa, ne ha discorso C. Marchesi, Orazio e l'U. dantesco, in " Quaderni dell'A.C.I. " VII (1952) 31-45. Importanti le pagine di A. Renaudet, Dante humaniste, Parigi 1952 (incerto però fra il riconoscimento della grandezza di U. e la suggestione dell'opposta tesi per cui egli può riconoscere che " La grandezza che Achille e Giasone conservano tra i dannati aiutano a interpretar meglio il personaggio di Ulisse. Basta tener presente il principio per cui certi eroi, certi tipi superiori di umanità possono conservare nell'eterno castigo e malgrado il peccato alcuni tratti dell'incancellabile grandezza umana "; ma si lascia pure sfuggire un giudizio sul discorso di U. ai compagni che " sarebbe la prova estrema della sua capziosa abilità oratoria, ‛ estrema furberia ' "). Ribadisce con nuovi argomenti e con l'appoggio di passi di commenti di classici la tesi della peccaminosità di U., G. Padoan, U. ‛ fandi fictor ' e le vie della sapienza, in " Studi d. " XXXVII (1960) 21-61; senonché quei passi che commentano la polimorfa figura di U. (e D. in proposito ha escluso quegli altri aspetti dell'eroe omerico) ci portano lontani dalla concezione di D. e da quegli autori indicati dal Moore e dal Parodi, Seneca Cicerone Orazio, che sono stati gl'ispiratori primi di Dante. Sottile illustrazione della voce follia in D. e quindi del carattere e dei limiti della colpa di U. sono i due studi di U. Bosco, La " follia " di D., in " Lettere Italiane " X (1958) 417-430; e Né dolcezza di figlio, in " Studi Mediolatini e Volgari " V (1957) 58-75 (ambedue rist. in D. vicino, Caltanissetta-Roma 1966, 55-75, 173-196).
Importante, anche se non tratta direttamente del canto ma del concetto di magnanimità e del Limbo dantesco, lo studio di F. Forti, Il Limbo dantesco e i megalopsicoi nella etica nicomachea, in " Giorn. stor. " LXXVIII (1961) 329-364 (rist. in Fra le carte dei poeti, Milano-Napoli 1965); e ancora di F. Forti, U., in " Cultura e Scuola " 13-14 (1965) 499-517 (rist. col titolo ‛ Curiositas ' o " Fol hardement "?, in Fra le carte, cit. 41-77), in cui si nega che quella di U. sia peccaminosa " curiositas " e gli si riconosce invece la colpa o l'eccesso del " fol hardiment ".
Il più recente e il più compiuto e per tante parti esauriente studio su U. è quello di A. Pagliaro, Ulisse, rist. in Ulisse 371-432. Il passo citato del Rüegg è in A. Rüegg, Die Jenseitvorstellungen von D. und die übrigen Literarischen Voraussetzungen der D.C., Einsielden-Colonia 1945, 111 (su U. nella Commedia, pp. 108-117).
Va ricordato inoltre D'Arco Silvio Avalle, L'ultimo viaggio di U. (in " Studi d. " XLIII [1966] 35-68), per il proposito di riportare la narrazione dantesca entro uno schema di racconti romanzeschi per lo più ignoti a D. e taluno anche posteriore alla Commedia, secondo il metodo dell'analisi strutturale e seguendo l'esempio da lui menzionato del Propp nello studio di certe leggi della composizione conformi a quelle di certe categorie di racconti e di favole messe in luce dallo studioso russo; il quale aveva già offerto in anticipo la confutazione di questo studio, là dove aveva affermato che " i metodi da lui proposti, come pure i metodi degli strutturalisti, hanno i loro limiti di applicazione... Sono possibili e proficui là dove ci si trovi di fronte a una ripetibilità su ampia scala come ha luogo nel linguaggio e nel folclore. Ma quando l'arte diventa campo d'azione di un genio irripetibile l'uso di metodi esatti darà risultati positivi solo se lo studio degli elementi ripetibili sarà accompagnato dallo studio di quel che di unico al quale finora noi guardiamo come alla manifestazione di un miracolo inconoscibile ". Tanto più proficue perciò ci appaiono le ricerche in quella che fu la cultura poetica e filosofica di D., i suoi reali precedenti, o i discreti accenni del Rajna a temi della letteratura romanzesca.