TOLOMEI
– Famiglia tra le cinque ‘schiatte maggiori’ che composero l’indiscussa élite del ceto magnatizio senese della piena età comunale e quindi del patriziato cittadino nella prima età moderna.
La fama e la potenza raggiunte già nel corso del Duecento dal casato avrebbero determinato, in età moderna, una vasta fioritura di leggende sulle origini del lignaggio, proiettate in remote antichità: ora, sull’onda dell’accostamento paronomastico si chiamarono in causa i sovrani dell’Egitto tolemaico, ora, conformandosi alla vulgata sulle origini galliche di Siena, si ancorò invece la vicenda del preteso capostipite Baldistrich al tempo di Carlo Martello, Pipino o di Carlo Magno. Solo su tal nome, e sugli echi nordici che esso suggerisce, poggia la supposta origine germanica del lignaggio, che invece lascia le sue prime tracce nella documentazione solo dal tardo XII secolo, essendo tutta da dimostrare l’appartenenza al casato di alcuni discendenti di un Baldistricca di cui restano due erratiche attestazioni nelle prime carte (del 1121 e del 1159) del fondo diplomatico Tolomei.
Per certo tra il 1180 e il 1193 un Tolomeo di Rinaldo appare in alcuni rilevanti atti compiuti dal Comune di Siena, ma l’incidenza nell’élite dell’età consolare del gruppo familiare, insediato nel borgo esterno all’antica civitas sorto presso la chiesa di S. Cristoforo, appare comunque ancora debole. La sua vera affermazione sulla scena pubblica coincide significativamente con i primi decenni dell’esperienza podestarile, trovando compiuta espressione nella costruzione del palatium magnum, che la tradizione tardomedievale, raccolta dal testo quattrocentesco delle Cronache senesi, ancora al 1208, anno della pacificazione tra Siena e Firenze. Circa le basi reali su cui poggiò tale affermazione si è peraltro solo sommariamente informati: un non trascurabile fattore nella costruzione del successo sulla scena cittadina, oltre che un suo primo solido indizio, poté essere la probabile appartenenza al lignaggio di un protagonista di primo piano della Chiesa senese del tempo, cioè Ugo, dal 1219 preposto e poi dal 1234 al 1245 arcidiacono del capitolo cattedrale, di cui sono ben attestati tanto i legami con la Curia romana sotto Gregorio IX quanto i rapporti di fiducia con alcuni dei più attivi operatori senesi alle fiere di Champagne.
Determinanti dovettero comunque essere, in tal senso, i profitti garantiti dalle attività mercantili in cui i Tolomei dei primi anni del Duecento appaiono già decisamente impegnati. Un ruolo primario sembra svolgerlo allora Tolomeo di Tolomeo di Baldistricca, che come il fratello Giacomo porta, nella documentazione del tempo, l’epiteto della Piazza, che rimanda appunto alla costruzione del palazzo affacciato sulla piazza di S. Cristoforo. Sin dal secondo decennio del secolo Tolomeo della Piazza fu protagonista, spesso in collegamento con altri operatori e società senesi e alcuni congiunti, di affari per la compravendita di pelli, panni, grano e nel mercato finanziario: operazioni ancora contraddistinte da un raggio d’azione limitato, stando alla documentazione superstite, che senz’altro rimanda solo un’immagine parziale e frammentata di un’attività di indubbio successo. Un quadro documentario peraltro assai tipico di questa fase in cui, anche per i Tolomei come per altre grandi società d’affari senesi, si compiva quello che Michele Cassandro (1988) ha definito «l’avvio lento e guardingo che prelude all’espansione potentissima di qualche decennio più tardi» (p. 131).
L’espansione degli spazi finanziari e commerciali dei Tolomei appare comunque evidente sin dal terzo decennio del secolo. Per certo nel 1226 Tolomeo della Piazza fu, con i suoi soci (tutti esterni alla famiglia), creditore del Comune di Massa per l’ingente somma di 550 marche d’argento, prestito con cui si aprì una serie di operazioni creditizie con Massa e il vescovo di Volterra che avrebbero avuto gran peso nell’affermazione dei Tolomei negli ultimi decenni della prima metà del secolo. Allora, mentre più sporadiche appaiono le attestazioni dell’attività mercantile dei figli di Tolomeo della Piazza – ben attestati fino al 1257 come prestatori al comune, e assai attivi nelle istituzioni politiche e finanziarie del reggimento popolare al governo dal 1224 – si impose, quale fulcro degli affari della famiglia, la più robusta ‘Società dei figli di Giacomo della Piazza’, documentata sin dal 1245: la prima compagnia a utilizzare la ragione sociale della famiglia, e destinata a perdurare, con alterna fortuna, per tre quarti di secolo.
Vi agirono come soci principali, prima personalmente, poi tramite i loro figli e nipoti, i cinque figli maschi di Giacomo della Piazza, che era stato camerlengo di Biccherna per due semestri nel 1226: Baldistricca, Tavena, Tolomeo, Rinaldo e Cristoforo. Negli anni cruciali che seguirono la scomparsa di Federico II, la compagnia – nella cui conduzione sembrarono avere un ruolo centrale Bartolomeo di Cristoforo e suo fratello Rinaldo – si inserì nel ricco ‘affare di Montieri’, imponendosi, a fianco della società guidata da Orlando Bonsignori, come fornitori di liquidità al vescovo di Volterra, impegnato nel tentativo di recuperare il controllo sulle ricche argentiere di quel centro minerario, che nel 1248 Federico d’Antiochia aveva ceduto in pegno a un’altra famiglia di prestatori senesi, gli Scotti. L’affare, rilevantissimo sul piano politico oltre che su quello economico, decollò nel 1253-54, ma anche nei decenni successivi i Tolomei avrebbero mantenuto un ruolo centrale e, anzi, via via preminente come finanziatori del presule volterrano, garantendosi nell’immediato e nel tempo rientri non solo finanziari e non sempre facilmente calcolabili. Quando nell’estate del 1257 il vescovo venne autorizzato dal papa ad alienare per far fronte alla crisi debitoria, un nipote di Giacomo della Piazza, Ildibrandino Tolomei, acquistò per sette anni i proventi della giurisdizione e dei beni dominicali di Montalcinello e Certaldo. Un ventennio dopo, nel 1277, l’episcopato volterrano concesse per dodici anni lo sfruttamento di una delle vene di Montieri a Tofano di Alessio Tolomei, in ricompensa dei commoda et honores che il padre aveva fornito e forniva alla cattedra: in quello stesso anno proprio Alessio di Rinaldo figura come podestà di Montieri, ruolo in cui dieci anni più tardi comparve il suo congiunto, Meo di Pietro di Cristoforo. I Tolomei avevano in effetti consolidato nella seconda metà del Duecento il proprio controllo sul castello e le sue argentiere, un controllo che, nonostante il tentativo di Bonifacio VIII di cassare come usurari una parte dei crediti dei Tolomei, si mantenne nei primi decenni del secolo successivo, quando anzi esso si emancipò pienamente anche dal partenariato con i Bonsignori. Si tratta solo di un esempio, probabilmente il più significativo, del genere di affari conclusi nello scacchiere locale dai Tolomei.
A sostenere la piena affermazione del lignaggio, accanto a questo genere di operazioni si collocavano poi quelle giocate sullo scacchiere europeo. Anche qui rilevantissimo, accanto al commercio internazionale, appare il ruolo avuto dal credito erogato agli enti ecclesiastici, principalmente nella Contea di Champagne e nel Regno d’Inghilterra, cui a sua volta si collegò il saldarsi di una relazione privilegiata con la Chiesa romana, che i Tolomei instaurarono ponendosi sulla scia di Scotti e Bonsignori, assurti sin dal terzo decennio del Duecento a un ruolo preminente quali campsores domini Pape. Determinanti appaiono, su questo fronte, gli anni Cinquanta e il pontificato di Alessandro IV, quando Rinaldo e Tolomeo di Giacomo, e poi altri consorti, entrarono nel giro degli interessi e degli affari della corte papale, dando vita a mutevoli collaborazioni con le altre compagnie senesi. Particolarmente fertile risultò allora il campo delle operazioni creditizie svolte in Inghilterra e connesse al negotium Sicilie, cioè alle esigenze di liquidità per la mobilitazione contro Manfredi, affidata, nel disegno papale, alla Corona di Inghilterra, sollecitata a impegnare per questo beni e proprietà del clero inglese e del Regno, contraendo e rinnovando mutui puntualmente garantiti dal ricavato della raccolta delle decime dell’Inghilterra e della Scozia. In questo terreno i Tolomei si inserirono agendo in consorzio con gli Scotti e altri prestatori senesi, ma anche erogando mutui a titolo personale e operando in modo autonomo nella gestione degli affari.
È il caso, anzitutto, di Pietro di Cristoforo, paradigmatica figura degli anni cruciali in cui si consumò la crisi politico-militare dell’esperienza ghibellina e si compì il passaggio di Siena al fronte guelfo e al nuovo ordine politico dell’epoca novesca. Addobbato cavaliere nel 1255, fu con due consorti tra i milites che Siena inviò contro Arezzo nell’estate di quell’anno; nel successivo fu uno dei domini militum. È a lui – già qualificato come dilectus filius – che sul finire dello stesso anno Alessandro IV sollecitò la concessione ai frati minori di Siena di certe terre di proprietà della famiglia contigue al locus di quei frati, e utili alla sua espansione.
Su tale operazione Pietro avrebbe dovuto utilmente far convergere tutti i capitali che il padre e il fratello Bartolomeo avevano destinato alla restituzione sostitutiva dei profitti usurari: prima solida traccia di un legame peculiare – destinato a perpetuarsi con mutuo vantaggio – tra il convento e il lignaggio, il cui inserimento anche diretto nei quadri del minoritismo senese fu, del resto, precoce e rilevante (già nel 1257, ad esempio, il vescovo Tommaso, destinando per legato al convento senese un suo libro di valore, lo riservava all’uso esclusivo di frate Giacomo Tolomei). Sempre Pietro, peraltro, avrebbe donato, insieme ai fratelli e ad altri consorti, anche i terreni nell’area di Castelmontone e di Porta all’Arco che consentirono, tra l’autunno del 1259 e il principio del 1260, il definitivo insediamento in città dei servi di Maria e degli eremitani.
Messer Pietro era comunque attivo come prestatore già prima del 1258, quando venne rimborsato dalla Biccherna per un mutuo erogato con altri al Comune, che gli aveva per questo ceduto in pegno la rocca di Tintinnano. È appunto in questi ultimi anni Cinquanta che egli si inserì a titolo personale anche nel giro degli affari di credito internazionale della famiglia, allora esposta principalmente nelle operazioni sul fronte inglese che coinvolgevano il papato. Per certo, quando alla luce degli avvenimenti del 1260, e poi con l’elezione nel 1261 di Urbano IV, gli assetti del rapporto fiduciario con la Chiesa romana subirono un brusco scossone, fu Pietro ad agire direttamente, rendendosi disponibile anche alla remissione di crediti e alla restituzione di somme pur di raggiungere un accordo – già siglato nell’ottobre del 1262 – che garantisse a lui e ai Tolomei il favore del pontefice.
Fu sul momento un’operazione economicamente in perdita, ma anche una precoce e chiara scelta di campo, i cui effetti non tardarono a manifestarsi. Pietro e altri quattordici consorti e soci Tolomei furono naturalmente compresi nell’elenco nominativo del centinaio di cittadini e mercatores senesi che tra il gennaio e il marzo del 1263, in ragione della loro fedeltà al papato, venivano esclusi delle ricadute delle sanzioni canoniche – in specie la cassazione dei debiti – che Urbano IV aveva fulminato sulla città per la sua adesione a Manfredi.
In quel gruppo di mercanti-banchieri che avevano abbandonato strategicamente la città andando a formare il nucleo costitutivo della parte guelfa senese, Pietro avrebbe avuto negli anni successivi un ruolo non secondario: combatté contro gli imperiali nella battaglia di Badia a Spineta, dove cadde il congiunto Guccio, capitano dei fuoriusciti guelfi, e lui stesso venne fatto prigioniero. Stando ai cronisti il Comune si impegnò a riscattarlo per 13.000 lire, imponendogli quindi atti di fedeltà alla repubblica e al re Manfredi, garantiti dalla cessione in pegno dei palazzi e castelli. Ma già nel 1265 egli fu a sua volta indicato tra i Capitani di parte guelfa della città e del contado; di lì a poco sarebbe stato tra i primi dei senesi che raggiunsero Carlo d’Angiò e gli giurarono fedeltà e, dopo la battaglia di Benevento, quando Clemente IV obbligò la città all’accordo con i fuoriusciti, egli figura tra i trentasei consiglieri di Parte guelfa che stipularono gli accordi di Viterbo. Nel 1268, quando il conte di Provenza ricambiò gli aiuti economici e militari forniti da Salimbeni, Malavolti e Tolomei con l’infeudazione di alcuni castelli, Pietro ricevette l’investitura di Montagutolo del Bosco, nella diocesi di Volterra.
Il coinvolgimento della famiglia nelle vicende dei cruciali anni Sessanta, di cui Pietro fu protagonista sulla scena cittadina, può essere illuminato da una prospettiva diversa seguendo la vicenda di Andrea Tolomei (1253-1310). Figlio anch’egli di Cristoforo di Giacomo, Andrea fu, diversamente da Pietro, durevolmente presente in Francia, dove, facendo base a Troyes, curò a lungo gli affari della compagnia, dal 1253 fin quasi alla metà degli anni Settanta, quando rientrò a Siena. In città, ancora al principio del nuovo secolo fu tra i soci fondatori della Societas nova (1310).
Egli è noto principalmente perché di lui restano alcune lettere volgari inviate dalle fiere di Champagne ai suoi congiunti – Tolomeo di Giacomo, Orlando di Stricca e Pietro di Cristoforo – e agli altri chompagni della società rimasti a Siena. Le tre lettere, tutte autografe, datano al 1262 e 1265 (da Troyes) e al 1269 (da Bar-sur-Aube), e giungono – come molte altre carte di compagnie mercantili – dall’archivio del convento di S. Francesco, da cui passarono nell’Ottocento, parte all’Archivio di Stato di Siena e parte al Fondo Toscano dell’Archivio segreto Vaticano. Edite sin dal 1871 (Lettere volgari, 1871) poi ancora nel 1931 (Chiaudano, 1931) e infine da Arrigo Castellani (La prosa italiana, 1982), le missive di Andrea offrono informazioni preziose sul raggio e il tenore dei traffici, mercantili e finanziari, dei Tolomei, ma anche – specie la prima – una testimonianza efficace della capacità di percepire gli orientamenti dei mercati d’Oltralpe e di cogliere le immediate ricadute che su di essi e sulle fortune della compagnia avevano le vicende italiane e le scelte politiche compiute in patria dalla famiglia.
Dopo il suo rientro a Siena, Andrea aveva impiegato molti dei suoi capitali nell’acquisto del castello e della signoria di Capraia (1275-78) – antica, ma non più popolosa né strategica fortezza, già stata degli Ardengheschi – additando un tipo di investimento, finalizzato al consolidamento di un nuovo profilo sociale aristocratico che, ben al di là della sua personale vicenda, segnò con forza la nuova fase della storia del lignaggio che allora si apriva.
I consorti de domo Tholomeorum et filiorum Iacobi figuravano difatti in primis, nella parte relativa al terzo di Camollia, nell’elenco della sessantina di casamenta magnatizi che sin dal 1277 venivano formalmente esclusi dall’accesso al collegio di governo dei Trentasei e poi, dal 1286, dei Nove. Le limitazioni imposte dalla normativa antimagnatizia erano avvertite come necessarie all’elaborazione di un nuovo stabile assetto politico, in cui convergevano sia le esigenze di pacificazione interna sia la prospettiva di una pace esterna con Firenze, funzionale anche all’affermazione egemonica sulla Maremma. Quelle norme per altro riconoscevano ai grandi larghi spazi di partecipazione al governo della cosa pubblica, definendo i nuovi equilibri di una ripartizione del potere che ben calibrava la complessa dialettica tra collocazione sociale e azione politica. La loro emanazione e, più in generale, l’affermazione del nuovo sistema politico imperniato sul governo di una larga élite popolare di mercanti ‘di mezzana gente’, non fu dunque subita dai Tolomei che, insieme ad altre grandi famiglie, furono anzi tra gli attori principali di questa evoluzione.
Nel corso del 1280, nel quadro della pacificazione generale delle fazioni nelle città toscane imposta per volontà di papa Niccolò III dal cardinale Latino Malabranca, questa condivisa esigenza di ristabilire una convivenza pacifica delle forze politiche e sociali anche attraverso l’eliminazione di ogni strumento di potenziale conflitto interfamiliare, portò i Tolomei a sottoscrivere, come altri casati, un accordo di pace con le famiglie loro rivali: il 31 ottobre, di fronte all’altare della Vergine nella cattedrale, sessanta maschi adulti del casato scambiarono l’osculum pacis con quattordici dei Salvani e tre dei Guinigi.
Tra i sottoscrittori di quegli accordi si incontrano alcune delle figure che meglio rappresentano la storia della famiglia nei decenni successivi, che vedono un arretramento dell’attività della vecchia compagnia mercantile, poco documentata nei decenni finali del Duecento, mentre si fa più evidente la vocazione di alcuni esponenti del lignaggio verso una professionalizzazione del funzionariato politico, che troverà poi espressione compiuta nei primi decenni del Trecento. Il primo nell’elenco dei Tolomei che siglarono la pace del 1280 fu Tolomeo, detto Scozia di Rinaldo, uomo d’affari già attivo negli anni di Montaperti, quando deteneva un ventesimo dei crediti verso il vescovo di Volterra per le argentiere di Montieri. Consigliere di Parte guelfa al tempo del fuoriuscitismo, fu forse il più attivo e autorevole esponente del casato all’interno delle istituzioni politiche del Comune nel tormentato periodo della transizione all’ordine novesco: dal 1270 in Consiglio generale, poi come provveditore (1271) e camerlengo (1274) della Biccherna, soprintendente al guasto dei beni dei ghibellini sbanditi (1272), membro di una commissione per riformare la Gabella (1274). Nel quadro della politica di controllo egemonico sulla Maremma fu designato podestà di Grosseto nel 1277, di Massa nel 1279, di Torrita nel 1285, di Montepulciano nel 1296. Negli ultimi anni del secolo, quando sedette ancora nel Consiglio generale, orientandone alcune importanti decisioni, si distanziò progressivamente dalle istituzioni del Comune ricavandosi tuttavia un posto diverso, ma di non minore contenuto politico, nella scena cittadina: si avvicinò infatti alla comunità semireligiosa dell’ospedale di S. Maria e dal novembre del 1303, fino almeno al 1309, Scozia fu stabilmente nel capitolo ospedaliero. Partecipò dunque attivamente alla gestione patrimoniale e al governo dell’ente, in anni cruciali, in cui si definì il profilo pubblico di quella struttura e maturò una dialettica serrata tra la comunità ospedaliera e il reggimento novesco sulle forme di esercizio del patronato comunale.
A questa altezza cronologica si collocherebbe anche l’ipotetica figura di Pia de’ Tolomei. I commentatori del poema di Dante, a partire da Pietro Alighieri, hanno infatti spesso identificato come appartenente al casato la Pia senese protagonista del celebre episodio di Purgatorio, V, 130-136, che Jacopo della Lana si limitava a indicare semplicemente come moglie di messer Nello (della Pietra).
Sull’identità del personaggio si è acceso, specie fra Otto e Novecento, un copioso dibattito: identificata dapprima con la Pia di Buonconte Guastelloni sposa, in prime nozze, di Baldo di Aldobrandino Tolomei, rimasta vedova nel 1290 (di cui si ipotizzarono a lungo le seconde nozze con Nello, smentite però dai dati documentari emersi attraverso gli studi), della Pia dantesca venne poi avanzata la possibile identificazione con una Pia di Ranuccio di Filippo Malavolti sposa, fra il 1282 e il 1283, di Tollo (o Bertoldo) dei signori di Prata di Maremma, ucciso a tradimento nel 1285 dai nipoti, che si ipotizzò affidata in custodia a Nello d’Inghiramo, forse anche parente e/o procuratore di Tollo al tempo delle nozze. Dal dibattito, ricostruito dai più recenti interventi, e su cui qui si sorvola, emerge la solida conclusione che l’identificazione, pur antica, del personaggio con una Tolomei sia erronea e frutto d’un fraintendimento.
Su un piano in parte diverso si impongono all’attenzione, in questi anni, anche i profili di due figli di Simone, detto Sorella, di Tolomeo, morto entro il 1279: si tratta di Meo Tolomei e Mino, detto lo Zeppa.
Meo (v. la voce in questo Dizionario), probabilmente di poco maggiore del fratello, era uno dei sessanta consorti che avevano sottoscritto il 31 ottobre del 1280 gli accordi di pace con i Salvani, in esecuzione dei quali cinque anni più tardi sposò, ricevendo dal Comune parte della dote, una giovane di quella famiglia: Mita di Bindino. Tra il 1290 e il 1295 sedette a più riprese in Consiglio generale, ma non si segnalano suoi offici di rilievo nelle magistrature comunali. La sua notorietà deriva invece dall’essere stato un poeta giocoso assai vicino a Cecco Angiolieri, al quale peraltro – esauritasi presto la discreta fama di cui (se è esatta la sua identificazione con il Meuccio con cui dialogano sia Dante sia Cino da Pistoia) Meo dovette godere tra i contemporanei – vennero a lungo ascritti i componimenti della sua esigua raccolta di rime, in cui inveì con fantastica violenza contro la madre e contro il fratello nella tecnica del tradizionale vituperium.
Sullo stesso tono, giocoso e mordace, di Meo Tolomei si attesta anche la produzione poetica (di cui si legge ora un solo malizioso sonetto) di un altro membro non particolarmente noto del casato, Iacomo, detto Graffione di Lotteringo (v. la voce in questo Dizionario), di poco più vecchio di Meo, e di non migliore fortuna: i suoi figli, che pure si mantennero orgogliosamente titolari, ma per quote irrisorie, della condivisa proprietà del palatium magnum di famiglia, godettero tuttavia negli anni Venti del Trecento di patrimoni fondiari solo limitati, pur se in lenta espansione, che li assimilarono – come per altro moltissimi altri consorti – al profilo patrimoniale d’una larga fascia della gente mezzana.
Più in linea con il nuovo standard aristocratico già additato dalla vicenda di Scozia, è il profilo che la documentazione restituisce del vituperato fratello di Meo, Mino, detto lo Zeppa, la cui maggior fortuna, anche nell’ambito della famiglia (Meo stesso gli vendette nel 1295 casa, terre e vigna), si impose negli anni Novanta e che si segnalò, nel primo decennio del Trecento, per un più chiaro coinvolgimento nella milizia e nel funzionariato politico: partecipò ad ambascerie al papa e al cardinal legato, comandò nel 1302 i cavalieri inviati da Siena alla guerra di Pistoia, fu designato podestà in centri importanti del territorio, a San Gimignano (nel 1300) e a Massa, ma anche a Viterbo (1301) e a Rimini. Sul piano degli affari egli risulta ancora coinvolto sino al 1307 nell’antica società dei figli di Giacomo, mentre fu dei pochi consorti che si defilarono dalla partecipazione alla Societas Nova Tolomeorum, costituitasi al principio del 1310.
Proprio le vicende della rifondazione della compagnia, che riunirà per pochi anni sotto la ragione sociale della famiglia quindici consorti e sette soci esterni, ci mostrano tanto l’ambizione di rilanciare il ruolo della casata nel mercato finanziario internazionale, profittando magari del fallimento dei Buonsignori, quanto il carattere velleitario di questo tentativo: sin dal 1312 il Comune dovette intervenire per risolvere l’evidente crisi della società, incapace di soddisfare i suoi creditori, e si avviò una lunga procedura fallimentare che si sarebbe trascinata, tra rappresaglie, fughe e liti tra i soci, ancora per molti anni.
Chiusasi così tristemente la parabola dei Tolomei nel mondo della grande finanza internazionale, la ricchezza del casato si legò sempre più alla capacità di agire sul mercato locale, investendo principalmente sulla terra e sul credito al Comune.
La fotografia assai dettagliata, pur se necessariamente incompleta, della composizione del casato e della fortuna dei suoi membri che ci viene restituita dal grande Catasto voluto dal governo dei Nove nel 1318, ci descrive un lignaggio ancora ricco nel suo complesso, ma numerosissimo, ramificato e disomogeneo: i capifamiglia dei Tolomei erano allora oltre settanta. I loro patrimoni fondiari erano stimati nel complesso a oltre 360.000 lire senesi, ma oltre la metà di quel totale era detenuto da solo una dozzina di consorti, molti dei quali riconducibili a due o tre rami familiari particolarmente ricchi: i figli di Meo Tavena, quelli di Meo di Incontrato, gli eredi di Granello di Lotteringo. L’altra metà era ripartita in modo assai disomogeneo in patrimoni vari per composizione, dislocazione e natura dei fondi.
La stessa impressione di profonda disomogeneità all’interno della larga compagine familiare del casato si ricava anche dalla varietà degli orientamenti e delle scelte operate sul terreno politico dai vari esponenti dei Tolomei tra gli anni Dieci e gli anni Quaranta del Trecento, quando alle tensioni legate al deflagrare del conflitto interno al ceto magnatizio – che li vide impegnati nel feroce odium con i Salimbeni – si sovrappose la possibile opzione per l’opposizione al regime popolare guidato dall’élite dei grandi mercatores noveschi che, per parte sua, nel timore di un paventato mutamento di stato, si legittimò enfatizzando il proprio ruolo di argine a tutela dei populares, irrigidendosi nell’ossessiva denuncia e in atteggiamenti duramente repressivi della violenza dei nobili de casato.
Esemplare è in tal senso il passaggio che si consumò nel 1318, quando, al culmine di un lustro particolarmente segnato da violenze e timori (collegati al quadro politico generale e al connesso acutizzarsi del conflitto tra casati), il malcontento deflagrò in aperta rivolta contro il regime; gli stessi Nove, pur avendo avuto la meglio contro rivoltosi e congiurati, si videro costretti a porre in Consiglio la questione del possibile cambiamento dell’assetto di governo. Due esponenti qualificati del casato, dal profilo biografico assai simile, apparvero in tale frangente posizionati su fronti opposti. Su quello di opposizione ai Nove, dalla parte degli insorti guidati da carnaioli, notai, giudici e alcuni uomini di casato, figurò Sozzo di Deo – personaggio maturo e già illustre, designato negli anni precedenti ad ambascerie e a podesterie importanti (Spoleto 1299; Viterbo 1300; Prato 1313) – che i capi della congiura avrebbero voluto, una volta abbattuti i Nove, imporre quale nuovo podestà. Riconosciuto e condannato, pur se non nel modo radicale e infamante riservato ai leader popolari della rivolta, Sozzo vide confiscati i suoi beni, e il guasto esemplare decretato dai Nove interessò le sue case in Calzoleria, abbattute insieme a quelle prossime del congiunto Deo di Guccio Guelfo, che si pose a capo dei rivoltosi messi al bando e riparati in Valdelsa, da dove per anni ancora avrebbe continuato ad attentare al pacifico stato.
Altri membri del casato, come Angelo di Granello e Niccolò di Corrado, sarebbero ancora stati nel 1325 al centro di una nuova sventata congiura ordita ai danni dell’oligarchia novesca, e ancora nel 1346 Spinelloccio di Giacomo di Meo Tavena fu, con alcuni congiunti, alla guida dell’ultima ribellione degna di nota prima della caduta del regime.
Sul fronte opposto, a rappresentare il casato nella continuità di una posizione di leale collaborazione con il regime popolare, troviamo, nella crisi del 1318 e negli anni successivi, l’autorevole messer Nello di Mino di Cristoforo, forse il più affermato tra gli esponenti del casato che avevano qualificato in senso professionale il proprio impegno come ufficiali di Stato. Uscito da una famiglia che aveva visto già il padre e il fratello Pietro, anch’egli miles, ricoprire dall’ultimo decennio del Duecento cariche podestarili nei maggiori centri dello Stato senese e a Massa, Nello aveva infatti raggiunto in questo campo, sin dai primi anni Dieci, un prestigio e una fama che l’avrebbero chiamato a ricoprire, con salari di spicco, capitanati e podesterie in città importanti in Toscana e oltre: a Volterra (1311), Perugia (1312), San Gimignano (1317 e 1327), Bologna (1320), San Miniato (1322), Todi (1327). In parallelo con Benuccio di Benuccio Salimbeni fu appunto Nello, quasi voce ufficiale del casato, a sostenere nel Consiglio generale chiamato a decidere, all’indomani della rivolta del 1318, sull’assetto futuro del governo, la mozione, poi approvata, che auspicava che il Comune continuasse a essere retto e governato per gentem mediam come era stato ben governato sino ad allora. Nello sarebbe scomparso vent’anni più tardi, all’indomani dell’ultimo solenne lodo di pace tra i Tolomei e i Salimbeni. Sin dalla metà degli anni Venti, infatti, il governo dei Nove aveva tentato di fronteggiare il potenziale eversivo delle violenze fra i due casati, forte anche dell’appoggio degli Angioini e dell’alleata Firenze. Le promesse di pace scambiate da Salimbeni e Tolomei nel luglio del 1326, intendevano concludere le vendette seguite all’uccisione nel 1321 di Francesco di Vanni Salimbeni, che costarono la vita ai figlioletti di Meo di Mino Tolomei, uccisi da uomini al soldo di Agnolino Bottone Salimbeni in un’irruzione nel palazzo Tolomei. Invano, dato che nell’ottobre del 1330, Pietro di Mino Mellone, Tavennozzo di Meo di Cristoforo e un figlio di Francesco Tolomei uccisero Benuccio di Benuccio e Alessandro di Brettacone Salimbeni, innescando nuove ritorsioni culminate nell’assassinio e poi nel feroce strazio dei cadaveri di Francesco Tolomei e di suo figlio, in quella che le cronache registrano come una grande vendetta, la maggiore che mai si facesse a Siena.
Stando alla testimonianza cinquecentesca di Orlando Malavolti sarebbe appunto dai tre uccisori di Benuccio, banditi da Siena e rifugiati a Ferrara, che avrebbe preso origine il ramo ferrarese dei Tolomei, detti dell’Assassino, da cui uscì la Stella Tolomei (v. la voce in questo Dizionario) che fu, nei primi decenni del Quattrocento, la più nota e fortunata favorita di Niccolò III d’Este, cui dette tre figli: Ugo (nato nel 1405), giustiziato nel 1425 in seguito alla scoperta del suo legame con la moglie legittima di Niccolò, Parisina; Leonello (nato nel 1407 e poi legittimato nel 1429) e infine Borso, nato nel 1413, i quali succedettero entrambi al padre nel Ducato, tra il 1442 e il 1471.
Negli anni Trenta del Trecento l’ampiezza delle private alleanze dei due casati e la loro capacità di mobilitare, nelle terre e nei castelli da essi controllati, una base popolare, abilmente usata come massa di manovra ed esercito privato, contribuirono ad aumentare il potenziale eversivo che le violenze connesse alla faida privata tra i due lignaggi avevano per la tenuta del regime e il mantenimento del pacifico stato. Nel 1333 si avviò dunque, con il coinvolgimento delle città alleate, la mediazione del Comune in vista prima di una tregua e poi del solenne accordo di pace, raggiunto con il lodo del vescovo di Firenze del novembre del 1337, ratificato e giurato da tutti i maschi adulti dei due casati, ma anche, in modo assai significativo, dai loro fideles, che ammontavano nel dettagliato elenco a oltre centocinquanta individui, ottanta dei quali provenienti da svariati centri dei contadi di Siena, Arezzo e Firenze, indicati come sequaces Tholomeorum. Negli anni immediatamente successivi alla pace, e in esecuzione di essa, si celebrò una serie di matrimoni tra gli esponenti dei due casati, tra cui spicca quello di Giovanna di Benuccio e Spinello di Meo Tolomei (1338).
Negli stessi decenni si imposero tuttavia all’attenzione due figure ben capaci di interpretare, su terreni diversi, il protagonismo dei Tolomei e la loro capacità di elaborare nuove forme di partecipazione alla costruzione di quel bene comune che diveniva allora a Siena il nodo ideologico più frequentato nel discorso pubblico: Bernardo Tolomei e Giovanni di Tese Tolomei.
Si tratta, da un lato, di un altro dei figli di messer Mino di Cristoforo, s. Bernardo Tolomei (v. la voce in questo Dizionario), che con il sostegno della famiglia sarebbe stato nel 1319 il principale artefice della fondazione del monastero di S. Maria di Monte Oliveto, guidando poi sino alla morte, nel 1348, il consolidamento e l’espansione in Italia della peculiare esperienza monastica olivetana.
Il profilo di messer Giovanni di Tese Tolomei emerge con forza. Nato negli anni Settanta del Duecento da Chiaramontese di Paganello, egli aveva sposato sul finire del secolo donna Andrea di Rustichino, sorella di quell’Azzolino che fu (1308-11) balivo del duca d’Atene Gualtieri di Brienne, e del quale il cognato fu poi esecutore testamentario. Operatore economico ancorato all’orizzonte del mercato senese, egli appare impegnato soprattutto nella gestione dei vantaggiosi affari legati all’inserimento negli ingranaggi delle finanze comunali, e in particolare nell’appalto delle Gabelle, in cui appare coinvolto in modo sistematico durante il primo decennio del Trecento. Il suo ingresso negli organi politici del Comune data ai primi anni Novanta del Duecento, quando iniziò a essere segnalato tra i membri del Consiglio generale; negli ultimi anni del secolo e nei primissimi del nuovo servì come rettore in alcune delle maggiori comunità dello Stato, e fu console della Mercanzia nel 1306 e nel 1309. Nel settembre del 1314 fu designato dal capitolo dell’ospedale di S. Maria della Scala come nuovo rettore, funzione che svolse con generale apprezzamento per un venticinquennio, sino alla morte nel 1339. Proprio il lungo rettorato di Tolomei segnò, sotto ogni punto di vista, il decollo del grande successo del maggiore ospedale senese, che espanse vistosamente le sue strutture (sua tra l’altro la committenza del perduto ciclo con le Storie della Vergine sulla facciata dell’ospedale attribuito a Simone Martini e a Pietro e Ambrogio Lorenzetti), accrebbe e consolidò il suo patrimonio fondiario e il suo assetto amministrativo (regolato dal nuovo definitivo statuto, redatto sotto il rettorato di Tolomei, e sostenuto da un articolato sistema di scritture ispirato a modelli avanzati di registrazione contabile) e la gestione economica dell’impresa ospedaliera chiamata a sostenerle, che si aprì allora anche all’accettazione di depositi e all’attività di tipo bancario. Nel governo di Tolomei si realizzò anche al massimo grado una prassi di responsabile collaborazione dell’ospedale alle iniziative politiche del Comune, che comportò un’osmosi profonda tra economia ospedaliera e finanze comunali; ma al tempo stesso il magnate seppe tutelare l’autonomia dell’ospedale e rivestì la sua carica conferendole un protagonismo politico del tutto nuovo, che segnò il superamento del conflitto sulle forme di esercizio del patronato comunale che all’inizio del secolo avevano opposto l’ente al reggimento popolare e definì un assetto gestionale che sarebbe stato guardato in Europa, per quasi un secolo, come un modello da imitare.
Se dunque due delle esperienze che più avrebbero rappresentato il genio senese nell’Italia fra Tre e Quattrocento avevano avuto origine dall’azione di due uomini del lignaggio, è anche vero che la vicenda complessiva dei Tolomei, senz’altro meno indagata per la seconda metà del secolo e per il Quattrocento, conobbe, dopo la caduta del regime dei Nove, un appannamento del ruolo politico del casato, che non lasciò emergere figure o episodi di vero rilievo. Alcune personalità si segnalano tuttavia, negli anni dello scisma.
Il minorita fra Bartolomeo Tolomei, già maestro di teologia a S. Francesco di Siena, è noto come autore di una seconda redazione della Vita del beato Lucchese da Poggibonsi, composta attorno al 1370 su commissione dei frati della custodia senese e degli uomini della comunità valdelsana, e il cui testo ci è giunto solo attraverso la trascrizione, e in parte la riscrittura, fattane un secolo più tardi dall’umanista fra Bartolomeo Lippi. Venne nominato da Urbano VI vescovo di Castellaneta prima del 16 novembre 1386, quando obligavit se personaliter al versamento della tassa pro communibus servitiis dovuta per la sua nomina (ma anche per quella del predecessore, il domenicano Benedetto Ardinghelli, che era deceduto nel luglio del 1383). Morì prima del marzo del 1396, data in cui venne designato il suo successore.
Quasi coetaneo e anch’egli frate minore fu invece fra Jacopo di Sozzino, che fu inquisitore a Siena nel 1363, vicario generale dell’Ordine nel 1373 e collettore apostolico per la Toscana e il Patrimonio. L’11 gennaio 1378 fu nominato vescovo di Narni da Gregorio XI e negli anni dello scisma fu a più riprese impiegato da Urbano VI come suo nunzio in Toscana, tra il 1379 e il 1381. Nel 1383 fu traslato alla diocesi di Chiusi e quindi, l’anno successivo, a quella di Grosseto. Negli ultimi anni Ottanta, nella fase di grande instabilità che a Siena preluse alla stagione della dominazione viscontea, egli sarebbe stato implicato in una delle congiure ordite contro il governo dei priori, legate all’addensarsi di vari oppositori, dal Monte dei riformatori a nobili fuoriusciti, e tra questi in particolare il suo congiunto Spinello, uomo d’armi già al soldo dei fuoriusciti che, nuovamente sbandito nel 1385, per un quinquennio imperversò nello Stato, minacciando nell’estate del 1389 la città stessa. Jacopo avrebbe in particolare preso al proprio soldo, in tale frangente, la compagnia di Bertoldo Orsini. Esiliato dalla città natale, sarebbe morto di lì a poco, nel 1390.
Ai bandi, presto rimessi, e ai guasti di beni e castelli del casato conseguenti a queste vicende di fine secolo si è spesso collegata l’idea di una sostanziale uscita di scena del casato, in qualche modo contrapposto al perdurante e accresciuto protagonismo politico dei Salimbeni: «riammessi in città, i Tolomei non turbarono più la pace pubblica, e da allora in poi si trovano ricordati i loro nomi solo per missioni compiute per incarico del governo, per onorificenze ricevute e per le opere di dottrina e di pietà di molti di essi» (La pacificazione..., 1942, p. 28); così, ad esempio, s’esprimeva Giovanni Cecchini nel 1942, fotografando in realtà soprattutto un deficit di attenzione alle vicende del casato e più in generale al Quattrocento senese da parte della storiografia, che rimane una lacuna ancora solo in minima parte colmata.
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