Timeo
Dialogo di Platone, il più familiare alla cultura medievale, l'unico tradotto in latino fino al sec. XII; D. lo cita solo due volte, in Cv III V 6 e in Pd IV 49, senza tuttavia dimostrare familiarità con i temi dell'opera: si è infatti discusso a lungo se egli ebbe o no conoscenza diretta del dialogo platonico.
Dopo una prima versione parziale di Cicerone, una diffusione ben più vasta ebbe la versione latina, ugualmente parziale (fino a 53 B), del neoplatonico Calcidio (IV sec. d.C.) che la corredò di un fortunato commento. Se il platonismo dell'alto Medioevo si avvale di altre fonti (soprattutto patristiche) e si sviluppa per vie diverse da quelle tracciate nel dialogo platonico (v. PLATONISMO), nel sec. XII, soprattutto nel fervido ambiente di Chartres, il T. sembra costituire il testo più adeguato ai rinnovati interessi per il mondo fisico nel solco di una tradizione in cui ugualmente si collocano il commento di Macrobio al Somnium Scipionis e la Consolatio di Boezio (in particolare con il famoso m. IX del III libro).
Prima dell'ingresso in Occidente del corpus aristotelico, al T. è affidato il compito di trasmettere l'unica concezione cosmologica organica, ereditata direttamente dal pensiero classico. Fondata su di un vasto repertorio di notizie (ampliato del resto dal commento di Calcidio), ricca al tempo stesso della profonda suggestione del mito, la cosmologia platonica è utilizzata in questa fase come punto di raccordo fra il racconto biblico e la sapienza antica. Così Giovanni di Salisbury si fa interprete di tutta una tradizione di platonismo cristiano, quando afferma che Platone, nel T., " dum causas mundi subtilius investigat, manifeste videtur exprimere Trinitatem, quae Deus est " (Policr. VII 5).
Per tutta la prima metà del sec. XII, infatti, sull'esempio di Abelardo e di Guglielmo di Conches, un'esegesi allegorica, che peraltro si riallaccia a una tradizione patristica, identifica generalmente l'anima mundi del testo timaico con la persona dello Spirito Santo, attribuendo allo Spirito stesso tutte le funzioni esplicate dall'anima all'interno dell'organica complessione dell'universo fisico. Le difficoltà di una simile identificazione nascono soprattutto dalla posizione subordinata che può attribuirsi facilmente all'anima nel contesto platonico originale, che importa di conseguenza - sul piano teologico - la subordinazione dello Spirito alle altre persone della Trinità. Dopo le condanne di Abelardo, in effetti, nella seconda metà del sec. XII un'interpretazione di questo tipo risulta difficilmente sostenibile e lo stesso Guglielmo di Conches abbandona la sua posizione iniziale. Perdendo ogni significato da un punto di vista teologico, l'anima mundi verrà a identificarsi completamente con il naturalis vigor, principio autonomo del divenire fisico, in una prospettiva in cui si va precisando una nozione nuova di natura, intesa come organico complesso delle cause seconde, intimamente animato da una propria forza generatrice. Questo processo risulta compiuto nell'opera di Alano di Lilla (v.), in cui l'anima mundi si risolve nell'idea di natura, assumendo una vera e propria funzione demiurgica, al di là dell'originaria funzione mediatrice.
Come risulta dagli studi del Garin e del Gregory, la fortuna del dialogo platonico nel Medioevo, il lavoro d'interpretazione di cui è stato oggetto, sono documentati soprattutto da una serie di Glossae, in gran parte ancora inedite, destinate ad agevolare la lettura tutt'altro che facile del testo. In molti casi esse mirano a neutralizzare i contrasti più evidenti con la concezione biblica e cristiana: particolarmente interessante, da questo punto di vista, la posizione di Guglielmo di Conches sul complesso problema del rapporto fra eternità divina e temporalità del mondo, per il tentativo di accordare Agostino e Boezio con il testo platonico.
In primo piano, in questi Introductoria al T., si delinea il grande tema platonico del rapporto fra la struttura ordinata del mondo fisico, intesa come naturalis iustitia, e il suo realizzarsi nella costituzione politica del mondo umano, nella positiva iustitia. Lo stesso tema è nell'opera di D., in cui assume un'importanza notevole, anche se espresso in termini che presuppongono piuttosto una mediazione averroistica.
Circa precisi accenni danteschi al testo platonico, si noterà che per la teoria esposta in Cv III V 6, sul movimento rotatorio della terra intorno al proprio centro (cfr. Tim. 40b), D. si richiama piuttosto a quanto ne dice Aristotele (De Coelo et mundo II 13, 2 93b 31-33), del quale del resto è accettata senza riserve la dottrina secondo cui la terra deve considerarsi in sé stabile e fissa in sempiterno (§ 7).
Per la conoscenza diretta del T. da parte di D., nulla si può stabilire con certezza prendendo in esame la confutazione da parte di Beatrice (in Pd IV 22-25 e 49-63) di un testo ben noto del T. (41d e ss.), ov'è questione del ritorno dell'anima alla stella a cui è legata da particolari relazioni: del resto, per la dottrina dell'anima, D. appare in contrasto puntuale con alcune tesi platoniche (v. PLATONE). È stato anzi osservato (Capelli) che l'atteggiamento insolitamente esitante di Beatrice (cfr. vv. 55-61) lascia piuttosto pensare a una conoscenza incerta.
Il problema non riceve maggiore luce dal confronto testuale fra Pd VII 64-66 (La divina bontà, che da sé sperne / ogne livore, ardendo in sé, sfavilla / sì che dispiega le bellezze etterne), il passo vicino per assonanza di Boezio (Cons. phil. III m. IX 6-7 " Forma boni livore carens, tu cuncta superno / ducis ab exemplo "), e il passo corrispondente del T. nella versione di Calcidio (29e " Optimus erat: ab optimo porro relegata est invidia. Itaque consequenter cuncta sui similia, prout cuiusque natura capax beatitudinis esse poterat, effici voluit "). Il Fraccaroli avvicina il contenuto di quest'ultimo passo a Pd XIX 86-90, affermando che, se D. ha in comune una parola con il verso di Boezio, con la versione di Calcidio ha in comune un contesto. Con ogni evidenza il problema è però d'importanza ridotta, tenuto conto della diffusa presenza di dottrine platoniche nella cultura dell'epoca di D., e della possibilità che il poeta aveva di attingere ad altre fonti i temi composti del suo platonismo (v. PLATONISMO).
Bibl. - Sulla fortuna del T. si rinvia a T. Gregory, Platonismo medievale, Roma 1958, 53 ss. (da vedere anche E. Garin, Studi sul platonismo medievale, Firenze 1958); sul problema specifico dell'anima mundi nel pensiero cristiano, v. T. Gregory, Anima mundi. La filosofia di Guglielmo di Conches e la scuola di Chartres, Firenze 1955. Per quanto riguarda la vecchia discussione sulla conoscenza diretta o meno del dialogo da parte di D., assumono atteggiamento negativo L.M. Capelli, Il T. nell'opera di D., in " Giorn. d. " II (1895) 470-477; R. Murari, Boezio e D., Bologna 1905, 385; G. Lombardo - Radice, Conobbe D. il ‛ T. ' di Platone?, in " Rassegna Critica Lett. Ital. " XI (1906) 241-246; F. Mortillaro, Studi di critica letteraria, Palermo 1910, 1-14. La questione resta dubbia per Toynbee, Dictionary, sub v. Timeo² 608-609; e per A. Mancini, recens. a Platone, Il Timeo, traduz. di G. Fraccaroli, con un'appendice su D. e il T., Torino 1906, in " Bull. " XIV (1907) 207 ss. (con elenco e discussione delle diverse opinioni). La conoscenza del dialogo, nella versione di Calcidio, da parte di D. è sostenuta soprattutto da G. Fraccaroli, op. cit., pp. 391-424 (si tratta però, precisa l'autore, di una conoscenza scarsamente approfondita), e da E. Moore, Studies in D., I, Oxford 1896, 156 ss.