BOCCALINI, Traiano
Nacque in Loreto, verosimilmente nel 1556, da Giovanni, architetto della S. Casa; l'anno non è documentato, perché i libri battesimali cominciano solo dal 1568, e venne dedotto dal Mazzuchelli da registrazioni dei libri mortuari di Venezia, dove il B. si spense il 29 nov. 1613, "d'anni 57 in circa". Comunque il trasferimento della sua famiglia a Loreto non fu anteriore all'ottobre 1555. Egli ricordò poi con simpatia "Loreto mia patria" (Bil. pol., I, 360) e le semplici virtù dei suoi conterranei marchigiani.
Sono in errore i biografi che lo credettero romano, tratti in inganno da tale qualifica, che campeggia in fronte alle edizioni dei Ragguagli di Parnaso, perché "romano" il B. si disse non per nascita, ma come erede del diritto di cittadinanza concesso al padre nell'anno 1576.
In Loreto, una terricciuola chiusa dalle forti mura leonine attorno all'immane santuario incompiuto, il B. trascorse i suoi primi anni. Era un piccolo mondo, un migliaio d'anime al più: mercanti di ceri e d'Oggetti divozionali, osti, scalpellini, muratori, artefici addetti ai servizi del tempio; ma, specie nella buona stagione, immenso era l'afflusso dei pellegrini, computati a centinaia di migliaia ogni anno, attori di uno spettacolo cosmopolita perpetuamente mutevole e vario. A Loreto il B. seguì buoni studi di umanità, quasi certamente nel collegio dei padri gesuiti, dove forse conobbe Giovanni Botero, mandatovi nel '63 a insegnar la retorica. Egli acquistò così ottima padronanza del latino, larga cultura classica e letteraria, gusto alla poesia e alle buone letture, e per tutta la vita rimpianse poi quel mondo rasserenante, libero, inattingibile dalla violenza e dal male, nel quale giustizia e ragione regnavano sovrane: da questa idealizzazione della civiltà delle lettere nacque poi il suo immaginario Parnaso, popolato di "virtuosi", luogo ideale in cui conversare con gli spiriti magni di tutti i tempi. Ma le condizioni economiche della famiglia non erano tali da consentirgli ozi letterari ed egli dovette abbracciare di malanimo, con una insofferenza che non riuscirà mai a placare, la grigia ma lucrosa carriera del giure. Il 12, nov. 1578 si iscrisse pertanto alla facoltà dei legisti dello Studio di Perugia e nel novembre del '79 suo padre pagò ben 48 scudi agli eredi di Tommaso Giunti per dotarlo dei ferri del mestiere con l'acquisto di "diversi libri di legge".
Furono anni di fatiche ingrate, su una materia indigesta e spregiata, convinto com'era che quegli studi potevano forse condurre alla ricchezza, ma si addicevano a chi avesse "un cervellaccio di bue, una complessionaccia di facchino, che francamente resistesse alla fatica di tirar la carretta" (Ragg., I, 303). Nel fulgido reame di Apollo, mentre i virtuosi si pascono dei deliziosi manicaretti delle lettere, gli "affamati legisti" se ne stanno in cucina a leccare le scodelle (Ragg., I, 99). A Perugia il B. ebbe maestri insigni come Rinaldo Ridolfi, Marc'Antonio Eugenii e Giovan Paolo Lancellotti; si legò in familiarità devota con l'abate Ottavio Acquaviva dei duchi d'Atri, che fu poi cardinale e arcivescovo di Napoli; conobbe il poeta giocoso perugino Cesare Caporali, che appunto in quegli anni veniva elaborando i suoi poemetti berneschi (Viaggio di Parnaso, Avvisi di Parnaso, Esequie di Mecenate), pubblicati poi nel 1582, che fornirono i primi spunti alle future allegorie parnassiche del Boccalini. Mentre egli stava così penando sugli "infiniti volumi delle fatiche de' dottori di leggi, pubblici e dannosissimi nemici degli uomini" (Ragg., II, 61), la morte del padre (22 dic. 1580) sopraggiunse ad aggravare le condizioni economiche della famiglia, ponendolo in una "fortuna rusticale e barbara" (Bil. pol., I, 124) molto vicina alla povertà. Forse aiutato dai fratelli maggiori Adriano e Policarpo, il B. si trasferì in seguito all'università di Padova, dove frequentò la casa del marchese Giacomo Malatesta, l'avventuroso condottiero, e conobbe il bailo Giacomo Soranzo reduce nell'83 da Costantinopoli (Bil. pol., I, 446; II, 46).
Un suo ricordo del Tasso giovinetto e del cardinale Scipione Gonzaga in Padova (Bil. Pol., I, 448) ha fatto supporre un suo legame diretto con quei personaggi, che in realtà contavano parecchi anni più di lui e da tempo avevano lasciato la città (il Gonzaga si laureò nel 1566). Del tutto priva di fondamento la notizia, ostinatamente tramandata dai biografi, che il B. studiasse nel Collegio Romano insieme col futuro nunzio G. B. Rinuccini e si laureasse poi a Bologna: per tacere dell'evidente divario di età fra i due personaggi, la fonte di queste notizie è una lettera sicuramente falsa (Bil. pol., III, 134).
A Padova ascoltò maestri illustri come Giacomo Menochio, Francesco Mantica, Guido Panciroli e Francesco Zabarella, e probabilmente vi si laureò in utroque, sebbene l'evento non sia attestato da documenti. Di là partì nel settembre 1585 per rientrare a Roma, dove certo si trovava nel novembre e dove, nella casa paterna al Corso, aveva un punto d'appoggio, un rifugio cui tornare dalle continue peregrinazioni e in cui crescere la sua presto numerosa famiglia. A Roma infatti s'era sposato nel settembre 1584, impalmando una Ersilia Ghislieri, pronipote di Pio V, come figlia di un Michele Ghislieri, lontano cugino del papa, accorso a Roma dal Bosco con una miriade di parenti per impetrare i favori del nuovo pontefice e creato protonotario apostolico, ma defunto troppo presto per poter assicurare ai suoi una solida posizione economica. Sorella di un giurista come Francesco Ghislieri, Ersilia recò al B. una dote borghese di 3.000 scudi, che venne probabilmente impiegata nell'acquisto di un ufficio di curia: quello di scrittore dei brevi apostolici minoris gratiae, nel quale il 10 apr. 1586 il B. si associava un conterraneo, Alessandro Antici di Recanati, dietro compenso di 370 scudi.
Poco si sa degli anni immediatamente seguenti: nel 1590 ritroviamo il B. a Genova, segretario in casa Spinola (Bil. pol., I, 485); visitò allora monsignor Gualterucci, che il bollente Sisto V aveva mandato alle galere per sospetto di infedeltà nel luglio 1586 e Urbano VII aveva fatto liberare appunto nel '90 (Bil. pol., I, 198); sempre in Genova conobbe don Angelo Grillo, lodato poeta sacro, abate benedettino, che serbò di lui affettuosa memoria e molti anni più tardi gli diede sepoltura in S. Giorgio Maggiore a Venezia. Nel 1592, con l'elezione al soglio di Clemente VIII, le sue fortune si sollevarono un poco; più volte egli ricorda quel papa come "benefattore" e il cardinal nipote Pietro Aldobrandini come "liberalissimo mecenate". In realtà, sì alte protezioni gli aprirono semplicemente la via a un ufficio pubblico modesto, instabile e foriero di continui crucci e disagi, quale quello di governatore di terre o cittadine del dominio ecclesiastico.
Destinato ad arbitrio della Camera apostolica per una durata ordinaria di sei mesi, questo magistrato, unico funzionario del governo centrale, amministrava la giustizia civile e penale di primo grado e assicurava, con bargello e guardie da lui condotte, la pubblica quiete e il rispetto della legge. Naturalmente nelle città più popolose dello Stato ecclesiastico tale ufficio riusciva lucroso e onorifico, ma veniva attribuito esclusivamente a giuristi di nobile famiglia o a prelati avviati a brillante carriera; a uomini del ceto cui apparteneva il B., e laici per giunta, toccavano governi minori, in sedi piccole e disagiate, con misero stipendio. Dotati di tenue autorità personale, tali magistrati oscuri trovavano genti riottose, fazioni accese, privilegi e abusi inveterati; se si conducevano con mitezza, si trovavano esposti alle accuse di inettitudine o di connivenza. Se cercavano di agire con energia, come il B. era incline a fare, subito insorgevano le lagnanze, le denunce, la fama di arroganza e crudeltà.Il primo suo governo di cui s'abbia notizia è quello della Trevi umbra, dove il B. si insediò l'11 ott. 1592; il 7 febbraio successivo il Consiglio dei Diciotto ne riconosceva "le bone qualitadi, doctrina et bon governo" e ne chiedeva la riconferma per un secondo semestre. Forse vi rimase fino al giugno 1594, quando risulta "praetor destinatus" alla città di Tolentino; il 25 dello stesso mese già aveva assunto l'ufficio e lo serbò per un semestre soltanto. Fece allora una gita a Belforte per visitare la madre dell'amico Giacomo Sannesio, segretario del cardinale Pietro Aldobrandini e futuro cardinale, al quale narrò quel viaggio in una lettera giocosa dell'8 agosto; lo stesso Sannesio appare come interlocutore del Dialogo sopra l'"Interim" fatto da Carlo V, steso verosimilmente nell'autunno 1594, nel quale il B. analizza le origini, i moventi e i riflessi politici della Riforma con acuto realismo e vivace spregiudicatezza. Da Tolentino passò a Brisighella, dove prese possesso della carica il 27 nov. 1594 e dove rimase un anno e mezzo, fra screzi e ripicchi continui: gli eletti del Comune gli rimproveravano rigore eccessivo, carattere impaziente e autoritario, vessazioni esose; egli replicava minacciando ammende e corda, sequestrando le pubbliche scritture, trattandoli da "maligni e sediziosi". Finì per essere richiamato nel giugno 1596 e i suoi vendicativi sottoposti si rifecero sottoponendolo a sindacato. Fin dal 3 dic. 1594, in seguito alla partenza dell'Acquaviva per Avignone, aveva affidato le sue fragili fortune in corte di Roma alla protezione del cardinale Federico Borromeo. L'aggressiva decisione mostrata con le battagliere genti di Val d'Amone gli giovò, perché nel novembre 1596 venne destinato ad un posto di maggior prestigio, quale luogotenente di Scipione Gottifredo, che reggeva il governo di Benevento; e quando questi, il 1º ag. 1597, per dissidi e abusi, venne rimosso dall'ufficio, il B. continuò a svolgerne le mansioni, con titolo di progovernatore, fino al maggio 1598.
Risalgono verosimilmente a quei mesi le sue esperienze dirette del malgoverno spagnuolo, le notazioni amare sulla sussiegosa superbia, l'insolenza, l'ipocrisia religiosa dei dominatori stranieri; ed è probabilmente del 1597 una lunga lettera al Sannesio sulle inconcludenti campagne contro il Turco in Ungheria e il sempre più grave asservimento dell'Italia allo straniero, scritta in stile giocoso, ma vibrante di passione repressa e di virile indignazione.
Nel governo di Benevento i contrasti e le difficoltà si moltiplicarono: "tutte le mie parole, scriverà più tardi, "venivano da quelle scelleratissime genti interpretate a loro modo con dar loro sentimenti affatto contrarii a quelli della mia mente" (Bil. pol., I, 433); anche là, dopo che se ne fu partito, il suo sindacato ebbe lunghi strascichi. Nel frattempo svolse una imprecisata missione a Venezia, dove certo si trovava nell'estate del 1598, avendo occasione di incontrarvi l'impostore calabrese Marco Tullio Catizzone, che si spacciava per il redivivo re Sebastiano di Portogallo (Bil. pol., I, 126). Poco dopo, certo non oltre l'aprile del 1599, trovò nuovo e meno disagiato impiego quale giudice criminale in Campidoglio.
Fu una nuova esperienza amara e scoraggiante, in una società corrosa dal privilegio e dall'abuso, dominata dai capricci e dalle mutevoli fortune dei "padroni", aperta alla corruzione e all'arbitrio: "i giudici di Roma", concluderà più tardi, "sono tanti macellari; menano giù col coltellaccio a rovescio, se una borsa di scudi non gli sospende il colpo; s'informano prima del genio de' padroni e de' protettori, e poi secondo quello fiat ius" (Bil. pol., I, 119).
Nelle sue pagine affiora di frequente il disgusto per quel mondo di giudici parziali e avidi, di spie salariate, di intrighi e cavilli avvocateschi, di bestiale crudeltà, nel quale gli toccò vivere "molti anni" (Bil. pol., I, 66). Per gli onesti, dotati di magri stipendi, la vita non era facile, tanto che dovette arrotondare i suoi guadagni perfino dando lezioni private, come attesta Guido Bentivoglio, il futuro cardinale, che nel 1601 o poco dopo lo ebbe maestro di geografia. Evasione e consolazione insieme è per lui in quegli anni la diuturna meditazione politica del testo di Tacito, il lento distillare una sapienza pratica sottile, disincantata, che la storia antica nutre di moniti solenni e una messe sterminata di testimonianze contemporanee corrobora di conferme innumerevoli. Il testo tacitiano, sminuzzato fino a delibarne ogni più riposto succo, non è che pretesto per digressioni che si dilatano come onde concentriche, coinvolgendo l'intera esperienza umana, nella sua varietà sconfinata, nei suoi temi ricorrenti, con una insistenza a tratti ossessiva. Frutto di dedizione quotidiana, avviate probabilmente prima del 1590, le Osservazioni su Tacito, riprese di continuo, accresciute, limate con infaticabile impegno,
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assunsero presto mole cospicua, anzi smisurata; il discorso libero e schietto inibì loro sin da principio ogni possibilità di larga divulgazione; per un quarto di secolo il B. faticò su quelle migliaia di pagine con la consapevolezza di aver dato vita ad un'opera di alto significato, ma alla quale soltanto i posteri, forse, avrebbero potuto accostarsi.
Nel marzo 1603 riprese ad andare in volta per i governi, venendo destinato a Comacchio, dove rimase fino al settembre 1605. Era la solita vita: delitti, beghe, litigi; il duca di Mantova, vicino altezzoso e potente, che esige la tutela delle sue riserve di caccia e accetta doni di cigni; un laborioso progetto per far defluire le rovinose piene del Po, mediante chiaviche sull'argine destro, nelle Valli di Comacchio (1605), che viene attuato per consiglio del B. e finisce per lasciar tutti scontenti. Come se non bastasse, nel novembre 1603 l'arciprete lo denunciò al S. Uffizio; e non gli bastò far scrivere dal cardinal di S. Clemente, suo benevolo superiore nella Legazione di Romagna, che si trattava di maligne calunnie, perché l'inquisitore di Ferrara fu incaricato di istruire il processo e nel novembre 1604 l'incartamento venne letto dal tribunale romano, che ordinò di sequestrare in casa sua libri e scritture compromettenti. Pel momento, certo, per intervento di intercessori potenti, l'inchiesta si arenò, ma era destinata a rimettersi in moto qualche anno più tardi. Nel maggio 1606 lo si ritrova al governo di un'altra terra strappata agli Estensi, Bagnacavallo, donde nel novembre 1607 inviava saggi del suo commento a Tacito ai cardinali Bonifacio Caetani e Scipione Caffarelli Borghese; nel marzo 1608 è governatore di Argenta, tutto preso dai lavori di bonifica e dalla repressione del contrabbando.
È in quegli anni, dal 1605 all'incirca, che una nuova ispirazione lo pervade, facendogli accantonare il coramento a Tacito per darsi tutto a un'invenzione letteraria bizzarra e pungente, in cui brucerà tutte le sue energie intellettuali in un fervore creativo straripante. Il motivo centrale, poco più di uno schema, è quello del Parnaso, cioè di un mondo fuori della storia, governato da un Apollo umanizzato e sorridente, nel quale rivivono e agiscono personaggi insigni d'ogni età, ora facendovi ripullulare idee e passioni del loro tempo, ora personificando in animate allegorie principi, valori, idealità dell'autore. Questi se ne sta in un cantuccio, in veste di "menante" o gazzettiere, che riporta fedelmente gli eventi senza prendervi parte, ma in realtà sotto le spoglie di Apollo è ancora il B. che si asside in trono, onnisciente e onnipotente, e svela le ipocrisie, fustiga i costumi, premia, castiga, sentenzia, finalmente libero dai vincoli dei rispetti mondani. Evasione e rivincita, gli Avvisi dei menanti di Parnaso (solo all'atto della pubblicazione la diffidenza per i maledici scrittori di "giornali" impose il mutamento nel più generico Ragguagli di Parnaso) occuparono tutti i pensieri del B. nei suoi ultimi anni, gli fiorirono sotto la penna con spontaneità fervida, risvegliarono in lui, col successo vivace che le copie manoscritte destavano nella cerchia dei protettori e degli amici, le speranze di un'affermazione letteraria clamorosa, che non solo gli assicurasse i compiacimenti della fama, ma anche l'indipendenza economica, la liberazione dagli obblighi di un detestato mestiere.
Ad Argenta i contrasti sulla bonifica diedero molti affanni al B.; il cardinale Bonifacio Caetani, uomo gioviale e spregiudicato, leggeva con gusto le cose sue e lo proteggeva con calore, ma gli interessi in gioco erano grossi e gli avversari risoluti. Il 18 sett. 1608 il porporato scriveva al cardinale Caffarelli Borghese che sarebbe stato opportuno trovare nuova destinazione al B., "troppo eminente ingegno per un luogo come Argenta, dove vi sono alcuni che fanno il magnate e vorrebbono per superiori uomini da poco e di nessun conto per poterli strapazzare e fare a modo loro". Il 9 novembre una seconda lettera accompagnava il B. alla volta di Roma, giustificandone l'operato e raccomandandolo per il futuro. Grazie all'appoggio del cardinal nipote, nel marzo 1609 venne inviato con ufficio di commissario apostolico a Matelica. Ad Argenta, con le sue robe, eran rimaste le minute di ben 120 "ragguagli" e altri 89 li aveva con sé, già "posti all'ordine", sicché non gli fu difficile sceglierne 44 e spedirli il 20 giugno in un codicetto d'omaggio al Borghese. Le questioni della bonifica avevano strascichi di richieste per danni, di contestazioni e di sequestri; per un debito di 60 scudi lasciato ad Argenta, il salario di Matelica gli fu tenuto in sospeso e dovette poi versare una cauzione e promettere di assoggettarsi al sindacato. Era una vita grama, di ristrettezze e litigi continui, ma tutta animata da uno straordinario fervore di lavoro attorno alla nuova sua opera, di cui sentiva tutta la vitalità gioiosa, la comunicativa, il sicuro successo imminente. Dal carteggio con l'amico Lelio Guidiccioni, cui manda di continuo abbozzi e rifacimenti, emerge con vivezza questo stato di grazia, fecondo di inventiva e di speranze. Confermato per un secondo semestre, il B. lasciò Matelica nel marzo 1610 e se ne tornò a Roma. Nell'agosto un suo memoriale provocò la riapertura del processo inquisitorio: probabilmente egli temeva ostacoli seri alla pubblicazione dei "ragguagli" e aspirava ad una piena assoluzione; d'altro canto il vescovo di Camerino aveva messo sotto inchiesta alcuni suoi scritti e il S. Uffizio romano dovette riprendere in esame il vecchio processo ferrarese del 1605 insieme col nuovo, concludendo poi (28 settembre) che nelle carte sequestrate non c'erano asserzioni ereticali e assolvendolo (16 dicembre) dalla scomunica per detenzione di libri proibiti, con imposizione di penitenze salutari. Rassicurato da questa piega non drammatica della sua causa, fin dall'ottobre il B. si diede a impetrare dai principi italiani la concessione dei privilegi per l'esclusiva di stampa dei "ragguagli": abbiamo la sua lettera del 13 al duca d'Urbino e si sa che al granduca di Toscana parlò addirittura di un'opera in quattro volumi.
Ai primi del 1611 tornò ancora una volta nella sua Marca quale governatore di Sassoferrato: il fitto carteggio con il Guidiccioni consente di seguire da vicino, in quei mesi, il suo lavoro fervidissimo, i continui crucci, le allettanti speranze. Tra il febbraio e l'aprile fu gravemente malato, con lunghe febbri, e un tal Francesco Mechini non trovò di meglio che denunciarlo all'Inquisizione per aver mangiato carne in giorni proibiti: ne nacque un terzo processo, presto finito in nulla. Per la stampa dei "ragguagli" spera di potersi recare al più presto a Venezia; per volere del cardinale Caetani, suo "assoluto padrone", l'opera si intitolerà Ragguagli di Parnaso; il manoscritto, nel giugno, è consegnato al padre Tommaso Pallavicini, "compagno" del maestro del S. Palazzo (Ludovico Ystella di Valencia), per ottenere l'imprimatur, ma la pratica presto si insabbia, fra reticenze e sospetti. Intanto il B. lavora con impegno frenetico e pensa di poter mettere insieme addirittura tre centurie di "ragguagli", dalle quali spera di ricavare non solo fama letteraria, ma quattrini per "cavarsi di stracci"; per una sola centuria il libraio Ciotti gli ha offerto 17.820 lire veneziane, pari a 2.600 scudi, e la sua fantasia galoppa, sognando prosperità e gloria. Intanto arrotondava lo stipendio facendo per davvero ufficio di menante col redigere a penna le "gazzette" per il cardinal Borghese e cercava appoggi in corte di Roma per essere trasferito a Codigoro, il più vicino possibile a Venezia, così da non perder la paga e seguire senza troppo disagio l'opera dei tipografi veneziani. Lo aspettava ancora una volta una delusione, perché il 31 marzo 1612 lo ritroviamo confinato in un governo disagiato e misero, a Nocera Umbra, lontano da Venezia sette giorni di viaggio, e certo ormai che l'approvazione romana, dopo nove mesi di schermaglie, gli sarà negata. Nell'amarezza della delusione egli rompe allora gli indugi, lascia l'impiego, ottiene dal cardinal Caetani 150 scudi in prestito e si spinge a Venezia; l'11 luglio i riformatori dello Studio di Padova notificavano ai capi del Consiglio dei Dieci che nella centuria I dei Ragguagli non v'era cosa degna di censura; il 21 settembre il B. sottoscriveva la dedica al cardinal Borghese e in quegli stessi giorni l'opera vedeva la luce dai torchi di Pietro Farri. Certo egli si trovava a Venezia almeno dall'agosto, perché il 27 vi aveva datato una lettera a Giacomo I d'Inghilterra che accompagnava l'omaggio di una decina di vivaci "ragguagli" politici. La pubblicazione del volume mise in moto la solita catena degli omaggi, delle richieste di privilegi e donativi, anche in vista della stampa della centuria II, pubblicata esattamente un anno dopo la prima, da Barezzo Barezzi, con dedica al cardinal Caetani. La vita del B. a Venezia troscorreva quieta, tra il lavoro, le conversazioni con nobili e prelati, i conviti nei quali la sua arguzia gli procurava facile accoglienza. Nel maggio-giugno del 1613 lo si trova quotidiano commensale di Girolamo Magagnati, fabbricante di vetri e poeta faceto, che lo ospita nel suo casino sul Canal Grande e scrive di lui all'amico Galileo; nel settembre-ottobre lo si incontra ogni giovedì alla tavola del nunzio, che gli trasmette lettere e novelle romane e ascolta da lui echi delle conversazioni svolte tra patrizi e diplomatici negli ambienti colti e cosmopoliti: solo una deformazione avventata dei dati ha potuto far scambiare questi rapporti (che la povertà del B. e la residenza romana dei suoi bastano a spiegare) con una vera e propria azione di spionaggio prezzolato. In realtà il vivere a quel modo, lontano da casa e senza impiego, gli era oneroso, tanto che il 15 dic. 1612 scrisse al Borghese, chiedendo di riavere il governo di Comacchio, oppure quelli di Lugo o di Cento. Non fu accontentato, né forse la salute ormai in declino gli avrebbe consentito nuovi disagi: era infatti assai malandato, nonostante le cure di un medico valente come G. B. de Benedetti, al quale nel settembre 1613, in segno di gratitudine per quella che credeva una guarigione finalmente conseguita, dedicò un esemplare della centuria II. Verso la metà di novembre fu colto da violente coliche febbrili che lo condussero a morte il giorno 29, nella casa da lui abitata nella parrocchia di S. Maria Formosa.
L'autopsia rivelò la causa del decesso in "una apostema di smisurata grandezza nel fegato", quasi certamente un tumore. Le voci presto messe in circolazione circa una sua morte violenta (percosse con sacchetti di sabbia inferte da un pugno di sicari, insidioso veleno propinato da mano spagnuola) trovarono alimento nelle sue caustiche pagine satiriche, nelle sferzanti derisioni rivolte in molti ragguagli inediti, ma largamente diffusi in copie manoscritte, contro l'avidità, l'ipocrisia, il malgoverno dei dominatori spagnuoli. È segno dei tempi che la morte di un uomo libero e schietto apparisse ai contemporanei come ineluttabile e fatalmente violenta; ma va aggiunto che furono i figli stessi del B. a diffondere o a dare alimento a quelle voci, per attribuire al padre l'aureola del martirio e ricavarne più consistenti pensioni.
Grazie alla pietà del buon Angelo Grillo le spoglie del B. trovarono sepoltura in S. Giorgio Maggiore, nelle fosse comuni della sala capitolare; il progetto accarezzato dal figlio Aurelio a metà del Seicento di apporvi un'epigrafe offerta da Ladislao IV di Polonia non venne attuato, così che della tomba si è perduta ogni traccia.
Intanto il successo dei Ragguagli di Parnaso dilagava: vivente ancora l'autore e certo con suo gran disappunto, la centuria I venne ristampata a Milano, nell'aprile 1613, da P. M. Locarni e G. B. Bidelli, subito imitati dai Giunti di Firenze; ma il centro primario di diffusione rimase Venezia, dove soltanto G. Guerigli e i suoi eredi, fra il 1614 e il 1680, impressero dodici volte l'opera del B., cui sembrava non dovessero mai venir meno schiere sempre nuove di lettori. Ancora nel 1669 un'edizione integrale del testo italiano veniva stampata con gli eleganti caratteri del Blaeu in Amsterdam. Tanta era la curiosità per quel nuovo "genere" letterario, che subito si moltiplicarono gli imitatori: uno dei più fiacchi, il modenese Girolamo Briani, pubblicò nel 1610 una Aggiunta a' ragguagli di Parnaso composta di dieci ragguagli, che il Bidelli a Milano e il Caneo a Firenze allegarono nel 1615 alle loro ristampe. Incoraggiato da quel successo il Briani ampliò la sua Aggiunta sino a comprendervi 50 ragguagli, e questi, col titolo di "parte III", vennero annessi a partire dal 1616 a tutte le ristampe veneziane. Poco dopo un altro tipografo veneto, Francesco Prati, diede in luce (1619) quattro centurie di Avvisi diParnaso ridotti in compendio, affastellandovi materiali del B., del Briani e di altri epigoni; una sequela interminabile di imitatori ricalcò poi l'invenzione parnassica e le formule espressive del B., facendone per oltre un secolo uno degli scherni d'obbligo della satira politica, letteraria e di costume.
Ma nel dare in luce i Ragguagli il B. aveva dovuto esercitare una sorta di prudenziale autocensura, sia attenuando e velando taluni spunti troppo caustici, sia sottraendo alle stampe quelle pagine in cui l'intero contesto riusciva troppo audace e si appuntava verso bersagli altolocati e intoccabili. Gli autografi delle prime stesure consentono di ricostruire in molti casi questo lavorio imposto dalla prudenza e fra essi è serbato il frontespizio d'una vagheggiata centuria III con la qualifica di "postuma": definizione che poté essere suggerita al B. dalla consapevolezza della gravità del suo male e della vita che gli sfuggiva, ma può significare altresì che egli, povero e indifeso, si rendeva conto di non poter sfidare da vivo la collera dei potenti. Ciò non toglie che facesse circolare fra protettori e amici raccolte manoscritte di ragguagli politici particolarmente mordaci e che la sua morte facesse cadere ogni remora alla pubblicazione: quattro di quelle scritture inedite videro la luce nel 1614 nell'opuscolo anonimo La cetra d'Italia e ben 29 apparvero sullo scorcio dell'anno in un libretto uscito dai torchi veneziani col titolo di Pietra del paragone politico. L'agile raccolta ebbe un successo strepitoso: nel solo 1615 ne apparvero in Italia quindici differenti ristampe e un'altra ventina seguirono nel sessantennio seguente ad opera di tipografi italiani, francesi e fiamminghi.
Non meno vivo fu il successo incontrato dai Ragguagli oltr'Alpe. Il malizioso racconto della "generale riforma dell'universo" (Ragg., I, 77), tradotto in tedesco da C. von Besold, divenne documento istitutivo della società segreta dei Rosacroce e fu stampato a Cassel nel 1614 e molte altre volte in seguito; la Pietra apparve in francese a Parigi nel 1615, in tedesco a Tubinga nel 1617, in inglese a Utrecht nel 1622, in latino ad Amsterdam nel 1640; una versione spagnuola rimase inedita. Ma anche le centurie dei Ragguagli ebbero larga fortuna e furono tradotte in tedesco (1617), in inglese (1626), in spagnuolo (1634), in fiammingo (1647), con lunga sequela di ristampe, di nuove versioni arricchite e rivedute, di rimaneggiamenti e di imitazioni.
Diversa fu la sorte del commento a Tacito: in esso non era possibile introdurre attenuazioni prudenziali, perché tutta la ribollente materia politica contemporanea, trattata con spregiudicato realismo, era tale da fare dell'intero testo un documento scabroso e inquietante, un lungo soliloquio impegnato intorno al contrasto dialettico tra l'imperativo etico e la spietata concretezza dell'esperienza politica quotidiana. Per mettersi al riparo dalle persecuzioni, in calce all'opera inedita il B. volle dichiarare la sua piena sottomissione al giudizio della Chiesa e il carattere incompiuto, non definitivo della trattazione, che intendeva destinare al fuoco. Espediente palese, ché un'opera siffatta non sarebbe stata compiuta mai, tanto assiduo e inappagato era il quotidiano insistere su quei temi inesauribili, ma certo incondita non era, dopo un quarto di secolo di meticolose rielaborazioni.
Alla sua morte l'ingente mole di quelle gelose carte venne in possesso dei figli. Ne contava tre: l'abate Rodolfo, il secondo genito Clemente, nato probabilmente nel 1607 e professo a diciassette anni nell'ordine dei Serviti col nome di frate Aurelio, e la figlia Caterina, sposa in Roma a Marcello Giustiniani. Nessuno di costoro mostrò di avere a cuore l'opera paterna, se non per trarne moneta sonante. Nel 1627 i due maschi presentarono in Venezia ai capi del Consiglio dei Dieci un memoriale per ottenere l'assenso alla stampa delle Osservazioni su Tacito, di cui presentarono un esemplare smisurato, anche se non completo, composto parte di copie e parte di autografi. I pubblici revisori ricordarono la ben nota devozione del B. alla Repubblica, riconobbero i meriti dell'opera, ma conclusero per l'assoluta inopportunità della pubblicazione; il 23 dicembre si decise di incamerare quelle carte, compensando i due fratelli con una pensione vitalizia di 12 ducati mensili per ciascuno. Essi levarono lamenti, ma accettarono il patto che condannava all'oblio l'opera paterna; una clausola aggiuntiva intimava loro di fare incetta e di consegnare tutte le minute o copie di quelle scritture, che fossero eventualmente in circolazione, e comminava la decadenza della pensione ove l'opera fosse apparsa comunque per le stampe. I due non si accontentarono di quel mercato e con altri brandelli degli autografi, oppure con reiterate copie, si accinsero ad altri baratti; i testi paterni furono manipolati, inzeppati di aggiunte banali, censurati per compiacere questo o quel potentato, offerti in vendita all'imperatore, al re di Polonia, a chiunque avesse interesse a leggerli o a distruggerli. Alla morte di Rodolfo, la casa romana e i manoscritti paterni vennero in potere della sorella Caterina, che già nel 1630 cercava di mercanteggiare le scritture col granduca di Toscana, destando le ire di frate Aurelio, spogliato del bottino. Quest'ultimo, figura sbiadita di grafomane intrigante, nel febbraio 1645, con grave imprudenza, aveva venduto al governatore di Milano una copia in undici tomi del commento paterno a Tacito, e la notizia subito trapelata gli aveva fatto perdere la pensione veneta.
Comunque, nel corso del secolo, le copie più o meno adulterate, quasi tutte parziali, dell'immane opera politica del B. si diffusero per tutta l'Europa in centinaia di esemplari. Nel 1664 il tipografo Josse Pluymer di Amsterdam mostrò l'intenzione di pubblicarla, ma non attuò il disegno; una presunta edizione ginevrina del 1669, continuamente citata sulla scorta della Bibliothecarealisphilosophica del Lipenius (1682), non è mai esistita; solo nel 1677 il De Tournes di Ginevra ne diede in luce una cospicua porzione (il commento ad Annales, I-VI; Historiae, I; Agricola) colla falsa indicazione di "Cosmopoli, appresso Giovanni Battista Della Piazza". Pochi mesi più tardi le stesse parti vennero ristampate in due tomi a Basilea, con prolisse e fiacche annotazioni di Louis Du May, per iniziativa dell'editore ginevrino J. H. Widerhold, che affidò all'ultimo momento la cura dell'edizione a quella bella tempra di raffazzonatore di Gregorio Leti, il quale appiccicò all'opera sui due piedi un terzo volume, allogandovi "quaranta lettere istoriche e politiche", che appaiono attribuite al B., ma nulla o pochissimo hanno di suo e semmai utilizzano in qualche modo carte romane dell'abate Rodolfo. Col titolo arbitrario, ma ormai notissimo, di Bilancia politica, i tre tomi videro la luce nel 1678 con l'indicazione di "Castellana", che altro non è che la piccola borgata di Châtelaine alle porte di Ginevra. Poco dopo, l'indice romano dei libri proibiti condannava entrambe le edizioni: le date dei rispettivi decreti (19 sett. 1679 e 6 dic. 1678) mostrano quanto stretta fosse la vigilanza e come l'opera del B. venisse ormai considerata come uno strumento di polemica antiromana nelle mani dei protestanti. In realtà il libro usciva con troppo ritardo, deturpato e mutilato barbaramente, cioè in condizioni tali da essere facilmente frainteso, quando il gran dibattito sulla ragion di stato era ormai da tempo conchiuso e i lettori sembravano attirati piuttosto da arguti pettegolezzi che dall'antitesi fra etica e politica, sulla quale si era esercitata la meditazione del Boccalini. Ancora oggi il grande commento a Tacito attende il doveroso restauro di un'edizione critica; inediti in più esemplari giacciono i commenti ai libri XI-XIII degli Annales e al libro IV delle Historiae.
Fonti e Bibl.: Per il testo dei Ragguagli e degli scritti minori si ricorra all'ediz. a cura di L. Firpo, in tre volumi: Ragguagli di Parnaso e scritti minori, Bari 1948; nei due primi sono riprodotte le "centurie" pubblicate dal B. (Venezia 1612-1613) secondo il testo della stampa curata dall'autore in persona; nel volume III viene ricostruita congetturalmente la progettata centuria III, accogliendovi in primo luogo i 29 ragguagli postumi venuti in luce nella Pietra del Paragone Politico (dicembre 1614), quindi tutti gli altri conservati in una decina di codici, che rappresentano raccolte d'Omaggio diffuse dal B., o adunate da amici ed estimatori; fra questi merita posto distinto il cod. 274 della Bibl. Univ. Di Padova, ch'è il solo superstite dei due volumi di carte del B. depositate dopo la sua morte nel convento di S. Giorgio Maggiore a Venezia; esso comprende le minute variamente elaborate e spesso autografe di 101 ragguagli, dei quali 32 non pubblicati dal Boccalini. Sulla ricostruz. della centuria III cfr. L. Firpo, La terza centuria ined. dei "Ragguagli di Parnaso"..., in Annali della Scuola normale sup. di Pisa, 2, XII (1943), pp. 178-201; Id., Ragguagli inediti di T. B., in Rassegna d'Italia, II (1947), nn. 6-8, pp. 3-16. Successivamente alla citata edizione del 1948 il Firpo ha rintracciato un nuovo codice (Lyon, Bibl. de la Ville, 1376), che serba 33 ragguagli politici del B., dei quali 8 peculiari a questo solo manoscritto: cfr. Nuovi ragguagli inediti del B., in Giorn. stor. della lett. ital., CXXXI (1954), pp. 145-174. Con quest'ultimo apporto la centuria III conta oggi 104 ragguagli. Per la precedente diffusione: L. Firpo, Le ediz. italiane della "Pietra del paragone politico" di T. B., in Atti dell'Accad. delle scienze di Torino, LXXXVI, 2 (1951-52), pp. 67-119; Id., I "Ragguagli di Parnaso" di T. B., Bibliografia delle edizioni italiane, Firenze 1955; Id., Traduzioni dei "Ragguagli" di T. B., Firenze 1965.
Nel III volume dell'edizione sono accolti gli scritti minori, cioè il Dialogo sopra l'"Interim" fatto da Carlo V, alcuni Sommari eappuntiper un trattato politico, la memoria tecnica sui Modi di scolar l'acque che ora inondano i territori di Bologna e Ferrara, e le traduzioni di un frammento del libro I degli Annali di Tacito e dell'intero Eunuco di Terenzio. Sebbene pubblicato fin dal 1614 nella Cetra d'Italia e attribuito tradizionalmente (ma non senza riserve) al B., non è quasi certamente suo il celebre Discorso di un Gentiluomo italiano all'Italia (1591), pure accolto nel volume III predetto; solitamente anonimo nei numerosi codici, il discorso viene attribuito da un manoscritto di Cambridge al veneziano G. B. Leoni. Sul Dialogo in particolare, cfr. H. Jedin, Religion und Staatsräson. Ein Dialog T. B.s über die deutsche Glaubensspaltung, in Hist. Jahrbuch, LIII (1933), pp. 304-319; sugli scritti minori: L. Firpo, Gli scritti minori di T. B., in Atti dell'Accad. delle scienze di Torino, LXXVIII, 2 (1942-43), pp. 140-179; sulle traduzioni: Id., Tacito e Terenzio nelle ignorate versioni di T. B., ibid., LXXVII, 2 (1941-42), pp. 221-240.
Sulle false 40 Lettere istoriche e politiche pubblicate da Gregorio Leti nel 1678 cfr. F. Beneducci, Le lettere del B., in Raccolta di studi critici dedicata ad A. D'Ancona, Firenze 1901, pp. 69-96; L. Fassò, Avventurieri della penna nel Seicento, Firenze 1923, pp. 63-64; L. Firpo, Una famigerata falsificazione secentesca: le "lettere politiche" di T. B., in Studi in onore di E. Crosa, Milano 1960, pp. 839-872. Per contro, il ricupero delle lettere autentiche del B. risulta molto arduo; nella citata edizione dei Ragguagli di Parnaso e scritti minori, III, pp. 339-377, sono raccolte 20 lettere del B. e 14 lettere a lui indirizzate. Per addizioni successive cfr. L. Firpo, Aggiunte al carteggio di T. B., in Giorn. stor. della lett. ital., CXXIX (1952), pp. 493-496; Id., Un catalogo di autografi, ibid., CXXXIV (1957), pp. 159-166; Id., Una inedita biografia settecentesca del B., ibid., CXXXVII (1960), pp. 228-238.
Le Osservazioni su Tacito videro la luce in due edizioni tarde, manipolate e incomplete, apparse quasi simultaneamente a Ginevra: la prima, in un solo tomo, col titolo di Commentarii diT. B. romano sopra Cornelio Tacito, Cosmopoli (ma Ginevra) 1677; la seconda in tre volumi (dei quali il terzo dedicato alle Lettere spurie) col titolo: La bilancia politica di tutte le opere di T. B., Castellana 1678. Entrambe le edizioni accolgono con varianti di scarso rilievo le stesse sezioni del testo, cioè il commento ai primi sei libri degli Annali, al primo delle Storie e alla Vita di Agricola. Ingentissima e quasi del tutto inesplorata la tradizione manoscritta, che testimonia grande varietà di raggruppamenti e di stesure più o meno avanzate; essa fra l'altro conserva i due ampi commenti ai libri XI e XII degli Annali e quelli di ridotta estensione e incompiuti al libro XIII e al IV delle Storie. Del commento al libro II degli Annali è serbata nei codici una stesura di gran lunga più ampia di quella stampata. Di varie parti si conservano gli autografi.
Manca una biografia moderna e aggiornata del Boccalini. Sugli studi a Perugia cfr. L. Firpo, Storia malinconica d'uno scrittore lieto, in Nuova Antologia, n. 1724, febbr. 1944, pp. 99-106; sulle nozze con la Ghislieri: M. Menghini, Il contratto di nozze di T. B., in La nuova rassegna, I (1893), pp. 233-34; G. L. Moncaliero, Iscrizioni ed epigrammi del pontificato di S. Pio V, in Vita ecultura a Mondovì..., Torino 1967, p. 57. Sui governi esercitati: a Trevi, T. Valenti, Curiosità storiche trevane, Foligno 1922, pp. 149-154; a Tolentino, G. Benadduci, Contributo alla serie dei podestà di Tolentino, Tolentino 1907, pp. 56-57; a Brisighella, A. Metelli, Storia di Brisighella e della Valle di Amone, Faenza 1869-1872, I, 2, pp. 428-446; S. Fabbri, Un governatore letterato: T. B.al governo di Val d'Amone, in Studi romagnoli, II (1951), pp. 235-244; a Benevento, G. Di Nicastro, Descrizione del celebre arco eretto in Benevento da M. U. Traiano, Benevento 1723, pp. 46-47; A. Zazo, T. B. luogotenente e progovernatore di Benevento, in Arch. stor. per le prov. napol., XXXIV (1955), pp. 147-159; a Comacchio, L. Firpo, Nuovi inediti del B., in Annali della Scuola normale sup. di Pisa, s. 2, XVII (1948), pp. 37-64; a Bagnacavallo, L. Firpo, Una inedita biografia, cit.; a Matelica, C. Acquacotta, Memorie di Matelica, Ancona 1838-39, II, p. 353; F. Beneducci, Il pensiero e l'arte di T. B.nei "Ragguagli di Parnaso", in Rivistad'Italia, XII (1909), pp. 817-836. Sui processi d'Inquisizione: V. Spampanato, Nuovi docum. intorno a negozi e processi dell'Inquisizione, in Giorn. crit. della filosofia ital., V (1924), p. 232; ma la documentazione originale è in Roma, Arch. del S. Uffizio, Decreta, anni 1603, 1604-5, 1610, 1611. Sulle lezioni di geografia: G. Bentivoglio, Memorie, Venezia 1648, pp. 123-24. Sul soggiorno a Venezia e sulla morte: P. Puccinelli, Memorie sepolcrali dell'Abbadia fiorentina e d'altri monasteri, Milano 1664, pp. 68 s.; E. A. Cicogna, Delle iscrizioni veneziane, IV, Venezia 1834, pp. 355-72, 401, 604; V, ibid. 1842, pp. 78, 81, 619; VI, ibid. 1853, pp. 831-32; G. Tassini, Curiosità veneziane, Venezia 1872, pp. 431-32; A. D. Perrero, Il principe italiano in Carlo Emanuele I di Savoia, in Il Filotecnico, II (1887), pp. 76-87; G. Galilei, Opere (ediz. naz.), XI, Firenze 1901, pp. 504, 527; XIII, ibid. 1903, p. 71; XIX, ibid. 1907, p. 415; G. Nascimbeni, Sulla morte di T. B., in Giorn. stor. della lett. ital., LII (1908), pp. 71-92; A. Luzio, Fra' Paolo Sarpi, in Atti dell'Accad. delle scienze di Torino, LXIII, 2 (1928), pp. 46-47; A. Silvestri, T. B. e i "Ragguagli di Parnaso" nelle relazioni con i Gonzaga, in Riv. lett., V (1933), n. 6, pp. 1-7; G. Cozzi, T. B., il card. Borghese e la Spagna secondo le riferte di un confidente degli Inquisitori di Stato, in Riv. stor. ital., LXVIII (1956), pp. 230-54. Sui figli: C. Guasti, Lettera della figlia di T. B. al granduca Ferdinando II, in Giorn. stor. degli archivi toscani, II (1858), pp. 69-70; Id., Le carte strozziane dell'Archivio di Stato in Firenze, Firenze 1891, II, p. 201; I. Ciampi, Della vita e delle opere di P. Della Valle, Roma 1880, pp. 29, 156.
L'iconografia del B. è poverissima e di autenticità tutt'altro che sicura: di fatto si riduce al rame anonimo in L. Crasso, Elogid'uomini letterati, Venezia 1666, I, p. 159, e alla minuscola raffigurazione nell'antiporta della Bilancia politica, Ginevra 1678. Dal ritratto del Crasso derivano la goffa tela, quasi caricaturale, conservata nel municipio di Carpi, il busto di marmo all'ingresso dei giardini pubblici della stessa città, la bella incisione in acciaio di Gregorio Cleter in F. Ranalli, Vite diuomini illustri romani, Firenze 1838, e la litografia accolta in A. Peretti, Valhallaatestino, Modena 1844.
Sulle origini dell'invenzione parnassica: L. Firpo, Allegoria e satira in Parnaso, in Belfagor, I (1946), pp. 673-699. Sulla fortuna e le imitazioni: G. B. Marchesi, I "Ragguagli di Parnaso" e la critica letteraria del sec. XVII, in Giorn. storico della letteratura italiana, XXVII (1896), pp. 78-93; P. Stötzner, Der Satiriker T. B. und sein Einfluss auf die deutsche Literatur, in Archiv für das Studium der neueren Sprachen und Literaturen, CIII (1899), pp. 107-147; R. Brotanek, T. B.s Einfluss auf die englische Literatur, ibid., CXI (1904), pp. 409-414; R. Thomas, T. B.s "Ragguagli di Parnaso" and its influence upon English literature, in Aberystwyth Studies, III (1914), pp. 73-102; C. L. Thijssen-Schoute, N. J. Wieringa, een zeventiedeeuws vertaler van B., Rabelais, Leti..., Van Gorcum 1939, passim; J. Beneyto, B. en España, in Revista de estudios Politicos, XXV (1945), pp. 103-108; R. H. Williams, B. in Spain. A study of his influence on prose fiction, Menasha, Wisc., 1946; L. Firpo, La satira politica in forma di ragguaglio di Parnaso, in Atti dell'Acc. delle scienze di Torino, LXXXVII, 2 (1952-53), pp. 197-247; LXXXVIII, 2 (1953-54), pp. 48-83; U. Limentani, La "Secretaria di Apollo" di A. Santacroce, in Italian Studies, XII (1957), pp. 68-90; L. Firpo, Il più antico imitatore del B.: Girolamo Briani, in Scrittivari dedicati a M. Parenti, Firenze 1960, pp. 171-79.
Testimonianze di meschine polemiche contemporanee: Soccino, Discorso nel quale si dimostra la giustizia dell'imperio de' Spagnoli in Italia..., s. n. t. (ma 1617), p. 11; P. Sandorano, Elenco contro il B., Venezia 1618; F. Ruggeri, Trutina Delpholudicri tabellariatus T. B., Monachii 1622; D. Cacciatore, Censura al ragguaglio 18 di T. B., Milano 1651. Sui primi giudizi critici del Seicento: A. Tassoni, Risposta alla scrittura del sig. N. N. (Soccino), s. n. t. (ma 1617); G. B. Lauro, Theatri Romani orchestra, Roma 1625, pp. 60-62; G. Naudé, Bibliographia politica, Venezia 1633, p. 104; V. Sgualdi, Aristocrazia conservata, Venezia 1634, pp. 15-16, 20, 90, 139; I. Gaddi, Adlocutiones et elogia, Firenze 1636, pp. 105-7; T. Campanella, De libris propriis et recta ratione studendi, Parigi 1642, p. 87; J. N. Erythraeus (G. V. Rossi), Pinacotheca imaginum illustrium ingenii vel doctrinae laude virorum, I, Colonia 1643, pp. 271-72; III, ibid. 1648, pp. 221-23; L. Crasso, Elogi..., Venezia 1666, I, pp. 159-163; P. Mandosi, Bibliotheca Romana, Roma 1682, I, pp. 29-30; A.-N. Amelot de la Houssaye, Tacite avec des notes politiques et historiques, Paris 1690, p. XXV; T. P. Blount, Censura celebriorum authorum, Genevae 1694, pp. 927-29; P. Bayle, Dictionnaire historique et critique, Basle 1741, I, pp. 584-85. Studi sulla vita, il carattere, lo stile, la satira letteraria e di costume: C. Arndius, Bibliotheca politico-heraldica selecta, Rostock-Leipzig 1705, pp. 356-362; J. Addison, in The Spectator, 2 febbr. 1711; A. Zeno, Lettere, Venezia 1735, V, pp. 42 s., 52; G. M. Mazzuchelli, Gli Scrittori d'Italia, II, 3, Brescia 1762, pp. 1375-1383; G. Tiraboschi, Storia della letteratura italiana, VIII, 1, Modena 1780, pp. 287-88; H. Hallam, Introduction to the literature of Europe..., III, Paris 1839, pp. 360-62; G. Carmignani, Storia della origine e de' progressi della filosofia del diritto, in Scritti inediti, II, Lucca 1851, pp. 200 ss.; L. Galeotti, T. B. e il suo tempo, in Arch. stor. ital., n. s., I (1855), n. 2, pp. 117-162; F. De Sanctis, Storia della letteratura italiana, II, Napoli 1872, p. 212; G. Mestica, T. B. e la letteratura critica e politica del Seicento, Firenze 1878; G. Silingardi, La vita, i tempi e le opere di T. B., in Cronache del Liceo Muratori di Modena, Modena 1883, pp. 5-46; F. Beneducci, Saggio sopra le opere del B., Bra 1896; F. Foffano, Ricerche letterarie, Livorno 1897, pp. 173 ss. e 212 ss.; C. Trabalza, La critica letteraria nel Rinascimento, Milano 1915, pp. 221-241; I. Masi, I ragguagli di Parnaso, Roma 1917; A. Belloni, Il Seicento, Milano 1929, pp. 468-80, 501 s. e passim; B. Croce, Storia dell'età barocca in Italia, Bari 1929, passim; V. Cian, La satira, Milano 1939, II, pp. 367-88; G. Spini, I trattatisti dell'arte storica nella Controriforma, in Quaderni di "Belfagor", I (1948), pp. 125-30, Rocchi, I sogni d'un Parnaso onesto. Vitalità dei "Ragguagli" di T. B., Milano 1954; C. Varese, T. B., Padova 1958; C. Jannaco, Critici del primo Seicento, in La critica stilistica e il barocco letterario. Atti del II Congr. intern. di studi italiani, Firenze 1958, pp. 219, 230, 236-240; Id., T. B. a quattrocento anni dalla nascita, in Nuova Antologia, marzo 1959, pp. 398-402; Id., T. B. in La letteratura italiana. I minori, Milano 1961, pp. 1471-1487; C. Jannaco-M. Capucci, Il Seicento, Milano 1963, passim.
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