ANSELMI, Tina
Tina Anselmi nacque a Castelfranco Veneto (Treviso) il 25 marzo 1927, primogenita dei quattro figli di Norma Ongarato e di Ferruccio. Il padre, proveniente da una famiglia benestante di Padova, aderì negli anni degli studi universitari al socialismo, fede politica che mantenne anche dopo l’instaurazione del regime fascista; per le sue idee subì reiterate violenze e vessazioni. Dopo la laurea si trasferì a Castelfranco, dove trovò impiego presso la farmacia Paietta e conobbe Norma Ongarato (secondo la trascrizione ufficiale del cognome tramandata in famiglia, Ungarato, attribuito al capostipite immigrato dall’Ungheria ai primi dell’Ottocento). Il matrimonio del padre di Norma, Pietro, fondatore dell’azienda agricola di famiglia, era stato osteggiato a causa della differente estrazione sociale della sposa, Maria Bendo, figlia di un oste. Il matrimonio durò comunque poco, perché Pietro morì a ventotto anni e la giovane vedova, lasciata con i tre figli la casa dei suoceri, per vivere aprì un’osteria. Le doti di carattere, autonomia e determinazione di Maria Bendo ebbero grande influenza sulla giovane Tina, che elesse la nonna a figura familiare di riferimento: «Era grande e bella, fumava la pipa e sfidava tutte le ‘convenienze’; ciò che era solo forma lo rifiutava […]. Dormivo con lei e la sera dicevo con lei le preghiere […]. Era simpaticissima, perché tutto ci lasciava fare, purché non facesse del male né ai ‘cristiani’ né agli animali» (in Vanzetto, 2011, p. 168). Alla nonna materna Tina Anselmi attribuì anche quel tratto espansivo, gioviale e ottimista, del proprio carattere, che le fu di grande aiuto nel corso della carriera politica.
La guerra aggravò le condizioni già poco floride della famiglia. Per poter lavorare, la madre, la nonna e una zia furono costrette a emigrare in Piemonte, portando con sé i bambini. Al ritorno in Veneto Anselmi proseguì negli studi, frequentò prima il Ginnasio a Castelfranco e poi l’Istituto magistrale a Bassano del Grappa. Negli stessi anni entrò nella Gioventù femminile di Azione cattolica (GF), associazione che fu la sua prima scuola di perfezionamento spirituale e di militanza sociale e politica.
Nella GF Tina Anselmi e molte sue coetanee trovarono la possibilità di contribuire alla realizzazione di un programma di penetrazione sociale, di creazione del consenso e di trasmissione di valori e principi religiosi. L’associazione infatti era stata fondata nel 1918 col fine di adeguare la militanza cattolica alle forme della mobilitazione novecentesca. Le espressioni e i culti della religiosità tradizionale vennero così uniti alla formazione di quadri dirigenti – con la nascita nel 1921 dell’Università cattolica – e al potenziamento della valenza politico-sociale della militanza cristiana. In questo contesto, nella GF venne attribuita una rilevanza strategica all’educazione delle socie, in particolare delle dirigenti, basata su corsi di formazione che univano preparazione dottrinale, forgiatura del carattere e aggiornamento sui temi sociali e politici di rilevanza nazionale.
Nel percorso di maturazione politica della giovane Anselmi alle sollecitazioni della GF si associò presto l’altrettanto cruciale esperienza della guerra. La durezza della vita quotidiana, il contatto con la violenza e con la morte innescarono infatti nella sua coscienza in formazione nuove consapevolezze. Il cattolicesimo popolare, teso verso la mutualità e la cooperazione – vissuto e praticato dalla nonna e dalla madre – e l’antifascismo del padre acquisirono nel contesto dell’occupazione tedesca e della Repubblica sociale italiana significati più cogenti e drammatici, che si palesarono in tutta la loro chiarezza davanti all’impiccagione di trentuno giovani, catturati durante un rastrellamento sul Grappa. Fu un’esecuzione pubblica, cui fu costretta ad assistere la popolazione di Bassano, compresi gli studenti. Nelle discussioni che seguirono con le compagne di classe, e soprattutto in seno al suo gruppo di Azione cattolica, il rifiuto dell’ordine imposto da tedeschi e fascisti e la necessità di opporvisi divennero convinzioni profonde, sostenute dalla condanna del fascismo pronunciata dal suo assistente ecclesiastico. La scelta di combattere, da cattolica, il fascismo e il nazismo senza subire il ricatto delle rappresaglie maturò «di fronte ai ragazzi impiccati», quando si convinse della liceità di «rispondere a una guerra che viola i diritti umani, viola anche quelle leggi di carattere internazionale che garantiscono alcuni diritti ai prigionieri. Un prigioniero non poteva essere ucciso. E quindi una verifica di che cosa era il fascismo e che cosa era il cattolicesimo venne proprio intorno al tema delle uccisioni, delle rappresaglie, che poi era l’aspetto più terribile del fascismo e del nazismo» (intervista dell’autrice a Tina Anselmi, Castelfranco Veneto, 21 giugno 2002).
Da allora l’antifascismo militante divenne uno dei capisaldi della sua azione politica e non fu mai più scisso dalla sua identità cattolica. A ciò contribuì l’antifascismo dei sacerdoti con i quali entrò in contatto. Il clero della Marca Trevigiana, l’area cui storicamente Castelfranco appartiene, creò infatti intorno alla Resistenza una rete di sostegno e di collaborazione che facilitò la vita dei raggruppamenti e consentì l’ingresso nei gruppi clandestini di giovani già uniti da vincoli amicali all’interno delle associazioni cattoliche.
Uno dei gruppi clandestini più attivi a Castelfranco fu quello riunito intorno a Carlo Magoga, comandante del battaglione 'Bruno Lorenzoni', a Marcella Dallan, socia GF e sua futura moglie, a Gino Filippetto e ai fratelli Gino e Domenico Sartor, destinati a coprire ruoli di primo piano nella Democrazia cristiana (DC) fra il Veneto e Roma. Domenico Sartor, eletto alla Costituente e poi parlamentare, fu il primo segretario della CISL di Treviso, e grazie a lui Tina Anselmi scoprì il pensiero degli intellettuali francesi portatori di un cattolicesimo pensoso nei confronti della modernità, come Charles Peguy, George Bernanos e soprattutto Jacques Maritain, il filosofo che teorizzò la necessità, da parte della Chiesa, dell’abbandono della Cristianità medievale in favore dell’adesione alla democrazia pluralista; e che ebbe grande influenza sul laicato impegnato in politica proveniente dall’Azione cattolica.
Introdotta nella banda partigiana da Marcella Dallan, Tina Anselmi scelse il nome di battaglia di Gabriella, in onore dell’arcangelo Gabriele, il messaggero, il mediatore. L’esperienza resistenziale rappresentò anche una tappa decisiva della propria crescita politica, e fu proprio in quel contesto che maturò la scelta di iscriversi, nel dicembre del 1944, alla DC.
Nella lotta partigiana si distinse subito per doti di impegno e di coraggio tali da guadagnarle la nomina a staffetta e segretaria personale del comandante militare regionale, Cesare Sabatino Galli. In tale veste partecipò alle trattative con i tedeschi in vista della liberazione di Castelfranco.
In quello stesso periodo Tina Anselmi entrò in contatto con la condizione operaia, prologo della sua futura attività sindacale. Dal 1943 infatti monsignor Luigi Piovesana, assistente spirituale della GF di Castelfranco, teorico della dottrina sociale della Chiesa e autore di volumi dedicati alla formazione delle donne di Azione cattolica e all’assistenza agli operai, aveva creato nelle numerose fabbriche tessili della Marca i 'raggi di ambiente', ovvero nuclei di operaie cattoliche spesso aderenti alla GF, che nella cornice del rifiuto della lotta di classe avevano il compito di diffondere tra le operaie i principi della dignità della persona e del lavoro, della legittimità dell’azione sindacale, del diritto a un salario equo e di condizioni di lavoro rispettose della salute delle lavoratrici. Nell’ambito delle attività promosse da Piovesana la dirigente di Azione cattolica femminile, Emma Parisotto, aveva allestito una biblioteca per le operaie dello stabilimento Marnati-Larizza di Castelfranco, che fu affidata a Marcella Dallan, sua nipote, e a Tina Anselmi.
Finita la guerra, Anselmi si iscrisse alla facoltà di lettere dell’Università cattolica del Sacro Cuore a Milano ma non interruppe la sua attività politica, che continuava anzi a svolgersi sul triplice fronte dell’associazione, del partito e del sindacato. Da sindacalista iscritta alla Federazione dei tessili e membro della corrente sindacale cristiana della CGIL portò avanti vertenze soprattutto nelle filande con forme di lotta molto decise verso il padronato. Ebbe così modo di osservare la durezza che poteva assumere la vita delle donne: «Dopo questa prima giovanile esperienza, il mio interesse per la specificità della condizione femminile non sarebbe mai venuto meno» (Anselmi - Vinci, 2006, p. 85).
Questo forte impegno le permise di ottenere presto ruoli di responsabilità e nel 1947 fu eletta delegata al congresso nazionale della CGIL di Firenze. Nel 1948, in concomitanza con la laurea e con l’ingresso nella scuola, divenne dirigente del sindacato insegnanti elementari.
Agli esordi della carriera le modalità della sua militanza e gli incarichi che le furono affidati nel sindacato e nel partito si inserirono organicamente nel progetto di Pio XII di valorizzazione del laicato cattolico femminile. Questo progetto era stato elaborato sin dagli anni della guerra in vista dell’instaurarsi in Italia di un regime democratico e dell’introduzione del suffragio universale con il voto alle donne, due circostanze che avevano reso stringente la necessità di formare quadri in grado di difendere il primato morale della Chiesa, di orientare il voto femminile e di costruire il consenso attorno alla DC senza mutare i fondamenti della famiglia e della morale cattolica.
Questo il contesto in cui Tina Anselmi fu eletta dirigente della GF di Treviso insieme a Maria Pia Dal Canton, con l’obiettivo di avviare entrambe alla carriera politica e costruire grazie ad esse l’organizzazione femminile della DC su scala locale. A questo primo incarico politico seguì l’elezione a delegata al primo congresso nazionale del partito a Roma nel 1946, al quale partecipò come rappresentante della mozione repubblicana e vicina alla corrente dossettiana di Cronache sociali. Le sue doti di organizzatrice e il sostegno delle organizzazioni cattoliche trevigiane diedero subito i loro frutti: nel successivo congresso provinciale del partito fu quarta degli eletti con 11.451 voti e poté così partecipare anche al secondo congresso nazionale della DC a Napoli nel 1947. Fu lì che conobbe l’incaricata nazionale del settore Giovani, Franca Falcucci, con la quale strinse un forte rapporto di amicizia destinato a rinsaldarsi quando entrambe raggiunsero i vertici del Movimento femminile della DC (MF).
Il MF era stato concepito come un organo interno del partito cui veniva riconosciuta una sfera di autonomia organizzativa e operativa in tre settori specifici: la formazione politica delle iscritte riguardo ai problemi del mondo femminile; la sensibilizzazione e l’orientamento dell’elettorato femminile; e infine lo studio dei problemi relativi alla condizione della donna nella società italiana. Qui Tina Anselmi trovò sempre di più la sua vera vocazione politica e organizzativa, tanto che nel 1955 abbandonò definitivamente l’attività sindacale e l’insegnamento per potersi dedicare esclusivamente all’attività di partito. Lo spostamento di gran parte dei suoi interessi e delle sue attività a Roma non compromise tuttavia i suoi rapporti con il Veneto, e il suo legame con la Marca Trevigiana non venne mai meno. Nella sua carriera politica intese anzi le esigenze dei territori come strumento attraverso cui le domande specifiche dell’elettorato locale dovevano essere trasfuse negli interessi generali per costruire i legami nazionali e rendere concreta la democrazia. Tale primato della dimensione collettiva nella vita politica era espressione della sua religiosità e connotò anche il suo rapporto con la DC nonché il suo particolare ‘femminismo’.
Tina Anselmi fu infatti convinta assertrice di un'idea organicistica della politica, secondo cui la questione femminile poteva trovare una soluzione solo all’interno di una visione globale dei problemi della società considerata secondo una prospettiva di valori. Questa impostazione rendeva a sua volta centrale l’idea del primato del partito, considerato allo stesso tempo lo strumento principe per la realizzazione di una società cristiana e il perno del sistema politico italiano, nonché unico garante della giovane democrazia repubblicana. Con la sua opera di mediazione al centro la DC costituiva un baluardo contro il ritorno del fascismo e contro la vittoria del comunismo, e in questo quadro andava preservata l’unità politica dei cattolici.
Nella prima fase della sua carriera Anselmi condivise con le altre democristiane anche un rapporto tra fede e politica di tipo costantiniano, legato al magistero di Pio XII, il papa che autorizzò, promosse e definì le forme dell’ingresso in politica delle cattoliche in due noti discorsi del 1945 e del 1947. In essi Pio XII confermò l’antropologia tradizionale basata sulla pari dignità di donne e uomini di fronte a Dio, connaturata a una diversità di funzioni nell’ordine sociale, in cui trovavano giustificazione la gerarchia tra i sessi e il primato del ruolo materno nell’identità femminile. La stessa partecipazione politica delle donne venne presentata dal pontefice come maternità allargata alla società ed egli auspicò che la carriera politica fosse destinata principalmente, anche se non esclusivamente, alle donne nubili. Il nubilato avrebbe preservato le donne dal conflitto fra militanza e cura parentale e protetto la femminilità tradizionale incentrata sulla sfera domestica dai possibili effetti eversivi rispetto ad essa contenuti nell’attività politica. Non fu un caso che molte delle democristiane che giunsero ai vertici del MF fossero nubili, a cominciare dalla stessa Anselmi.
Dall’adesione al magistero di Pio XII derivò anche la scelta del MF e di Anselmi di sostenere le leggi di parità solo nei campi in cui – come nel caso del diritto al lavoro – esse non confliggessero con la dottrina della Chiesa. Questo vincolo finì per indebolire il consenso verso l’impostazione politica delle democristiane quanto alla sfera privata, sempre più difficilmente conciliabile con le istanze provenienti da una società in trasformazione, soprattutto quando nell’Italia del boom economico si affermò quel processo di secolarizzazione che coinvolse lo stesso mondo cattolico.
L’investitura papale ebbe d’altro canto l’effetto di far nascere nelle democristiane «una fortissima coscienza politica, di responsabilità storica, di dovere e quindi di scoperta di sé, valori che potevano apparire fino a quel momento estranei ad una coscienza religiosa femminile» (Gaiotti de Biase, 1992a, p. 111). È soprattutto in questo contesto che va compreso il particolare rapporto che legò Tina Anselmi alla DC, partito che difese e al quale aderì fedelmente fino al suo scioglimento, pur senza essere subalterna ai dirigenti, conservando una certa indipendenza nel rapporto con le correnti e dimostrandosi sempre osservatrice e critica implacabile di molte dinamiche interne che denunciò più volte di fronte agli organi del partito.
La carriera di Tina Anselmi fu sostenuta innanzitutto dal MF, la cui articolazione politica interna convisse con un’organizzazione improntata all’alleanza fra donne per la promozione individuale e di gruppo, specie in occasione degli appuntamenti elettorali. Un deciso anticomunismo e la concorrenza per l’egemonia sul consenso femminile informarono invece le relazioni tra il MF e le associazioni femminili laiche e marxiste, portando così al volontario isolamento delle donne democristiane, voluto con forza dalle delegate nazionali Elsa Conci e Franca Falcucci. Fino alla fine degli anni Sessanta la stessa Anselmi sottolineò più volte la necessità di rimarcare, specie di fronte all’opinione pubblica, la propria diversità ideologica rispetto alle donne raccolte negli altri schieramenti politici.
Il senso della superiorità e dell’autosufficienza del cattolicesimo di stampo pacelliano consentì a Tina Anselmi e alle democristiane di coniugare il rifiuto della collaborazione con le altre associazioni femminili e l’impegno in favore delle donne; nel 1956, appena eletta nel Comitato centrale del MF, si espresse affinché la presenza del MF stesso nel dibattito sulla questione femminile fosse di maggior peso anche all’interno della DC, diede il suo sostegno esterno alle diverse leggi in favore delle donne presentate dalle deputate democristiane e aderì allo schieramento trasversale favorevole alla legge Merlin per l’abolizione delle 'case chiuse'.
Per tutti gli anni Cinquanta Tina Anselmi continuò ad accumulare esperienze e a ricoprire incarichi sempre più importanti: nel 1952 fu relatrice nei seminari estivi per le iscritte al MF e nel 1954 fu incaricata provinciale dei Giovani della DC trevigiana; nel 1958, grazie all’appoggio di Elsa Conci – già eletta alla Costituente e segretaria del gruppo parlamentare democristiano alla Camera –, divenne delegata nazionale del settore Giovani, carica che le consentì nel 1959 l’ingresso nel Consiglio nazionale della DC in cui sedette fino allo scioglimento del partito.
Nello stesso anno Conci fu tra gli artefici dell’attacco ad Amintore Fanfani che portò alla spaccatura della corrente fanfaniana di Iniziativa democratica e alla nascita della corrente dorotea; Anselmi seguì la delegata nazionale in questa scelta. Nel corso del VII Congresso della DC sostenne la linea del nuovo segretario, Aldo Moro, consenso che fu ancora più esplicito nel corso del successivo congresso di Napoli del 1962, con l’adesione alla politica di apertura ai socialisti.
Proprio gli anni fra il 1962 e il 1968 furono cruciali per la maturazione politica di Tina Anselmi. Quella che era stata una militanza vissuta in continuità con la scelta resistenziale e incanalata nei riferimenti ideali e nelle modalità organizzative dell’Azione cattolica divenne un’azione politica matura, sostenuta da un’interpretazione personale del rapporto tra fede e politica e da un’analisi attenta del sistema politico italiano osservato non solo nelle sedi centrali del potere ma anche nelle sue diramazioni periferiche, grazie allo stretto rapporto che il MF aveva con le sue sedi locali.
Dal papato giovanneo e dal Concilio Vaticano II Tina Anselmi recepì la necessità del dialogo fra la Chiesa e il mondo contemporaneo e di un linguaggio rinnovato per esprimere un vissuto di fede diverso da quello codificato in un «formulario tradizionale immobile e immutabile» (Gaiotti de Biase, 2010b, p. 109). In particolare condivise la piena legittimazione della libertà politica e del pluralismo ideologico e religioso operata dal Concilio. Queste novità permisero di trasformare la democrazia da baluardo in negativo rispetto alla minaccia totalitaria a insieme positivo di valori e di pratiche consustanziali all’identità cattolica. Ciò consentì a Tina Anselmi di trasporre le parole democrazia, persona umana e personalismo intese nel senso attribuito loro dal Concilio nel concreto dell’azione politica attraverso il rilancio della Costituzione, ricca «di tutti i valori di libertà e di pace che la Resistenza aveva espresso e che le forze politiche hanno saputo raccogliere. […] A rileggerla, ancor oggi si coglie […] l’ispirazione che ha guidato i costituenti nel porre a fondamento del nuovo Stato, l’uomo, la sua dignità, la sua esigenza di essere protagonista della vicenda politica, costruttrice di quel bene comune, condizione e premessa ad ogni bene personale. Giustamente è stato detto che la nostra è una Costituzione personalistica: questo costituisce il motivo di fondo della sua validità» (Anselmi, 1968, pp. 12 s.).
A partire da queste convinzioni Anselmi ribadì più volte che il fine ultimo della rappresentanza stava proprio nell’attuazione dei principi costituzionali. E dalla sua prospettiva ricopriva particolare importanza l’attuazione di quei principi tesi a garantire i diritti delle donne. Per Anselmi infatti il consolidamento della democrazia era strettamente legato alle scelte politiche compiute dall’elettorato femminile, il cui orientamento a suo parere si era sempre indirizzato verso valori e interessi generali.
Dal mondo femminile giungevano nuove esigenze e richieste legate alle grandi trasformazioni del Paese cui i partiti non mostravano di voler dare risposta. In considerazione di ciò Anselmi riteneva necessario aumentare l’impegno per raggiungere la parità giuridica fra uomini e donne, per incrementare la partecipazione di queste ultime alla vita pubblica e porre fine al conflitto tra maternità e lavoro. Per raggiungere tali obiettivi Anselmi, con alle spalle il MF, proponeva l’ampliamento degli spazi democratici e del decentramento amministrativo nonché il potenziamento dei servizi di welfare destinati alle donne e alla cura parentale.
Nel 1962 Tina Anselmi si recò negli USA per un tirocinio su questi temi ed ebbe occasione di incontrare il presidente John F. Kennedy. Nel 1964 fu eletta vice delegata nazionale del MF nel convegno che pose a capo del movimento la dorotea Franca Falcucci, erede di Elsa Conci. Nello stesso anno si oppose all’approvazione del sistema proporzionale nell’elezione interna degli organi del partito, che avrebbe poi portato al potenziamento del sistema delle correnti. Questa presa di posizione fu coerente con la sua scelta, adottata sin dalla fine degli anni Cinquanta, di denunciare nelle sedi interne al partito la degenerazione della DC, a cominciare dal tesseramento falsato, con la trasformazione delle sezioni da ambito di partecipazione democratica a strumento di potere dei dirigenti locali spesso in lotta fra loro. Tina Anselmi già nel 1966 giudicava infatti particolarmente preoccupante la «pressione delle oligarchie sul potere politico», e che la classe dirigente fosse «eletta sempre più dal potere economico» (Noce, 2014, p. 154). Per Anselmi solo un ritorno ad accordi di programma all’interno del partito e con le altre forze di governo, collegato a una scelta di valori coerente con le soluzioni concrete ai problemi del Paese, avrebbe potuto frenare il progressivo distacco dell’elettorato dalla classe politica. Nella sua visione mantenere la leadership nel mondo cattolico e rinsaldare la formula del centro sinistra sulla base di un organico e moderno piano programmatico erano le due vie obbligate per invertire i processi in atto. Ed espresse in modo drammatico le sue preoccupazioni osservando come «[u]na crisi che da noi si estendesse agli altri partiti farebbe sì che tutto il sistema verrebbe travolto e saremmo travolti noi con il sistema» (Anselmi, 1966, p. 204).
Alla fine degli anni Sessanta arrivarono anche gli incarichi internazionali: nel 1967 fu eletta nel Comitato direttivo dell’Unione europea femminile al Congresso di Monaco e di questa organizzazione fu poi vicepresidente nel 1969 e nel 1971. Nel 1968 venne eletta alla Camera, dove fu confermata fino al 1987. Appena entrata in Parlamento mise mano al suo progetto di revisione della legge Noce del 1950 che ampliava la tutela alle lavoratrici madri e che fu approvato nel 1971. Nella sua carriera firmò 475 progetti di legge – di cui 54 come prima firmataria – 98 dei quali furono approvati, fra cui importanti leggi destinate all'ampliamento dei diritti delle donne, quali quella sul lavoro a domicilio (legge n. 877/1973), che estese al settore le norme valide per il lavoro dipendente e la legge n. 903/1977 che sancì l’illegittimità della discriminazione delle donne sul lavoro.
L’impegno parlamentare consentì a Tina Anselmi di raccogliere i frutti della sua lunga e articolata carriera politica concretizzatisi presto in un gran numero di incarichi parlamentari e governativi: dal 1968 al 1973 fu membro della Commissione lavoro e previdenza sociale (d’ora in poi Lavoro), dal 1974 al 1976 fu sottosegretaria al Lavoro e in questa veste presiedette il Comitato italiano per l’anno internazionale della donna proclamato dall’ONU nel 1975 e organizzò una Conferenza nazionale su Sviluppo sociale ed economico del paese e occupazione femminile in occasione della quale tornò sul nodo del rapporto tra lavoro femminile e organizzazione sociale in questi termini: «Le scelte professionali e la cura della casa e dei figli, caricate quasi completamente sulla donna sono elementi di discriminazione e di segregazione della donna sul mercato del lavoro, elementi che […] diminuiscono poi le possibilità di un adeguato, stabile ed efficiente inserimento della donna nel mercato del lavoro. Una politica dell’occupazione femminile deve cominciare a rompere proprio questo circolo vizioso» (Noce, 2014, p. 238).
Tina Anselmi entrò in Parlamento quando la formula del centro sinistra diventava sempre più precaria e nella DC si rafforzavano i fanfaniani e i dorotei, il che portò a un’alternanza con governi centristi fino al luglio del 1973. Nello stesso anno, grazie alla mediazione di Moro, si approdò alla segreteria Fanfani e a un gabinetto di centro sinistra guidato da Mariano Rumor, che subì la pressione della crisi economica, del reiterarsi delle azioni dell’eversione neofascista e il montare del terrorismo di sinistra. In questo contesto, nel 1970 l’approvazione della legge sul divorzio aveva acuito le divisioni fra le diverse anime della DC e fra laici e cattolici all’interno della stessa compagine governativa, ulteriormente accentuate dal varo delle norme sui referendum e dal primo scioglimento anticipato delle Camere. Mentre i governi sceglievano di non agire, divorzio e riforma del diritto di famiglia uscirono dal ghetto delle ‘problematiche femminili’ per diventare questioni di rilevanza nazionale intorno alle quali si giocò un’importante partita per la connotazione sostanziale della democrazia. In particolare la modificazione della normativa sulla famiglia finì con l’implicare questioni ampie come quella dell’egualitarismo, del principio della neutralità dello Stato rispetto alle questioni morali e religiose, della redistribuzione del potere fra uomini e donne e di una possibilità più vasta di autodeterminazione dei singoli. La pressante richiesta di estensione dei diritti civili promossa dai movimenti femministi spinse inoltre le parlamentari dei diversi schieramenti ad attuare forme di sinergia tese ad accelerare le leggi di parità e di valorizzazione del ruolo delle donne nella società.
La sfida sulla famiglia pose anche in maniera più stringente il problema della laicità che Tina Anselmi affrontò rilanciando, sempre all’interno del partito, le modalità di azione laicale promosse dal Concilio, tese a incarnare i valori cattolici nella pratica quotidiana piuttosto che difenderli attraverso il braccio secolare e sollecitava il MF a «richiamare la realtà del mondo cattolico che ci è alle spalle perché essa esprima quei contenuti che non si garantiscono solo e prevalentemente attraverso l’azione dello Stato» (in Noce, 2014, p. 200).
Per quanto riguarda il referendum abrogativo della legge sul divorzio Tina Anselmi si schierò ufficialmente per il sì, scelta in una certa misura obbligata visti i ruoli ricoperti all’interno della DC e il ruolo di mediatrice ricoperto all’occorrenza con le gerarchie ecclesiastiche, ma che nelle memorie avrebbe poi giustificato soprattutto con la necessità di aderire alla disciplina di partito e di adeguarsi alle decisioni della maggioranza (Anselmi - Vinci, pp. 90 s.).
Il referendum e le successive elezioni – le regionali del 1975 e le politiche del 1976 – con l’arretramento relativo della DC e l’avanzata del Partito comunista italiano (PCI) portarono alla segreteria di Benigno Zaccagnini e all’approvazione da parte della DC della formula morotea dei governi di 'solidarietà nazionale', che prevedevano il coinvolgimento del PCI. Tina Anselmi confermò in quel frangente la sua adesione alla linea morotea e garantì il proprio sostegno al nuovo segretario. La collocazione all’interno del partito e le sue riconosciute doti di mediazione politica fecero in modo che nel III, IV e V governo Andreotti le fosse affidato il dicastero del Lavoro, prima donna a ricoprire il ruolo di ministro nella storia d’Italia.
L’incarico di ministra della Sanità le fu affidato per condurre in porto l’istituzione del Servizio sanitario nazionale, che divenne legge nel 1978; nello stesso anno firmò anche la 'legge Basaglia' sull’abolizione dei manicomi. La guida dei due ministeri sarebbe tornata poi nelle sue memorie come un’esperienza straordinaria: «Lavoro e salute: ti senti al centro della vita del paese. È una grande assunzione di responsabilità. Soprattutto per quanto attiene alla Sanità, le ingiustizie, gli sprechi, la mancanza di tutela sono insopportabili» (Anselmi - Vinci, 2006, p. 103).
Durante il rapimento Moro (16 marzo - 9 maggio 1978), che definì «la più grande tragedia politica che potesse abbattersi sull’Italia» (Anselmi - Vinci, 2006, p. 105) ebbe l’incarico di informare la famiglia Moro di quanto veniva discusso nel partito e nel governo; fu lei a comunicare a Eleonora Moro l'assassinio del marito. Tina Anselmi fu peraltro tra coloro che ritennero il delitto Moro un attacco decisivo alla stabilizzazione democratica del Paese, un evento non sufficientemente indagato nelle sue dinamiche e nelle sue implicazioni e nella sua visione organicamente collegato ai successivi omicidi di riformisti come Vittorio Bachelet, Roberto Ruffilli ed Ezio Tarantelli. Da quella tragica esperienza uscirono rafforzati il suo attaccamento alla democrazia e la sua fedeltà alle istituzioni.
Pochi giorni dopo l’assassinio di Moro, firmò la legge per l’interruzione volontaria della gravidanza. Nel quadro politico della solidarietà nazionale crebbe anche la sintonia con le deputate del PCI Giglia Tedesco e Nilde Iotti, con le quali condivise le discussioni sul progetto di iniziativa popolare per la riforma delle norme sulla violenza sessuale, in merito alle quali presentò un suo progetto di legge nel 1979.
Si deve all’intesa fra Nilde Iotti, presidente della Camera dal 1979, e la vice presidente, la democristiana Maria Eletta Martini, l’idea di affidare a Tina Anselmi la presidenza della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla loggia massonica P2: «Ore 17.15 [lunedì 30 ottobre 1981] sono convocata dall’onorevole Iotti. Mi propone di assumere la presidenza della commissione inquirente sulla P2. È d’accordo anche Fanfani», allora presidente del Senato (Vinci, 2011, p. 15). Fu titolare dell’incarico dal 1981 al 1987, mentre la Commissione concluse i lavori nel luglio del 1984.
«Questi due anni e mezzo sono stati per me l’esperienza più sconvolgente della mia vita. Ho fatto il ministro due volte, mi sono trovata dentro quella che chiamano la stanza dei bottoni. Ma solo frugando nei segreti della P2 ho scoperto come il potere, quello che ci viene delegato dal popolo, possa essere ridotto ad un’apparenza. La P2 si è impadronita delle istituzioni […] ha fatto un colpo di stato strisciante. […]. Per più di dieci anni i servizi segreti sono stati gestiti da un potere occulto» (in Vanzetto, 2011, p. 176).
Nell’intervento alla Camera del 9 gennaio 1986 in cui riferì dei lavori della Commissione, Anselmi descrisse la P2 utilizzando le stesse parole di Gelli, come 'un organigramma' connotato da una massiccia presenza di militari d’alto grado, di funzionari statali e di esponenti del mondo politico. Le relazioni intessute dalla loggia con quest’ultimo furono improntate alla soggezione, alla strumentalizzazione e al ricatto volti a creare «un tentativo sofisticato e occulto di manipolazione della democrazia» (in Vinci, 2011, pp. 419-428).
Tina Anselmi ebbe anche occasione di tratteggiare il ritratto di Licio Gelli cogliendone acutamente i principali tratti psicologici e caratteriali: «Quante volte, noi commissari, ci siamo interrogati su di lui, persona non di grande fascino, neanche di straripante intelligenza, un uomo insignificante, in fondo. Le mie conclusioni sono che proprio la monomania unita alla totale amoralità lo ha posto al di sopra della sua stessa mediocrità. La storia è sempre attraversata da grandi uomini piccoli. E gli ha trasmesso quella grande energia e quella capacità di scartare tutto ciò che impediva la realizzazione del suo progetto» (Anselmi - Vinci, 2006, p. 121). In più occasioni i 'piduisti' tentarono di ostacolare l’opera della presidente, ma non essendo in grado di ricattarla la denunciarono tre volte alla magistratura per il modo in cui conduceva le indagini, senza risultati.
Nel marzo del 1986 la Camera approvò una Risoluzione con 322 voti favorevoli e 45 contrari, in cui i deputati fecero proprie le conclusioni della Commissione e gli interventi di riforma proposti. A distanza di quasi vent’anni, in un’intervista del 2003, Tina Anselmi commentò il lavoro svolto con parole amare: «Tanto lavoro di indagine, tanti buoni risultati, ne emergeva una trama così chiara: eppure non gli è stato dato alcun seguito […]. Credevo e credo – non penso affatto che il pericolo sia cessato – che la P2 costituisca un grave pericolo per la democrazia. [Dopo vent’anni] sono ancora tutti lì, uno è diventato presidente del consiglio. […] Bisognerebbe che reagisse la parte sana dello Stato […] ma se non è mai stato fatto [niente] finora, si figuri se lo faranno un governo e una maggioranza parlamentare costellata di ex affiliati alla Loggia» (in Vanzetto, 2011, p. 178).
Il suo ultimo ruolo da parlamentare fu, nel 1989, la nomina a presidente della Commissione nazionale per la parità tra uomo e donna della Presidenza del consiglio. Alle elezioni del 1992 non venne rieletta; più volte il suo nome fu proposto per la presidenza della Repubblica, ma l’attività contro la P2 le precluse questa possibilità. Finché non ne fu impedita dal declino fisico, rimase attiva nella sfera pubblica per ricoprire incarichi e portare il suo contributo al mantenimento dei valori per cui si era battuta e cui aveva dedicato l’esistenza. Nel 1997 fu membro della Commissione governativa d’inchiesta sui fatti della Somalia, relativi ad accuse di violenza da parte di soldati italiani. Dal 1999 al 2001 fu presidente della Commissione nazionale sulle conseguenze delle leggi razziali per la comunità ebraica italiana. Dal 1998 al 2003 fu vicepresidente e poi presidente onorario dell’Istituto nazionale per la storia del Movimento di Liberazione in Italia fino al 2016. Alla memoria della Resistenza dedicò le sue ultime fatiche, convinta che solo la trasmissione dei valori a essa legati potesse preservare le giovani generazioni dall’esperienza di nuovi fascismi.
Morì a Castelfranco Veneto il 1° novembre 2016.
1946-1964: dieci convegni nazionali del Movimento Femminile della Democrazia Cristiana, a cura del Movimento Femminile della DC, Roma 1966; T. Anselmi in XI Convegno nazionale del Movimento Femminile della Dc, a cura del Movimento Femminile della Democrazia Cristiana, Roma 1966; T. Anselmi, La donna italiana e la Costituzione, in Donna e società, 1968, n. 6, pp. 12-20; P. Gaiotti de Biase, Il voto alle donne: ingresso nella cittadinanza, in Senza camelie. Percorsi femminili nella storia, a cura di I. Ricci, Ravenna 1992a, pp. 103-118; T. Noce, La militanza politica delle cattoliche. Appunti per una ricerca, in L’Italia repubblicana nella crisi degli anni settanta, III, Culture, nuovi soggetti, identità, a cura di F. Lussana - G. Marramao, Soveria Mannelli 2003, pp. 433-465; L. Bellina - M.T. Sega, Tra la città di Dio e la città dell’uomo. Donne cattoliche nella Resistenza Veneta, Venezia-Treviso 2004; T. Anselmi - A. Vinci, Storia di una passione politica. La gioia condivisa dell’impegno, Milano 2006; P. Gaiotti de Biase, Passare la mano. Memorie di una donna dal Novecento incompiuto, Roma 2010b; Le democristiane. Le donne cattoliche nella costruzione della democrazia repubblicana, a cura di T. Di Maio, Soveria Mannelli 2009; La P2 nei diari segreti di Tina Anselmi, a cura di A. Vinci, Seggiano di Pioltello 2011; L. Vanzetto, Tina Anselmi, in Belfagor, 2011, vol. 66, n. 2, pp. 165-196; L. Gazzetta, Tina Anselmi e la costruzione di una politica femminile, in Di generazione in generazione. Le italiane dall’Unità a oggi, a cura di M.T. Mori et. al., Roma 2014; T. Noce, Donne di fede. Le democristiane nella secolarizzazione italiana, Pisa 2014; M. Pitteri, La giovane Tina Anselmi. Dalla Resistenza all’impegno sociale e politico (1944-1959). Cento quadri d’insieme, Belluno 2018.
Immagine per cortesia Fondazione Bruno Buozzi