Ugolino della Gherardesca, conte di Donoratico
Figura di primo piano nella storia pisana e toscana del Duecento, è protagonista di un celebre episodio della Commedia (If XXXII 124-139, XXXIII 1-90).
Figlio del conte Guelfo della Gherardesca, nacque nei primi decenni del sec. XIII; la sua potentissima casata ghibellina, di origine feudale, si trovò dalla parte del comune in occasione della ‛ pacificazione ' generale tra nobili e popolo avvenuta a Pisa nel 1237, e quindi in netta opposizione con i Visconti, famiglia ugualmente di origine feudale, ma guelfa. Il contrasto, che aveva la sua base negl'interessi delle due famiglie in Sardegna, s'inserisce in tutta una serie di lotte cittadine che provocheranno in Pisa la crisi dell'aristocrazia consolare, la quale tuttavia seguiterà a lottare per riprendere il suo potere. Nel '54 vi fu la definitiva affermazione del popolo, il che però non diminuì l'importanza delle consorterie nobiliari, quali i Visconti e i Gherardesca. La prima comparsa di U. sulla scena politica pisana fu nel 1252, quando lo troviamo nel giudicato di Torres quale vicario di re Enzo, già rinchiuso nel carcere bolognese: probabilmente il conte usava questo titolo di vicario, oramai privo di contenuto, per legittimare le sue pretese sarde. Troviamo nuovamente U. nella spedizione pisana contro Sant'Igia (1257-58), roccaforte vitale del Cagliaritano; l'impresa riuscì: il giudicato fu diviso stabilmente in tre parti uguali, assegnate rispettivamente a Guglielmo da Caprara giudice d'Arborea, a Giovanni Visconti giudice di Gallura e a Gherardo, U. e Guelfo della Gherardesca: d'ora in poi U. si dirà signore di un sesto del regno di Cagliari. Sempre nella veste di vicario di re Enzo troviamo U. a stipulare vari atti in nome del re prigioniero; altri atti furono da lui stipulati nella qualità di capofamiglia tutore e nonno degli eredi dello Svevo: Enzo infatti, nel suo testamento (1272), aveva lasciato eredi dei suoi diritti sardi Enrico e Ugolino figli di sua figlia Elena, moglie di Guelfo della Gherardesca, figlio a sua volta di Ugolino. Pisa mirava ad appropriarsi di questi possessi, nonché di quelli in Versilia e in Garfagnana, per cui U. si trovò a far causa comune col genero Giovanni Visconti, sebbene questi fosse capo - come si è detto - della fazione guelfa avversaria. Già precedentemente (1270) i due avevano compiuto insieme una dimostrazione di forza in Pisa, uccidendo una guardia del podestà; per tale fatto i loro seguaci erano stati per breve tempo esiliati; successivamente anche i due capi-fazione erano stati perseguiti personalmente. Nel 1272, comunque, U. è a Pisa: infatti il 3 luglio di quell'anno mediò un accordo fra la sua città e Carlo d'Angiò, accordo che comportava il versamento da parte dei Pisani di 2000 once d'oro per pretesi danni subiti dall'Angioino dopo la pace di Ripafratta (14 aprile 1270): l'accordo agli occhi ghibellini poté sembrare almeno un tentennamento del conte in senso filoguelfo. Nell'ottobre del 1273 U. andò in Sardegna, ove già si era ritirato il giudice Giovanni Visconti; ma nel luglio del 1274 era di nuovo a Pisa donde uscì nuovamente con fedeli e figli nel 1275 (8 giugno): la causa di questi ripetuti esodi è da ricercare nei contrasti che le due fazioni avevano col comune di Pisa per i possessi sardi. U. e Giovanni si appoggiarono alla Lega guelfa che, in lotta serrata contro Pisa, dopo la rotta di Asciano costrinse la città alla resa, imponendo, tra le condizioni di pace, il rientro dei fuorusciti guelfi, tra cui i Visconti, e dello stesso Ugolino. Anche ciò poté essere malamente interpretato dai ghibellini; sta di fatto però che il rientro delle due casate principali della città non orientò la politica pisana in senso filoguelfo: il comune dal 1276 al 1283 si mantenne costantemente ghibellino e pronto ad assumere qualsiasi iniziativa favorevole all'Impero.
Da tempo Pisa era in lotta con Genova e con Firenze per il possesso della Corsica e per la distruzione dei fondaci genovesi di Akkon a opera dei Pisani; e inoltre, Firenze era danneggiata nei traffici dai diritti doganali pisani. Si ebbe un primo attacco genovese alla fine del 1282, e quindi nell'83 navi genovesi saccheggiarono quelle pisane; la città, prevedendo un attacco in forze, affidò a un duumvirato con poteri dittatoriali, composto da U. e Andreotto Saraceni, la difesa della città e del contado nonché il comando della flotta in guerra, mentre Fazio di Donoratico fu capitano delle forze in Sardegna. Questi non raggiunse però la sua destinazione: nel maggio dell'84 gran parte della sua flotta venne distrutta ed egli stesso catturato. L'attacco conclusivo fu sferrato il 6 agosto 1284 presso lo scoglio della Meloria: la flotta ligure, numericamente superiore e abilmente occultata dal suo ammiraglio Oberto Doria, distrusse la quasi totalità della flotta avversaria. U., che era a capo di 12 galere, si rifugiò nel porto pisano, mentre suo figlio Lotto, dopo aver combattuto strenuamente, fu preso prigioniero dai Genovesi. Pisa così perdeva la supremazia mercantile e militare a favore di Genova e quella di terraferma a favore di Firenze. La città venne inoltre privata della massima parte delle sue navi, dei marinai e degli esponenti delle sue più rappresentative famiglie, portati prigionieri a Genova. In tale tragica situazione Pisa ricorse a U., dopo che erano falliti i tentativi di pace con Genova e dopo che la richiesta di protezione al papa era rimasta lettera morta. A U. aveva contemporaneamente fatto proposte la lega stipulata fra Genova Firenze e Lucca perché l'appoggiasse e riconoscesse Genova signora dei suoi beni sardi. Forse proprio tale atteggiamento degli avversari verso il conte determinò il governo pisano a concedergli pieni poteri (18 ottobre 1284), considerando in particolare che U., per i suoi precedenti rapporti con Firenze, avrebbe saputo e potuto trattare meglio; e sarebbe forse riuscito a dividere le due più potenti avversarie. Nei quattro anni in cui U. rimase al potere cercò assai abilmente di barcamenarsi e neutralizzare tutte le forze in lotta nell'interno della città; associò subito (aprile 1285) al governo quale capitano del popolo il nipote Nino Visconti, figlio di Giovanni, probabilmente per placare le rivendicazioni della Parte guelfa e quindi scongiurare un integrale passaggio della città al guelfismo. Non realizzò alcun radicale mutamento politico: i capiparte ghibellini non furono perseguitati, come forse era nelle intenzioni delle città avversarie, che avevano visto con favore la sua presa di potere: furono solo demoliti dieci palazzi di ghibellini banditi (cfr. Villani VII 98). Negli Statuti del 1286, inoltre, furono perdonati tutti i sospetti " usque nunc ", cioè furono accettate tutte le casate aristocratiche integrate nel popolo; questo sta a dimostrare come si volessero sopire tutti i dissensi interni. Nel Breve Populi Pisani, inoltre, è limitato il numero degli artifices facenti parte dell'Anzianato e quindi limitato il loro peso nel governo; le corporazioni, esclusi le sette Arti e i tre ordini mercantili, erano tenute sotto stretto controllo, sempre per mantenere un certo equilibrio fra le varie componenti della vita cittadina. Quanto alla politica estera, U. cercò di smembrare le forze avversarie sia con la concessione di castelli ai Fiorentini (Pontedera, 1285) e ai Lucchesi (Viareggio, Ripafratta, 1285), sia, come vuole la tradizione, con il corrompere l'esercito avversario che avrebbe dovuto assediare Pisa da terra, mentre Genova avrebbe assalito il porto pisano. La cessione dei castelli, considerata dagli avversari come tradimento, costituì poi il principale atto di accusa contro il conte. È fama inoltre che Firenze inducesse i guelfi senesi a inviare un reparto di cavalleria a presidiare la città, ma tale notizia è dubbia; è comunque chiaro che la Lega guelfa, e in particolare Firenze, non avevano alcun interesse che Pisa cadesse in piena balia genovese; comunque, lo stesso papa Onorio IV ora intervenne in favore di Pisa minacciando la Lega d'interdetto.
Nel momento in cui la situazione interna ed esterna pisana si andava normalizzando, scoppiò più violento il contrasto fra i due signori, originato soprattutto da opposti intendimenti circa la pace con Genova. Nino, d'accordo con i prigionieri pisani ancora nelle carceri della città avversaria, premeva per concludere la pace, mentre U. tergiversava, probabilmente per evitare che il ritorno di tante forze assetate di rivincita rompesse il precario equilibrio raggiunto nella città. È da notare che a capo dei prigionieri pisani era un Sismondi, membro cioè di quella famiglia che agirà da protagonista nella congiura contro il conte. Comunque, l'azione di U., di Nino, dell'arcivescovo Ruggieri degli Ubaldini (v.) che poi capeggiò la congiura contro il conte, resta storicamente non ben chiarita; ci fu certo una serie di mutamenti di fronte, che poterono e possono essere interpretati anche come reciproci tradimenti. La politica di U., certo assai spregiudicata e null'affatto riguardosa degl'interessi delle classi più potenti, fallì in modo tragico per la reazione nobiliare appoggiata dallo scontento popolare per le restrizioni imposte da necessità economiche causate dalla sconfitta. Nel 1287, inoltre, più forte si fece l'opposizione delle Arti ai due signori; questi fermenti ostili sfociarono l'anno successivo nella congiura che precedette la catastrofe. Il corso degli avvenimenti precipita: mentre U. è nel suo castello di Settimo, la rivolta popolare capeggiata dall'arcivescovo e dalle famiglie più potenti scaccia Nino; quando il conte rientra in città convinto di poter riprendere il potere, la sommossa si rivolge contro di lui, che viene imprigionato (1 luglio 1288) con due figli, Gaddo e Uguccione, e i nipoti Anselmo e Nino detto Brigata (che poi morranno con lui); un altro nipote, Guelfo, essendo lattante, sfuggirà alla morte e verrà liberato da Enrico VII 25 anni dopo. Secondo un'altra versione dei fatti, l'arcivescovo Ruggieri avrebbe attirato U. in città con la prospettiva di un accordo: questa pare la versione che D. seguì: nei suoi versi, Ruggieri è non meno traditore di U., e questi lo tratta come suo traditore personale. La prigionia di U. si protrasse per circa 9 mesi: le cronache riferiscono infatti che allorché Guido da Montefeltro entrò in Pisa per assumerne la signoria (marzo 1289), il conte e i suoi congiunti erano appena morti. Sull'atrocità della morte fa testo il racconto dantesco che con ogni probabilità si basa su voci popolari; comunque Nino Visconti denunciò al papa il crudele agire dell'arcivescovo e questi fu condannato dal pontefice (v. UBALDINI, RUGGIERI degli).
Dei figli, che U. ebbe da Margherita Pannocchieschi contessa di Montingegnoli, tre sopravvissero al padre: Guelfo, Lotto e Matteo. Guelfo, il primogenito, che combatteva in Sardegna all'epoca della morte del padre, si fece cittadino genovese nel 1292, e così pure il fratello Lotto, allorché venne liberato dalla prigionia; sposò una Spinola. Entrambi combatterono contro Pisa per vendicare il padre. Matteo, il figlio minore, assente da Pisa al momento della morte del padre, divenne cittadino bolognese e tornò in Pisa con le milizie di Uguccione della Faggiuola. Le figlie di U. furono tre: Gherardesca, moglie di Guido di Battifolle, per la quale D., ospite di Guido, redasse tre epistole (VIII, IX, X) dirette all'imperatrice Margherita, moglie di Enrico VII; Imilia, moglie d'Ildebrandino da Santafiora, e una terza di cui s'ignora il nome e che fu madre di Nino Visconti.
Il conte Ugolino〈/lem> nella " Commedia ". - D. condanna tutto il groviglio di mutui odi e tradimenti, che culminarono nella feroce condanna del conte, ficcando nel ghiaccio, in una stessa buca, i due principali antagonisti, U. e Ruggieri; esclude il terzo personaggio principale di quelle vicende, Nino Visconti (v.), e anzi gli dedicherà un lungo affettuoso episodio nel Purgatorio (VIII 48-84), colà compiacendosi di vederlo salvo, cioè non tra i dannati (vv. 53-54), cioè esplicitamente negando la sua colpevolezza. Quanto a U. e a Ruggieri, poiché il poeta sembra lasciare impregiudicata (If XXXIII 85-86) la questione circa la cessione dei castelli, è da pensare che rimproverasse al conte soprattutto le sue oscillazioni in direzione guelfa; all'arcivescovo imputò certamente, oltre la sua politica generale senza scrupoli, per la quale è punito insieme con tutti gli altri traditori della patria o del partito, lo specifico tradimento (vv. 16-18) che avrebbe consumato contro U.: " il traditore dal traditore tradito ", dice, echeggiando D., Giovanni Villani: Ruggieri ha pertanto una pena supplementare: il nemico mangia il suo teschio.
Tuttavia i tradimenti dell'uno e dell'altro sono il presupposto dell'episodio, ma non vi hanno seguito: le modalità di essi non vi sono specificate (solo un accenno nell'invettiva finale) come invece sono specificati i tradimenti dei dannati precedenti e l'altro, seguente, di Alberigo. Più che la responsabilità dei singoli preme al poeta mettere in luce un male generale; l'episodio è la reazione morale di D. maturo a un avvenimento che aveva suscitato l'orrore di tutti, tanto da far muovere, contro un arcivescovo, persino il papa; e che certo aveva impressionato fortemente lui stesso, giovane di 23-24 anni. Ma c'è da notare un fatto essenziale: la morte di U. era stata fatto troppo clamoroso, e la personalità di lui troppo nota, e, anche, D. era troppo amico di Nino Visconti e in contatto con la figlia Gherardesca (v. sopra), per ignorare che i condannati della torre non erano tutti figli di U.; che essi erano, tranne Anselmuccio forse quindicenne, già adulti (e il Brigata, quando si trattava di uccidere, non si tirava indietro); se D. immagina invece che essi fossero tutti figli e tutti adolescenti, lo fa evidentemente per conseguire una maggiore espressività e persuasività, in servizio di un determinato suo messaggio; e non è escluso che questo sia connesso, come accenneremo, con un'amara esperienza autobiografica.
Il De Sanctis definì tragedia della paternità questa di Ugolino. Lo strazio di lui non è infatti la fame propria, la propria morte: l'accento non batte su ciò: egli vuole rivelare a D., perché a sua volta lo riveli nel mondo, quanto fosse stata cruda non già la sua morte in sé, sulla quale non doveva dire nulla che già non si sapesse, ma il modo di essa, venuta dopo che egli aveva visto morire i figli, senza poterli aiutare.
Contro questa tesi, che è la tradizionale, si son di recente levate voci che hanno tentato di rovesciarla dalle fondamenta, in base al preconcetto che nell'Inferno non ci siano peccatori ma peccati: cioè, non uomini rievocati in momenti salienti della loro vita terrena e che conservano anche nell'altro mondo la loro umanità, ma solo exempla teologici, pure e semplici incarnazioni di peccati, che il poeta fabbrica allo scopo unico dell'edificazione religiosa. Rinuncerebbe dunque ad approfondire, come il suo Ulisse riteneva dovere degli uomini degni di questo nome, i vizi umani e il valore; rinuncerebbe anche a darci precetti ed energici consigli valevoli anche nella condotta della vita terrena. Tutti i suoi testi smentiscono perentoriamente questo. D. certo vuol salvarsi e salvare gli uomini, condurli alla vita eterna, ma non per questo trascura d'indurli a fare il loro dovere in questa; anche ciò è comando di Dio. Si può facilmente concordare che il ricordo delle passate vicende, il riandare per l'eternità al peccato di un tempo, o magari a un episodio culminante ed emblematico di esso, sia secondo D. voluto da Dio per accrescere e per così dire personalizzare la pena che i singoli hanno in comune con i peccatori a essi simili; ma le circostanze di quel peccato o momento sono dal poeta, né poteva essere diversamente, approfondite umanamente e perciò psicologicamente: e quindi è compito del critico seguirlo sin che gli è possibile in questo approfondimento, analizzandolo. Si può concordare anche che nel passato l'attenzione si sia troppo concentrata sulla figura di U. prigioniero nella torre, separandola indebitamente da quella di U. dannato, e che quest'ultima è concepibile solo nel quadro generale del IX cerchio. U. è posto fra Bocca e Alberigo: a quello il viaggiatore strappa crudelmente i capelli (If XXXII 103-104), verso questo vuole essere villano (XXXIII 150); non meno severo è contro il conte, del quale mette energicamente in rilievo la ‛ bestialità ' (If XXXII 133-134; XXXIII 76-78); il poeta ha orrore dell'odio di lui, anche se è persuaso che egli (e in lui l'umanità) aveva subito un'offesa atroce. Tutto ciò è certo; ma bisogna chiudere volontariamente gli occhi per non vedere che il discorso poetico del racconto di U. assume una sua propria fisionomia figurativa, tonale, persino stilistica. Il volto che figurativamente era prima solo un'enorme bocca spalancata a mangiare (si badi: non solo a mordere) una testa inerte, e forbita con i capelli di quella stessa testa come con uno straccio, diventa un volto d'uomo che piange: parlare e lagrimar vedrai insieme (v. 9).
Da più parti s'insiste oggi sulla ferocia di U.; ma già il Tommaseo aveva parlato del " dolore iracondo " di lui, " spirito superbo e contaminato di misfatti "; e la compresenza di odio e furore e affetti costituisce la notazione base proprio del geniale saggio desanctisiano. Giacché, se è assurdo dimenticare che il dolore di U. è compenetrato di odio, è ancora più assurdo leggere nell'episodio solo furore rabbioso. Per furore si può avere desiderio di distruzione, si può rodere il nemico, non si piange, e U. fa l'una e l'altra cosa. È il furore, forse, che spinge il conte a guardare in volto i figli moribondi? A brancolare sui loro corpi? E qualcuno ha addirittura visto nel racconto di lui un astuto espediente per infamare il suo nemico: potenza del preconcetto !
Certo, e qui il saggio del De Sanctis è stato vantaggiosamente integrato dalla più illuminata critica recente, scopo del poeta non era di rappresentarci, in sé, la tragedia di un padre, ma di mostrarci, attraverso questa tragedia, quella enormemente più vasta degli odi civili. Alla fine del canto XXXII, D. aveva fatto un patto con U.: se il tuo odio ha giusta ragione - gli aveva detto - io svelerò in terra il delitto di Ruggieri: dunque il poeta si propone di denunciare l'arcivescovo, o meglio Pisa, cioè modi di lotta politica ripugnanti all'umanità; e non di assolvere o condannare U. o Ruggieri come persone; il patetico del racconto si riversa sui figli innocenti, e su U. solo nella sua qualità di padre. Non si dimentichi che nel sogno premonitore U. vede sé stesso come un lupo, cioè come un animale pericoloso ai suoi nemici, tale, insomma, da meritare il loro accanimento, non come un animale inoffensivo; cioè immerge anche sé stesso nella ferocia bestiale di quelle lotte. Scrisse il D'Ovidio che il patetico " non riguarda la pena ch'egli sente laggiù, ma la pena inflittagli quassù ": e Giovanni Villani, anche qui interpretando precisamente D., aveva detto che i Pisani sono " forte biasimati per l'universo mondo non tanto per lo conte che pe' suoi difetti e tradimenti era per avventura degno di sì fatta morte, ma per gli figliuoli e nipoti che erano giovani garzoni e innocenti ". L'odio ha determinato nel mondo l'agire di U. e dei suoi nemici; e ora, in quel fondo estremo del peccato che è l'ultimo cerchio dell'Inferno dantesco, determina gli atteggiamenti di tutti gli spiriti e anche di U.; ma egli è colpito, nei suoi figli, da quello stesso odio. Gl'innocenti condannati soggiacciono alla crudeltà non del solo Ruggieri, ma di un intero ambiente politico-morale di cui U. stesso fa parte; e dunque essi son vittime, in definitiva, anche di lui stesso. Da qui una componente del dolore di lui non abbastanza messa in luce, sebbene fosse stata già individuata dal Tommaseo: il rimorso. Come la coscienza che la sua azione politica e militare ha prodotto la rovina dei suoi discendenti tormenta Farinata più che il suo letto infernale di fuoco, così il tormento di U. consiste anche nel senso della sua responsabilità nella fine dei figli: lo tormenta in eterno il problema cruciale della sua vita. Come Farinata può accettare il bando da Firenze contro di lui, ma non quello contro i suoi discendenti, così U., in sostanza, si duole solo della sofferenza dei figli condannati per causa sua.
Conquista, pensiamo, durevole della critica post-desanctisiana è dunque l'avere individuato che l'orrore di D. è verso la crudeltà della lotta politica a lui contemporanea. Su questa via però si deve avanzare. A D., uomo tuffato in pieno nella vita pubblica del suo tempo, non era estraneo l'odio; tanti passi del suo poema nascono da questo; non poteva quindi rifiutare quest'odio in blocco, come potrebbe fare un illuminato uomo d'oggi. Rifiuta invece una lotta così esasperata da far dimenticare all'uomo la sua umanità, da trasformarlo in bestia. In particolare, D. condanna il coinvolgere figli e discendenti nella sorte dei padri, anche se la corresponsabilità familiare era contemplata dalle leggi del tempo e non respinta dalla comune coscienza. Egli stesso era stato personalmente vittima di ciò: i figli, superata la fanciullezza, avevano, secondo la legge, dovuto raggiungerlo nell'esilio. Il non avere accettato, per tornare in patria, compromessi da lui ritenuti disonorevoli era stato un imperativo morale che non poteva certo lasciare scie di rimorso, ma d'inquietudine sì. È un problema essenziale per lui: alla base, oltre che di questo episodio di U., anche di quello di Farinata, non senza riflessi nella figurazione di Ulisse.
Da qui l'importanza essenziale dell'invettiva contro Pisa, in cui appunto D. condannava da una parte le costumanze feroci delle lotte di cui la città era, per averle permesse, responsabile; e dall'altra, specificamente, l'ingiustizia di condannare innocenti. Il poeta dice esplicitamente (XXXIII 85-87) che se i Pisani erano convinti che U. li avesse traditi, avrebbero potuto condannare lui, ma non innocenti: Innocenti facea l'età novella... Ora comprendiamo appieno il perché della trasformazione in giovanissimi dei figli e nipoti adulti di U.: l'adolescenza è il volto figurativo dell'innocenza. Per dare maggiore evidenza al problema già posto in Farinata, D. ne forza i dati: la rovina degli Uberti era dipesa dalla battaglia di Montaperti: un fatto politico, che era grave colpa per gli uni, ma dagli altri era scusato, anzi ammirato; U. invece era un traditore. Il poeta dunque vuol dirci che anche nel caso di un colpevole, anche di un essere abbietto come i traditori sono per lui e per tutti, l'innocenza non va coinvolta; senza dire che anche in lui va rispettata la paternità, nella quale è la cellula prima della vita; e nel caso specifico rispettare la paternità significava rispettare l'innocenza. Se eliminiamo l'invettiva (come fece per es. il Chaucer), vedremo impoverirsi l'episodio. La tragedia della paternità prima rappresentata non è fine a sé stessa, ma la dimostrazione preventiva, in termini di approfondimento umano e perciò di poesia, di un'ingiustizia; è per così dire il primo grandioso termine di un ragionamento di cui l'invettiva è l'ultimo; attraverso il caso particolare di un uomo il poeta affronta un'assai più vasta realtà.
L'episodio è fitto di reminiscenze classiche e bibliche. Soprattutto notabile che nei momenti salienti il poeta ricorra sempre, puntualmente, ai suoi classici. Già lo stesso rodere di U. non è un'atroce invenzione di D., ma aveva la sua ‛ autorizzazione ' in Tideo, uno dei sette re contro Tebe, che rode le tempie a Menalippo, come raccontava Stazio, che D. cita esplicitamente (If XXXII 130-132; Theb. VIII 749 ss.); e a conclusione dell'episodio, quasi a saldare un ideale cerchio, Pisa è apostrofata come novella Tebe (XXXIII 89): sarà, come alcuni vogliono, per le supposte origini tebane della città, ma assai più probabilmente con riferimento agli " odi fraterni " (Tommaseo) di cui quella città era stata testimone. A Stazio si risale ancora per il fiero pasto (" feritas iam non eget armis ", IX 20) per il ‛ forbir la bocca ' (" lubrica tabo / ora viri tergit lacrimis ", IX 73-74). Per l'inizio solenne del racconto (Tu vuo' ch'io rinovelli / disperato dolor che 'l cor mi preme, If XXXIII 4-5) il poeta ricorre a Virgilio e anzi, tanto egli nello scrivere di U. era dominato da spiriti classici, fonde due passi virgiliani lontani tra loro (" infandum, regina, iubes renovare dolorem ", Aen. II 3, e " premit altum corde dolorem ", I 209). Il primo annuncio della tragedia è in D. sottolineato da un'interruzione nel racconto di U. (Ben se' crudel... / e se non piangi, di che pianger suoli?, vv. 40-42), che richiama un altro passo virgiliano (" Quid talia fando / ... temperet a lacrimis? ", Aen. II 6-8); il testo virgiliano è dietro l'offerta dei figli (" miseros morsu depascitur artus ", Aen. II 215), e l'altra interruzione del racconto ahi dura terra... (v. 66; " quae iam satis ima dehiscat / terra mihi? ", Aen. X 675-676); riappare in un altro momento cruciale, nella catastrofe cui dà inizio il grido e la morte di Gaddo, nel come tu mi vedi, / vid'io (vv. 70-71) di U.: Polite va a morire ai piedi del padre Priamo: " ut tandem ante oculos evasit et ora parentum, / concidit... ", Aen. II 531-532; Priamo rimprovera l'uccisore Pirro: " qui nati coram me cernere letum / fecisti et patrios foedasti funere vultus " (Aen. II 538-539). Anche il brancolar sui corpi ha un precedente nella Niobe ovidiana (Met. VI 277-278): " corporibus gelidis incumbit et ordine nullo / oscula dispensat natos suprema per omnes ".
Questa serie di puntuali rispondenze, che potrebbe essere anche arricchita, ci permette di considerare che, anche in questo caso, D. sente il bisogno di nobilitare, ricorrendo all'alta letteratura, una materia ‛ quotidiana ', tratta dalla sua immediata esperienza politica e umana; e pertanto universalizza e rende perenne il particolare e il transeunte.
L'Antropofagia di Ugolino. - È una delle più vessate questioni dell'esegesi dantesca. Essa ne conta parecchie che sono piuttosto pseudoquestioni, nate dall'eccessiva sottigliezza o magari fantasia dei secolari lettori, e che, comunque risolte, non influiscono sulla ricostruzione del mondo dantesco, e possono perciò essere accantonate; questa non può esserlo, perché la scelta tra le due interpretazioni delle ultime parole del conte (Poscia, più che 'l dolor, poté 'l digiuno, v. 75) si riflette sull'interpretazione di tutto l'episodio di Ugolino. Quelle parole possono essere intese in due modi diversi: o che egli, superando il dolore, divorò i suoi figli; ovvero che egli non morì di dolore, ma d'inedia. Già il Lana, che commentava il poema pochi anni dopo la morte del poeta, adottò la tesi dell'antropofagia; e alcuni dei copisti più antichi variarono il testo in modo da rivelare che tale era la loro interpretazione. Questa non è abbandonata dai moderni, anche da alcuni studiosi autorevoli: sia che la prospettino come semplice ipotesi (dal De Sanctis al Contini), sia che la facciano valere come certezza. La maggior parte degli antichi e dei moderni accetta invece l'interpretazione secondo la quale U., pur pensando e augurandosi di morire di schianto, per dolore, dovette invece morir lentamente di fame; ciò fa parte della ‛ crudeltà ' della sua morte (quel che non puoi avere inteso, / cioè come la morte mia fu cruda, vv. 19-20).
Le due interpretazioni sono entrambe, in sé, legittime, né esistono ragioni storiche che spingano a preferire l'una all'altra, se non la considerazione che quando, nel marzo 1289, all'arrivo a Pisa di Guido da Montefeltro la prigione fu aperta, il conte fu trovato morto da poco, assieme ai figli e ai nipoti, mentre l'antropofagia avrebbe forse potuto sostenerlo in vita ancora pochi giorni; e soprattutto i sopravvenienti avrebbero certo trovato carni morse, ossa rosicchiate e altre tracce dell'orribile pasto; e se le avessero trovate, la cosa avrebbe suscitato enorme scalpore, mentre non ci resta che un cenno, che è anche di dubbia interpretazione, in una cronaca fiorentina del Duecento (cfr. Schiaffini, Testi 133). Comunque, la scelta tra le due spiegazioni dipende dall'interpretazione generale dell'episodio: e quella della morte per inedia è la sola che si attagli alla ricostruzione della figura di U. quale l'abbiamo tentata nelle colonne precedenti.
Fortuna dell'episodio. - Il canto del conte U. ha avuto notevole fortuna nella produzione letteraria, figurativa e musicale dell'età moderna. La prima testimonianza letteraria è da assegnare alla tragedia U. dell'urbinate Giovan Leone Semproni (sec. XVII); più rilevante è l'U. conte della Gherardesca (1779) del veneziano Andrea Rubbi, ove si può sottolineare, accanto alla debolezza dell'impianto teatrale, un non spregevole interesse per le vicende storiche del Medioevo toscano e pisano in particolare. Sempre nel campo teatrale, sono da ricordare le tragedie di Bernardo Bellini (1818), di G. B. Zannini (1831), di A. Bucchi (1841); la più nota tragedia del nostro Romanticismo è il Conte U. (1835) di Carlo Marenco, di verseggiatura agile ma povera di approfondimento psicologico. In pieno clima romantico nasce il romanzo Il conte U. della Gherardesca e i ghibellini di Pisa (1843) di Giovanni Rosini: opera sovraccarica di retorica sentimentaleggiante, e scarsamente aderente alla verità storica.
L'episodio è naturalmente raffigurato da tutti gl'illustratori del poema (cfr. a tal proposito COMMEDIA: Illustrazioni); specificamente soggetto di singoli quadri, affreschi, incisioni, l'episodio appare in opere di I. Reynolds, A. Banfi, G. Diotti, G. Bezzuoli, B. Calamai, A. Gualdi, F. Scaramuzza, ecc.; tra le rappresentazioni antiche è interessante ricordare che il Vasari, Vite X 287, dà memoria di un bozzetto in cera di Pierino da Vinci.
Anche i compositori musicali si sono ispirati all'episodio, a partire da Vincenzo Galilei padre di Galileo, sino al Donizetti che nel 1827 diede alle stampe una cantata ispirata a U., a Nicolò Zingarelli, a Francesco Morlacchi, a K. D. von Dittersdorf, e infine allo Zandonai.
Bibl. - Oltre alle cronache coeve, si veda: G. Volpe, Studi sulle istituzioni comunali a Pisa (città e contado, consoli e podestà) nei secoli XII e XIII, Pisa 1902; W. Heywood, A history of Pisa. Eleventh and twelfth centuries, Cambridge 1921; G. Rossi Sabatini, L'espansione di Pisa nel Mediterraneo fino alla Meloria, Firenze 1935; F. Artizzu, Rendite pisane nel Giudicato di Cagliari nella seconda metà del secolo XIII, in " Arch. Stor. Sardo " XXV (1952); E. Cristiani, Per l'accertamento dei più antichi documenti riguardanti i Conti della Gherardesca, in " Boll. Stor. Pisano " XXIV-XXV (1955-1956); ID., Gli avvenimenti pisani del periodo ugoliniano in una cronaca inedita, ibid. XXVI-XXVII (1957-1958); ID., Nobiltà e popolo nel comune di Pisa, Napoli 1962.
Si vedano poi le numerose ‛ lecturae ' del canto XXXIII dell'Inferno; e inoltre: F. De Sanctis, L'U. di D., in " Nuova Antol. " XII (1869) 665-683 (poi in Nuovi saggi critici, Napoli 1873); R. Fornaciari, L'arte di D. nell'episodio di U., in " Il Propugnatore " II 2 (1869) 172-180 (rist. in Studi su D., Milano 1883; poi Firenze 1900); G.B. Giuliani, D. spiegato con D. - L'episodio del Conte U. (Inf. XXXII, 124 - XXXIII, 90), commentato, in " Jahrbuch der Deutschen Dante-Gesellschaft " IV (1877) 239-271; I. Bencivenni, " Dentro dalla Muda ". Studio dantesco, Catania 1894; G. Del Noce, Il Conte U. della Gherardesca, Città di Castello 1894; G. De Leonardis, Il Conte U., in " Giorn. d. " III (1895) 392-411; G. Pascoli, Il conte U., in " Vita Italiana " 16 sett. 1897 (rist. in Minerva oscura, Livorno 1898); N. Quarta, Di che è reo U. secondo D.?, Rocca San Casciano 1899; G. Curto, Il conte U. di D., Capodistria 1900; A. Giordano, L'U. di D., Napoli 1901; P. D'Ovidio, Il vero tradimento del conte U., in Studi sulla D.C., Milano-Palermo 1901, 14-26; A. Marcucci, Piero della Vigna, U. della Gherardesca, Roma 1903; M. Terlizzi, L'U. di D. - Studio, Trani 1904; A. Chiappelli, I consorti del Conte U., in Dalla trilogia di D., Firenze 1905; A. Bartolini, Vita inedita del Conte U. della Gherardesca, Roma 1906; V. Sacca, U., in " Atti R. Accademia Peloritana " CLXXVII-CLXXVIII (1906) 255-260; F. D'Ovidio, Nuovi studi danteschi: U., Pier della Vigna, I simoniaci, Milano 1907 (poi Napoli 1932); P. Carli, L'episodio del conte U., Pisa 1918 (poi in Saggi danteschi, ricordi e scritti vari, Firenze 1954, 68-97); C. Foligno, Ancora delle ultime parole di U., in " Studi Medievali " n.s., II (1929) 437-444; L. Masciangioli, Sulla morte del conte U. - Nuovo commento, Napoli 1930; C. Ricci, in Ore ed ombre dantesche, Firenze 1921, 201-248; ID., La morte e l'invettiva del conte U., in " Giorn. d. " XXIV (1921) 40-47; D. Cangiano, Il conte U., in Benevento a D. nel VI centenario, Benevento 1921, 43-61; G. Casabianca, Il conte U. della Gherardesca, Pisa 1924; S. Vento, Le idee penali di D. e il canto del conte U. - Note e osservazioni, Palermo 1926; U. Dorini, Il tradimento del conte U. alla luce di un documento inedito, in " Studi d. " XII (1927) 31-64; V. Rossi, in Saggi di critica dantesca, Livorno 1928, 351-354; O.M. Johnston, The U. Episode, in " The Romanic Review " XIX (1928) 328-331; T. Spencer, The Story of U. in D. and Chaucer, in " Speculum " IX (1934) 295-301; L. Portier, Le bestial repas d'U., in " Les Langues Néo-latines " XLIV (1950) 11-17; G. Raya, Il canto di U., in " Siculorum Gymnasium " VIII (1955) 188-196; F. Chiesa, Il canto del conte U., in " Svizzera Italiana " XVII (1957) 21-30; L. Morvidi, Difesa del conte U., in Figure dantesche, Viterbo 1962, 127-150; R. Montano, Storia della poesia di D., I, Napoli 1962; A. Ammendola, Il sogno del conte U. e la sua tecnofagia, in Appunti danteschi, Napoli 1962, 73-79; R. Ramat, Il conte U., in " Cultura e Scuola " 13-14 (1965) 518-527; V. De Toma, Il conte U., due episodi dell'arte di D., Suzzara 1966, 23-37; V. Russo, Il " dolore " del conte U., in Sussidi di esegesi dantesca, Napoli 1967, 147-181; G. Barberi Squarotti, L'orazione del conte U., in " Lettere Italiane " XXIII (1971) 3-28 (poi in L'artificio dell'eternità, Verona 1972; poi in Lett. Classensi, IV, Ravenna 1973, 145-182). Sulla questione dell'antropologia si veda, per la parte meno recente, la bibliografia contenuta nel volume di C. Ricci, Ore ed ombre dantesche, Firenze 1921, 235 ss.; per la più recente, i vari commenti e ‛ lecturae ' del canto; in particolare, G. Contini, Filologia ed esegesi dantesca (1965), in Varianti ed altra linguistica, Torino 1970, 418-419.