Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Tutta la ricezione e la trasmissione dei testi classici in età altomedievale avviene attraverso il filtro della cultura cristiana: si passa da un atteggiamento di sospetto e critica verso gli autori classici, sempre comunque letti e amati, a un recupero del patrimonio classico operato nel periodo carolingio, per giungere, nel momento di piena affermazione dell’identità culturale cristiana, a una soluzione più distesa del rapporto con la cultura classica pagana.
Rodolfo il Glabro
I diavoli travestiti da poeti
Cronache dell’anno mille, Libro II, parr. 22-23
In questo periodo [fine secolo X] un male non dissimile si manifestò a Ravenna. Un certo Vilgardo, cultore diligente, anzi appassionato, dello studio della grammatica […] cominciò a insuperbire per la conoscenza che aveva della sua arte, e a mostrarsi sempre più insensato. Un giorno certi diavoli presero l’aspetto dei poeti Virgilio, Orazio e Giovenale e, comparendogli innanzi, gli dimostrarono perfidamente grande riconoscenza perché con grande zelo e amore si dedicava ai libri contenenti le loro opere e se ne faceva fortunato annunziatore presso la posterità; gli promisero quindi che lo avrebbero reso partecipe della loro gloria. Corrotto dall’inganno dei diavoli, si mise allora presuntuosamente a sostenere […] che bisognava credere in tutto e per tutto alle parole dei poeti. Infine fu smascherato come eretico e venne condannato; […] furono scoperti in Italia altri sostenitori di queste perniciose teorie; ed essi pure vennero giustiziati con la spada o sul rogo. […] Tutto ciò costituisce un presagio che ben si accorda con la profezia di Giovanni, là dove dice che Satana verrà liberato, e al termine di mille anni.
Rodolfo il Glabro, Cronache dell’anno mille, a cura di G. Cavallo e G. Orlandi, Milano, Lorenzo Valla, 1989
Rosvita di Gandersheim
Scrivo per il signore
Dialoghi drammatici
Vi sono molti cattolici […] che per la raffinata eleganza della lingua antepongono la frivolezza dei libri pagani all’utilità delle Sacre Scritture. Ce ne sono altri che, […] pur disprezzando altre opere di autori pagani, leggono e rileggono di frequente le creazioni poetiche di Terenzio. […] Certo non ho dubbi che da parte di qualcuno mi si possa rinfacciare che la pochezza di questa composizione è molto inferiore […] al modello che intendevo imitare. […] Non sono così presuntuosa da osare paragonarmi neppure con gli ultimi epigoni dei classici, […] ma aspiro a volgere l’ingegno verso Colui che me ne ha fatto dono. […] Se il mio atteggiamento […] per la grossolanità della mia lingua non riesce gradito a nessuno, tuttavia mi compiaccio ugualmente con me stessa di averlo fatto perché, […] [vincolando questa mia opera] con la struttura drammatica, evito, tenendomene lontana, le pericolose raffinatezze dei pagani.
Rosvita di Gandersheim, Dialoghi drammatici, trad. it. di F. Bertini, Milano, Garzanti, 2000
Fino a tutto il IV e parte del V secolo la cultura continua ad avere un’impronta fortemente classicista: numerosi circoli aristocratici, varie scuole, alcuni scriptoria monastici si curano dell’allestimento e della trasmissione delle maggiori opere latine.
Di questo periodo ci sono pervenuti soltanto pochi codici tra cui diversi manoscritti di Virgilio, uno di Terenzio, alcuni palinsesti con frammenti da opere di Cicerone, Plinio il Giovane, Lucano, Ovidio; ma la loro sostanziale correttezza basta per dimostrare la vitalità delle opere classiche tramandate e il criterio con cui questa operazione veniva svolta, in quanto vi è praticata l’emendazione dei testi.
I grandi autori di questo periodo, come per esempio Agostino, hanno a disposizione vaste biblioteche e la letteratura classica è ancora considerata importante nella formazione culturale. Ma già le insofferenze di Cassiodoro verso le scorrettezze ortografiche e la sua sensibilità nei riguardi della mendositas codicum dimostrano che la situazione va progressivamente mutando. Ritiratosi dalla politica, lo stesso Cassiodoro (per tacere di Boezio) proseguirà in monastero quel dialogo con gli autori pagani che rappresentano la base della sua formazione ma che adesso, per motivi politici e culturali insieme, rischiano di venire eclissati.
Dei secoli V e VI sopravvivono soltanto cinque manoscritti di Virgilio (solo tre completi), due di Livio, uno di Terenzio; ma la sorte dei testi cristiani non è stata migliore, considerato che ci sono giunti solo quindici codici di Agostino e cinque di Ambrogio: molte delle opere classiche che possediamo provengono da copie carolinge esemplate su codici tardoantichi oggi perduti.
Il patrimonio di auctores subisce un serio ridimensionamento per la perdita progressiva della capacità di leggere il greco: abbiamo alcune traduzioni di poco anteriori – per esempio Vittorino da Plotino e Porfirio; Calcidio da Platone, Girolamo dai Padri Greci – ma dopo la metà del VI secolo queste cessano quasi del tutto, per riprendere solo nel XII (eccetto in certe zone come Napoli nel X secolo oppure le aree sottoposte a dominio bizantino).
Lungo tutto il Medioevo la ricezione dei testi classici avviene tramite il filtro della cultura cristiana, che comporta inizialmente una contrapposizione netta tra questa e la letteratura classica pagana; gli autori di questo periodo possono rifiutare lo studio delle lettere per concentrarsi sulla preghiera, come avevano fatto Atanasio e Cassiano, oppure come Cesario di Arles, che fa deliberatamente appello alla rusticitas del discorso, contrapponendola alla cura formale della letteratura pagana classica.
Per lo più rimane forte l’inclinazione verso la letteratura pagana su cui gli stessi autori cristiani si sono formati, ma se Tertulliano e Ambrogio trovano naturale “saccheggiare” la letteratura pagana, altri, come il pure coltissimo Girolamo (Epistola 22), ritengono inconciliabili i due mondi culturali.
Viceversa un po’ tutti i generi letterari cristiani finiscono per svilupparsi sotto gli auspici della letteratura pagana: la prosa, l’omiletica, la disputa dottrinale contraggono ampi debiti con Plotino, Porfirio e Cicerone, da cui deriva il forte legame che la letteratura medievale riconosce tra etica e retorica; analoga sorte coinvolge l’epistola, e le più tarde teorizzazioni dell’ars dictandi definiscono in modo incontrovertibile il favore accordato alle opere ciceroniane di retorica classica. Anche i notevoli risultati della storiografia medievale sarebbero impensabili senza gli storici classici: per esempio l’Historia Wambae regis è una monografia di tipo sallustiano, mentre le opere storiche di Paolo Diacono dimostrano un’assidua frequentazione di Virgilio oltre che degli storici medievali, e a sua volta Eginardo prende a modello Svetonio.
Su un altro versante, l’uso che delle opere pagane fanno gli autori che si occupano di grammatica e retorica è sempre mediato dall’apporto dell’esegesi biblica: Beda nel De arte metrica e nel De schematibus et tropis si serve esclusivamente di passi desunti dalla Bibbia e dagli autori cristiani; già Isidoro aveva rivendicato alle Sacre Scritture la priorità genetica e cronologica di alcune forme espressive diffuse anche nei testi classici come l’epitalamio, l’inno o la trenodia.
In Isidoro la natura anfibologica della retorica antica è funzionale tanto all’ermeneutica del Testo Sacro quanto alla poesia: egli, ratificando il sentimento culturale del tempo per cui Virgilio e Lucano sono gli antiqui e veterani, suggerisce di sostituire ai pagani i nuovi poeti cristiani (“moderni”): desine gentilibus ergo inservire poetis (smetti dunque di servire i poeti pagani). Insieme alla cultura si sta evolvendo anche la lingua e il latino medievale non è più identico a quello classico: sopravvive la grammatica di Donato, le Institutiones Gramaticae di Prisciano vengono riscoperte da Alcuino, mentre nuovi glossari vengono approntati, come il De verborum significatu composto da Paolo Diacono per Carlo Magno.
La trasmissione dei testi non è sempre integrale: i classici giungono al lettore frammentati e decontestualizzati nei florilegi, nelle summe, nelle raccolte di esempi fino al caso estremo dei centoni, ecco perché la citazione non rappresenta immediatamente un elemento probante della frequentazione della fonte, ma spesso solo di un testo intermedio, anche se questo non pregiudica una certa originale vitalità del materiale classico usato nella letteratura d’invenzione, come avviene in Virgilio Grammatico.
Inoltre l’attenzione esasperata per la parola, derivata dall’ermeneutica ebraica, se penalizza la tradizione integrale del testo, rinnova con inedite interpretazioni allegoriche il patrimonio di immagini desunto dalla letteratura classica: iniziano i commenti in chiave allegorica come quello di Fulgenzio a Stazio o quello al Somnium Scipionis di Macrobio, e le interpretazioni dell’opera di Virgilio come poeta “cristiano”, che avranno lunga fortuna.
È opinione vulgata che lo studio degli autori classici e l’interesse nei confronti della letteratura latina abbiano ricevuto nel periodo carolingio un forte impulso, anche per la funzione di modello che la Roma augustea rappresenta per Carlo Magno e per il suo entourage di intellettuali.
Questo asserto non è scorretto ma va parzialmente ridimensionato perché è incauto interpretare la cultura carolingia come un portato esclusivo della corte di Carlo Magno e come un’elaborazione di segno classicista. Aquisgrana è un centro importante di produzione letteraria, ma non l’unico: anche l’intensa attività amanuense veniva suddivisa tra lo scriptorium di corte, quello di Tours e quello di Corbie, a cui sembrano risalire una prestigiosa copia del codice Puteanus di Livio e forse una di Sallustio. Bisogna in realtà riconoscere che “lo sforzo classicista è importante nella cultura carolingia, ma non ne rappresenta il carattere fondamentale: la formazione di scrittori come Eginardo e Alcuino si basava sull’eredità cristiana che tra il VI e il VII secolo era stata integrata da opere come quelle di Aldelmo e di Venanzio, destinate a un pubblico la cui lingua madre non era il latino.” (Godman, “Il periodo carolingio”, in Lo spazio letterario del Medioevo, 1995).
Il dialogo con i classici è comunque costante da parte degli autori carolingi, come sembra testimoniare il codice Diez B. Sant. 66, che conterrebbe un catalogo dei libri appartenuti alla biblioteca Palatina: Virgilio, Lucano, la Tebaide di Stazio, Terenzio, Giovenale, Tibullo, l’Arte poetica di Orazio, Claudiano, Il rapimento di Proserpina, A Rufino, Contro Eutropio, La guerra gotica, La guerra gildonica, Marziale, Giulio Vettore, Servio, Contro Catilina, Per il re Deiotaro, le Verrine di Cicerone, Sallustio.
La dedizione programmatica all’acquisizione di un patrimonio classico è confermata dai dati numerici relativi alla diffusione manoscritta elaborati da Munk Olsen: se non si può più interamente sottoscrivere la partizione di Traube – secoli VIII-IX = età virgiliana; secoli X-XI = età oraziana, e secoli XII-XIII = età ovidiana – si deve ammettere per tutto il IX secolo l’assoluto predominio di Virgilio, che spicca in un panorama di classici poco rappresentati, tranne Lucano, Giovenale e Terenzio. Progressivamente nel corso del X secolo resiste Virgilio ma si comincia a trascrivere molto Orazio, ancora Terenzio e Giovenale, Stazio, Persio; solo nell’ XI secolo Orazio sorpassa Virgilio, e raggiunge la vetta del numero di manoscritti insieme a Persio e Giovenale. Nel XII secolo, tra i più diffusi, avremo anche Lucano, Sallustio, Stazio e le Metamorfosi di Ovidio.
La produzione manoscritta di età carolingia si impone per quantità e qualità: i filologi carolingi ci hanno tràdito esemplari spesso più attendibili di quelli dei loro antigrafi, come è il caso di un codice di Livio ora perduto o di quello delle Georgiche allestito a Tours nel IX secolo. Il programma di Alcuino, che recupera il progetto culturale anticipato da Cassiodoro, costruito sulla lettura dei classici antichi e tardoantichi come base dell’educazione scolastica, comporta la formazione di un canone, oltre che l’attenzione incipiente per glosse e commenti. Gli autori canonici menzionati in testi come l’Ars lectoria del 1086 confermano i dati della diffusione dei manoscritti: Cicerone, Lucano, Virgilio, Orazio, Omero latino, Stazio, Giovenale, Persio, Ovidio, Terenzio e Boezio (!); viceversa le opere dell’Antichità che non rientrano nel canone scolastico (tipo Marziale) sono più rappresentate nei manoscritti del IX secolo che successivamente.
La ricezione della letteratura classica si è sviluppata nel corso dell’alto Medioevo secondo un processo di autoaffermazione della cultura cristiana; Scoto Eriugena, pur respingendo la mitologia, ammette che essa rappresenti l’aspirazione dei gentili al bisogno del divino: la fede cristiana ha ormai lasciato uno spazio alle manifestazioni di pensiero e di poesia della cultura pagana, anche se il rapporto non è ancora completamente pacificato.
Il X secolo, dopo la riappropriazione della letteratura classica operata nel periodo carolingio, rappresenta un momento di riflessione su quel patrimonio culturale come mezzo per autocomprendersi (Leonardi); ma nell’XI secolo, di fronte alla progressiva laicizzazione del sapere che si sposta dai monasteri alle scuole episcopali e cattedrali, assistiamo a nuove reazioni di chiusura della cultura monastica nei confronti della letteratura classica, come nelle Cronache di Rodolfo il Glabro, in cui i diavoli prendono l’aspetto di Virgilio, Orazio e Giovenale; oppure nelle crisi di Otloh di Saint-Emmeran che nel De cursu spirituali ripercorre il suo tormentato rapporto con i classici e con Lucano in particolare; o ancora nello stesso Pier Damiani che, pure nella sua intransigenza verso i filosofi pagani, rammenta i tempi della sua formazione quando leggeva con amore Cicerone e i carmi dei poeti.