CACCINI, Tommaso (al secolo Cosimo)
Nacque a Firenze il 26 aprile 1574, terzogenito di Giovanni di Alessandro e di Maddalena di Paolo Corsini, vedova Baroncelli. Giovanissimo, non avendo ancora compiuto i quindici anni, scelse la vita religiosa ed entrò nel chiostro domenicano di S. Marco. Molto presto rivelò di possedere le qualità richieste per un predicatore, e tenne quaresimali in S. Maria Novella sin dal noviziato. Nel 1609 predicò il quaresimale nel duomo di Cosenza, e dopo di allora fu chiamato molte volte a svolgere questo ministero fuori Firenze, in diverse città.
Dal chiostro di S. Marco ricavò indubbiamente, oltre la tecnica della predicazione, qualche spunto di quello spirito polemico e castigatore di costumi, che era divampato poco più di un secolo addietro con il Savonarola; ma se qualche eco raggiunse il C. di quella tradizione, quello che egli ne ricavò furono l'aggressività e la violenza, non i motivi ideali: nella sua vita e nelle sue opere infatti il fanatismo di chiesa non va mai disgiunto dalla cura degli interessi personali e dall'arrivismo all'interno dell'Ordine; e la scelta del nome di religione testimonia di un'ambizione, dal C. esplicitamente manifestata senza pudore, di divenire in teologia e in dignità fra i domenicani il nuovo Tommaso d'Aquino.
In realtà, per quanto riguarda la teologia e la storia della Chiesa, la Storia ecclesiastica del primo Concilio niceno (Lucca 1637), scritta per imporre il proprio nome e far carriera, non è altro che una raccolta di citazioni, spesso rozzamente manipolate, dalle opere dei Padri della Chiesa, quali dovevano servire a lui e ai confratelli per dare traccia e contenuto alle prediche e ai quaresimali.
Fra le attività da lui svolte, la sola che di necessità attira sulla sua figura l'attenzione dello storico, è la violenta campagna persecutoria e delatoria contro Galileo Galilei, di cui il C. si assunse l'iniziativa, affiancato da un altro domenicano, fra' Nicolò Lorini.
Dalla corrispondenza tra i due fratelli del C., Matteo e Alessandro (edita in G. Galilei, Opere), risulta che già nell'anno 1611 il C. era orientato ad aprire una polemica contro Galileo. Dal chiostro di S. Marco partì comunque il primo attacco, da parte del Lorini, il 1º novembre 1612, ma il Lorini non ebbe il coraggio di portarlo a fondo e scrisse delle goffe scuse a Galileo, che non lo prese sul serio. Più incisivo fu l'attacco del C., due anni dopo, nella quarta domenica d'avvento del 1614, dal pulpito di S. Maria Novella; il C. era stato nel 1611 allontanato da Firenze e mandato priore a Cortona, dove non era riuscito, a dispetto degli sforzi del fratello Matteo, a ingraziarsi il cardinale Barberini; ora aspirava a un baccellierato a Roma, al convento della Minerva, e in questo frangente si mise in evidenza, avendo tra le mani una copia della lettera di Galileo al Castelli relativa alla conciliabilità dell'ipotesi copernicana con il libro di Giosuè. Il C. denunciò enfaticamente ai fedeli la matematica, arte diabolica e fautrice di eresia; pare che la sua predica si sia conclusa con la citazione a effetto di un versetto del primo capitolo degli Atti degli Apostoli: "Viri galilaei, quid statis adspicientes in caelum?". Il risultato della clamorosa sortita, che non poteva essere gradita a più di un alto esponente della gerarchia ecclesiastica, ma che rientrava nella linea generale lungo la quale si muoveva in quel periodo l'Ordine dei domenicani, fu un iniziale successo del C. nella scalata alla reggenza della Minerva, e l'apertura del primo processo a Galileo. Il Lorini s'incaricò di trasmettere copia della lettera incriminata al cardinale Millini del S. Uffizio, e fu aperta in gran segretezza un'inchiesta. L'intenzione delle alte gerarchie era con ogni verisimiglianza quella di giungere al più presto possibile all'archiviazione del caso. La copia inviata dal Lorini era deformata, e Galilei si rivolse al suo amico monsignor Piero Dini affinché presentasse l'originale della lettera al Castelli, al padre gesuita Grienberger (in questo primo processo, a differenza dal secondo, Galileo ebbe un certo appoggio indiretto dai gesuiti, che divennero invece i principali portatori dell'accusa nel secondo), ed eventualmente allo stesso cardinale Bellarmino; sta di fatto che il Dini, pur senza l'approvazione di Galileo, cercava di superare la situazione con una interpretazione compromissoria del contenuto della lettera.
Fu a questo punto che intervenne nuovamente il C., questa volta non dal pulpito, ma presentandosi spontaneamente, il 20 marzo 1615, per testimoniare contro Galileo. Falsamente dichiarò, "delato juramento veritatis dicendae", di essere stato sospinto a deporre giudizialmente dal cardinale d'Aracoeli, che era invece tra i fautori del non doversi procedere contro Galileo; e proseguì nell'affermare in primo luogo la propria convinzione che la dottrina copernicana fosse creticale, dichiarando poi in secondo luogo di avere sentito e saputo che i "galileisti" sostenevano le tre seguenti proposizioni: "Dio non è altrimenti sustanza, ma accidente. Iddio è sensitivo perché in lui sono sensi divini. I miracoli che si dicono essere fatti dai Santi non sono veri miracoli". Proseguì inoltre la sua deposizione al S. Uffizio con l'accusare Galileo come sospetto in cose della fede, e amico intimo di fra' Paolo Sarpi, tacciato di empietà. Inoltre, senza neppure essere stato interrogato in proposito, denunciò gli accademici lincei, dei quali faceva parte Galileo, accusandoli di essere in corrispondenza con altri scienziati della Germania (e quindi in sospetto di luteranesimo).
A sostegno della sua delazione, il C. fece pure, in quella sede, il nome di due testimoni, il domenicano Ferdinando Ximenes, reggente di S. Maria Novella, e Giannozzo Attavanti, pievano della chiesa di S. Ippolito in Castelfiorentino. Ma l'uno e l'altro testimone smentirono nella sostanza le accuse del C.; in particolare l'Attavanti negò recisamente di avere "sentito dire dal S.r Galileo cose che repugnino alla Scrittura Sacra né alla S.ta Fede nostra Cattolica"; e quanto alle proposizioni filosofiche riferite dal C., entrambi i testimoni condussero gli inquisitori nella persuasione che si trattasse di espressioni usate nelle esercitazioni dialettiche dei frati, senza rapporto alcuno con gli insegnamenti di Galileo.
La seduta del S. Uffizio del 25 nov. 1615, considerate le accuse del Lorini e del C., e le deposizioni dei due testimoni, arrivò alla conclusione che non si dovesse prendere per il momento alcun provvediniento circa la fede di Galileo, ma che se ne dovesse esaminare il libro sulle macchie solari, citato da uno dei due testimoni, al fine di una più approfondita conoscenza dell'intera questione.
Si trattò di una soluzione interlocutoria, che lasciava, come di fatto avvenne, la porta aperta anche a uno sbocco opposto a quello che allora parve ovvio. Il C. tuttavia se ne intimorì, ed ebbe sentore che i suoi intrighi potessero averlo posto in una situazione svantaggiosa. Per questo attese la venuta a Roma di Galileo (questi si era affidato dapprima alla difesa epistolare e all'appoggio del Dini e di Cristina di Lorena, ma ai primi di dicembre, sebbene infermo, preferì venire a difendersi di persona) per andarlo a trovare e presentargli le proprie scuse. Lo squallido episodio è raccontato con accenti di disprezzo da Galileo in una lettera al ministro di Cosimo II granduca di Toscana, Curzio Picchena: "Hieri fu a trovarmi in casa quell'istessa persona, che prima costà da i pulpiti, e poi qua in altri luoghi, haveva parlato e machinato tanto gravemente contro di me: stette meco più di 4 hore, e nella prima mezz'hora, che fummo solo a solo, cercò con ogni summissione di scusar l'azzione fatta costà, offrendomisi pronto a darmi ogni satisfazione; poi tentò di farmi credere, non essere stato lui il motore dell'altro romore qui".
La prima fase del processo non andò come il C. avrebbe voluto, e le sue fortune personali attraversarono un breve periodo di declino; ma fu un periodo breve, perché l'esito del processo, che nel 1616 si concluse con la sconfitta di Galileo, lo fece tornare nelle buone grazie del S. Uffizio.
Da quest'epoca in poi non conosciamo altre sortite clamorose del C. contro Galileo, ma sappiamo che continuò a svolgere, questa volta in modo più oculato e sotterraneo, gli uffici a lui così congeniali di spia e di delatore; risulta con certezza da una lettera di Matteo ad Alessandro del 25 genn. 1619 (Galilei, Opere, XIII, p. 156) un viaggio segreto del C. da Roma a Firenze per "accomodare quelli suoi intrighi col Galileo", e per tenere "qualche persona più a segno".
Le sue vicende personali dopo il 1616 sono alterne, e sicuramente collegate alle sue attività segrete. Fu confessore delle monache nel convento della Orsina, e poi penitenziere in S. Maria Maggiore; in entrambe le situazioni la sua personalità equivoca non mancò di manifestarsi, anche se la documentazione che possediamo non ci porta oltre qualche vago sospetto. Alcune tortuose vicende di questo periodo sono narrate, sulla base del carteggio dei fratelli Caccini, dal Ricci Riccardi. Confinato per un certo periodo a Viterbo, poté tornare con l'aiuto del fratello Matteo a Firenze nel 1622, dove ottenne la patente di magistero in teologia con la voce attiva, grado altissimo nell'Ordine. Visse da allora all'ombra di casa Medici, e poté assistere, da priore di S. Marco, agli sviluppi del secondo processo di Galileo, quando questi fu consegnato, nel 1632-33, da Ferdinando II al papa. Ma non vi prese pubblicamente parte.
Morì nel 1648 e venne sepolto nella chiesa di S. Croce.
Fonti e Bibl.: G. Galilei, Opere (ed. naz.), XII, pp. 123-265 (passim);XIII, p. 156; XVIII, pp. 416-423; XIX, pp. 276, 307-313; A. Ricci Riccardi, Galileo Galilei e fra' T. C., Firenze 1902; sul ruolo avuto dal C. nella vicenda galileiana sono reperibili cenni in tutte o quasi le opere che trattano della vita e dei processi a Galileo; limitiamoci qui a ricordare: F. Flora, Ilprocesso di Galileo, in V. Viviani, Vitadi Galileo, Milano 1954, pp. 77-85; G. De Santillana, The Crime of Galileo, Chicago 1955, ad Indicem;G. Morpurgo Tagliabue, Iprocessi di Galileo e l'epistemologia, Milano 1963, ad Indicem;L.Geymonat, Galileo Galilei, Torino 1957, pp. 100 s.