GENTILE, Tommaso
Figlio di Bernardo di Simone, appartenente a una nobile famiglia la cui presenza è attestata nel Salento a partire dall'ultimo decennio del XII secolo, dovette nascere nel primo decennio del XIII secolo.
Il nonno paterno del G. era, nel 1193, domini regis baro nella cerchia di Alessio, camerario di re Tancredi. Nel 1203 Simone fu uno degli esponenti della rivolta condotta in Puglia contro Gualtieri (III) di Brienne, genero di Tancredi, per averne sposato la figlia maggiore, e pretendente alla corona di Sicilia. Innocenzo III indicava Simone Gentile con il titolo di conte: si può quindi ritenere che Simone avesse ottenuto il ripristino della contea di Nardò, soppressa da Ruggero II, anche se per il riconoscimento formale del suo comitato dovette aspettare fino al 1212, dopo che, in seguito all'invasione di Ottone IV, ebbe contribuito in maniera determinante a ristabilire la supremazia sveva in Puglia. Il suo stretto legame con Federico II comportò per Simone la trasformazione dei beni della sua famiglia in feudi dipendenti direttamente dalla Corona, ma anche la scelta di uno dei suoi figli, Gualtiero, come accompagnatore del re nel viaggio in Germania. Il successore di Simone (morto intorno al 1213), Bernardo, entrò in possesso della contea di Nardò lo stesso anno e accompagnò a sua volta la regina Costanza in Germania nel 1216. Dopo il suo ritorno ricevette nuovi poteri - documentati la prima volta nel 1217 - in qualità di "capitaneus" e "magister iustitiarius Apulie et terre laboris". Fino al 1220 egli condivise questa carica, di regola conferita a dei conti, con il conte di Lesina Matteo Gentile e il conte di Avellino Giacomo di Sanseverino, acquistando un'autorità crescente nella Puglia meridionale, anche in concorrenza con il suo diretto superiore nella gerarchia Matteo Gentile.
Il Chronicon Neritinum, un'opera parzialmente falsificata nel XVIII secolo (cfr. Chiriatti), correda la successione sopra esposta con altri dati dei quali non terremo conto in questa sede. Per la discendenza diretta del G. da Simone (1193-1212) e da Bernardo (1212-18) ci sono però indizi sicuri al di fuori dell'inaffidabile cronaca. Il G. chiamò infatti due dei suoi tre figli conosciuti Simone e Berardo, mentre sua figlia Adelburga ricevette il nome dalla nonna paterna. Il G., così come il conte Simone, avanzò diritti su certe proprietà nei pressi di Nardò, che egli, come i suoi predecessori, considerava come pertinenza del loro casale di "Galatule" (oggi Galatone), nonostante i rappresentanti regi, chiamati "revocatores", gli contrapponessero i diritti della Corona riuscendo a farli valere in sede legale.
Oscuri restano i rapporti dei Gentile originari del Salento con altre omonime e contemporanee famiglie presenti specialmente in Abruzzo e in Molise. La famiglia dei Gentile, conti di Lesina, possedeva proprietà, diritti e feudatari in Terra d'Otranto: gli stessi Gentile insediati a Nardò erano stati loro vassalli con baronie presso Lesina fino al 1212. È comunque certo che l'ascesa sociale e politica dei Gentile di Nardò poggiò, a partire dal 1212, sul legame con Federico II il quale si trovava allora in Germania, ma che prima della sua partenza aveva conferito loro la contea di Nardò e li aveva ricompensati con alti uffici nello Stato e nel suo seguito.
La stessa contea di Nardò tuttavia, fu di nuovo abolita con ogni probabilità subito dopo il ritorno dell'imperatore, dato che fu soppressa dalle Assise di Capua del 1220, perché creata dopo la morte di Guglielmo II. Le proprietà nel territorio di Nardò rimasero invece intatte e fu confermato il rango nobiliare del G. nella provincia. Alla baronia del G. appartenevano, oltre a Galatone, i casali di Parabito, Zullini, Cutrofiano, Formicano e altri ancora, per lo più nelle vicinanze di Nardò, dei quali conosciamo di solito i diritti di proprietà grazie alle confische effettuate dopo la morte del Gentile.
Come barone di Terra d'Otranto, nel 1239 il G. ebbe dal giustiziere della provincia l'incarico di custodire un prigioniero lombardo; ai primi del 1250 fu scelto come podestà di Savona, incarico nel quale lo avevano preceduto altri quattro nobili provenienti dal Regno e che il G. esercitò dal 29 giugno 1250 fino al febbraio 1251. Dopo la sua partenza il Comune di Savona - che grazie all'alleanza con Federico II, morto nel frattempo (dicembre 1250), aveva tenuto testa a Genova per oltre due decenni e il cui porto aveva acquisito un'importanza strategica come base della flotta imperiale - si sottomise di nuovo al Comune genovese. Gli atti promulgati dal G. durante il suo ufficio sono in parte conservati e testimoniano la sua preoccupazione quotidiana per la sicurezza interna ed esterna della città, nonché la severità con cui egli agì.
La notizia tratta da un registro ora perduto di Carlo I d'Angiò per gli anni 1272-73, conosciuta solo grazie a un regesto molto stringato curato da C. De Lellis (v. Mazzoleni), secondo la quale il G. sarebbe stato giustiziere di Terra di Bari sotto i regni di Federico, Corradino e Manfredi, è di difficile verifica visto che sappiamo poco della successione dei giustizieri in quella provincia; ma testimonia con certezza che gli ultimi sovrani della casa sveva accolsero il G. nella loro nobiltà di servizio riconoscendogli una competenza specifica per gli incarichi statali oltre che la sua lealtà.
Dopo la morte di re Corrado nel maggio 1254 e la fuga di Manfredi a Lucera nell'ottobre dello stesso anno, il G., insieme con altri baroni di Terra d'Otranto, parteggiò per Manfredi e sostenne le sue rivendicazioni alla reggenza. Il 25 marzo 1255 papa Alessandro IV, a Napoli, scomunicò Manfredi e i fratelli Lancia, rompendo definitivamente con lo Svevo, e chiese di conseguenza al G. e a trentaquattro altri familiares e fautores di Manfredi (identificandoli per nome) di abbandonare il reggente, non riconosciuto dalla Chiesa, per non incorrere anche loro nella scomunica e non perdere il diritto ai loro feudi. In quel momento i sostenitori del papa a Brindisi sotto il comando di Tommaso d'Oria, che era stato anche lui giustiziere al tempo di Federico II, avevano già preso l'iniziativa e sconfitto presso Nardò il capitano di Manfredi in quella regione, Manfredi Lancia, con il suo contingente, distruggendo in seguito la città. Dato che Manfredi, dopo i primi successi, dovette rinunciare alla controffensiva a causa della nuova crisi in Sicilia e in Calabria, la fazione filopontificia rimase in possesso del Salento fino all'inizio del 1257.
Manfredi, il quale senza dubbio era al corrente dei trascorsi del G. in quanto podestà e giustiziere, e che come principe di Taranto conosceva anche la sua autorità tra i baroni del Salento, lo nominò, prima del 1256, "magne regie et principalis curie magister iustitiarius". L'ufficio era vacante perché il gran giustiziere Riccardo da Montenero, che l'aveva ricoperto dal 1246, nei mesi critici dopo la morte di Corrado era passato dalla parte del papa e prima del giugno 1256 era stato ucciso da uno dei suoi parenti. Manfredi incaricò dunque il G. di riorganizzare i giudici e soprattutto il personale del tribunale supremo, che fino ad allora avevano collaborato con i reggenti delle due parti del Regno, oppure si erano ritirati dal servizio. Al più tardi dopo l'incoronazione di Manfredi (1258), il tribunale fu di nuovo in grado di funzionare: accanto a nuovi giudici, vi operavano anche giudici provati e notai esperti, come Andrea di Capua, Niccolò di Trani e il notaio Giacomo di Tocco, i quali potevano ancora basarsi sull'esperienza fatta ai tempi di Federico II.
Sotto la presidenza del G., il tribunale della Magna Curia nel maggio 1256 trattò un conflitto pendente da prima del 1250 tra la famiglia Agnone e il monastero di S. Elena presso Larino riguardo due casali. Per contestare un privilegio di Corrado che non aveva rispettato una decisione di Federico II, il collegio giudicante composto solo dal G. e da Niccolò di Trani si richiamò allo ius gentium. Nel giugno 1259 il tribunale da lui presieduto giudicò una lite tra il monastero di S. Giovanni in Fiore e il conte di Catanzaro Nicolosus circa certi diritti nella Sila, che però anche dopo la sentenza del tribunale, nel 1264, quando il G. era ancora in vita, fu nuovamente presentata al tribunale della Magna Curia, perché il nuovo conte di Catanzaro, Raul de Surdis, aveva interpretato i diritti comitali in senso altrettanto largo quanto i suoi predecessori. Nel luglio 1259 il G. "in campis prope Sanctum Maximum", cioè durante la campagna per la sottomissione dell'Aquila, trattò l'appello contro un giudizio emesso in seconda istanza dal maestro procuratore d'Abruzzo a proposito di una questione ereditaria a Sulmona. Il tribunale della Magna Curia confermò il giudizio del procuratore come bene iudicatum, ma senza volerlo indusse le due parti a un compromesso, quando decise di rinviare gli atti al re Manfredi, il quale peraltro partecipava non di rado alle riunioni del tribunale. Per quanto si può concludere dai pochi documenti conservati, il G. non prese più parte di persona ai successivi processi, sebbene abbia tenuto con certezza l'ufficio di gran giustiziere fino al 1266.
Probabilmente già verso il 1259, Manfredi aveva disposto che i pubblici ufficiali dovessero presentare a Melfi al G., al momento della conclusione dell'incarico, il rendiconto del loro servizio, sottoposto fino a quel momento al controllo di maestri razionali con competenze regionali. Sebbene per il 1263 sia stato tramandato, in forma breve, un simile esame della contabilità da parte del G., resta oscuro come fossero divise le competenze tra il G. e il maestro razionale Giozzolino Della Marra che ricopriva tale incarico già nel 1258. Proprio sotto il regno di Manfredi, stando al racconto di Saba Malaspina (Die Chronik des Saba Malaspina, a cura di W. Koller, in Mon. Germ. Hist., Scriptores, XXXV, Hannoverae 1999, IV, 2, p. 1795), Giozzolino avrebbe acquisito quella peculiare competenza in ambito finanziario e fiscale che sarebbe stata apprezzata anche in seguito dallo stesso Carlo I d'Angiò, nelle cui fila Giozzolino militò dopo la fine del regno svevo: è perciò probabile che, già al tempo di Manfredi, egli avesse esautorato il G. nel campo del controllo dei funzionari e dei rendiconti da loro esibiti. Ciononostante Manfredi aveva accolto da tempo il G. nella cerchia dei suoi familiari e lo aveva favorito in più modi concedendogli la città di Tursi, in Basilicata, e nel 1259 anche la baronia di Macchia, in Abruzzo.
Dopo la sconfitta di Manfredi, il G., che in quanto barone prese probabilmente parte alla battaglia di Benevento (1266), rientrò verosimilmente in Terra d'Otranto, tanto più che egli in questa contingenza perse la baronia di Tursi, concessa a Giovanni di Montefusco, che era tornato nel Regno al seguito di Carlo d'Angiò. Anche se non abbiamo notizie dirette sul G. in questo periodo, sembra che egli abbia tentato, basandosi sui suoi legami, di promuovere in Terra d'Otranto l'opposizione contro la nuova monarchia e di stabilire collegamenti con i partigiani degli Svevi in altre provincie. Suo figlio Berardo, ancora al tempo di Manfredi, aveva sposato Milisenda, sorella della contessa Minora di Apice e vedova di Federico Maletta, ucciso nel 1262. Sua figlia Adelburga era moglie di Rainaldo di Cirò (Rainaldus de Psycro, Rainaldus de Ipsigro), che nel 1268 avrebbe preso possesso della provincia di Calabria e Basilicata a nome di Corradino.
Quando Corradino, sceso in Italia, entrò nel Regno nell'agosto 1268, sembrò risollevare le speranze di una restaurazione del dominio svevo, i suoi sostenitori in Terra d'Otranto insorsero sotto la guida del G., di Arioldo de Ripalta e di Gligisio de Matino, i quali già negli anni 1255-56 erano stati tra i più importanti sostenitori di Manfredi in questa provincia. Anche se possediamo ulteriori particolari solo sulla fase conclusiva della rivolta, la defezione da Carlo I dovette coinvolgere tante città e feudi che il giustiziere Gautier de Sommereuse non poté rimanere nella provincia e si spostò nella confinante Terra di Bari, per organizzare da lì le sue contromosse. Pressati dalla sconfitta di Corradino e dalla crescente offensiva angioina, i sostenitori dell'ultimo sovrano svevo si raccolsero sotto la guida del G. a Gallipoli, dove ripararono anche alcuni protagonisti della rivolta in Calabria, come Rainaldo di Cirò, ma alla lunga non poterono impedire che la città fosse cinta d'assedio da terra e dal mare, anche se una via di alleggerimento sembrava offerta agli assedianti dai collegamenti con la sponda opposta dell'Adriatico.
I partigiani di Corradino rimasero asserragliati a Gallipoli dall'ottobre 1268 fino al maggio o giugno 1269, sebbene il 1° marzo 1269 Carlo I, per accelerare la caduta della città, avesse licenziato il giustiziere in carica, per sostituirlo con il fratello di questo, Pierre de Sommereuse, capitano dell'esercito assediante. Alla fine gli assediati capitolarono e furono presi prigionieri tutti i cavalieri e baroni e le famiglie che si erano rifugiate con loro a Gallipoli. Il re aveva pronunciato il giudizio su di loro già da mesi. Subito dopo la resa, il giustiziere fece impiccare i trentatré principali capi della rivolta di Brindisi e Gallipoli rei manifesti di alto tradimento: tra questi erano il G., i suoi figli Simone, Berardo e Balduino, suo genero Rainaldo di Cirò e un altro parente, Simone Gentile.
Le donne e i bambini furono consegnati in custodia alle città e ai baroni come prigionieri. Per Milisenda, la vedova di Berardo Gentile, si incaricò della prigionia sua sorella, la contessa Minora d'Apice. Le proprietà del G. - i feudi che ancora gli rimanevano - erano state sequestrate sin dall'inizio della rivolta, a partire dal gennaio 1269 e divise tra i vincitori. Dato che tutti i figli del G. furono giustiziati nel 1269, gli sopravvisse solo un nipote, Riccardo, figlio di Berardo Gentile e di Milisenda. Si chiamò poi Riccardo Gentile d'Apice e nel 1301 fu liberato da Carlo II dalla macchia di alto tradimento che gravava sul padre e sul nonno. Tra le donne, la vedova del G., Clementia, ottenne come atto di grazia una pensione annua per il suo mantenimento. Era ancora in vita nel 1284. È sconosciuto il destino dell'altra figlia, Adelburga, che rimase in prigionia con la madre a Nardò.
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