Tra medicina e cultura al tempo della Restaurazione: la figura di Paolo Zannini medico e letterato
L’intreccio tra pratica e ricerca medica, da un lato, e cultura letteraria, dall’altro, era molto stretto nell’Ottocento. La figura del medico Paolo Zannini (1781-1843) ci servirà come esempio di questo binomio. Zannini, bellunese di nascita, stretto collaboratore del noto medico Francesco Aglietti, fu tra i fondatori dell’Ateneo Veneto, istituzione che giocherà un ruolo centrale in questo saggio anche come specchio delle condizioni della cultura veneziana sotto l’insegna del regime austriaco e della sua censura. Il dottor Zannini era al centro della vita professionale e culturale della città e si impegnò particolarmente per l’istituzione in essa di Gabinetti di lettura aperti al pubblico, una delle battaglie tipiche del nascente movimento liberale.
Per rendere meglio l’essenziale intreccio tra medicina e cultura nella Venezia del primo Ottocento si è scelto di procedere in modo cronologico, considerandolo così come si presenta nella vita del nostro personaggio. L’impegno di Zannini come medico e uomo di cultura emerge da molteplici fonti, da quelle ufficiali, come le «Esercitazioni» dell’Ateneo Veneto, a lettere private e pubblicazioni in ambo i campi.
Nell’Ospedale civile di Venezia, Paolo Zannini, che ne era una delle principali figure, aveva in quell’epoca contribuito a far progredire la pratica e lo studio dell’anatomia patologica. Questa disciplina, che aveva subito un grande impulso nei primi decenni del XIX secolo, diverrà determinante in Europa per il superamento delle contrapposizioni tra le scuole mediche. In Italia predominava allora la scuola che faceva capo a Giacomo Tommasini — un seguace delle teorie di Giovanni Rasori, il più famoso medico dell’Ottocento italiano — che era, allora, massimo esponente della cosiddetta Nuova dottrina medica italiana. Zannini avrà un ruolo non insignificante nell’ambiente medico veneziano nel trapasso verso una medicina non più sistematica ma sperimentale, che si svilupperà nella seconda metà dell’Ottocento(1).
Egli aveva compiuto i suoi studi all’Università di Padova, dove era sempre vivo l’insegnamento di Giovanni Battista Morgagni, e lì, nel 1804, si era laureato. Nel 1807 aveva seguito le lezioni di Clinica medica di Pietro Bondioli e dell’allora suo assistente Giuseppe Montesanto. Già dall’anno precedente la laurea Zannini aveva seguito a Venezia le lezioni di Anatomia di Francesco Aglietti, medico di vasta dottrina — molto noto per essere stato, a cavallo di secolo, condirettore assieme a Stefano Gallini del «Giornale per servire alla storia ragionata della medicina di questo secolo» — accanto al quale rimarrà, fin dai primi anni dell’Ottocento, nell’avvicendarsi dei regimi francese e austriaco al governo della città dopo la caduta della Repubblica. La loro fu una stretta collaborazione non solo sul piano della ricerca medica ma anche dell’organizzazione della cultura. Nel campo medico essa si concretizzò intorno agli studi sulla litiasi delle arterie e in particolare sulle cause degli aneurismi(2) e in un progetto, prima dell’arrivo degli austriaci, di traduzione e ammodernamento dell’opera di Giovanni Battista Morgagni, De causis et sedibus morborum. Sul piano culturale, la loro collaborazione ebbe delle conseguenze di non poco conto dopo che Aglietti era stato, durante il regime napoleonico, una delle figure preminenti nella fondazione dell’Ateneo Veneto, di cui era divenuto segretario e, al sopraggiungere della Restaurazione, segretario perpetuo. Ma essa si arrestò nei primi anni Venti del secolo quando Aglietti dovette dimettersi dagli impegni di governo affidatigli dagli austriaci, probabilmente a causa delle sue simpatie carbonare e delle sue idee liberali(3).
In quel tempo difficile per la società veneziana, che assisteva ad un irrigidimento delle misure poliziesche in tutti i campi, ma soprattutto in quello culturale, Zannini porta avanti da solo l’eredità del maestro venendo ad assumere egli stesso la carica di segretario perpetuo dell’Ateneo Veneto. È intorno al significato e alla sopravvivenza di questo ruolo che si giocherà un’aspra battaglia tra i soci dell’Ateneo, favorevoli al governo austriaco o suoi funzionari, da una parte, e simpatizzanti, dall’altra, di quel nascente movimento liberale che nel periodo di freno di ogni libertà seguente ai moti del 1820-1821 aveva visto la fusione nelle sue file dei sostenitori di Napoleone e dei suoi critici(4).
Che cosa dicono le fonti ufficiali dell’Ateneo sull’istituzione della carica di segretario perpetuo? Non è un caso che esse si presentino nella forma di Ricordi storici scritti circa due anni dopo la soppressione della carica. La fonte ufficiale acquista in questo caso una finalità giustificatoria rivestita di una grande sapienza retorica. A redigerla è il dottor Gaetano Ruggieri, secondo aggiunto dell’imperial regio magistrato di sanità marittima (venuto ad assumere la carica di vicepresidente che sostituirà quella del segretario perpetuo stesso). Le sue prime considerazioni illustrano lo scopo della nuova istituzione(5).
Egli afferma che nel 1816 si giudicò necessario creare la carica di segretario perpetuo per garantire all’Ateneo, di fronte a «qualsivoglia cambiamento», una figura che ne rappresentasse la continuità; a ricoprirla venne eletto Aglietti, il quale concentrava in sé il meglio della cultura scientifica e letteraria prima e dopo la caduta della Repubblica(6). Fa sapere che Zannini in quella occasione venne nominato segretario della classe di lettere, in riconoscimento dei suoi molti interessi culturali, mentre due anni dopo, nel 1818, fu chiamato a far parte di una commissione «per migliorare lo statuto». Infine fornisce l’importante informazione dell’elezione dello stesso Zannini alla carica di segretario perpetuo quando Aglietti la lasciò per il posto meno oneroso di presidente, a causa dei suoi impegni come consigliere protomedico del governo di Venezia. A riguardo del nuovo segretario egli tiene a sottolineare che
tanti argomenti s’avevano della sua attività e delle sue dottrine, che di quell’onore non solo tutti lo reputarono meritevole, ma trenta dei soci presenti vollero di più legittimarne la scelta sottoscrivendone l’atto col proprio nome(7).
Se pur molto calibrate, le parole di Ruggieri sulla giustificazione dell’istituzione della carica permettono ugualmente di avvertire la preoccupazione creatasi all’interno del mondo culturale veneziano per il brusco cambiamento intervenuto nelle istituzioni politiche della città a causa delle prime misure prese dagli austriaci, che erano quelle di un regime di occupazione militare: presidi e guarnigioni, truppe tedesche e croate dovunque, cambiamenti negli organici governativi(8). Non c’è da farsi meraviglia quindi se, come dice Ruggieri, si era creata una situazione di scollamento tra i soci dell’Ateneo, che partecipavano «scarsi» e «sbadati» alle adunanze per cui era impossibile sottoporli a decisioni, come quella di approvare il nuovo codice disciplinare.
Zannini, che nel frattempo suppliva il segretario per le scienze (ne siamo informati sempre da Ruggieri), propose di istituire nell’Ateneo un Gabinetto di lettura, aperto anche alla cittadinanza, nel quale prevedeva venissero messi quotidianamente a disposizione periodici italiani e stranieri di scienze, lettere ed arti, libri recenti ed anche «foglietti politici». Così Ruggieri riferisce sulle finalità del Gabinetto: «Mirava il trovato ad adescare gli accademici al raccorsi, ad accostarsi tra loro, ad avere spesse occasioni di ragionare sulla loro società»(9), dove con quest’ultima parola voleva, ovviamente, intendere l’insieme dei soci di quell’istituzione. La proposta del Gabinetto di lettura venne sottoposta all’intero corpo dell’Ateneo nel gennaio del 1820(10); il 12 ottobre di quello stesso anno venne concesso il permesso per la sua apertura dalla direzione generale di polizia. Quest’ultima, se autorizzava queste iniziative, le teneva ovviamente anche sotto controllo: infatti essa conosceva il numero dei frequentatori e delle pubblicazioni messe a disposizione dei lettori(11). Quando però le iniziative dei Gabinetti di lettura andavano al di là dei loro scopi culturali e assumevano una coloritura politica, venivano, se non formalmente chiusi, lasciati languire. E questa era stata la sorte del Gabinetto di lettura dell’Ateneo veneziano.
Ruggieri — che ovviamente non parla dei controlli di censura e polizia né del pesante clima generale che si era instaurato dopo i moti del 1820-1821 — sette anni dopo, quando scrive i suoi Ricordi storici, vorrebbe attribuire la ragione dello scarso successo del Gabinetto di lettura ad una debolezza intrinseca dell’iniziativa stessa, ma evidentemente vuole nasconderne la causa reale: il pesante condizionamento esercitato sui membri dell’istituzione dal timore della polizia che l’Ateneo divenisse un luogo di propagazione delle idee liberali(12).
Per avvertire qualcosa degli umori del presidente e del segretario perpetuo dell’Ateneo in quel momento, cioè Aglietti e Zannini, bisogna ricorrere ad altre fonti che non siano quelle ufficiali dell’Ateneo pubblicate parecchi anni dopo. Le lettere di convocazione che essi mandavano ai membri dell’istituto offrono delle indicazioni interessanti sui loro orientamenti. Nella lettera spedita il 1° dicembre del 1820, in cui si invitano i membri a partecipare il 7 dello stesso mese alla prima sessione del decimo anno accademico, così si esprimono presidente e segretario:
La Presidenza si fa dovere di prevenire V.S. che gli argomenti, che si tratteranno nella stessa, riguardino gli interessi fondamentali dell’Ateneo, del pari che quelli del suo Gabinetto che sta per aprirsi. Essa si lusinga perciò, che tutti quei soci, che sentono amore di patria, e attaccamento a questo Letterario e Scientifico Istituto, vorranno intervenire alla Sessione suddetta, onde cooperare coi loro lumi, e con le decisioni che sono di loro Diritto, allo stabilimento di tutto ciò, che più efficacemente può contribuire al maggiore incremento dell’Ateneo. La Presidenza si onora di assicurarla del suo rispetto.
Il Presidente Aglietti, il Segretario Perpetuo Zannini(13).
Il richiamo di Aglietti e Zannini a far sì che i contenuti in discussione avessero per oggetto gli interessi dell’istituto, seppur privo di esemplificazione, è tuttavia sufficiente a farci capire che all’interno di esso c’erano anche individui che facevano quelli del nuovo regime. La sollecitazione a partecipare all’adunanza, rivolta specificamente ai membri qualificati come coloro che «sentono amore di patria», ci lascia intendere che questi, a quella data, erano in maggioranza e come tali capaci con le loro decisioni di soddisfare quei fini che si imponevano come primari per la salvaguardia di un’istituzione culturale indipendente.
Ma che cosa significava l’espressione «amor di patria», e innanzitutto che cosa voleva dire «patria»? Questo termine non aveva un riferimento specifico ad un insieme di istituzioni politiche e legislative quali erano state quelle della passata Repubblica, ma rappresentava un luogo ideale di riferimento dove si concentrava l’orgoglio collettivo di una popolazione che non era mai stata sottoposta allo straniero e che quindi si sentiva fiera di un’indipendenza millenaria. Di fronte ad un regime poliziesco e militare difendeva e quindi anche idealizzava la libertà politica e civile della Serenissima(14).
Bene si addice anche agli uomini di cultura, ai letterati veneziani di quel momento, come Aglietti e Zannini, quanto diceva nel contesto milanese l’allora giovane Silvio Pellico, figura preminente del movimento liberale, in una lettera al fratello del 1816 su quello che avrebbe dovuto essere il ruolo dei «letterati» in quella drammatica svolta politica: «I letterati non sono altro che l’insegna delle nazioni a cui appartengono»; a suo giudizio spettava soprattutto agli scrittori il compito di esserne gli interpreti, i «custodi delle sue tradizioni» e i suoi «veri rappresentanti»(15). Ruolo quest’ultimo che sarà assunto sempre più chiaramente nei decenni successivi dagli intellettuali, uomini e donne, nati negli ultimi decenni della Serenissima o diventati adulti durante la Restaurazione.
I segni di un controllo sempre più pesante all’interno dell’Ateneo si hanno con le nuove elezioni, nel 1821, dei due segretari delle classi di lettere e scienze. Nella prima l’eletto (che risulta essere il dottor Filippo Scolari, attento studioso di Dante e neoclassicista) viene scelto tra una rosa di candidati in cui spiccano già i nomi di due rappresentanti del dipartimento della censura austriaca, Bartolomeo Gamba e Pietro Pianton(16); nella seconda è lo stesso fidato dottor Ruggieri. Zannini durante l’estate di quell’anno 1821 lavora sullo statuto, di cui manderà la copia ultimata ad ogni membro ordinario in previsione della sua discussione(17).
Tra il 1822 e il 1823 si verificano dei mutamenti di non poco conto dentro l’Ateneo: la nuova elezione a segretario per la classe di lettere del giurista Pietro Biagi, a causa del trasferimento a Verona di Scolari, e l’introduzione del nuovo statuto che viene approvato, dopo numerose discussioni, con molte variazioni rispetto a quello proposto da Zannini(18). Ma la vera e propria svolta è rappresenta dalle clamorose dimissioni di Aglietti dalla carica di presidente che suscitano malcontento e preoccupazione(19). Il 22 agosto 1822 viene eletto il nuovo presidente Carlo Antonio Gambara, persona non sgradita agli austriaci(20). Quest’ultimo fa stampare il nuovo statuto (col titolo di Regolamento dell’Ateneo di Venezia) e apre una biblioteca per la consultazione dei vecchi e dei nuovi libri pervenuti all’Ateneo. Da questo momento in poi non si sente più parlare del Gabinetto di lettura; evidentemente la sua istituzione aveva molto preoccupato gli austriaci, al punto che la nuova reggenza indisse un’adunanza pubblica il 13 febbraio 1823 per rassicurare magistrati e cittadini invitati che gli accademici dell’Ateneo si occupavano «animosi in utili lavori»(21).
In questo periodo così delicato per la vita dell’Ateneo Zannini era stato anche particolarmente impegnato sul piano dello studio e della professione. Aveva portato a termine la traduzione della quarta edizione inglese dell’opera di Matteo Baillie, già tradotta in vari paesi d’Europa, pubblicandola nel 1819(22). Ad essa aveva aggiunto, modificandola, l’appendice di S.T. Soemmering apposta all’edizione tedesca e alcune annotazioni personali riguardanti l’«arteriasi cronica», in particolare il modo in cui si formano gli aneurismi interni. Nel 1820 gli era stata affidata dal governo la direzione di uno stabilimento fumigatorio, di cui parla in una lettera dell’aprile 1820 all’amico vicentino dottor Domenico Thiene con il quale manterrà una lunga corrispondenza, fonte preziosa di informazioni sugli aspetti della vita professionale di entrambi, sugli sviluppi della medicina del tempo, sui loro studi, oltre che sulla loro vita privata(23).
Nonostante gli impegni nella professione di primario e direttore dell’Ospedale civile e nell’Ateneo (aveva svolto nel 1822 una relazione nella sezione di scienze sull’uso e gli esiti delle cure con il solfato di chinina(24)), Zannini non aveva trascurato i suoi interessi letterari. Nel 1822 faceva pubblicare, corredate di un suo saggio introduttivo, le poesie di un suo compaesano, Valerio Da Pos, un contadino delle Alpi Bellunesi che si era distinto particolarmente come poeta satirico(25). La satira era un genere di poesia che Zannini amava in maniera particolare; anche se non lo afferma esplicitamente, non è difficile capire che la riteneva l’unico genere possibile per quei tempi piuttosto pesanti. Significativo è il fatto che l’anno precedente, il 1821, in occasione delle nozze Comello-Papadopoli, avesse pubblicato alcune ottave di Da Pos intitolate La partenza verso il mondo della luna, una straordinaria satira della società del tempo(26). Nel tratteggiare la figura di questo peculiare poeta, Zannini offre anche un interessante paragone tra le popolazioni montanare del Bellunese e quelle della pianura, definendo le prime povere, in possesso unicamente del minimo indispensabile per sopravvivere, ma libere, in una situazione certamente migliore delle seconde, ridotte invece in «quella schiavitù, a cui [erano] dannati li coltivatori dei campi nelle grandi possessioni della pianura». Il loro stato le dotava dunque di una «certa indipendenza di pensare, che favori[va] d’assai lo sviluppo delle facoltà mentali e delle qualità dell’animo». Egli non mancava di soffermarsi anche sulla composizione della società da esse costituita, sulla loro struttura famigliare, sulla cultura che ancora di più le differenziava da quelle delle campagne per grado e vivacità(27). Non poteva destare meraviglia dunque che anche tra di esse potesse sorgere un autentico poeta.
Nell’estate di quello stesso anno così delicato per l’Ateneo Veneto, il 1823, moriva a Venezia Antonio Canova. In seguito a questo evento, che metteva a lutto il mondo culturale europeo, Zannini legge in quell’istituto, nella seduta ordinaria del 12 giugno 1823, una memoria sugli ultimi giorni della malattia di Canova che lui stesso aveva assistito, durante il breve periodo veneziano della sua malattia, fino alla morte. Questa memoria, che venne pubblicata in quell’anno col titolo Storia dell’ultima malattia di Canova, ricevette alte lodi da Niccolò Tommaseo nel «Giornale sulle scienze e lettere delle Provincie venete» di Treviso. Ecco quanto quest’ultimo affermava nella conclusione della sua recensione della biografia di Canova scritta da Leopoldo Cicognara, in cui fa riferimento alla memoria del Nostro:
Si chiude questo libro con la storia della malattia per la quale morì Antonio Canova, scritta dal dottor Paolo Zannini, e da lui recitata nell’Ateneo di Venezia, del quale è segretario. Quantunque l’autore dichiari che non intende con essa dissaziar pienamente i desideri dei Medici, e prometta che questi ‘saranno a pieno adempiuti dalla dissertazione’, la quale il suo ‘illustre precettore ed amico Consigliere Aglietti sta meditando intorno alla malattia e morte del Canova’; noi però non possiamo tacere il senso di dolcezza che ci corse per l’animo in leggendo questa sua memoria, nella quale la eleganza dello scrittore cammina di pari piede con la dottrina del medico, e tutte le circostanze di quella crudel malattia, che spense il maggior lume d’Italia, sono notate con tale lucidezza e convenienza di stile, che meglio non avrebbe potuto fare chi si fosse sempre ravvolto tra i fiori e le grazie dell’amena letteratura, anziché tra il sangue e le coltella della sparuta notomia. Né vi manca eziandio quella sana e retta filosofia che indaga diligentemente le cause dè più straordinarii avvenimenti, e le trae in aperto con quella dignità che è propria a chi parla il linguaggio santissimo del vero; e ne basti per pruova quel passo, nel quale il dott. Zannini si fa a spiegare l’improvviso irradiarsi che fece il volto del Canova di una santa letizia pochi momenti innanzi che passasse di questa vita, e quelle care parole con le quali consacrò l’ultimo suo respiro: letizia e parole che sole avrebbero bastato a dimostrare l’eccellenza dell’uomo che andava a morire, quand’anche tacessero eternamente i miracoli del suo scarpello(28).
Le belle e autorevoli espressioni di Tommaseo, oltreché per le lodi che sappiamo egli non dispensava facilmente, sono importanti per capire in quale senso si possa definire letteraria la scrittura medica di Zannini. Quando, ad esempio, egli si intrattiene sull’esame anatomico del cadavere dell’artista(29) — in particolare su quelle parti del corpo (ventre, stomaco, piloro) che sarebbero servite a far «ben ravvisare» la malattia che lo portò alla morte — la sua descrizione degli organi dello scultore ha veramente dell’eccezionale, soprattutto quella riguardante l’interno del fegato trovato colmo di calcoli. Conscio che le sue parole erano dirette ad un pubblico di non addetti ai lavori, Zannini fa un ampio uso di metafore e raggiunge momenti di grande intensità quando viene a configurare quell’organo come luogo di stravolgimento di tutti gli elementi vitali(30).
Al di là della facciata ufficiale, quale ad esempio si rivelava in occasioni come quella della commemorazione di Canova, il clima dentro l’Ateneo stava mutando profondamente e drammaticamente: s’erano create delle divisioni tra i membri dell’istituzione; sedici di essi fin dal gennaio del 1824 avevano chiesto nuove regole per annullare ogni carica perpetua. Il 17 di agosto si svolge una riunione con un numero molto elevato di partecipanti. La discussione, secondo quanto ne dice Ruggieri nei suoi Ricordi storici, «era infuocata: c’era chi sosteneva l’impossibilità di mutare una carica stabilita come perpetua dallo stesso Ateneo» e chi invece affermava il contrario, dichiarando di voler salvaguardare l’Ateneo «dal cattivo uso del potere di uno solo»(31). Risulta evidente a chi legge il resoconto di questa discussione che si voleva attaccare personalmente il segretario in carica Paolo Zannini. Ma quella seduta non giunge ad alcuna decisione perché viene aggiornata dal presidente.
Riveste molto interesse leggere la testimonianza di Zannini sugli sviluppi della situazione. Si tratta della lettera del 1° dicembre 1824, diretta a Giovanni Rossi, consigliere giudiziario e membro anch’egli dell’Ateneo, che riguardava proprio la riunione suddetta e le decisioni che egli intendeva prendere:
Ove V.S. abbia assistito alla seduta straordinaria tenuta dall’Ateneo Veneto nel giorno 17 agosto prossimo passato Ella avrà conosciuto, che la terza tra le proposizioni, le quali dovevano venir sommesse all’Ateneo in quell’Adunanza aveva per oggetto di sopprimere la carica, da me sostenuta, di Segretario generale perpetuo dell’Ateneo, e di sostituirvi quella di un Vice-Presidente.
Come le attribuzioni che volevansi assegnate al proposto Vice-Presidente erano le identiche, che sono proprie dell’attuale Segretario Generale; così io fui costretto di convincermi, che mentre il soggetto apparente della anzidetta terza proposizione sembrava quella di abolire la carica di Segretario Generale, il soggetto vero della proposizione medesima era quello di togliermi all’onore di occupare quest’incarico.
Io devo ricordare con sentimento di riconoscenza, che lo scopo di quella proposizione fu così apertamente conosciuto e riprovato dalla maggiorità dei componenti dell’Adunanza del 17 agosto, che, non aggiornata ma troncata a mezza la seduta, la proposizione non fu più sottomessa ai voti dell’accademia ma, con ben diverso sentimento, io non posso nascondere a me stesso, che le cure datesi dai proponenti di trovare compagni al loro divisamento, fruttarono ad essi le soscrizioni di dodici Ordinari, e di un Onorario; li quali, qualunque fosse la cognizione di causa con cui operarono, diedero il loro nome per l’abolizione della carica da me sostenuta.
Sebbene, proseguiva Zannini, egli avesse la certezza dell’irremovibilità della sua carica e della «benevolenza» del maggior numero dei membri dell’Ateneo — oltre che dell’impossibilità per l’intero corpo accademico di rimuovere una carica concessa a perpetuità senza venire meno alle leggi d’onore che lo ispiravano — egli tuttavia decideva di rinunciare spontaneamente ad essa per impedire il radicarsi di qualsiasi pretesto di discordia, e riportare quella istituzione alla «tranquillità» dei suoi anni passati. Lasciato così libero l’Ateneo di procedere ad un nuovo tipo di nomina, egli sarebbe ritornato fra gli ordinari della sua classe(32).
Il 13 dicembre 1824 Zannini manda al presidente la sua lettera di dimissioni dalla carica di segretario perpetuo. Solo nel maggio 1825 viene ripresa la discussione sulle riforme dello statuto, tra cui l’elezione di un vicepresidente al posto del segretario perpetuo. Le riforme richieste furono approvate e venne prodotto un terzo regolamento dell’Ateneo secondo il quale si doveva eleggere il consiglio accademico e il vicepresidente.
Un esempio della tensione e della delicatezza di quelle discussioni, le cui decisioni venivano a cambiare radicalmente le regole su cui si era fondato l’Ateneo, ci viene da una lettera, non datata ma del giugno 1825, di Zannini diretta ad Antonio Diedo, presidente dell’Accademia di Belle Arti e socio dell’Ateneo. Essa svela la scorrettezza del comportamento dello stesso Ruggieri — che aveva assunto le funzioni di segretario provvisorio — nei confronti di Zannini, ritenuto un possibile candidato alla nuova carica di vicepresidente:
Vengo a conoscere in questo momento che l’attuale Presidenza dell’Ateneo o a meglio dire il dottore Ruggieri, preparò delle ingiurie, onde tenermi lontano dal posto di Vice-Presidente, al quale qualche accademico mi propose. Indifferente per aver o non avere quel posto, non posso esserlo alle ingiurie; perciò ardisco pregarla di assistere alla sessione di domani(33).
Ma ad assumere quella carica viene eletto il 30 giugno Gaetano Ruggieri, che la manterrà per undici anni fino alla sua morte avvenuta nel 1836.
Diventava sempre più tangibile il fatto che dopo i moti del 1820-1821 il controllo del governo austriaco su persone ed istituzioni era divenuto più stretto sul piano ideologico: conclusa la presidenza Gambara, questa nel 1826 passa al fidato Pietro Biagi; segretario per la classe di lettere viene eletto l’abate Giovanni Bellomo, insegnante di filologia, che manterrà la carica fino all’anno accademico 1836-1837(34).
La fine degli anni Venti registrava un clima pesante politicamente e culturalmente. Non ne era esente la stessa medicina, stando alle parole che lo stesso Zannini scrive all’amico Thiene nel paragrafo conclusivo della lettera del 27 febbraio 1827: «ad onta di tanti raggiri che mi circuiscono, io continuo ad essere il primo fra i medici di Venezia nella pace dell’anima, nell’indipendenza personale e nella domestica felicità»(35).
Se le accademie e gli atenei non erano in questo periodo luoghi di elaborazione di cultura, perché non riuscivano a contrapporsi efficacemente alla politica culturale degli austriaci, quali alternative si offrivano per un diverso respiro culturale? Negli anni Venti e Trenta esse potevano essere trovate nei salotti, luoghi dove le mentalità più diverse si incontravano, dove le personalità di varie nazioni facevano conoscere le loro idee e lo scambio culturale poteva divenire un fenomeno costruttivo. Oltre a quello assai famoso di Isabella Teotochi Albrizzi(36), era attivo quello di Giustina Renier Michiel, gentildonna veneziana, nata nel 1755, nipote degli ultimi due dogi, Paolo Renier e Ludovico Manin, che era stata tra coloro i quali alla caduta della Repubblica avevano accettato le nuove idee provenienti dalla Francia ma era rimasta come molti delusa successivamente dalle pratiche del governo francese(37). Negli anni Venti dell’Ottocento, quando era ormai anziana, aveva aperto la sua casa anche a persone di diverse generazioni, uomini e donne, prestando particolare attenzione ai giovani. Gli ospiti, oltre ad intrattenersi, si riunivano in gruppi di lettura e di discussione di libri. Uomini illustri come lo scrittore Bianchetti, il poeta Pindemonte, Paravia, collaboratore del «Giornale sulle scienze e lettere delle Provincie venete», lo storico Agostino Sagredo, erano tra gli abituali frequentatori del suo salotto e, tra i giovani, Luigi Carrer e Daniele Manin(38). Zannini era divenuto suo parente per averne sposato la nipote Adriana Renier e alla morte di lei diventerà legatario di tutte le sue carte e dei suoi manoscritti. Giustina Renier Michiel era divenuta famosa per le sue traduzioni di alcune tragedie di Shakespeare, apprezzate da Foscolo(39), e più tardi con l’opera Origine delle feste veneziane, lavoro non storiografico ma piuttosto «romanzo storico», come ella stessa lo definisce in un suo scritto inedito, sul quale si sofferma, citandolo ampiamente, Luigi Carrer nel profilo biografico che scrisse su di lei (40). L’opera fu ritenuta fondamentale per la formazione della sensibilità di quella generazione di uomini e donne che saranno protagonisti del Quarantotto e della fase risorgimentale, tra questi lo stesso Carrer che già nella sua opera Anello di sette gemme, scritta negli anni Trenta, evidenzia tutta l’importanza del ruolo dell’autrice nella società veneziana del tempo(41).
4. Critiche a pratiche mediche del tempo: il salasso e il soccorso ai «sommersi ripescati»
Sin dagli anni Venti Zannini era particolarmente assorbito nella pratica professionale, tuttavia non tralasciava di confrontarsi con le teorie e le pratiche mediche dei suoi tempi. Nel 1825 pubblica per il «Giornale delle lettere e scienze di Treviso» un articolo in forma di lettera ad un anonimo medico che aveva scritto, nell’appendice letteraria del «Foglio di Milano», un intervento contro l’uso medico del salasso e dei veleni(42). Dopo aver fatto eco alle argomentazioni dell’autore egli svolge alcune considerazioni sull’effetto di «seduzione» che le ipotesi e i sistemi producevano sui giovani medici. Era evidente l’allusione alla teoria del controstimolo che Giovanni Rasori era andato elaborando in opposizione alle teorie di John Brown, famoso medico scozzese di cui era stato inizialmente seguace dopo averne tradotto gli scritti in italiano nel 1792. Questi fondava le sue teorie sul principio dell’eccitabilità, per cui la malattia era originata da eccesso o difetto di eccitamento; lo stato morboso veniva perciò denominato stenico o astenico. Ciò che aveva portato Rasori ad elaborare una nuova teoria era la scoperta che non esistevano solo «potenze» eccitanti ma anche potenze direttamente «deprimenti». Ciò portava un profondo cambiamento nel piano terapeutico venendo ad introdurre in esso sostanze anche artificiali, «rimedi chimici», dosaggi le cui elevate quantità non erano mai state usate precedentemente, e una pratica smodata del salasso. Tutto ciò si chiamava allora Nuova dottrina medica italiana, il cui maggiore esponente era il medico parmense Giacomo Tommasini che dal 1816 insegnava Clinica medica nella pontificia Università di Bologna(43).
Con un po’ di ironia Zannini mostra fino a che punto i nuovi seguaci della dottrina perdevano il contatto con la realtà, non solo con quella dell’ammalato ma anche con quella delle cause sociali o psicologiche delle malattie stesse:
Pretendendo cotesti giovani di possedere lo scibile medico, di tutto spiegare, di tutto intendere e di comodamente giuocare la diatesi e gli stimoli a loro capriccio, sognando perpetui incendi e flogosi minacciose o acute, o lente perfino in quegl’individui che sono pallidi, freddi ed indeboliti dalla fame, dalla miseria, dal freddo, dall’umidità, dai patemi di animo deprimenti, dalle emorragie ec. prescrivono a larga mano il salasso, e ciò che più deve destarci meraviglia e ribrezzo si è, che taluni da me conosciuti, nell’esito fatale di alcuni morbi hanno il rimorso non di averli sacrificati, ma piuttosto di essere stati moderati o pusillanimi nella prescrizione dei salassi.
Si meraviglia, proseguendo che, in un secolo di progresso della medicina, i medici in serietà e buona fede diagnostichino la «diatesi iperstenica» basandosi su «sintomi fallaci ed equivoci» (esame dei polsi, del rossore della faccia, del calore della cute, della cotenna del sangue) e pretendano in sovrappiù di basare il loro uso del salasso osservando nelle autopsie dei cadaveri «stravasamenti sierosi», «pseudo membrane», «sangue atro e rappreso». Zannini fa capire che a volte le diagnosi di diatesi iperstenica sfiorano il ridicolo o si mostrano contraddittorie; non vede alcuna attenzione alla relatività delle predisposizioni degli individui, ai gradi, alla violenza degli stimoli e alla loro durata. Per essere convinti delle sue critiche basta analizzare, afferma, le idee dei neomedici sull’indole e sui caratteri dell’infiammazione: idee che si rivelano complicate e contraddittorie. Egli si rammarica del fatto che se il sistema di Brown «fu confutato con armi valorose ed acute», non sia però «coraggiosamente combattuta la teoria del controstimolo» — che viene invece «accarezzata e protetta» in molte province italiane — il cui contagio pericoloso per le vite umane si diffonde rapidamente.
Zannini ha però anche delle critiche da muovere al «sig. Y»: non è d’accordo con lui che i medici usino i veleni con saggezza e moderazione; gli sembra che egli sia stato generico su dosi e occasioni del loro uso; più che parlare dell’«uso», egli avrebbe dovuto soffermarsi sul loro «abuso».
In conclusione esprime la speranza che, come Rasori seppe criticare profondamente la teoria di Brown, egli possa ancora una volta, usando il suo grande talento e le sue vaste cognizioni, operare una metamorfosi a riguardo delle teorie del controstimolo.
Nel 1831, divenuto collaboratore di un nuovo periodico fondato a Padova dal fisico vicentino Ambrogio Fusinieri, gli «Annali delle Scienze del Regno Lombardo-Veneto», Zannini dà il suo contributo con uno scritto intitolato Memoria intorno al modo di soccorrere ai sommersi di recente ripescati(44) che traduce sul piano teorico le sue esperienze di medico in una città lagunare. A Venezia frequenti erano infatti le morti per annegamento; dopo un’attenta osservazione di ben ventotto cadaveri Zannini si era reso conto che non c’era alcuna relazione tra le ragioni per cui moriva un annegato e i metodi praticati per rianimarlo; era necessario dunque ricercare dapprima quale fosse la causa prossima della morte dei sommersi e poi il metodo «più confacente per richiamarli in vita»(45). Partendo dalla constatazione che l’uomo ripescato assomigliava all’uomo caduto in uno stato di asfissia, Zannini giungeva alla conclusione che l’immobilità del cuore dei «sommersi» fosse «di natura essenzialmente nervosa». L’interesse che la sua analisi poteva suscitare stava anche nella minuziosa attenzione con cui si soffermava sui metodi convenienti di rianimazione, senza farsi scrupolo di esprimere le sue critiche su pratiche antiche (l’insufflazione polmonare) e moderne (l’uso di piccoli mantici); infine nelle proposte sui metodi e i tempi da dedicare al soccorso dei ripescati, riguardevoli sul piano dell’etica medica(46).
5. La commemorazione di Giustina Renier Michiel
L’ingresso nel quarto decennio del secolo aveva visto a Venezia, dopo i moti del 1831 in Romagna, un’ulteriore chiusura della politica culturale del governo austriaco: sempre più scarsa la circolazione dei libri stranieri, più rigida la censura(47).
Un esempio del clima che si era instaurato a Venezia vede coinvolto lo stesso Zannini nel 1832 quando, un mese dopo i funerali di Giustina Renier Michiel, il 7 maggio 1832, egli pronuncia all’Ateneo un discorso commemorativo costituito da un proemio e da una illustrazione degli scritti dell’estinta(48), nonostante ne fosse già stato letto uno ufficiale dall’eminente storico Agostino Sagredo. Come mai? Il fatto era che proprio il giorno dei suoi funerali l’Ateneo aveva deciso, per la prima volta nella storia dell’istituzione, di ascrivere tra i suoi membri corrispondenti una donna, Rosa Taddei, poetessa estemporanea, di origine napoletana: un atto «nuovo del pari che inatteso», lo definisce Zannini, che pareva voler «bandire fin quasi la memoria» di Giustina Renier Michiel. Questo fatto aveva profondamente turbato anche i numerosi estimatori dell’autrice tra i quali quei membri dell’Ateneo con cui ella «aveva in comune» gli studi coltivati «con tanto onor della patria»(49).
Egli decide perciò di commemorarla una seconda volta per far sapere alla cittadinanza che la decisione dell’Ateneo non era stata unanime, né conforme al suo spirito originario, che avrebbe saputo riconoscere il merito dove veramente stava, ma espressione di un momento in cui i principi su cui si fondava l’istituzione erano stati dimenticati. Tuttavia, proprio per la sua contingenza, esso non poteva cancellare un operare costante di quella istituzione che a quei principi si era sempre conformata. Nessuno perciò, secondo Zannini, avrebbe potuto mettere in dubbio quest’ultimo fatto, soprattutto quei cultori delle lettere i quali conoscevano che «valore» avessero gli studi di Giustina Renier Michiel, che «merito la condotta loro», che «santità d’oggetto le loro intenzioni».
Era evidente che nel suo proemio Zannini aveva pronunciato parole forti che mettevano a nudo le contraddizioni di un Ateneo che, allontanatosi dai suoi ideali originari, si conformava allo spirito e alle tendenze della politica culturale del governo austriaco.
L’esclusione di Giustina Renier Michiel era evidentemente un’operazione di carattere ideologico voluta soprattutto dai membri della direzione dell’Ateneo vicini, se non appartenenti, agli organi di censura del governo. Tra i letterati e gli studiosi di quel periodo, ella era stata infatti colei che aveva interpretato quasi religiosamente quel compito di custode delle tradizioni che Silvio Pellico aveva definito essere quello degli scrittori, negli anni della Restaurazione. Implicitamente Zannini si riferiva proprio ad esso con l’espressione «santità d’oggetto». Pur tuttavia la sua opera Origine delle feste veneziane, a cominciare dal suo primo volume apparso nel 1817, fu soggetta alle attenzioni dei censori. Era allora direttore dell’Ufficio centrale di censura Bartolomeo Gamba, il quale era pesantemente intervenuto nella censura di parti della festa di S. Marco. Di ciò l’autrice si era fortemente lagnata scrivendo all’abate Carlo Adolli:
Se io scrivo cose da non potersi stampare, si tralasci la stampa, e questo fu il mio primo patto. Quindi il signor Gamba, o cambi foglietto, e si astenga d’ora innanzi di por mano di suo arbitrio nei passi controversi, ovvero siano per non istampati li primi otto fogli e siami renduto il manoscritto(50).
A provocare l’intervento di Gamba erano stati alcuni riferimenti ritenuti irrispettosi riguardo ai francesi e in particolare a Napoleone; soprattutto era stata stigmatizzata una sua allusione polemica alla demolizione della chiesa di S. Geminiano in piazza S. Marco. Erano anni in cui la politica culturale degli austriaci voleva assoluto silenzio su tutto ciò che aveva a che fare con la Francia e i francesi e particolarmente con Napoleone(51). Ma Giustina Renier Michiel leggeva nel passato i tempi, le vicende traumatiche del presente. Lo aveva sottolineato Luigi Carrer elogiando nella sua biografia l’autrice per il suo ritratto di Costantino Paleologo nel quale ella ravvisava Napoleone stesso. In questo caso era l’abate Pianton ad affermare nel 1823, all’uscita del suo terzo volume, che «il suo patrio affetto non la tenne in bilancia con la condizione dei tempi»(52). Fino al 1826, anno precedente all’uscita del quinto volume dell’opera, la censura non smette di prendere in considerazione il lavoro della scrittrice al punto che con qualche ironia ella afferma:
Mi risolsi di por l’ultima mano al mio Manoscritto, il quale se per una parte mi fa arrabbiare per le molte cancellature, per l’altra mi fa propriamente ridere per la qualità di queste. Oh le gran bestie! quando dico convien riflettere, convien osservare allora si cancella; quando non c’è questo, allora non vengono capite le cose più massiccie e palpabili. Cosicché avendo adesso imparato come si deve fare, mi trovo rianimata proseguire forse anche il mio lavoro, scrivendo le Feste straordinarie; ma a ciò vi è tempo ancora(53).
Undici giorni dopo la sua orazione pubblica Zannini riceve una lettera di riprovazione dalla presidenza dell’Ateneo a firma di Pietro Biagi(54). In essa si ignora completamente la distinzione da lui fatta nel suo discorso tra l’istituzione Ateneo e il suo agire contingente. Essa invece va subito ad affermare la non liceità di muovere critiche ad una posizione vincente quando se ne presentavano «due tra di loro conflittuali». La posizione maggioritaria — nel caso in questione quella che proponeva l’ascrizione di Rosa Taddei — una volta vinto «assorbiva» in sé quella contraria di Zannini che avrebbe avuto «il dovere» di conformarsi ad essa. Invece, nel pesante giudizio della presidenza, egli coglieva l’occasione della commemorazione della defunta per farsi «acerrimo censore» della decisione dell’Ateneo di ascrivere la poetessa tra i suoi membri e pronunciare «parole di vituperio e di contumelia» contro l’istituzione stessa.
Interessanti sotto il profilo politico le accuse mosse dalla presidenza a Zannini, secondo le quali tanto più grave e insultante risultava la sua presa di posizione in quanto egli avrebbe cercato di trarre vantaggio dalla presenza, in quella circostanza, da un lato «degli uditori delle classi più nobili e più colte», dall’altro dall’accorrere di un pubblico più vasto, proveniente da diversi strati della società veneziana, che in quel luogo si recavano mossi dall’«amore di patria» e dall’amore «di colei che n’aveva resi immortali i fasti». L’introduzione alla orazione elogiativa di Zannini si presentava perciò come «un libello ingiurioso» contro l’Ateneo e il confronto che in esso si proponeva tra Giustina Renier Michiel e Rosa Taddei, come un «artifizio» per strappare «ai più spensierati un effimero applauso». Di più la lettera, nei suoi ultimi paragrafi, rincara la dose dell’attacco offensivo contro Zannini definendo il suo comportamento come una «ignobile vendetta» per essersi trovato nel partito dei vinti. In conclusione la presidenza lo invita a ritrattare quanto scritto nel suo proemio prima della successiva tornata delle riunioni accademiche che si sarebbe tenuta il 21 maggio.
La risposta di Zannini a quella lettera è datata al giorno 20 dello stesso mese(55). Nell’esordio egli esprime la sua meraviglia al presidente, avvocato Pietro Biagi, che il suo discorso, per il quale aveva ricevuto da lui stesso le congratulazioni sia in pubblico che in privato, venisse, undici giorni dopo, fatto oggetto di censura. Gli ricordava che se allora pensava quanto scriveva, il regolamento dell’Ateneo gli dava la facoltà di sospendere l’adunanza, ma la sua autorità non andava oltre e concludeva: «Ella non può al presente mutare in censura l’applauso, e in condanna il bacio gratulatorio ch’Ella mi diede, appena compiuto il mio dire».
La veemenza delle affermazioni di Zannini derivava dalla profonda impressione che la sua orazione aveva fatto tra il pubblico al punto che era stata copiata senza il suo permesso. La cosa aveva suscitato le preoccupazioni di Gamba, capo censore sia sotto i francesi che sotto gli austriaci, che ne aveva parlato in una sua lettura tenuta il 14 dello stesso mese. Quest’ultimo era stato, come abbiamo visto, una vecchia conoscenza di Giustina Renier Michiel. Quali potevano essere nel 1832 le sue «preoccupazioni» rispetto all’elogio funebre pronunciato da Zannini che ripercorreva la vita e le opere della scrittrice? Il fatto era che tratteggiarne il profilo biografico, quindi la storia privata, equivaleva a rivisitare la storia delle vicende pubbliche di Venezia, a offrire uno stimolo a riflettere sulle condizioni in cui versavano i suoi cittadini(56).
Passando alla confutazione della lettera Zannini dapprima chiarisce la distinzione da lui operata tra il fatto avvenuto il giorno 9 di aprile, la nomina di Rosa Taddei, e «l’opera legale» dell’Ateneo. Se infatti l’Ateneo avesse operato secondo le sue regole, avrebbe dovuto far precedere quella decisione da un emendamento del suo statuto. Quanto era avvenuto era privo di valore legale, poiché egli lo attribuiva all’azione dei segretari, che scavalcavano la presidenza; quindi la nomina di Rosa Taddei era da considerarsi come «non avvenuta».
Con abilità dialettica Zannini fa emergere interessanti informazioni sui comportamenti dei vertici dell’istituzione e sui «partiti», ossia le correnti all’interno di essa. Veniamo a sapere che il presidente e il vicepresidente agendo conformemente alle leggi dell’Ateneo avevano «negato la propria firma al Brevetto Accademico preparato per la Taddei». Con questo comportamento, riteneva Zannini, essi avevano dimostrato di attenersi a quella distinzione da lui sottolineata. Era quindi in nome della stessa che egli «mosso dall’amor patrio e da quello della giustizia» aveva pronunciato il suo discorso e disconosciuto la nomina perché non esistente come opera dell’Ateneo. Egli però ci tiene a mettere in chiaro che quanto da lui pronunciato «non fu né allora né mai condotto in danno della Taddei»(57). La sua forza nasceva infatti «tutta» dal confronto «tra i meriti di questa improvvisatrice e quelli dell’Autrice delle Feste Veneziane, che non fu anteposta alla Taddei».
Egli confuta susseguentemente con i fatti quanto si affermava nella lettera, cioè che egli non avesse proposto il nome di Giustina Renier Michiel, cosa che invece fece nella seduta del 26 marzo dove ricorda che «la Taddei, a quel nome [era] caduta». Quest’ultimo fatto, ricordato dallo stesso presidente in una lettera presentata il 9 aprile, non fu però recepito da un’adunanza dominata, secondo il suo parere, da interessi di parti che non rispettavano nomi «anche se venerandi».
La posta in gioco era alta: «si trattava di decidere a quale fra le donne più illustri si dovesse l’unico onore di varcare la prima i limitari di questo Istituto». Egli era certo che l’Ateneo non «avesse un solo istante dubitato sulla scelta» per ragioni oggettive. Non c’erano infatti rivali che potessero, per «forza d’ingegno», «ampiezza di dottrina», «estensione interminata di fama», contrapporsi «al santo amore di patria, che informò il cuore, la mente e gli scritti della Michiel». Avviandosi a concludere Zannini ribadiva la sua tesi fondata sul riconoscimento, sulla legittimità di un unico Ateneo che lo portava ad annullare quella di qualsiasi altra sua espressione.
La risposta della presidenza viene a conclusione della riunione della tornata del 21 maggio. In essa si dichiara che volendo «procedere in via fratellevole e conciliatrice» — non ci si tratteneva però dal ribadire il biasimo per il proemio e la «disapprovazione» su atti e corrispondenza successivi — si ritiene come non «avvenuto» il proemio stesso e ogni altro atto e corrispondenza conseguenti. Cosa che viene effettivamente compiuta con la soppressione materiale dei documenti stessi intercorsi tra l’Ateneo e Zannini per l’anno 1832 e quindi anche della nomina di Rosa Taddei: il suo nome infatti non risulta nell’elenco dei membri corrispondenti. Delle due firme apposte in calce alla lettera la prima è di Ruggieri, che conosciamo, la seconda dell’abate Giovanni Bellomo(58).
Nella documentazione ufficiale dell’istituto bisogna andare alla pubblicazione, avvenuta nel 1838, dei Ricordi storici dell’Ateneo di Venezia degli anni dal 1827 al 1835-1836 di Luigi Casarini, membro ordinario e vicepresidente dell’istituzione stessa, per trovare un’implicita traccia degli eventi intercorsi tra l’aprile e il maggio del 1832(59). Nel riferimento a quell’anno infatti egli si sofferma soltanto — la cosa appare evidentemente studiata — sulla «tornata» del 27 febbraio, in cui ricorda un evento speciale per l’intrattenimento dei soci di quell’Ateneo: l’invito della signora Rosa Taddei — «poetessa estemporanea denominata la Licori napoletana» — presentata ora sorprendentemente come «emula della Michiel», che aveva lo scopo di «far gustare» agli accademici «i brillanti, e teneri concetti dell’estemporanea sua vena»(60). Scrive il vicepresidente, dedicando uno spazio inconsueto nell’economia della sua relazione all’evento, che in quattro degli otto argomenti estratti sui quali ella doveva improvvisare (l’anno quarantesimo di Francesco I; la vittoria dei veneziani sopra la flotta di Pipino; il diluvio universale; ed il primo saluto d’Eva all’Aurora nascente) «si mostrò superiormente invasa dall’estro fatidico». Egli è costretto a darne ovviamente solo qualche esempio anche se li ritiene non sufficienti «per ammirare gli slanci impetuosi, il tenero accento, e l’armonia del multiforme canto». La sua relazione non si limita a quanto detto; si sofferma anche a descrivere l’«effetto» che l’ascolto dei suoi versi (espressi nei metri usati dagli arcadi) aveva avuto sui presenti, che specifica essere stato il «rabbrividire», o il «sentirsi lusingare soavemente». In conclusione dà una valutazione del fenomeno dell’improvvisazione poetica come «prodigio» e dimostrazione della presenza divina nell’uomo «giacché par di vedere negl’invasi dell’estro lo sviluppo di una sovrumana potenza».
I ricordi del vicepresidente per l’anno 1832 si concludono senza nessun riferimento agli eventi menzionati, nemmeno all’elogio tenuto dallo storico Agostino Sagredo sulla figura di Giustina Renier Michiel che pure risulta nell’elenco delle relazioni di quell’anno. Sembrerebbe che si fosse voluto dimenticare quell’anno ma non si perdeva l’occasione, in sede conclusiva, di ritirare fuori l’argomento controverso del Gabinetto di lettura, riferendo la smentita di Ruggieri alle critiche mosse da qualche giornale «di non avere mai pensato alla istituzione di un Gabinetto di lettura». Ruggieri ribatteva che l’Ateneo lo aveva istituito fin dal 1820, «ricco di giornali e di opere di ogni maniera» (senza nominare però il suo fondatore Paolo Zannini), sostenendo che «fioriva ed era in pieno vigore in quel tempo medesimo che si muovevano tali ingiuste querele»(61). Una affermazione il cui tono lasciava invece trapelare che non era proprio così; prova ne era che nel luglio di quello stesso anno il libraio Missiaglia aveva aperto con il permesso del governo un Gabinetto di lettura, intitolato «da Apollo», in una Procuratia di piazza S. Marco. Questo divenne ben presto famoso e rimase in attività per sette anni, dopo i quali fu rilevato da «Il Gondoliere» di proprietà del banchiere Papadopoli, figura invisa alla polizia per le sue idee liberali; ma la nuova gestione, osteggiata dalla censura, durò poco(62).
L’atmosfera nell’ambiente culturale veneziano dopo i moti del 1831 era, come si è visto, piuttosto pesante. Ciò si riflette molto bene nella relazione dei lavori compiuti dalla classe di lettere per l’anno 1834-1835 dell’abate Giovanni Bellomo. Questi si sofferma in particolare sulla Lezione sopra il significato delle parole del nobile Parolari Malmignati, un filologo che a suo parere dimostrava buon fiuto politico, e ne esprime le ragioni nei seguenti termini che si commentano da sé:
poiché inoltrossi a considerare che la morale e la tranquillità stessa degli Stati coll’abuso dei vocaboli può rimanersi esposta a grave pericolo, in quanto questi male intesi, o maliziosamente adoperati, nella mente fan pullullare idee torte, o false del retto, del giusto, e dell’onesto; tali perniciosi effetti produssero negli anni trascorsi quelle risonanti parolone LIBERTÀ, LIBERALE, TOLLERANZA, TIRANNIA, SUPERSTIZIONE, PATRIOTA. Qui a validissima prova va egli toccando le piaghe ancor troppo recenti delle passate rivoluzioni(63).
Dopo la controversia tra l’Ateneo e Zannini dell’anno 1832 il nome di quest’ultimo scompare dalle relazioni e dai rendiconti delle attività delle classi dell’Ateneo. Tuttavia Zannini è attivo culturalmente nell’ambito del liberalismo moderato veneto, ma anche di altre regioni d’Italia. Diventa in quei primi anni Trenta collaboratore del periodico «Il Gondoliere», diretto da Luigi Carrer, e dell’«Antologia» di Firenze diretta da Vieusseux. Il Saggio della vita e degli studi di Giustina Renier Michiel aveva, dopo l’orazione pronunciata davanti all’Ateneo, continuato a circolare tra gli estimatori della scrittrice ed era stato messo a disposizione di Carrer dallo stesso Zannini per la compilazione del profilo biografico che lo scrittore e poeta doveva preparare per le biografie degli uomini illustri di Emilio De Tipaldo(64). In esso Carrer si era rammaricato che un saggio di così notevole qualità non fosse stato ancora pubblicato. Comparirà di fatto solo nel 1841 nella Iconografia italiana degli uomini e delle donne celebri pubblicata a Milano(65), in un momento in cui la sensibilità collettiva nel Lombardo-Veneto si apre a recepire i temi della cultura romantica attraverso le opere di Carrer e di Tommaseo(66). Si avvertiva meglio infatti in quel periodo la rilevanza che un’autrice come Giustina Renier Michiel aveva dato al tema e alla costruzione del sentimento di «patria»; quest’ultimo non veniva allora confuso con un desiderio di nostalgico ritorno al passato ma inteso come consapevolezza di valori comuni in cui si riconosceva la sensibilità popolare che, nella memoria delle sue tradizioni, rafforzava il senso stesso della sua identità e maturava una crescente aspirazione alla propria indipendenza dallo straniero. Questo era il senso della espressione «amor di patria», ricorrente negli scritti di Zannini, la cui manifestazione scritta abbiamo visto essere fortemente temuta dalla censura di quei tempi(67).
6. Il necrologio di Pietro Buratti
Nel settembre 1832 Zannini pubblica a Firenze nell’«Antologia» di Vieusseux un articolo scritto pochi giorni dopo la morte quasi contemporanea di due poeti veneziani, Antonio Lamberti e Pietro Buratti(68). Il primo moriva settantacinquenne dopo che l’età e la salute malferma — precisava subito Zannini — avevano «inaridita la sua vena poetica»; il secondo, sessantenne, di morte improvvisa ancora nel «pieno vigore del potente suo ingegno». Una doppia perdita che egli definiva «fatale» per la poesia veneziana perché faceva presagire una possibile sparizione della «soavissima fra le lingue municipali d’Italia». I versi di Lamberti avevano conosciuto il favore della stampa, mentre non era così per quelli di Buratti la cui «infinita produzione» era per la maggior parte sconosciuta. Da qui Zannini avvia un’analisi delle caratteristiche, della qualità, del valore della produzione del poeta che viene a costituire la quasi totalità dell’articolo. Egli lascia subito intendere di essere stato nel numero di coloro che, avendo ottenuto la confidenza del poeta (non è impossibile che ne fosse stato anche il medico), aveva potuto leggerne i versi o udirli recitati da lui; il che sottintendeva una sua autorevolezza nel poterli giudicare. Anche se il fatto di essere numerose non significava «eccellenza» di tutte le produzioni di Buratti, egli crede di ravvisare il loro pregio fondamentale nella «scelta e verità dei concetti», nella forza dello stile, nella «evidenza». È sulla caratteristica della «verità» che egli insiste particolarmente definendola un «demone» che aveva tormentato l’intera vita del poeta fino a divenire il motore della sua poesia finalizzata a colpire le passioni «basse» degli uomini:
Ma gli scritti suoi ferivano il vizio in qualunque forme si presentasse; ferivano il delitto, fosse pure tollerato o anche protetto dalla forza pubblica; ferivano l’ipocrisia, per quanto andassero rispettate le vesti di cui si copriva; ferivano la mediocrità presuntuosa, la finta sapienza, il folle orgoglio della nascita, il fastidio insolente della ricchezza, e tutte in somma le basse, o dannose, o ridicole passioni degli uomini(69).
Zannini mette in evidenza le conseguenze di un simile modo di far poesia che significava subire l’anatema di coloro che venivano presi di mira dai suoi versi.
Non si può non percepire in questa presentazione dei contenuti della poesia di Buratti la qualità letteraria della scrittura di Zannini per lo stile e la penetrazione critica dei suoi giudizi. Essa raggiunge uno dei suoi punti più alti nel momento in cui l’autore sa equilibrare l’ammirazione con la critica laddove, definite le grandi capacità del poeta di conoscere fino in fondo il cuore umano, le rivela impotenti a sottrarsi all’uso delle espressioni di un linguaggio scurrile imparato nel periodo giovanile vissuto nella dissolutezza. Tuttavia Zannini sottolinea con forza che l’uso fattone da Buratti veniva «chiamato» dalla natura stessa dei vizi che egli stigmatizzava e non dal suo animo che era «naturalmente gentile», aperto all’amore, all’amicizia, alla compassione(70). Egli ravvisava le sue doti maggiori, oltre che nella compassione, nell’umanità, anche «principalmente» nella lealtà e nella sincerità: «Molti potranno dolersi del Buratti, perché abbia narrato ciò, ch’era bello tacere, ma niuno potrà dire giammai in faccia alla propria coscienza: Buratti ha mentito»(71).
Nella parte conclusiva Zannini ritorna sulle opere di entrambi gli autori, Lamberti e Buratti, soffermandosi dapprima sulla consistente produzione di Lamberti — sia in dialetto che «nella lingua comune d’Italia» —, le cui opere erano tutte pubblicate, poi su quella di Buratti, le cui opere erano invece «pressoché tutte inedite». Egli voleva tuttavia mettere in guardia chi volesse giudicare quest’ultimo dai pochi versi stampati a Venezia «mutilati» — con evidente riferimento, anche se non la nomina, alla censura — oppure «scorrettamente» pubblicati in altro luogo senza il consenso del poeta. Le sue opere invece, ordinate cronologicamente e raccolte in dieci volumi, attendevano ancora di essere date alle stampe.
Sull’episodio dei versi di Buratti stampati fuori Venezia si era già soffermato Stendhal, di cui è nota l’ammirazione per il poeta le cui opere egli giudicava tra gli esempi più perfetti di poesia satirica(72). Infatti in un profilo che aveva scritto su di lui nello stesso 1832, in occasione della sua morte, per la Bibliografia universale dell’editore Fune, affermava: «Hanno osato pubblicare a Lugano, verso il 1822, i meno sconci tra i suoi poemi, le cui copie manoscritte, che circolano in terra veneziana, formano 4 volumi in-4°»(73). Tuttavia, mentre Stendhal poteva permettersi di scrivere di Buratti nel suo breve profilo che «l’indipendenza delle sue opinioni lo fece spesso finire in prigione», Zannini non fa nel suo necrologio affermazioni che si riferiscano direttamente ad interventi della polizia austriaca nei confronti del poeta. Ciò non sarebbe stato possibile in quel momento nemmeno in Toscana, dove il sistema della censura era più tollerante. Ma gli effetti del clima politico generale conseguente ai moti del 1831 in Emilia Romagna si sarebbero fatti sentire due anni dopo anche a Firenze: l’«Antologia», dove Zannini aveva potuto liberamente pubblicare il saggio su Buratti, pochi mesi dopo, nel marzo del 1833, viene per decreto granducale soppressa con un intervento di vera e propria «polizia politica» sotto la spinta della richiesta dei due ambasciatori di Austria e di Prussia(74).
7. Il «Giornale per servire ai progressi della patologia e della materia medica»
Gli anni 1833-1834 vedono Zannini molto attivo nella sua professione e nella collaborazione con giornali e periodici di carattere medico. Si era sempre più diffusa in quel periodo la Nuova dottrina medica italiana propagata da Tommasini che aveva la sua roccaforte nell’Università di Bologna. In quegli anni quest’ultimo tentava due tipi di operazioni: inglobare nel proprio sistema dottrinale i temi di una medicina che era in via di trasformazione(75) e adeguare ai tempi — che erano quelli della Restaurazione — la visione delle prospettive della medicina che Rasori aveva concepito negli anni seguenti la Rivoluzione francese. L’esito di questo programma doveva definirsi nel suo progetto appunto come Nuova medicina italiana. Ma il piano di Tommasini mostrerà ben presto la sua debolezza e sarà destinato a fallire. È possibile avvertire tutto ciò nelle lettere che Zannini e Thiene si scambiarono nel 1833: esse si soffermano criticamente sulla dottrina della flogosi di Tommasini, intesa come causa di tutte le malattie, e in particolare sulla caratteristica, da lui sostenuta, della sua «indole perpetuamente attiva»(76).
Zannini e Thiene nelle loro lettere non si intrattenevano soltanto su questioni teoriche ma accennavano anche più o meno estesamente ad aspetti della loro attività medica privata e ospedaliera. Nel 1834 entrambi collaboreranno ad un nuovo periodico, il «Giornale per servire ai progressi della patologia e della materia medica». Questa pubblicazione, che contemplava tra i collaboratori medici noti quali Maurizio Bufalini, mostrava di credere che la medicina sarebbe «progredita» con l’affermarsi del metodo analitico e sperimentale(77).
In quel volume il contributo di Zannini verteva sul tema delicato delle malformazioni naturali della vagina (atresie), che impedivano il sopraggiungere della prima mestruazione in giovinette giunte alla pubertà, di cui era oscura l’origine morbosa e «oscurissimo il modo di soddisfare alle tradizionali indicazioni curative per il medico e il chirurgo»(78). Nel suo saggio egli si soffermava su tre casi di questa natura, in uno dei quali si erano prima di lui cimentati anche alcuni dei più famosi medici italiani e francesi. Presentandone le storie Zannini coglieva l’occasione per proporre il punto di vista dell’anatomia patologica, scienza che si era andata affermando al di fuori dei sistemi, allo scopo di chiarirne la natura e la metodologia contro i suoi critici che la accusavano di assolutizzare i fatti: «La anatomia patologica non si compone solamente di nudi fatti; ma le giuste induzioni o fallaci che se ne traggono, e i ragionamenti diretti ad illustrarli o a mostrarne le illusorie apparenze sono parte essenziale e gravissima della stessa»(79). Intendeva perciò mostrare la sua importanza ed efficacia nel rendere proficua la spiegazione, la discussione e la conseguente ricerca di soluzione di casi così complessi e difficili come quelli che si accingeva a presentare.
Sulla discussione delle diagnosi e dei metodi adottati per la guarigione della malattia si sofferma fin dal primo caso dove l’ammalata, una giovanetta di quindici anni, che egli aveva potuto esaminare solo molto tardi rispetto all’inizio della malattia, muore poco dopo la visita. Dall’analisi di questo caso coglie l’occasione per affermare la necessità di procedere immediatamente con l’intervento chirurgico nella cura dei casi di atresie della vagina, una volta che esse si fossero chiaramente manifestate(80). Questo giudizio tuttavia non gli impedisce di riconoscere — come sarà nell’illustrazione del terzo caso, riguardante una sedicenne proveniente dalle montagne del Bellunese, ricoverata all’Ospedale civile di cui Zannini era allora protomedico — che l’operazione immediata poteva in alcuni casi molto complessi mettere a rischio la vita stessa dell’ammalata, per cui era opportuno attendere il maturarsi di alcuni chiari sintomi clinici prima dell’intervento(81).
Nella scrittura di questi casi non è solo l’ambito strettamente medico a mostrarsi interessante — se non altro sul piano dell’anamnesi — ma anche quanto essa rivela del livello di attenzione e di ascolto dei pazienti mostrato da Zannini. Nel contesto preso in esame si tratta di fanciulle o di donne giovanissime. Nella seconda storia, ritenuta dai contemporanei la più significativa sotto il profilo medico(82), egli riferisce il racconto che la giovane donna dell’età di vent’anni, protagonista della storia stessa, fa della propria malattia i cui sintomi aveva avvertito già sette anni prima. Nelle motivazioni da lei esposte sulla resistenza che aveva sempre opposto all’esame esplorativo del medico, si riflettevano le sue paure ma naturalmente anche le credenze e i pregiudizi sociali del tempo che avevano pesantemente condizionato le possibilità di cura. Tuttavia Zannini le riferisce senza frapporre alcun giudizio personale, con grande rispetto e delicatezza per l’ammalata.
Allo stesso «Giornale» collaborava anche il giovane medico Giorgio Zuanin, allievo e assistente di Zannini all’Ospedale civile di Venezia, che muore prematuramente nel luglio 1834. Su di lui egli scrive un necrologio, che apparirà ne «Il Gondoliere» del 19 luglio, quattro giorni dopo la morte, nel quale tratteggia la sua personalità in modo commosso e penetrante e nel contempo il profilo del tipo di medico dei nuovi tempi che si andavano delineando(83). Questi, dopo aver acquisito la sua preparazione nelle migliori università italiane, era divenuto suo assistente e poi medico secondario all’Ospedale civile di Venezia. Spinto dal bisogno di confrontarsi con altre culture mediche aveva visitato i più famosi ospedali dell’Europa settentrionale dove — affermava Zannini — «liberandosi dai pregiudizi nazionali, aveva imparato a guardarsi dalle straniere millanterie». Il governo veneziano del tempo seppe riconoscere il valore della sua persona e lo nominò medico primario dell’Ospedale; questo prestigioso incarico tuttavia non gli aveva impedito di programmare un viaggio di studio in Inghilterra e in Francia per confrontarsi anche con le medicine di quei paesi. Fu colto però da una malattia «crudele», che vinse la «lotta» e il prodigarsi assiduo dei medici suoi amici per guarirlo e morì non avendo ancora raggiunto l’età di trent’anni. La prosa intensa ma pacata con cui Zannini traccia il profilo del giovane medico si accende nel momento in cui lo descrive in mezzo ad una divisione ospedaliera pronto «a raffrontare indefesso i precetti della scuola agli esempi della pratica», trovando nella «autorità evidente dei malati» il luogo della conferma o della smentita delle teorie scritte e quindi del definitivo ammaestramento del medico. Quando indugia sulle sue caratteristiche interiori raggiunge note alte nella capacità introspettiva («Ebbe l’animo sensibile alle impressioni dell’amicizia e gratissimo ad ogni ombra di beneficio; sicché la fede e la riconoscenza erano per lui un diletto piuttosto che un dovere») che evidenziano l’intenso legame che lo univa a questo giovane la cui morte — dirà nella conclusione parlando di se stesso in terza persona — fu pianta principalmente da quello «che, sua guida da principio, aveva esultato nel salutarlo a compagno».
Nella seconda metà degli anni Trenta si era diffuso a Venezia il colera. Interessante al proposito la lettera di Zannini del 29 maggio 1836 all’amico Thiene in cui si sofferma sulla pericolosità della malattia che in quell’anno aveva mietuto molte vittime tra la popolazione veneziana fino a raggiungere in una sola giornata dei primi mesi di quello stesso anno un picco di novanta casi; la cifra — egli affermava — era superiore alla media, che nei giorni di maggio si aggirava sui sessanta o settanta casi giornalieri. Nel suo resoconto è ancora più preciso sulle cifre degli ammalati e dei morti a causa del propagarsi della malattia:
Fino alla mezzanotte avanti ieri, questa seconda infezione ci diede 1734 ammalati, 910 morti; né basta ancora: perché gl’incendi, lasciati senz’acqua, non si estinguono che a combustibile finito. E in Venezia ce n’è ancora di molto.
È addirittura costretto a smettere di scrivere per accorrere alla Giudecca, zona assai popolata «ove ci si ammala a rotta di collo»(84).
8. La morte di Francesco Aglietti: il necrologio e la biografia dell’allievo
Il 3 maggio dello stesso 1836 si spegneva dopo lunga malattia Francesco Aglietti e «Il Gondoliere» ne affidava a Zannini il necrologio(85). In esso l’allievo ripercorre la vita del maestro, le sue cariche professionali — a cominciare da quella di professore di Anatomia del Collegio dei medici di Venezia — e culturali, con particolare attenzione a quelle conseguite al ritorno in città dei francesi nel 1807, che lo videro «restauratore della Società veneta di Medicina» e «uno de’ più possenti fondatori dell’Ateneo di Venezia», fino a giungere all’ultima di consigliere protomedico sotto il governo austriaco. In seguito al suo pensionamento (stato nel quale «fu posto con pingue emolumento», afferma Zannini facendo intendere quanto il governo austriaco ci tenesse ad allontanarlo dalla sfera pubblica a causa delle sue simpatie carbonare) egli era ritornato all’esercizio privato della medicina. Ricordata la fondazione del «Giornale per servire alla storia ragionata della medicina di questo secolo» (nel 1783) e la sua opera incessante all’interno di esso, ne ripercorre gli studi e gli scritti, giudicandoli in quanto a numero «minori della sua fama», e non proporzionati quanto a qualità e respiro alla «grande dottrina» che possedeva. Un’unica eccezione rilevava Zannini, quella che vedeva coinvolto lui stesso, l’allievo, assieme al maestro nel progetto di tradurre e risistemare l’opera di Morgagni De causis et sedibus morborum, sulla quale così si esprime:
Una volta sola intese la mente alla composizione d’un’opera di lunga lena, e scelse il compagno dell’arduo lavoro: ma alcuni avvenimenti inaspettati tolsero l’animo al maestro e al discepolo; e dell’opera non rimase che lo splendido divisamento.
L’allusione era chiaramente diretta al ritorno degli austriaci che aveva troncato il progetto iniziato solo due anni prima e che i due avevano previsto di portare avanti per lungo tempo. Il necrologio proseguiva con il giudizio dell’allievo sulle facoltà intellettuali del maestro e sulle sue qualità morali, scritto senza veli, senza falsi pudori, in maniera obiettiva, e sicuramente anticonformista, come era nello stile di Zannini. In conclusione, definiva la vita di Aglietti «piuttosto felice e tranquilla che fortunosa», sostenuta da una salute «robusta» fino all’età di settantuno anni quando fu colto, il 4 agosto 1829, da un attacco di apoplessia. Una data e un anno che segnavano, secondo Zannini, lo spegnimento reale di quella vita, come sottolinea con sincerità e senza mezzi termini nella parte conclusiva:
L’Aglietti da noi conosciuto ed amato, riverito dagli stranieri, venerato dai dotti, avuto in pregio da principi e monarchi s’era spento il dì 4 agosto 1829; e solamente la larva di Aglietti fu quella che disparve nella mattina di ieri(86).
Quattro mesi dopo egli scriverà anche la biografia del maestro e amico, dopo aver preso atto con rammarico che nessuno ancora si era fatto avanti a pubblicarne una che stabilisse quale posto Aglietti doveva occupare nella storia delle scienze e delle lettere(87).
Ai suoi intenti nei riguardi di questo lavoro, al modo in cui fu accolto a Venezia, fa riferimento la lettera del 28 ottobre 1836 con cui risponde all’amico Thiene che gli aveva scritto le sue reazioni dopo la lettura dell’opera. Quest’ultimo, nell’esprimergli l’effetto prodotto sulla sua «mente» dalla lettura della biografia — quello cioè del «microscopio per gli occhi» —, rivela secondo Zannini «l’intenzione» con cui egli stesso l’aveva scritta. Tuttavia egli vuol sottolineare l’assenza nei suoi giudizi di qualsiasi adulazione («io non adulo nissuno, e nemmeno Aglietti, che pure amai con tutto il cuore») e lo invita a rileggere i tratti dove istituisce confronti tra il maestro e altri famosi medici del passato:
Né mi passò per la mente di paragonarlo al Santorini, meno ancora all’unico Morgagni. Dissi soltanto, ch’egli ridestò lo studio dell’anatomia patologica in Venezia, dove era morto; e questo è vero. Dissi pure, che egli superò i suoi contemporanei veneti nelle cognizioni anatomico-patologiche; e anche questo è vero, senza essere tuttavia un grande elogio. Amo che siate persuaso, che in mia mano la verità, almeno me consenziente, non è mai alterata.
Si sofferma inoltre sui commenti negativi dell’ambiente veneziano intorno all’opera e sulle lodi dello scrittore Pietro Giordani:
Vedete la sorte degli scritti che si commettono al pubblico! Mentre la lettura di quella Biografia aggrandiva Aglietti a’ vostri occhi, v’è in Venezia chi sostiene, non essere dessa che una satira di Aglietti, vestita con accorte sembianze di lode. Io rido, come ben potete credere; e rido ancor più, dopo che Giordani scrisse ad un suo amico di qui: fate a Zannini le mie congratulazioni per il suo nobile lavoro. E Giordani, come sapete, è il tribunale supremo nel fatto dello scrivere(88).
Il suo scritto raggiungeva davvero momenti alti, come nelle pagine in cui mostra la natura del rapporto tra lui e Aglietti che era stata tale da andare oltre quella di maestro-allievo, fino a raggiungere le caratteristiche di un vero e proprio sodalizio. Egli era perciò in grado di giudicare in profondità quali fossero state le ragioni del fatto che Aglietti, uomo di così vasta dottrina, avesse in realtà lasciato pochi scritti. Esse riguardavano lo studio «infinito» della medicina; «le occupazioni della sua clinica privata»; «quelle di tutti i pubblici Offizii medici di Venezia»; «gli allettamenti delle arti belle»; «quelli del vivere sociale». Belle le pagine in cui rievoca il momento del concepimento del piano di traduzione e rivisitazione dell’opera di Morgagni De causis et sedibus morborum; l’ampiezza del suo respiro; l’orgoglio di essere stato prescelto «a compagno» dell’impresa del cui fallimento aveva già nel necrologio indicato le cause(89).
All’amico Thiene, che lo esortava a riprendere in mano da solo il lavoro su Morgagni, Zannini ricordava che erano cambiate le condizioni e le motivazioni che lo avevano spinto nel passato all’impresa, per la quale nei tempi presenti non potevano bastare tutte le forze di un uomo solo, e affermava addirittura: «A’ dì nostri sarebbe indizio di pazzia il solo pensarci»(90).
9. La Teoria della flogosi di Rasori e la crisi della medicina contemporanea
Nel 1837 era uscito l’ultimo lavoro di Rasori che portava il titolo di Teoria della flogosi, ossia dell’infiammazione, argomento giudicato da Zannini assai rilevante e sul quale si era spesso soffermato con Thiene, nel quale si congiungevano in quei tempi «gli interessi della salute umana». Zannini stesso ne fa una recensione in forma di lettera all’amico Thiene pubblicata nel «Giornale per servire ai progressi della patologia e della materia medica»(91). Questi gli aveva scritto esprimendogli il piacere che aveva provato nel leggerla. Nella risposta del 29 agosto 1837 Zannini sottolinea l’intento del suo lavoro: «ò voluto che si veda come un autore, che né voi né io stimavamo come medico, à trovato in me un difensore e in voi un giudice propizio, subito che rivolse le potenti forze del suo ingegno alla ricerca della nuda verità»(92). Come afferma Zannini nella sua recensione, Rasori era stato una figura di medico dalla personalità controversa, che aveva avuto un ruolo preminente nella storia della medicina della quale «era parte principalissima», «primo in Italia fra i medici di questo secolo così per la potenza dell’intelletto, come per l’arte del bello scrivere», alludendo con queste parole al suo vasto impegno nel campo delle lettere(93).
Fin dagli inizi degli anni Trenta i due amici, Zannini e Thiene, avevano avuto modo di commentare un certo qual decadimento all’interno dell’arte medica nel momento in cui i medici stessi consideravano la flogosi come la causa di pressoché tutte le malattie. Zannini riteneva che Rasori stesso, visto l’andazzo dei tempi che non avrebbero saputo recepire «il lento linguaggio e tranquillo della sperimentale filosofia», si fosse trattenuto dal rendere pubblico il suo pensiero attendendo un tempo migliore, la fine cioè di quegli anni Trenta in cui il clamore intorno alla dottrina era scemato ed essa veniva ad assumere il giusto posto all’interno della teoria medica(94).
Rispondendo a Thiene, il quale voleva che egli tirasse delle conclusioni sulla flogosi partendo dalle sue esperienze di anatomo-patologo, Zannini affermava che l’opera stessa di Rasori poteva soddisfare questo suo desiderio per la capacità che questi aveva «a ben osservare», imparata alla scuola di Spallanzani, che si traduceva in lui nella «facoltà di scernere le parti vere di un fenomeno, scoprirne le cagioni, legarle tra loro e coi loro effetti, innalzare per questa via i fatti materiali visibili da tutti, ma che tutti non intendono, alla dignità di principi inconcussi di una scienza sperimentale!»(95).
Secondo Zannini le dottrine esposte da Rasori erano «cavate con mirabile uso di logica induttiva da fatti reali, incontrastabili». Egli vedeva la possibilità di ricavare oltre a quelle dell’infiammazione ben altre dottrine: «la logica, la fisica sperimentale, l’anatomia patologica e la pratica medicina hanno ognuna di che ristorarsi a questa fonte di vera sapienza»(96). Lo scopo dell’opera di Rasori non era di arrivare ad affermare quale fosse «l’essenza ultima di tutte le infermità, […] quell’intima mutazione» che viene a configurarsi come causa prima di ogni malattia; essa invece indicava «la via per la quale corre la flogosi nel comporre se stessa e nel dare i suoi prodotti; cosa essa può, e cosa non può; quali effetti si debbano aspettare dall’opera sua, e di quali si abbia a cercare altrove le cagioni»(97).
Le osservazioni conclusive della lettera-recensione si soffermavano sulle conseguenze della «ricca eredità» che l’opera lasciava ai medici italiani, il cui effetto sarebbe stato di far loro riconoscere concordemente che non per altre vie che quelle del saper osservare ci si poteva «aspettare il progresso della medicina [se non] mercé l’accorta osservazione dei fatti, e l’induzione di sole quelle conseguenze, che da fatti veri, ripetuti e insieme rafforzati seriamente, nettamente e costantemente derivano. Qualsiasi altro metodo sarebbe ludibrio della scienza e dell’arte»(98). L’opera lasciava in eredità un metodo dopo un lungo periodo di sbandamento dell’arte. Era stata scritta vent’anni prima e da allora non era uscito alcun lavoro di una tale «solidità», «dottrina», «chiarezza di esposizione», «eleganza del dire», «utilità» e di così alta levatura. Un giudizio dalle espressioni entusiastiche che si chiudeva con questa constatazione: «Consoliamoci mio caro che l’antico valore non è ancora spento nei petti italiani»(99).
Alla recensione della Teoria della flogosi e ai giudizi di Zannini su Rasori si rifà la lettera del 20 luglio 1838 a Thiene, dove in un rapido accenno allusivo si comprende che quest’ultimo aveva delle divergenze con l’amico nel considerare le intenzioni di Rasori(100). La lettera è però interessante soprattutto nel capoverso finale dove offre uno sguardo sullo stato della «medicina pratica» a Padova, che sembrava essere andata secondo Zannini alla «deriva» per i metodi di cura della medicina tommasiniana che facevano ricorso a dosi elevatissime (50, 60 grani) del solfato di chinina per polmoniti, meningiti, malattie cardiache, e con ironia mista a sconcerto egli scrive: «È vero, che quando quegli infermi ànno veramente quelle malattie, muoiono; ma questo non importa: tanto e tanto quel sale di china rimane il più potente fra gl’ipostenizzatori del sistema vascolare, che si conoscano. Oh, amico mio, andiamo a dirotto verso il peggio!»(101).
Nella stessa Padova moriva il 23 dicembre del 1839 Giuseppe Montesanto, personaggio di rilievo nel mondo della medicina padovana a cui Zannini era legato fin dagli anni dei suoi studi universitari. Egli ne scrive un profilo biografico per Tipaldo che verrà poi pubblicato anche per i tipi de «Il Gondoliere» nel 1841(102). La biografia si presenta come un lavoro complesso, impegnativo in cui Zannini offre un’ampia analisi dell’ambiente medico padovano a cavallo tra Sette e Ottocento. Essa ripercorre le teorie e la pratica della medicina del Regno lombardo-veneto, i mutamenti all’interno dell’Università padovana con l’avvicendarsi dei regimi politici che avevano reso impossibile a Montesanto, pur essendo uomo di vasta dottrina, di conseguire la cattedra universitaria, il tutto condotto con grande lucidità e robusto senso critico. Anche in questa biografia, come in quella di Aglietti, la scrittura riflette nello stile lucido, denso, la chiarezza mentale, l’indipendenza di pensiero del suo autore.
Era evidente tuttavia che qualcosa stava cambiando all’interno della sfera medica alla fine degli anni Trenta: si trattava proprio dell’incrinarsi della dottrina medica che faceva capo a Tommasini. Già l’apparire di riviste come il «Giornale per servire ai progressi della patologia e della materia medica», a cui collaboravano medici che diverranno sempre più importanti nei decenni successivi come Giacinto Namias, mostrava che si andava riaffermando in campo medico il filone anatomo-clinico apparso all’inizio dell’Ottocento in Europa. La stessa corrispondenza tra Zannini e Thiene agli albori degli anni Quaranta fa comprendere come si volesse andare verso un superamento delle controversie nazionalistiche (medicina francese, medicina italiana), degli arroccamenti difensivi, delle appartenenze dei medici alle varie scuole(103).
Nella lettera del 4 agosto 1841, scritta da Zannini due anni prima di morire, egli ritorna sulle teorie di Tommasini, mentre sta leggendo il terzo volume delle sue opere(104), per sottolinearne la ripetitività, la pochezza degli stimoli concettuali:
È sempre la stessa corda che oscilla; rovesciata la pazza proporzione delle malattie steniche con le asteniche insegnata da Brown; stabilito, che nove decimi di tutte le infermità siano flogistiche; e dedotto, per conseguenza inevitabile, che nove decimi di tutti i medicamenti siano contro stimolanti.
Era un libro, secondo Zannini, che sarebbe piaciuto per lo stile «facile» con cui era scritto e che avrebbe fatto pensare a chi lo leggeva di aver capito quello che in realtà non aveva capito. Egli prevedeva che nel giro di vent’anni con l’esaurirsi «delle opinioni correnti» sul piano della medicina sarebbe divenuto solamente oggetto di erudizione. Significativamente vedeva invece nella Teoria della flogosi di Rasori, «combattuta con senile puerilità da Tommasini», un risultato che si sarebbe rivelato duraturo: «vivrà in Italia [affermava] finché vivrà l’amore all’esatta osservazione, al meditare profondo e alla cultura vera ed efficace delle lettere».
Zannini seppe veramente predire quanto poi sarebbe accaduto. Infatti alla metà del secolo lo sviluppo della scienza medica in senso anatomo-patologico, dopo il naturale decadimento di una medicina legata ai sistemi, si ricongiunge alla tradizione che era stata di Morgagni senza tuttavia tralasciare i punti fermi della medicina dei primi decenni dell’Ottocento che portavano l’impronta di Rasori. È significativo che proprio la sua ultima opera, sulla flogosi, venga avvertita come l’anello di congiunzione, il discorso sul metodo di un nuovo periodo della medicina finalmente liberatasi dai sistemi che si affermerà nei decenni successivi.
10. Il profilarsi di un nuovo clima culturale
La fine degli anni Trenta registra dei cambiamenti anche all’interno dell’Ateneo, con l’avvicendarsi di nuove persone nei suoi organi direttivi che portano un’aria di novità dentro l’istituzione (rilevante l’elezione di Tipaldo alla vicepresidenza; di Giovanni Minotto come segretario per le scienze e le arti meccaniche); effetto dei cambiamenti intercorsi era stata anche la nomina a socio onorario –– risulta infatti nell’elenco dei soci dell’anno accademico 1838-1839 –– di Zannini che negli anni precedenti era stato tenuto fuori da ogni carica(105). È da dire tuttavia che, se come socio onorario non aveva ruoli attivi dentro l’Ateneo, non se ne stava con le mani in mano per quanto riguardava l’organizzazione delle attività culturali all’interno della città. Visto che «Il Gondoliere» aveva fallito nell’impresa di mantenere aperti Gabinetto di lettura, libreria e biblioteca circolante, rilevati dal libraio Missiaglia, per i continui ostacoli frapposti dalla polizia avversa a proprietario e direttore, Zannini, in collaborazione con Luigi Carrer e con il dottor Fario, socio ordinario dell’Ateneo Veneto, si propone di costituire un altro Gabinetto di lettura. Quest’ultimo non sarebbe stato sostenuto economicamente da un singolo proprietario ma da un insieme di soci per una durata prevista di non più di due anni; si sarebbe intitolato Società del Gabinetto di lettura e avrebbe avuto un presidente di nomina annuale. I tre ottengono dal governo il permesso di aprire il Gabinetto di lettura e l’ammissione di un buon numero di giornali scientifici, letterari e politici sia italiani che stranieri. La Società che non aveva scopi di lucro si fondava, per mantenersi economicamente, sulle sottoscrizioni dei frequentatori del Gabinetto e il sostegno di distinti personaggi le cui caratteristiche dovevano essere di avere «a cuore il patrio decoro» (ricompare qui un’espressione cara a Zannini), e di voler contribuire a farne un «ornamento del paese, e [una] testimonianza della veneta civiltà» (un fine più volte espresso da Carrer). Si sa che l’iniziativa fu accolta favorevolmente dai cittadini veneziani i quali riuscirono a mantenerla in vita(106).
Al passare dagli anni Trenta ai Quaranta gli stessi Ricordi storici — redatti ora da Tipaldo divenuto vicepresidente dell’Ateneo –– e le relazioni della sezione letteraria –– curate da Luigi Carrer divenuto segretario della classe di scienze morali, lettere e arti — facevano avvertire un diverso clima all’interno dell’Ateneo Veneto che si era tradotto in alcune rilevanti innovazioni. La più importante era costituita dalla pubblicazione delle nuove aggiunte allo statuto dell’Ateneo in data 7 marzo 1842. Tra queste le più delicate erano quelle riguardanti il Gabinetto di lettura. Veniva riconfermato il suo affidamento al vicepresidente che si prevedeva fosse coadiuvato da un socio di sua scelta, ma si aggiungeva la seguente importante precisazione: «sotto l’osservazione di un Regolamento proposto dallo stesso Vice-Presidente ed approvato dall’Ateneo». Quest’ultima disposizione, come si può rilevare, veniva a stabilire un certo qual controllo del potere, precedentemente incondizionato, del vicepresidente stesso; inoltre si affermava la possibilità dei soci corrispondenti di usufruirne previa quota annuale(107).
Nei Ricordi storici continuati da Tipaldo per gli anni accademici seguenti si ritorna sul Gabinetto di lettura con una ben diversa analisi dello stato in cui versava rispetto a quella fattane dieci anni prima da Ruggieri:
Anche il Gabinetto di Lettura, sprovveduto per lo innanzi quasi affatto di giornali scientifici e letterari, mercé la liberalità di alcuni fra’ socii, è, quanto basta fornito; e due fra’ più reputati giornali, divenuti imperfetti, furono resi novellamente di comune utilità(108).
Verso la fine della sua relazione generale, tenuta nel 1843 sugli studi compiuti nella sezione letteraria dell’Ateneo nel quinquennio precedente, Luigi Carrer si intratteneva brevemente a commentare uno studio sull’argomento dell’amicizia con palese turbamento. Il tema gli ricordava una recente sventura, la morte dell’amico Paolo Zannini, un «lutto» che egli sapeva essere non solo suo personale ma condiviso dai cittadini veneziani: «Alla città tutta [affermava] non che a questo Ateneo, molto è mancato al mancare di Paolo Zannini». Credeva perciò di interpretare il desiderio di quella istituzione nel soffermarsi a ricordarlo seppure in una occasione destinata ad altri fini. Imperniava allora la sua commemorazione intorno ad alcune parole suggeritegli dai colleghi medici dello scomparso, che, quando era vivo, in sua presenza si lamentavano «di più non avere quel franco giudizio preponderante nella bilancia delle inevitabili disparità». Egli trovava che fosse un segno di «stupenda lode» che — mentre il defunto veniva pianto dalla famiglia e dagli amici — la città e i medici di maggiore reputazione piangessero «più particolarmente» se stessi. Carrer riteneva che se Zannini, che definiva «esempio di postuma giustizia», avesse spinto i giovani ad imitarlo, ciò non solo avrebbe mantenuto vivo il suo ricordo, ma anche tutti i meriti che egli aveva acquisito nei confronti delle istituzioni in cui aveva operato. Verso la conclusione il suo ricordo si faceva commosso e poeticamente ispirato quando individuava nella ricerca continua della verità la caratteristica fondamentale dell’esistenza dell’amico:
La fiaccola eterna del vero, che, al par della vita, d’una in altra trasmettonsi l’età fuggitive, quella fiaccola eterna la impugnò fin da’ prim’anni il Zannini; con mano alta e secura la tenne tutta sua vita; e non che mai nasconderla, né anche volle anteporvi l’altra mano a rintuzzarne la luce, sì che ben poteasi chinar la fronte passandole innanzi per non esserne rischiarato, ma non fu possibile a chi cammina guardando il Cielo non vedersela viva e continua scintillare sugli occhi(109).
11. Conclusione
Nel 1838 si pubblicava a Venezia per i tipi de «Il Gondoliere» l’opera collettiva Siti pittoreschi e prospettivi delle lagune venete, che conteneva un contributo di Paolo Zannini a cui era stato affidato il compito di narrare la storia dell’isola di S. Servolo, che fin dagli inizi del XVIII secolo era stata luogo di ospedalizzazione di malati in generale e dagli anni Trenta dell’Ottocento di malati mentali. La scelta non poteva essere più adatta allo scopo per la capacità che era mirabile in lui di saper trattare con stile e sensibilità di letterato soggetti e temi della professione medica che praticava.
Ma il suo saggio si presenta sin dall’inizio come qualche cosa di più: da sguardo che sa cogliere esteticamente la singolarità della bellezza dell’isola(110) si fa riflessione commossa sulla natura della malattia mentale e ammirazione per coloro che seguono gli ammalati e per i loro metodi di cura. Da quest’ultimo aspetto — l’ammirazione — nasce il bisogno della storia, non quella delle origini dell’isola e dei suoi edifici — su cui Zannini si soffermerà nelle pagine conclusive del saggio –– ma quella degli uomini che si occupano della cura degli ammalati. Egli precisa che questi sono i Padri Ospedalieri di S. Giovanni di Dio, ordine dedito all’assistenza degli infermi poveri, chiamato dal senato veneto ad assistere dapprima gli ammalati militari dell’ospedale di S. Antonio di Castello — dove rimase fino al 1715 — e poi trasferito all’isola di S. Servolo, abitata allora da poche monache dell’ordine fuggito da Candia nel 1648. L’isola intera veniva donata ai padri dalla Repubblica che vollero si erigesse in essa un convento, un ospedale per gli infermi e una chiesa nuova. L’intento di coloro che reggevano il governo veneziano non era frutto della sola munificenza, lascia elegantemente intendere l’autore, ma aveva anche lo scopo di far accogliere in quella sede i «pazzi» appartenenti alle famiglie patrizie. È da quel momento che essi vengono per la prima volta accolti nell’istituto dei Padri Ospedalieri. Una constatazione, quest’ultima, che porta Zannini ad una riflessione critica dello stato in cui vennero invece lasciati per settantadue anni dalla Repubblica i malati mentali plebei e poveri, costretti cioè a vagabondare per le vie e a divenire «bersagli» e «trastullo» del volgo o, se violenti e pericolosi, ad essere rinchiusi nelle carceri. Tutto questo fino al 1797, data che segnava l’arrivo dei francesi quando — afferma Zannini — divenne chiara l’iniquità di una tale situazione:
apparve manifesto ciò che per l’innanzi non era avvertito; essere iniquo divisamento abbandonare ai vituperii delle piazze o all’obbrobrio delle carceri gli sventurati che avevano smarrita la ragione, perciò solo che non erano né nobili, né ricchi(111).
Questa consapevolezza, che egli fa capire essere frutto del profondo cambiamento prodottosi anche nella sensibilità di quel periodo, si concretizzò nella decisione della «sovrana autorità» del tempo di far accogliere e assistere «a spese dello stato» anche i poveri, i non abbienti: «una giusta e pietosa ordinazione» che nessun governo successivo cambiò mai. Quel periodo segnò dunque l’inizio della «vera fondazione» a Venezia di «un ospizio pegli alienati aperto e sostenuto dalla pubblica pietà a benefizio universale»(112). L’istituto divenne ospedale per la cura di oltre duecento alienati di sesso maschile — una volta trasferiti gli ammalati militari e ridotto il numero degli ammalati chirurgici che erano subentrati ad essi.
Le considerazioni di Zannini su come l’isola fosse divenuta un luogo di cura senza distinzioni di condizione sociale sono di fatto un valido esempio di come una generazione di uomini e donne, vissuti tra il governo della Repubblica e quello, se pur breve, conseguente all’arrivo dei francesi, fosse stata in grado di confrontarsi con una questione fondamentale quale il trattamento della malattia e in particolare della malattia mentale. Questo gruppo di individui, di cui Zannini fece parte, per il proprio comportamento e per l’indipendenza delle opinioni, ha avuto un ruolo, non tra i minori, nella formazione di quella nuova generazione che nel giro di pochi decenni sarebbe approdata al Quarantotto.
1. Sulla Nuova dottrina medica italiana, Giacomo Tommasini e Giovanni Rasori, v. Giorgio Cosmacini, Teorie e prassi mediche tra Rivoluzione e Restaurazione: dall’ideologia giacobina all’ideologia del primato, in Storia d’Italia, Annali, 7, Malattia e medicina, a cura di Franco Della Peruta, Torino 1984, pp. 153-205. Per una biografia dettagliata di Paolo Zannini, v. Gianjacopo Fontana, Zannini Paolo, in Biografia degli italiani illustri nelle scienze lettere e arti del secolo 18° e de’ contemporanei compilata da letterati italiani d’ogni provincia, a cura di Emilio De Tipaldo, I-X, Venezia 1834-1845: IX, fasc. 7, pp. 66-86.
2. Sarà Zannini a scoprire l’origine della formazione degli aneurismi nel 1813-1814 e a fare splendidi disegni degli organi malati, studiati durante la dissezione di cadaveri di individui morti improvvisamente, negli anni 1813-1816. Ventisei delle ventotto tavole numerate, con le spiegazioni, si conservano ancora oggi nella Biblioteca S. Marco dell’Ospedale civile di Venezia. Secondo il suo biografo Fontana, molte di esse saranno viste dal famoso medico scozzese Thompson nel 1814 (G. Fontana, Zannini Paolo, pp. 76-77). Notizia della scoperta è data nelle relazioni accademiche del segretario Francesco Du Prè («Ateneo Veneto», Sessioni, 1813, pp. 39-41) e dallo stesso Francesco Aglietti (ibid., 1814, pp. 21-25). Questi primi studi usciranno a Venezia nel 1835 all’interno di un lavoro più ampio dal titolo Di qualche differenza fra alcune malattie delle arterie che sono dette aneurismi (cit. in G. Fontana, Zannini Paolo, p. 85).
3. [Redazione], Aglietti, Francesco, in Dizionario Biografico degli Italiani, I, Roma 1960, pp. 410-411; Carlo Maccagni, Francesco Aglietti e il suo tempo, in Le scienze mediche nel Veneto dell’Ottocento. Atti del seminario, Venezia 1990, pp. 155-169, in partic. pp. 161-163.
4. Scrive Marino Berengo: «Dopo i moti del 1820 e del 1821 quelli tra i ‘napoleonisti’ che erano rimasti irriducibili ai governi restaurati, verranno indicati come ‘liberali’ non solo dalle polizie d’Italia e d’Europa, ma da coloro stessi che quella designazione si sono meritata da tempo». V. Marino Berengo, L’organizzazione della cultura nell’età della restaurazione, in Storia della società italiana, XV, Il movimento nazionale e il 1848, Milano 1986, pp. 47-48 (pp. 45-88).
5. Sessioni pubbliche dell’Ateneo Veneto tenute negli anni MDCCCXII-MDCCCXVII, Venezia 1814-1817.
6. In quel periodo Aglietti fa parte della consulta di governo, nel ruolo di protomedico; v. Marco Meriggi, Il Regno Lombardo-Veneto, Torino 1987 (Storia d’Italia, diretta da Giuseppe Galasso, XVIII/2), p. 114 n. 69. Per le notizie letterarie, v. la succitata voce nel Dizionario Biografico degli Italiani.
7. Gaetano A. Ruggieri, Ricordi storici sull’Ateneo di Venezia, «Esercitazioni Scientifiche e Letterarie dell’Ateneo di Venezia», 1, 1827, p. 10 (pp. 1-16).
8. Per la situazione generale v. M. Berengo, L’organizzazione della cultura. In Lombardia la preoccupazione riguardava anche gli uomini di cultura che erano stati funzionari di governo nel regime napoleonico, per il diffondersi della disoccupazione causata dall’accentramento di ben sei ministeri a Vienna.
9. G.A. Ruggieri, Ricordi storici, p. 10.
10. Ibid., p. 11.
11. Giampietro Berti, Censura e circolazione delle idee nel Veneto della Restaurazione, Venezia 1989, pp. 39, 43-44.
12. Per una visione generale sui Gabinetti di lettura, v. ibid., pp. 39-44. Vittorio Malamani, La censura austriaca delle stampe nelle provincie venete (1815-1848), pubblicato in tre parti: L’organamento, «Rivista Storica del Risorgimento Italiano», 1, 1895, pp. 489-521; I giornali e i periodici. I gabinetti di lettura. La «Gazzetta privilegiata» di Venezia, ibid., 2, 1897, pp. 692-726; I prodromi del quarantotto, «Il Risorgimento Italiano. Rivista Storica», 2, 1909, pp. 491-541.
13. V. la lettera di Zannini al consigliere giudiziario Giovanni Rossi, socio ordinario dell’Ateneo, datata 28 marzo 1821, in Venezia, Museo Correr, ms. Cicogna 2999/XII.
14. Sui significati che vengono ad assumere i lemmi linguistici «patria» e «amor di patria», cf. il recente studio di Alberto M. Banti, La nazione del risorgimento. Parentela, santità e onore alle origini dell’Italia unita, Torino 2000, pp. 8-10.
15. V. M. Berengo, L’organizzazione della cultura, p. 49.
16. Su Scolari v. G. Berti, Censura, pp. 228, 290 e su Gamba e Pianton, ibid., pp. 20-23.
17. Queste informazioni ci vengono sempre da G.A. Ruggieri, Ricordi storici, p. 11.
18. Dopo tre mesi Scolari viene trasferito a Verona; su questo e sullo statuto, v. ibid.
19. Meriggi scrive: «La polizia nel 1823 ne consiglia l’allontanamento perché ‘frequenta cattive compagnie, [è] molto attaccato al Governo napoleonico e al moderno liberalismo’». M. Meriggi, Il Regno Lombardo-Veneto, p. 114 n. 69. Scrive Ruggieri: «egli trova difficoltà ad ottenere il consenso dei membri dell’Istituto ma infine le sue dimissioni vengono accettate» (G.A. Ruggieri, Ricordi storici, p. 12). Potrebbe essere stato indotto a presentarle per i sospetti che la polizia aveva riguardo qualche sua simpatia per la carboneria. Per l’ipotesi della carboneria, v. C. Maccagni, Francesco Aglietti, p. 164.
20. Tradusse in versi i poemetti biblici di monsignor Ladislao Pyrker, a capo della diocesi di Venezia dall’aprile 1821, pubblicati nel 1824 col titolo Perle dell’Antico Testamento. V. Alvise Zorzi, Venezia austriaca (1798-1866), Roma-Bari 1985, pp. 331-332.
21. G.A. Ruggieri, Ricordi storici, p. 12.
22. Matteo Baillie [Matthew Bailey], Anatomia patologica di alcune fra le parti più importanti del corpo umano, tradotto da Paolo Zannini, I-II, Venezia 1819 (con dedica a F. Aglietti e G.M. Zecchinelli).
23. Lettere inedite del dottore Paolo Zannini al dottore Domenico Thiene, per le nozze Zannini-Bucchia, Venezia 1847, nr. I.
24. Gaetano A. Ruggieri, Relazione, «Esercitazioni Scientifiche e Letterarie dell’Ateneo di Venezia», 1, 1827, pp. 44-45 (pp. 39-55).
25. Valerio Da Pos, Poesie, Venezia 1822, con saggio introduttivo di Paolo Zannini intitolato Notizie intorno alla vita di Valerio Da Pos scritte da un suo compatriota, pp. I-XLVIII. Il saggio introduttivo viene all’epoca lodato da Bartolomeo Gamba, come riporta G. Fontana, Zannini Paolo, p. 83.
26. Valerio Da Pos, La partenza verso il mondo della luna, nozze Comello-Papadopoli, a cura di Paolo Zannini, Venezia 1821. Zannini, secondo il suo biografo Fontana, amava particolarmente la satira di cui sembra «condisse» i suoi discorsi con l’uso di «lazzi e di frizzi». Luigi Pezzoli gli dedicò la sua epistola sulla satira. V. G. Fontana, Zannini Paolo, p. 83; su Pezzoli, cf. G. Berti, Censura, p. 233.
27. P. Zannini, Notizie, pp. I-IX.
28. La Storia dell’ultima malattia di Canova si trova in appendice alla Biografia di Antonio Canova di Leopoldo Cicognara, Venezia 1823, pp. 147-171. La recensione del libro nel «Giornale» di Treviso, anonima, è stata attribuita a Tommaseo (v. Daniele Manin intimo. Lettere, diari e altri documenti inediti, a cura di Mario Brunetti-Pietro Orsi-Francesco Salata, Roma 1936, in nota alla lettera nr. 20 di Manin alla futura moglie al riguardo della Biografia stessa, p. 62). Le ultime parole di Canova erano state: «anima bella e pura». Se Tommaseo loda Zannini, è invece molto critico circa l’opera di Cicognara. Anche l’«Antologia» di Vieusseux nel fascicolo di novembre del 1823 faceva menzione della sua Storia dell’ultima malattia di Canova. Su come veniva riportato il suo scritto Zannini ha da ridire e manda una lettera al direttore in cui contesta con fine ironia le esagerazioni usate dallo scrittore del pezzo, che cita, sulle mutazioni che avrebbe subito il volto di Canova moribondo; v. «Antologia», febbraio 1824, nr. 38, pp. 100-101. Sulla memoria si intratterrà anche il suo biografo Fontana, che la ripercorre nelle sue fasi salienti: l’aspetto fisico di Canova quale appare a Zannini alla sua prima visita, come assistente di Aglietti che era il medico personale dell’artista, le cui caratteristiche riguardanti il torace erano state da Canova stesso spiegate come conseguenza dello sforzo fisico dello scolpire. V. G. Fontana, Zannini Paolo, p. 79.
29. Su quell’esame, come egli stesso afferma, si era riservato di fare una relazione più dettagliata ad Aglietti «alla cui dottrina» stava il compito di dare una valutazione completa e definitiva delle malattie di Canova, cosa che Aglietti non fece mai. V. Paolo Zannini, Biografia di Francesco Aglietti, Padova 1836, p. 31.
30. Con quell’analisi condotta così efficacemente e autorevolmente, Zannini perseguiva lo scopo di dimostrare che quanto era stato detto sulla causa della morte di Canova — cioè che fosse dovuta a uno «scirro del piloro» — non era che una, e non tra le prime, delle ipotesi. Questa era stata causata invece da un generale decadimento della vita sia animale sia organica e dalla mancanza di ogni nutrizione. In definitiva egli concludeva che quello dell’artista fu un lento morire che manteneva in lui «un intimo sentimento di poter risorgere dalla prostrazione presente e ritornare in salute» mentre in realtà, concludeva Zannini con quel bello stile sottolineato da Tommaseo, «lentamente da lui si dipartivano le forze; scemava lentamente l’attività del principio vitale; lentamente si avviava senza avvedersi al sepolcro [...]». Egli riteneva che il decesso fosse dovuto a una serie di cause (infiammazione della vescica epatica, formazione di calcoli, perdita di energia dello stomaco) di cui lo scirro suddetto non veniva che al quarto posto e non era quindi all’origine dell’impossibilità del passaggio dell’alimento dal ventricolo agli intestini. P. Zannini, Storia dell’ultima malattia di Canova, pp. 165-169.
31. G.A. Ruggieri, Ricordi storici, pp. 12-13.
32. Venezia, Museo Correr, ms. Cicogna 2999/XII.
33. Ivi, ms. P.D. 711, C/III (299) 302, 10.
34. Giovanni Bellomo fu insegnante di storia universale, di letteratura classica latina e di filologia greca nell’imperial regio liceo di Venezia e autore delle Lezioni di storia universale; v. G. Berti, Censura, p. 271.
35. Lettere inedite del dottore Paolo Zannini al dottore Domenico Thiene, nr. II.
36. Gilberto Pizzamiglio, Vita di un salotto veneziano tra fine Settecento e primo Ottocento, in Gentildonne artiste intellettuali al tramonto della Serenissima. Atti del seminario, a cura di Elsie Arnold et al., Mirano 1998, pp. 29-37.
37. V. la sua lettera a N.N., in Venezia, Museo Correr, ms. P.D. 124C, frammento 43, riportata, ma non integralmente, da Vittorio Malamani, Giustina Renier Michiel. I suoi amici, il suo tempo, «Nuovo Archivio Veneto», 19, 1889, t. 38, nr. 75, pt. 1, p. 36 (pp. 5-95).
38. Questo argomento viene trattato più estesamente nel libro della scrivente sulla famiglia di Daniele Manin, in preparazione.
39. Nell’Introduzione a Ugo Foscolo, Ultime lettere di Jacopo Ortis, a cura di Giuliana Nuvoli, Milano 1986, la curatrice dimostra che Foscolo usava sia la traduzione che l’introduzione della nobildonna nell’Ortis (lettera del 15 maggio), e che la traduzione veniva lodata anche da Melchiorre Cesarotti; v. p. XXV (pp. VII-XXXVI). V. a proposito delle traduzioni il recente saggio di Andrea Molesini-Anjusca Zoggia, Giustina Renier Michiel traduttrice di Shakespeare, in Gentildonne artiste intellettuali al tramonto della Serenissima. Atti del seminario, a cura di Elsie Arnold et al., Mirano 1998, pp. 17-27.
40. V. Marina Della Stella, Gli epistolari di Giustina Renier Michiel, tesi di perfezionamento, Università degli Studi di Padova, a.a. 1980-1981. Lina Urban, Giustina Renier Michiel, in Le stanze ritrovate. Antologia di scrittrici venete dal Quattrocento al Novecento, a cura di Antonia Arslan-Adriana Chemello-Gilberto Pizzamiglio, Venezia-Mirano 1991, pp. 163-172; l’autrice del saggio si sofferma su come l’opera era stata concepita ma non cita tra le sue fonti Luigi Carrer, Renier Michiel Giustina, in Biografia degli italiani illustri nelle scienze lettere e arti del secolo 18° e de’ contemporanei compilata da letterati italiani d’ogni provincia, a cura di Emilio De Tipaldo, I-X, Venezia 1834-1845: II, pp. 358-365.
41. Luigi Carrer, L’anello di sette gemme, o Venezia e la sua storia, Venezia 1838. Va ricordato che anche Daniele Manin nel suo necrologio di G. Renier Michiel ricorda l’importanza del ruolo di quest’ultima all’interno della società veneziana di quegli anni; v. «Gazzetta Veneta», 12 aprile 1832.
42. «Giornale delle lettere e scienze di Treviso», gennaio 1825, nr. 43.
43. Giancarlo Zanier, La medicina browniana nel Veneto, in Le scienze mediche nel Veneto dell’Ottocento. Atti del seminario, Venezia 1990, p. 44 (pp. 31-60).
44. 1, 1831, pp. 325-341.
45. Nel suo scritto confuta, sempre in base alle dissezioni anatomiche, le opinioni errate sulla causa mortis (la quantità dell’acqua introdotta nello stomaco; quella nei polmoni; l’ingorgo cerebrale) per arrivare ad affermare che essa stava nella immobilità del cuore.
46. Egli ritiene doveroso che, anche se i segni della rianimazione si fossero manifestati presto, fosse dedicato ad essa il tempo massimo di sei ore — come per le catalessi — perché «la vita può rimanere latente per tale spazio di tempo da vincere l’aspettazione d’ogni medica prudenza» ed elenca con minuziosità quali siano tutti i possibili segni che indicano il risorgere della vita organica dell’individuo sommerso. Paolo Zannini, Memoria intorno al modo di soccorrere ai sommersi di recente ripescati, «Annali delle Scienze del Regno Lombardo-Veneto», 1, 1831, pp. 337-340.
47. G. Berti, Censura, p. 204.
48. Paolo Zannini, Saggio della vita e degli studi di Giustina Renier Michiel, in Venezia, Museo Correr, ms. P.D.C. 766, c. 115. Egli, che aveva sposato la nipote di Giustina Renier Michiel, era stato nominato legatario delle sue carte; v. L. Carrer, L’anello di sette gemme, p. 23.
49. P. Zannini, Saggio della vita, proemio.
50. M. Della Stella, Gli epistolari, p. 160, che trae la citazione dalla lettera pubblicata in Rodolfo Renier, Giustina Michiel e la censura, «Giornale Storico della Letteratura Italiana», ser. III, 6, 1885, nrr. 16-17, p. 307.
51. G. Berti, Censura, pp. 359-363.
52. Ibid., p. 266.
53. Venezia, Museo Correr, ms. M.M.P., b. 9, lettera del 23 settembre 1826 a Teresa Perissinotti Manin.
54. Ivi, ms. P.D.C. 766, c. n.n. La lettera risulta priva di data; è Zannini a segnare che gli giunge alle sei e mezzo della sera del 18 maggio.
55. Ibid., c. 116.
56. Che fossero queste le preoccupazioni di Gamba lo si può arguire dal suo comportamento nel caso della pubblicazione nel;l’«Antologia» di Firenze di un manifesto di sottoscrizione diverso da quello da lui sottoscritto a Venezia, nello stesso 1832, dell’opera curata da Tipaldo, Biografia degli italiani. Per tutto il caso v. V. Malamani, La censura austriaca. L’organamento, pp. 507-509. Gamba ritira la sua firma dopo aver visto le parole di presentazione di Tommaseo.
57. Zannini si riferisce ai proventi che Rosa Taddei percepiva dalle sue improvvisazioni in pubblico. V. al proposito il manifesto che annuncia la sua performance del 7 maggio 1832 al «Nobile Teatro Onigo nella regia città di Treviso, Accademia di poesia estemporanea», che si trova tra le carte della corrispondenza Ateneo-Zannini, dove si dice che «Il biglietto è fissato indistintamente ad Lire Austriache Una». La poetessa invitava il pubblico a consegnare in un’urna gli argomenti che sarebbero poi stati estratti a sorte per il suo esperimento estemporaneo. V. Venezia, Museo Correr, ms. P.D.C. 766, cc. n.n.
58. Ibid., c. 117. Nell’archivio dell’Ateneo si trova solo la copia del proemio soppresso, di mano ignota; v. Venezia, Archivio dell’Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, b. 29 «Memorie e studi», 3 fogli protocollo segnati a matita «Commemorazione della G. Renier Michiel».
59. Memorie storiche sull’Ateneo di Venezia (a.a. 1827-1835-36), Venezia 1838, pp. 5-7. Casarini era segretario della congregazione centrale del governo; v. M. Meriggi, Il Regno Lombardo-Veneto, p. 158.
60. Luigi Casarini, Ricordi storici, «Esercitazioni Scientifiche e Letterarie dell’Ateneo di Venezia», 2, 1838, pp. 5-6 (pp. 1-8).
61. Memorie storiche sull’Ateneo di Venezia, p. 24.
62. V. Malamani, La censura austriaca. I giornali, pp. 697-698, e inoltre Marino Berengo, Una tipografia liberale veneziana della Restaurazione. Il Gondoliere, in Libri, tipografie, biblioteche. Ricerche storiche dedicate a Luigi Balsamo, I, Firenze 1997, pp. 335-354.
63. Relazione dei lavori fatti dalla classe per le lettere nell’Anno Accademico 1834-1835 di Giovanni Bellomo, «Esercitazioni Scientifiche e Letterarie dell’Ateneo di Venezia», 2, 1838, p. 62 (pp. 57 ss.).
64. V. supra n. 40.
65. Iconografia italiana degli uomini e delle donne celebri dall’epoca del risorgimento delle scienze e belle arti fino ai nostri giorni, III, Milano 1841, cl. III, Letterati, pp. I-XIII.
66. Felice Del Beccaro, Carrer, Luigi, in Dizionario Biografico degli Italiani, XX, Roma 1977, pp. 730-734. Su Tommaseo v. Guido Bezzola, Niccolò Tommaseo e la cultura veneta, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 6, Dall’età napoleonica alla prima guerra mondiale, Vicenza 1986, pp. 143-163.
67. Per un altro punto di vista sull’«amor patrio», v. Gino Benzoni, Dal rimpianto alla ricostruzione storiografica, in Venezia e l’Austria, a cura di Id.-Gaetano Cozzi, Venezia 1999, pp. 356-357 (pp. 343-370).
68. Armando Balduino, Buratti, Pietro, in Dizionario Biografico degli Italiani, XV, Roma 1972, pp. 391-394.
69. [Paolo Zannini], Necrologie di Antonio Lamberti e di Pietro Buratti, «Antologia», settembre 1832, pp. 150-151.
70. Ibid.
71. Ibid.
72. Stendhal, Roma, Napoli e Firenze. Viaggio in Italia da Milano a Reggio Calabria, Bari 19902. Qui Buratti viene accostato a Carlo Porta e Giorgio Baffo; v. pp. 41 e 79.
73. A. Balduino, Buratti, Pietro. V. anche Manlio Dazzi, Buratti nel giudizio di Stendhal, con riferimenti a Manzoni, Porta, Pellico, Byron, «Nuova Rivista Storica», 40, 1956, pp. 502-511.
74. V. M. Berengo, L’organizzazione della cultura, p. 68.
75. G. Cosmacini, Teorie e prassi mediche, pp. 202-205.
76. Lettere inedite del dottore Paolo Zannini al dottore Domenico Thiene, nrr. V-VI. Su questo v. ancora G. Cosmacini, Teorie e prassi mediche, p. 193.
77. «Giornale per servire ai progressi della patologia e della materia medica» [compilato dai dottori Bufalini, Namias, Thiene, Trois, Zannini, Zerlotto e Zuanin], 1, 1834. Sul personaggio di Bufalini, il maggior critico della Nuova dottrina medica italiana, v. Fernando Manzotti, Bufalini, Maurizio, in Dizionario Biografico degli Italiani, XIV, Roma 1972, pp. 799-802; cf. Giorgio Cosmacini, Medici nella storia d’Italia, Bari 1996, s.v.
78. Paolo Zannini, Intorno ad alcune atresie naturali mostruose della vagina. Memorie, «Giornale per servire ai progressi della patologia e della materia medica», 1, 1834, p. 9 (pp. 1-38, 189-226). L’estratto di questo studio è stato rilegato assieme ad altri tre più brevi, con il frontespizio a stampa «Paolo Zannini, Memorie, Venezia 1834», e regalato alla Biblioteca S. Marco dell’Ospedale civile di Venezia con l’iscrizione «Dono della vedova dell’autore».
79. Ibid., p. 15.
80. Ibid., p. 26.
81. Nelle ultime pagine dedicate al caso, Zannini compie una dettagliata disamina dei testi dei più grandi studiosi di medicina del passato riguardo la malattia; ibid., pp. 189-226.
82. In questa «storia» infatti Zannini porta a frutto le sue deduzioni di anatomo-patologo mettendo a confronto i suoi metodi di cura con quelli di medici illustrissimi quali Fleury, Broussais, Michel, Laenneck e Dupuytren che avevano visitato in Francia l’ammalata, una giovane aristocratica. Dopo aver esaminato dettagliatamente le diagnosi dei colleghi, sarà lui, secondo i suoi contemporanei, a diagnosticare correttamente questo tipo di malattia in una mala conformazione («atresia») della vagina e a proporne l’esplorazione come passo primario, l’operazione chirurgica e i successivi metodi di cura. Il giudizio è di Fontana che nei suoi commenti evidentemente riflette quelli del suo tempo; v. G. Fontana, Zannini Paolo, p. 78.
83. Paolo Zannini, Necrologia dott. Giorgio Zuanin, «Il Gondoliere», 19 luglio 1834.
84. Sul colera a Venezia v. Anna Lucia Forti Messina, L’Italia dell’Ottocento di fronte al colera, in Storia d’Italia, Annali, 7, Malattia e medicina, a cura di Franco Della Peruta, Torino 1984, pp. 437-440. Franco Della Peruta, Malattia e società nell’Italia dell’Ottocento, in Storia della Società italiana, XV, Il movimento nazionale e il 1848, Milano 1986, p. 131 (pp. 127-150). Sul colera a Venezia Zannini interverrà con alcune osservazioni pubblicate nella «Gazzetta Privilegiata di Venezia» del 16 gennaio 1836, nr. 12, in seguito alla pubblicazione di un articolo allarmistico che giudicava Venezia luogo che per le sue caratteristiche naturali favoriva il diffondersi del contagio.
85. Paolo Zannini, Necrologia, «Il Gondoliere», 4 maggio 1836.
86. Ibid.
87. P. Zannini, Biografia di Francesco Aglietti.
88. Lettere inedite del dottore Paolo Zannini al dottore Domenico Thiene, nr. VIII. L’«amico» di cui si parla è probabilmente Antonio Papadopoli, «notoriamente in odore di liberalismo e patriotismo»; v. G. Berti, Censura, p. 62.
89. P. Zannini, Necrologia, e Id., Biografia di Francesco Aglietti, pp. 13-16 (cit. alla p. 13).
90. Lettere inedite del dottore Paolo Zannini al dottore Domenico Thiene, nr. VIII.
91. Paolo Zannini, Lettera di Paolo Zannini al Dr. Domenico Thiene, medico in Vicenza, estratto da «Giornale per servire ai progressi della patologia e della materia medica», 1837, fasc. 18, p. 6. La Teoria della flogosi di Rasori viene giudicata «fondamentale» dallo studioso G. Zanier, La medicina browniana, p. 34 n. 9.
92. Lettere inedite del dottore Paolo Zannini al dottore Domenico Thiene, nr. IX.
93. Per un profilo biografico di Rasori, v. Scienza medica e giacobinismo in Italia. L’impresa politico-culturale di Giovanni Rasori (1796-1799), a cura di Giorgio Cosmacini, Milano 1982, pp. 51-55.
94. P. Zannini, Lettera di Paolo Zannini al Dr. Domenico Thiene, medico in Vicenza, p. 5.
95. Ibid., pp. 6-7. Successivamente Zannini si sofferma sulla discussione, che viene a chiudere i primi due libri dell’opera, di due argomenti considerati erroneamente, secondo il parere di Rasori, come infiammazioni (erano ritenute tali quelle che «non lasciassero traccia di sé nei cadaveri», e «il colore rosso dell’aorta»); per la dimostrazione di Rasori riferita da Zannini, v. ibid., pp. 9-14.
96. Ibid., p. 19.
97. Ibid., pp. 20-21. Continuando nella recensione dell’opera Zannini ci dà conto che, oltre ai tre libri di cui è composta la Teoria della flogosi, Rasori aggiunge una serie di storie mediche su malattie credute e trattate come infiammatorie, quindi curate con rimedi antiflogistici che però avevano prodotto effetti devastanti, e guarite invece con cure stimolanti, e altre ancora ritenute infiammatorie, dove il cadavere una volta dissezionato non aveva mostrato segni di infiammazione. Su di esse i critici di Rasori, dice Zannini, avrebbero potuto sostenere che i metodi curativi fossero mal giudicati, oppure i sostenitori della diatesi avrebbero potuto avere qualcosa da dire sulle virtù di metodi curativi come salasso, solfato di chinina, rimedi controstimolanti, vino generoso e oppio come stimolanti. È evidente che Rasori aveva un altro scopo che non era quello di indicare le cure ma di analizzare i processi delle malattie. Il suo giudizio finale sulla teoria della flogosi è che essa non è un «canto di cigno» ma il prodotto di oltre quarant’anni di «pazienti ricerche, d’osservazione indefessa e di profonda meditazione». Ibid., pp. 21-26.
98. Ibid., pp. 26-27.
99. Ibid., pp. 27-30.
100. Lettere inedite del dottore Paolo Zannini al dottore Domenico Thiene, nr. X.
101. Ibid.
102. Paolo Zannini, Biografia di Giuseppe Montesanto, Venezia 18412 (la I ediz. è in Biografia degli italiani illustri nelle scienze lettere e arti del secolo 18°, e de’ contemporanei compilata da letterati italiani di ogni provincia, a cura di Emilio De Tipaldo, I-X, Venezia 1834-1845: VIII, fasc. 2).
103. Francesco De Peri, Il medico e il folle: istituzione psichiatrica, sapere scientifico e pensiero medico fra Otto e Novecento, in Storia d’Italia, Annali, 7, Malattia e medicina, a cura di Franco Della Peruta, Torino 1984, p. 1077 (pp. 1058-1140).
104. Il primo volume era apparso nel 1833; v. Giacomo Tommasini, Opere scelte, I, Milano 1833, cit. in G. Cosmacini, Teoria e prassi mediche, p. 182 n. 34.
105. Sulla nomina a socio onorario nell’anno 1838-1839, v. «Esercitazioni Scientifiche e Letterarie dell’Ateneo di Venezia», 3, 1839, p. 274.
106. V. Malamani, La censura austriaca. I giornali, pp. 699-700.
107. V. gli articoli 79-80 dello statuto nelle «Esercitazioni Scientifiche e Letterarie dell’Ateneo di Venezia», 4, 1841, p. 307.
108. Ricordi storici del vicepresidente Emilio De Tipaldo, ibid., 5, 1846, p. VI (pp. V-VIII).
109. Ibid., pp. 39-40. La moglie e i figli avevano fatto incidere queste parole sulla lapide per Paolo Zannini, trovata al cimitero di S. Michele di Murano, sul pavimento: «MDCCCXLIII / Paolo Zannini bellunese / medico insigne / letterato dei non volgari / di ogni maniera di bello e di vero / cultore e aiutatore / sapiente e fervoroso imperterrito / di severità e gentilezza / d’anni LXI si riposò / in questa tomba / premiato dal ben meritare. / La moglie ed i figli / al marito ed al padre incomparabile / pregano pace / e di riabitare con esso / in perpetuo».
110. «Quell’incanto del sorgere improvviso degli edifizii d’in mezzo all’acque senza lembo di terra che apparisca sostenerli, e la perfetta conservazione loro, e una cert’aria di nobile e agiata pulitezza che vi regna d’intorno, e fa fede del senno e delle sollecitudini di chi là dentro presede». Siti pittoreschi e prospettivi delle lagune venete, Venezia 1838, p. 71 (pp. 71-79). In questo volume è stato pubblicato anche un saggio di Giustina Renier Michiel sull’isola degli Armeni scritto nel 1829.
111. Ibid., p. 75.
112. Per le citazioni v. ibid., p. 75.