TIBET
La regione autonoma del T. (Xizang), come viene attualmente definita, si estende su un'area di 1.221.700 km2, con capoluogo Lhasa. Il vasto altopiano tibetano rappresenta il cuore di questa regione ed è racchiuso a Ν dai monti Kunlun e a S dalla catena himalayana, formando una delle più alte zone della terra, con vette massime fra i 4.000 e i 5.000 m. Nella parte meridionale la regione è attraversata dalle estese e fertili valli dei fiumi Sutlej, Brahmaputra e Indo superiore. E appunto in queste valli che si è sempre stanziata la popolazione agricola con i relativi abitati. Tuttavia questa regione comprende solo le parti occidentali e centrali di un'area molto più vasta, che su basi etnografiche e linguistiche può essere a ragione culturalmente e storicamente definita T. (Bod). Questa area più vasta comprende i distretti tibetani che attualmente rientrano nei confini della Cina, vale a dire, a E e a NE, Kham e Amdo. Vi sono, inoltre, altre aree che culturalmente appartengono al T. anche se oggi politicamente fanno parte dell'Unione Indiana, come il Ladakh, le regioni dello Spiti e anche il Sikkim, indipendente fino al 1975, nonché regioni del Nepal come il Mustang, Dolpo, Halam- bu e Shar-Khunbu e infine tutto il Bhutan. È necessario considerare tutte queste regioni in un discorso sulla storia culturale del Tibet.
Preistoria. - La fase più antica della storia del T. è tuttora molto oscura a causa della proibizione esistente nei confronti degli scavi archeologici, visti come una minaccia agli spiriti della terra. Recenti scavi cinesi hanno attestato una presenza umana nel Chang thang (Byah than), risalente ad almeno diecimila anni fa. A Karub, vicino a Chamdo, nel Kham, è stato scavato un villaggio neolitico del III-II millennio a.C. che presenta tre tipi di abitazione. Questi sono, in ordine cronologico: a) abitazioni seminterrate fino a una profondità di c.a 50 cm con copertura a capanna; b) costruite a livello del piano di frequentazione con tetto piatto; c) in pietra. Tra gli oggetti rinvenuti nel corso dello scavo delle 28 abitazioni ricordiamo un tipo di ceramica spesso decorata, sculture e gioielli. Anche nelle valli di Lhasa e di Yarlung sono stati rinvenuti manufatti paleolitici e neolitici.
Sin dall'inizio di questo secolo i visitatori hanno segnalato la presenza di megaliti in varie zone del T., generalmente disposti in circolo, o più raramente in allineamenti paralleli o intorno a un'area quadrata, e di una sorta di pilastri formati da tre pietre. Nonostante i tentativi fatti da alcuni studiosi (Macdonald, 1953, Tucci, 1973) non vi è modo, al momento, di datare con sicurezza questi megaliti. Stoddard ha proposto di recente due possibili legami tra queste proto-architetture e quelle di epoca storica: 1) l'orientamento E-O dei megaliti può essere collegato sia a un culto solare, sia all'orientamento dei più antichi monumenti buddhisti; 2) la tendenza alla monumentalità prosegue con le stele commemorative del periodo dell'antica monarchia e più tardi nei complessi monastici monumentali.
Il periodo storico. - Le fonti più tarde cercano di ricostruire la storia della conversione del T. al buddhismo e dell'emergere della civiltà nel paese. Una cronaca del XII-XIII sec. riferisce che Avalokiteśvara, avendo assunto le sembianze di una scimmia, fu sedotto da un demone femminile delle rocce mentre meditava in T.; con la loro prole si identificano i progenitori delle stirpi tibetane. Successivamente, un'altra emanazione di Avalokiteśvara, Sroṅ btsan sgam po (anche Sroṅ brtsan sgam po) (620?-644), accompagnato da due sue consorti, emanazioni di Tārā, soggiogò permanentemente uria diavolessa ostile al buddhismo attaccandola per la schiena al di sotto del territorio del T. (v. oltre).
Il periodo storico tibetano comincia intorno al VI sec. d.C. Per quanto riguarda la storia e la cultura antiche le fonti sono estremamente limitate e di difficile interpretazione. L'attuale tendenza storiografica è quella di mettere a confronto le fonti antiche, consistenti in documenti letterari ed epigrafici anteriori alla metà del IX sec., con le scarse evidenze archeologiche e con le testimonianze delle fonti letterarie più tarde, datate a partire dal XII secolo. I testi recenti tendono a reinterpretare in senso retrospettivo i periodi più antichi in una visione buddhista e settaria. Sulla base della tradizione storica più tarda, i Tibetani dividono la loro storia in due periodi, il primo (sṅa dar) relativo alla «Prima diffusione del buddhismo» tra il VII e il IX sec., e il secondo (spyi dar) alla «Seconda diffusione del buddhismo», dal X sec. in poi.
Sull'espansione della cultura tibetana disponiamo di testimonianze di diverso tipo, ma manca un quadro coerente del ruolo svolto dai differenti gruppi religiosi durante il periodo dell'antica monarchia. Le incisioni rupestri nella regione di Alchi (Ladakh), attribuite all'epoca tra il 760 e l’840 (Snellgrove, Skorupski, 1977, p. 163), non contengono che limitati riferimenti al buddhismo. Queste, insieme a iscrizioni rupestri correlate, documentate negli Archivî Tucci dell'Istituto Italiano per l'Africa e l'Oriente (già IsMEO, Roma), sono talvolta associate a raffigurazioni simili a mchod rten (stūpa). Questi ultimi compaiono anche nelle incisioni rupestri del Bolor (Pakistan settentrionale), conquistato dai Tibetani nella metà dell'VIII secolo. Tra il IX sec. c.a e il X sec. in questa regione è evidente una reazione anti-buddhista, testimoniata da motivi non-buddhistici che si sovrappongono alle immagini buddhistiche (Jettmar, Thewalt, 1985, pp. 26-27).
La «religione senza nome». - Alcuni studiosi, come R. A. Stein, hanno identificato un culto popolare, definito «religione senza nome», basandosi sull'analisi delle pratiche contemporanee e dei testi antichi. Le pratiche religiose arcaiche sono documentate da numerosi riti e credenze sopravvissuti nel moderno Bon «riformato» nel buddhismo. Sebbene queste credenze non formino un insieme coerente, molti elementi si concentrano sulla figura del re. Almeno a partire dal VI sec., ma forse anche da prima, doveva esistere un concetto di regalità. I primi sei re discesero «dal cielo» e alla fine dei loro regni mortali vi riascesero. Fu soltanto con il settimo re che si cominciarono a praticare riti funebri. Questa leggenda trova riscontro negli elaborati usi funerarî e nei monumenti parzialmente documentati da resti archeologici, come vedremo più avanti.
I sku Iha, gli dei associati con gli strati più alti della società, erano considerati, in particolare, i protettori del re e, di conseguenza, i garanti della stabilità sociale. Si veneravano, inoltre, alcune montagne sacre (come il monte Kailaša) e le divinità a esse associate, come quelle femminili (mu sman) e gli dei del Luogo (yul Iha). C'erano, inoltre, divinità sotterranee (klu) che furono più tardi identificate con i nāga (ν.) di origine indiana. E necessario propiziarsi questi ultimi prima di intraprendere qualsiasi attività che abbia a che fare con la terra come l'agricoltura, la costruzione di una casa (o anche l'archeologia).
Il Bon. - Il Bon si considera la vera religione del Tibet. La sua forma attuale risale solo alI'XI secolo. Esso è basato sul monachesimo e condivide con il buddhismo molti elementi sia filosofici e rituali, sia iconografici. La figura principale è sTon pa gŚen rab, considerato il vero Buddha dell'attuale era cosmica, un principe dotato di capacità sovrannaturali. Sebbene la storia della sua vita non rispecchi esattamente quella di Sâkyamuni, le tarde rappresentazioni pittoriche ricalcano le convenzioni con cui è reso Śākyamuni. Se da un lato non sono stati identificati monumenti architettonici Bon di epoca antica, dall'altro le fonti letterarie suggeriscono che la concezione dello spazio e l'uso di proporzioni iconometriche fossero analoghe a quelle del buddhismo contemporaneo (v. oltre, sotto bSam yas).
Il buddhismo. - I Tibetani distinguono due veicoli nell'ambito del Mahāyāna, il Pāramitāyāna e il Tantrayāna o Mantrayāna, meglio noto nelle fonti occidentali come Vajrayāna. In sanscrito vajra significa «diamante» o «fulmine», mentre yāna significa sentiero, quindi vajrayāna significa «sentiero adamantino» o «sentiero indistruttibile». Scopo di entrambi i veicoli è il conseguimento della buddhità, possibile, per il Tantrayāna, anche nel corso di una singola vita. Le rappresentazioni visive sono strettamente connesse alle complesse pratiche di meditazione, come, p.es., alcuni elementi dello «yoga della divinità» (Iha'i rnal 'byor), trasmessi direttamente ai discepoli da un maestro illuminato (Lama). Mediante questa pratica, che comprende un rituale, una visualizzazione e un mantra, si sviluppa una saggezza discriminante che coglie la vera natura dei fenomeni: la loro vacuità.
La liturgia comprende una minuziosa descrizione delle divinità e dei loro maṇḍala (dkyl 'khor), psico-cosmogrammi circolari in cui sono simboleggiati gli elementi principali dell'insegnamento tantrico. Durante la cerimonia tantrica di iniziazione, l'iniziato entra nel maṇḍala e si identifica con l'essenza dell'Illuminazione buddhista simboleggiata dallo Yi dam, la divinità tutelare o personale della meditazione che presiede al maṇḍala. La forma del maṇḍala e del relativo altare varia a seconda dell'immagine centrale. L'opera d'arte s'intende meglio in quanto espressione simbolica della dottrina buddhista e quale supporto per riconoscere lo scopo finale; attraverso la manipolazione dei suoi simboli la mente umana è in grado di attingere a nuove profondità di coscienza.
Iconografia buddhista. - Il Vajrayāna mutua il suo simbolismo dai più antichi temi indiani e in minor misura dalla religione popolare tibetana. In T., come già in India, il mchod rten (stūpa) rappresentava la mente del Buddha. mChod rten monumentali si trovano in tutto il Tibet. Ve ne sono di diversi tipi: quello della Discesa dal Cielo era particolarmente diffuso nel T. occidentale. La vita di Śākyamuni era rappresentata attraverso otto grandi eventi, a cui corrispondevano altrettanti luoghi di pellegrinaggio, indicato ciascuno da uno stūpa. La tradizione pittorica tibetana preferì tuttavia le descrizioni narrative delle Dodici Grandi Gesta del Buddha, dei cento principali eventi della sua vita e dei 108 racconti morali (avadāna). Vi sono tsha tsha, oggetti votivi in argilla che recano impressi i tipi di stūpa più comuni, che possono essere datati almeno all'VIII secolo. Una serie completa di otto stūpa fu dipinta nel 'du khaṅ di Alchi all'inizio del ciclo pittorico delle Dodici Gesta, databile alla fine dell'XI secolo. Altre immagini di un ciclo simile, ma poste in una sequenza un po' diversa, sono scolpite sugli stipiti dello gSer khaṅ, a mTho gliṅ, attribuito alla fine del X secolo.
Nel tardo Mahāyāna, i Bodhisattva acquisirono maggiore importanza, e in particolare Avalokiteśvara (sPyan ras gzigs), patrono del T. e Bodhisattva della compassione ed emanazione di Amitābha ('Od dpag med). Il primo sovrano buddhista del T., Sroṅ btsan sgam po, e i Dalai Lama sono considerati incarnazioni della sua forma a quattro braccia, Ṣadakṣarī Lokeśvara. In T., dove l'interpretazione stilistica cinese è molto più popolare di quella c.d. indiana, si diffusero le rappresentazioni dei 16 o 18 Arhat, o santi. Divennero importanti anche alcune divinità femminili indipendenti come Prajñāpāramitā, la Perfezione della Gnosi, personificazione di quest'ultima e della relativa classe di testi.
Un legame molto stretto unisce l'arte al complesso rituale e alle pratiche meditative del Vajrayāna. Ciascun membro del vasto pantheon del Vajrayāna personifica un aspetto della dottrina, un principio cosmico o una componente della coscienza dell'individuo. Anche se gli elementi formali subirono mutamenti nel tempo, le immagini e i loro significati sono rimasti pressoché invariati. Fondamentali nello sviluppo del pantheon furono i Cinque Jina (Buddha), ciascuno preposto a una famiglia di Buddha; queste finirono col comprendere i guardiani della Dottrina (dharmapāla; chos skyoṅ) come Mahākāla (Nag po chen po), e le consorti come Tārā (sGrol ma). A questa pentade suprema si aggiunsero i due Ādibuddha, Samantabhadra (Kun tu bzaṅ po) e Vajradhara (rDo rje 'chaṅ).
Una configurazione specificamente tibetana delle figure di guardiani è quella dei «Tre Signori Protettori». Secondo la più tarda tendenza alla sacralizzazione della storia del paese da un punto di vista buddhistico, i «Tre Sovrani Religiosi» Sroṅ btsan sgam po, Khri sroṅ lde brtsan (regnante tra il 755 e il 797) e Khri gtsug lde brtsan, noto come Rai pa can (regnante tra l’815 e l’838), erano visti rispettivamente come emanazioni di Avalokiteśvara, Mañjuśrī e Vajrapāṇi. Nonostante la credenza che le note statue di Sroṅ btsan sgam po nel Jo khaṅ e nel Potala - che rappresentano il sovrano con una piccola immagine di Avalokiteśvara sulla testa - risalgano all'antica monarchia, questa concezione non è attestata se non in fonti letterarie più tarde. Tuttavia una concezione simile sembra presente in un disegno rupestre di Brag lha mo del tardo Vili sec. raffigurante Amitāyus, Avalokiteśvara, Vajrapāṇi ed evidentemente contemporanea della iscrizione di VIII sec. (Richardson, 1987, p. 4).
La «prima diffusione del buddhismo». - L'introduzione del buddhismo coincise con la transizione da un sistema politico decentrato, dominato per lo più da confederazioni tribali, a un regno centralizzato. Tra il VII e il IX sec., periodo noto come «monarchia antica», il T. divenne una potenza internazionale in Asia centrale, capace di giungere fino alla capitale cinese a E e di imporre tributi ad alcuni principi dell'India settentrionale. A causa della mancanza di scavi e di ricognizioni, G. Tucci trovò difficile datare le varie fasi insediamentali e i prodotti della cultura materiale. In tutto il T., le grotte sono state abitate sin dai tempi più remoti, talvolta stagionalmente, ma talaltra in permanenza (insediamenti trogloditici). Gli eremiti occuparono spesso grotte dall'antica storia. A Yer pa, splendido insediamento sulle pendici di un monte d'importanza storica e religiosa già in passato, vi sono numerose grotte che furono abitate da santi famosi, tra cui Padmasaṃbhava e Atiśa.
Le cronache antiche ci dicono che le fortezze (mkhar) oltre che per scopi militari erano usate anche come residenze temporanee. Sebbene le attuali strutture siano più tarde, alcuni edifici oggi considerati sacri conservano forse in parte la pianta originale. I resti di alcuni tra gli edifici più antichi del T. si trovano nella regione di Yarlung, nell'antica capitale Phyiṅ ba'i stag rtse vicino a Chongye ('Phyoṅ rgyas) e a Yum bu bla mkhar. La tecnica costruttiva - grandi pietre levigate legate con malta di terra - ha una lunga storia nell'architettura tradizionale. Lo Yum bu bla mkhar (0 Yum bu bla sgaṅ), considerato il più antico edificio del T., è un castello che ha subito molti restauri e attualmente contiene una cappella sormontata da un pinnacolo dorato, entrambi aggiunte più tarde. La massiccia costruzione a tre piani con una torre a quattro piani sul lato E, consiste di unità geometriche raggruppate in modo asimmetrico, caratterizzate da spessi muri inclinati verso l'interno con piccole finestre rastremate verso l'alto. I resti di una grande struttura in pietra sul versante della collina confermano la funzione difensiva del complesso (Tucci, 1973, p. 73). Altri due siti potrebbero essere associati con i palazzi di Sroṅ btsan sgam po, a 'Phyoṅ rgyas, nella valle di Yarlung, e forse nel sito dell'attuale Potala a Lhasa. Recenti analisi dei riferimenti letterari antichi concernenti le residenze regali del VII e dell'VIII sec. (Uebach, 1988) forniscono indicazioni su località in cui future indagini archeologiche potrebbero portare in luce resti di antiche strutture. Brag mar (l'antica denominazione della valle di bSam yas) era un sito favorito per la residenza invernale del sovrano ed è lì che nacque Khri sroṅ lde brtsan.
Secondo le fonti letterarie esisteva in questo periodo antico un altro tipo di edificio sacro, un tempio dei Bon po noto col nome di gSas khan, ma non vi sono indicazioni circa la sua forma. Attualmente con il nome di gSas khaṅ si designano alcune aree sacre consistenti in pietre e megaliti la cui funzione è, però, sconosciuta.
Importanti resti archeologici sono i pilastri monumentali (rdo riṅ) iscritti, che riportano editti, trattati o altri eventi. L'esistenza di pilastri con funzione simile è documentata in India e in Asia centrale, ma quelli tibetani si ispirano a modelli cinesi nella forma rettangolare e nella basi teriomorfe (Beguin, Mortari Vergara, 1987, figg. 95-96). Alcuni pilastri recano incise iscrizioni funerarie e occasionalmente motivi decorativi e sono sormontati da una piccola copertura con diversi elementi di coronamento al centro. Sulla riva sinistra dello sKyid chu due pilastri furono eretti presso il tempio di 'U śaṅ rdo'i Lha khaṅ, la cui costruzione è attribuita a Khri gtsug lde brtsan. Uno di essi, alto c.a 5,5 m, non riporta iscrizioni e poggia su una tartaruga. L'altro, di dimensioni inferiori e collocato nella corte del tempio, è in pietra rossastra e decorato da incisioni.
Le colonne iscritte forniscono informazioni preziose stille pratiche religiose e sociali dell'antica monarchia. La più antica è la c.d. Źol rdo riṅ, situata dinanzi al Potala e datata al regno di Khri sroṅ lde brtsan (755-797). Tuttavia la prima iscrizione monumentale nota riferentesi al buddhismo è l'editto dello stesso sovrano a bSam yas, sul lato E della cinta muraria, a S dell'entrata principale del tempio centrale. Il testo dell'iscrizione, riportato in una cronaca tibetana del XVI sec., riferisce in modo dettagliato non solo della fondazione del bSam yas, ma anche dell'esistenza di numerose altre istituzioni buddhiste nel Tibet. Davanti al Jo khaṅ, a Lhasa, è il famoso pilastro iscritto che riporta il trattato concluso tra Cinesi e Tibetani nell'821/822.
Questi pilastri mostrano una certa varietà di basi ed elementi di coronamento. Un esempio di particolare interesse è la base a forma di tartaruga del pilastro monumentale (alto 5-6 m, comprese la base a tartaruga e il coronamento) di Khri lde sroṅ brtsan (regnante tra il 799 e l’815) fatto erigere non più tardi di due anni dopo la sua morte (Richardson, 1987, p. 11). Sulle decorazioni incise torneremo più avanti.
I pilastri connessi alle tombe regali sembra avessero un complesso significato religioso, legato all'idea dell'axis mundi. Sulla base delle iscrizioni e di brani di testi antichi sembra evidente che i rituali connessi con la sepoltura del sovrano derivano dalla tradizione prebuddhistica.
Sebbene non siano stati effettuati scavi archeologici sistematici delle tombe a tumulo (bah so) degli antichi re tibetani, le fonti letterarie sono state messe a confronto con i risultati di indagini di superficie di cui sono stati oggetto i resti di alcune di queste sepolture (Tucci, 1950; Richardson, 1963; Panglung, 1988). Secondo le fonti scritte le tombe più antiche erano costruite sulle montagne. Ciò è stato confermato dallo scavo di c.a 200 antiche tombe situate sull'altopiano della valle di Yarlung condotto da archeologi cinesi. Secondo le testimonianze letterarie (Panglung, 1988, p. 356), le tombe dei figli di re che non avevano avuto accesso al trono, dopo Sroṅ btsan sgam po, erano costruite all'imbocco della valle di Don mkhar, con l'eccezione di 'Broṅ gñan lde ru, sepolto nel Źan mda', e di Rai pa can, sepolto a Don mkhar mda', sebbene fosse stato un sovrano regnante.
A partire da Sroṅ btsan sgam po fino alla fine della monarchia tutti gli altri sovrani furono inumati nella valle del 'Phyoṅ rgyas. Attualmente sono individuabili 27 tumuli. La più recente segnalazione (Panglung, 1988) riguarda il gruppo di tombe situato tra il fiume e il versante del monte Mu ra.
Le fonti letterarie riferiscono che le tombe erano decorate, tuttavia non forniscono ulteriori indicazioni al riguardo. Alcune sepolture erano dotate di obelischi con iscrizioni, quali quella di Khri lde sroṅ brtsan (Richardson, 1964; 1985, pp. 36-41), mentre della tomba di Sroṅ btsan sgam po si tramanda fosse decorata da un rilievo in pietra raffigurante il sovrano; ma nessuna delle due è attualmente visibile. Si deve tuttavia supporre che anche la scultura in pietra avesse in questi monumenti un ruolo importante.
La tomba monumentale di Sroṅ btsan sgam po, oggi nota come baṅ so dmar po, la «tomba rossa», è la più vicina al fiume, che ne ha eroso il muro di contenimento di cui parla Tucci. I resti ricoprono un'area approssimativa di 100x70 m, l'altezza è di c.a 30 m. Sul tumulo è situato un lha khaṅ dei rÑiṅ ma pa costruito nel XIII secolo. La tomba rispecchia evidentemente lo schema di un maṇḍala, con la camera funeraria principale al centro, contenente il corpo mummificato del sovrano in una bara d'argento, circondata dalle camere in cui erano seppellite le sue mogli e deposti i suoi beni personali e tesori. Le elaborate cerimonie funerarie includevano sacrifici umani e animali. Il re defunto e il suo corredo funebre erano protetti da funzionari definiti come «Morto Vivente». Sembra che il rituale abbia subito delle modifiche verso la fine dell'antica monarchia, ma nelle iscrizioni commemorative di Khri sroṅ lde brtsan e di Khri lde sroṅ brtsan il rispetto per l'antica religione degli dei e della venerazione della Terra e del Cielo si combina con l'accettazione del buddhismo (Richardson, 1987, p. 10).
Il culto del re divinizzato fu rafforzato durante il regno di Sroṅ btsan sgam po (620-649), ma perse importanza a partire dall'VIII sec. con il consolidarsi delle istituzioni buddhiste. Sebbene la tradizione più tarda considerasse retrospettivamente Sroṅ btsan sgam po come il primo dei «Tre Sovrani Buddhisti», non vi sono testimonianze contemporanee della sua adesione al buddhismo. Ciò non di meno, il buddhismo potrebbe essere stato introdotto in T. durante il suo regno, come sostengono le fonti storiche di epoca successiva. E pertanto anche probabile, come asserisce la tradizione, sebbene il dato non sia ancora verificabile su base archeologica, che una piccola cappella sia stata allora costruita nel sito dell'attuale Jo khaṅ ('Phrul snaṅ). Altri templi di Lhasa e dell'immediato circondario potrebbero risalire allo stesso secolo o al seguente. Tra questi è il Ra mo che a Lhasa, anch'esso attribuito a Sroṅ btsan sgam po o a Wen cheng, il dBu ru ka tshal, a E di Lhasa e il Khra 'brug nella valle di Yarlung.
Il Jo khaṅ è considerato dalle fonti più tarde il nucleo di un gruppo pianificato di dodici templi realizzato da Sroṅ btsan sgam po per sconfiggere un demone femminile che giaceva al di sotto del Tibet. Seguendo le prescrizioni della divinazione e geomanzia cinesi introdotte dalla principessa Wen cheng, i templi erano situati agli angoli di tre quadrati concentrici ciascuno situato a una distanza crescente dal tempio centrale di Lhasa. Ogni tempio era destinato a marcare una parte del corpo del demone femminile - che era immaginato giacere con la testa volta a E e i piedi a O - ed era di conseguenza caratterizzato da orientamento, colore e animale differenti. Solo i quattro templi ru gnon chen po (che formano il quadrato più vicino a Lhasa), originariamente intesi a sottomettere (cioè convertire) i quattro distretti amministrativi (noti come i quattro corni), seguono questo orientamento geografico. La logica geografica dei templi che formano i due quadrati più grandi - i quattro mtha' 'dui lha khaṅ e i quattro y an 'dui lha khaṅ - divenne progressivamente più approssimativa, tanto che l'ultimo si estendeva tra il Bhutan e il Gu ge. Per leggere variazioni riguardo al simbolismo associato ai templi si può confrontare il Mani bka' 'bum (Aris, 1979, pp. 12-33) e la lista estesa nel Me tog phreṅ ba di Nel pa pandita (Uebach, 1987, pp. 32-33). I resti di alcuni di questi templi sono ancora identificabili sebbene l'epoca della loro costruzione - VII o VIII sec. d.C. - sia ancora dibattuta. Dei quattro templi ru gnon, i più noti sono il Khra' 'brug nella valle di Yarlung corrispondente all'angolo SE, e il dBu ru ska tshal nella valle del Kyi chu, corrispondente all'angolo NE del quadrato interno del maṇḍala. Questi templi antichi sono ubicati in un luogo protetto del fondo valle, sono di piccole dimensioni e presentano uno schema semplice articolato in portico, corte e cella (lha khaṅ). Le colonne e i capitelli lignei, spesso di grande bellezza, si conservano in parte nel Khra' 'brug, ma il migliore esempio di questo tipo di architettura è rappresentato dal Jo khaṅ.
Il tempio più sacro del T., definito talvolta nella letteratura occidentale come la cattedrale di Lhasa, il Jo khaṅ, presenta numerose aggiunte e restauri. Non è ancora possibile effettuare misurazioni e analisi approfondite per la realizzazione di una planimetria accurata, ma da un confronto tra l'osservazione empirica e le fonti scritte si ricava una pianta generale (The 5th Dalai Lama, 1919; Richardson, 1977; Taring, 1979; Béguin, Mortari Vergara, 1987, fig. 100). L'entrata principale è fiancheggiata da due edifici a tre piani che ospitavano gli uffici amministrativi del Dalai Lama e la sede del Governo tibetano. Le parti più antiche del tempio sono identificabili lungo l'asse centrale dell'entrata principale. Dinanzi a quest'ultima è una pietra rdo riṅ che reca l'iscrizione di un trattato datato all'anno 822 (Richardson, 1985, pp. 106-144). Il portico di accesso, con sei colonne scanalate, è seguito dal 'du khaṅ, la cui parte centrale è costituita da un atrio (khyams ra). In questa sala i monaci si riuniscono per la preghiera e per la Grande Preghiera del Nuovo Anno, ed è probabile che essa sia stata costruita per lo stesso scopo agli inizi del XV secolo. Oltre questo edificio, lo gźuṅ sgo dà accesso al gTsug lag khaṅ, ossia al Jo khaṅ propriamente detto. Il mchod khaṅ (sale delle offerte) è suddiviso in due parti, la parte anteriore è chiamata kha ba thuṅ thuṅ, quella posteriore kha ba riṅ po, dai pilastri rispettivamente alti e bassi che sostengono la copertura. Le colonne dalle profonde sfaccettature e dal complesso disegno ornamentale sono coronate da capitelli con decorazione incisa zoomorfa e figurata. Gli esempî più antichi di queste incisioni su legno sono stati confrontati con l'arte post-gupta dell'India e del Nepal. La sala è circondata da ambienti di culto separati (una buona descrizione si trova in Richardson, 1977, pp. 169-181). All'estremità O, situata sull'asse principale, un'entrata immette nella cappella dell'immagine Jo bo, secondo la tradizione portata qui dalla principessa cinese Wen cheng all'epoca del suo matrimonio (la datazione dell'immagine attuale è dibattuta, come pure quella dell'aureola incisa; l'originale si dice fosse stato realizzato dall'artista nepalese Aniko nel XIII sec.). Ai lati sono le cappelle di Maitreya e Amitābha.
Le 17 cappelle del primo piano si aprono su un corridoio che si affaccia sul mchod khaṅ (Richardson, 1977, pp. 181-185). Sul lato O si trova la cappella di Sroṅ btsan sgam po, contenente sculture d'argilla raffiguranti il sovrano e le sue mogli. Questa è una delle quattro cappelle principali coperte da tetti dorati. La copertura di questa cappella si dice sia stata donata dai re del T. occidentale nel XIV secolo. Sul secondo piano vi sono dieci cappelle intorno al lucernario. La decorazione delle coperture dorate è in rame dorato battuto, tecnica reputata di origine nepalese.
Nell'VIII sec. il buddhismo continuò a diffondersi in T. fino a divenirne la religione ufficiale. Gli Annali Tibetani elencano numerose località (Uebach, 1988) ove risiedevano i re nel VII e VIII secolo. Brag mar (l'antico nome della valle di bSam yas) era luogo particolarmente adatto per il soggiorno invernale del sovrano. Una cappella fatta costruire da Khri lde gtsug brtsan (regnante tra il 704 e il 755) è ancora visibile a Brag dmar ke rug.
In contrasto con il quadro fornitoci dalle fonti più tarde, è evidente che il buddhismo combatté una strenua battaglia per sradicare i culti indigeni. Tale situazione di conflitto è adombrata dalla leggenda che narra della fondazione del primo monastero tibetano a bSam yas, dove è attestata l'influenza di due diverse tradizioni buddhiste indiane, quella monastica e quella tantrica. Il monastero deve la sua esistenza agli sforzi congiunti di tre personaggi. Il monaco indiano Sāntarakṣita fu costretto a tornare in India prima di aver completato l'opera di fondazione del monastero. Il successo di Padmasaṃbhava, fatto venire dall'Uḍḍiyāna (Swāt, Pakistan nordoccidentale) dal re Khri sroṅ lde brtsan, affinché lo assistesse nel portare a termine l'opera, simboleggia l'importanza della tradizione tantrica dei Siddha. Padmasaṃ bhava è infatti di gran lunga il più importante degli 84 Mahāsiddha, i maestri tantrici indiani. Il monastero di bSam yas, come quelli posteriori, fu dotato di vaste proprietà terriere ed era esente da tasse. I monasteri divennero così potenti istituzioni economiche e culturali, che giunsero a dominare ogni aspetto della vita sociale. Per questo sono stati i principali committenti delle arti fino agli anni '50.
L'unicità della pianta del monastero riflette il ruolo straordinario che esso ha svolto nella storia culturale del Tibet. I primi riferimenti sostanziali a questo complesso risalgono al XII secolo. Confrontando i dati letterari e archeologici con i dipinti medievali del monastero è stato possibile ricostruirne la pianta originaria (Chayet, 1988; Mémet, 1988). Lo schema del monastero e delle strutture satelliti era concepito come un maṇḍala, rappresentante il cosmo con il monte Meru al centro (lo dBu rtse), circondato da dodici continenti. I quattro continenti maggiori (= quattro templi, glìh bźi) erano costruiti in corrispondenza dei punti cardinali, ciascuno con una coppia di più piccoli templi annessi, che costituivano gli otto continenti minori (glih phran, attualmente in stato di decadenza e utilizzati per scopi profani); vi erano inoltre le cappelle del Sole e della Luna (solo quest'ultima si è conservata) e quattro stūpa nei punti intermedi del cerchio. Il complesso è racchiuso da un muro circolare del diametro di c.a 300 metri.
Il tempio principale (dBu rtse) (Chayet, 1988, fig. 3) è a sua volta configurato come un maṇḍala·, la cella, circondata da un ambulacro, era originariamente a tre piani (ibid., fig. 18) ed era situata all'interno di una corte circondata da una galleria e dalle tre tesorerie (per libri, strumenti musicali e gioielli); sul lato E è la sala delle assemblee, a S della quale si trova la cappella di Avalokiteśvara; a N della cappella dei protettori era un'altra corte circondata da una galleria; l'entrata principale era a E. La pianta può essere schematicamente descritta come un quadrato (c.a 70 m di lato) divisibile per 9; sia la pianta sia l'elevato sono dunque basati sul numero 3. Questo numero ricorre inoltre nelle varie leggende concernenti questo monastero. Sebbene la tradizione abbia sempre dichiarato l'ispirazione di questo complesso ai monasteri indiani di Odantapuri e Nālandā, le ricerche recenti (Chayet, 1988) riconoscono nella sua pianta - cerchio con motivi quadrati e cruciformi - l'eredità di una tradizione tibetana pre-buddistica (v. Karmay, 1987, pp. 92-99) e sottolineano che il maṇḍala fornisce un modello geometrico simbolico flessibile e dinamico, facilmente adattabile al simbolismo degli schemi architettonici dell'Iran, della Cina e dell'India.
La tradizione letteraria vuole che Khri sroṅ lde brtsan e altri «Kalyānamitra» (non nominati ma raggruppati nella categoria degli «amici spirituali») avrebbero fondato numerosi collegi e templi del dharma. Quest'attività continuò durante il regno di Rai pa can (Uebach, 1987, p. 88). Tra i monumenti attribuiti a questo sovrano, era particolarmente celebre una torre a nove piani a 'U saś rdo; com'era di frequente il caso, sia l'edificio, sia le sue sculture erano attribuite all'opera di artigiani stranieri.
La storia successiva mostra esempî di simpatie per la religione pre-buddhista. Khri bdu dun brtsan (regnante tra l’838 c.a e l'842), meglio noto come Glaṅ dar ma, è ricordato dalle fonti più tarde come un apostata che avrebbe distrutto molti complessi buddhisti e appoggiato le tradizioni antiche. In seguito alla sua persecuzione del buddhismo, nell'842 fu assassinato da un monaco. L'evento è tuttora ricordato da una danza in maschera che viene eseguita all'interno della cinta del monastero ed è nota con il nome di «danza del cappello nero». Con l'assassinio di Glaṅ dar ma si chiude il periodo dell'antica monarchia.
La scultura dell'antica monarchia. - La tradizione attribuisce a questo periodo sculture in metallo, argilla e pietra, e intagli a rilievo su legno. Secondo una fonte letteraria le sculture mobili, di solito in metallo, sono classificate in tre gruppi cronologici: a) dei re più antichi; b) dei re del periodo medio; c) dei re del periodo tardo, fino alla caduta della dinastia.
Sempre secondo la tradizione, fu durante il regno di Sroṅ btsan sgam po che furono importate in T. le più antiche e sacre sculture buddhiste. Si narra che la sua consorte cinese portasse dalla Cina una statua del Buddha Śākyamuni, nota come Jo bo, mentre la moglie nepalese (di cui le fonti contemporanee non fanno alcuna menzione) avrebbe portato con sé un'immagine di Tārā e una statua di Akṣobhya, considerate una miracolosa creazione dell'artista indiano Viśvakarman. Il Jo khaṅ e il Ra mo che sarebbero stati costruiti per ospitare le due immagini. Un'altra statua considerata particolarmente sacra è quella di un Avalokiteśvara con undici teste che si trova nel tempio Jo khaṅ.
Dalle fonti letterarie è chiaro che i Tibetani avevano un'antica tradizione metallurgica (ferro, rame, bronzo: Tucci, 1973, pp. 33-40). La nostra conoscenza delle più antiche sculture in metallo himalayane è ancora troppo frammentaria per consentire una cronologia precisa: la brocca da chaṅ con parte superiore a testa di cavallo nella cappella di Sroṅ btsan sgam po nel Jo Khaṅ potrebbe essere un'opera dell'antica monarchia di manifattura locale o di importazione centroasiatica. Non si può escludere che in T. venissero lavorate immagini buddhistiche in quest'epoca, ma non è possibile valutare il contributo degli artisti tibetani. Le fonti scritte fanno frequente riferimento al ruolo degli artisti stranieri. È pertanto difficile stabilire se oggetti di ispirazione straniera trovati in T. siano stati importati oppure realizzati nella regione da artigiani stranieri. Un'immagine di Avalokiteśvara (Klimburg-Salter, 1982, tav. XCIII) in stile cinese rivela sul lato posteriore, non finito, una tecnica affine a quella degli antichi manufatti himalayani. Allo stesso modo le campane bronzee monumentali di bSam yas e Khra 'brug seguono tanto fedelmente i modelli cinesi che, malgrado la presenza di iscrizioni tibetane, sono state attribuite ad artigiani cinesi attivi in Tibet.
Vi sono parecchi esempî di statue in argilla a dimensioni naturali, attribuibili a questo periodo. La Triade nota come Chos rgyal yab yum gsum è formata da Sroṅ btsan sgam po, al centro, e dalla sua consorte nepalese Bhṛkuṭi (Bai bza') e da quella cinese Wen cheng (rGya bza'), ai lati. A Lhasa ve ne sono oggi quattro esemplari, due nel Jo khaṅ e una nel Potala. Il Brag dmar ke ru, un complesso monastico sottoposto a molti rifacimenti, comprende una cappella dell'VIII sec. contenente sculture policrome più grandi del naturale raffiguranti gli otto Bodhisattva, il committente e la sua consorte cinese.
Le fonti archeologiche e documentarie testimoniano l'esistenza, in quel periodo, della scultura in pietra. Rilievi in pietra erano in connessione con monumenti funerari. Gli esempî scultorei conservatisi dipendono da modelli cinesi, come nel caso del leone a 'Phyoṅ rgyas, datato alla metà del IX secolo. Al di sotto della tomba di Khri sroṅ lde brtsan erano collocati due leoni monumentali in pietra, dei quali soltanto uno si è conservato integralmente. La criniera stilizzata e i denti scoperti enfatizzano la testa massiccia sul petto prominente. La medesima solidità caratterizza la base in pietra a forma di tartaruga dello rdo riṅ collocata dopo la morte di Khri sroṅ lde brtsan.
Importanti testimonianze della cultura artistica dell'antica monarchia sono i numerosi bassorilievi e incisioni in pietra e rupestri. Il rdo riṅ di Khri sroṅ lde brtsan a 'Phyoṅ rgyas mostra una decorazione incisa con dragoni, serpenti, nuvole, figure umane e il sole e la luna. Questi e altri simboli, inclusi alcuni connessi con il buddhismo - quali le figure monumentali incise nella parete rocciosa a Brag lha mo - sono state di recente riesaminate da Richardson (1987). Tuttavia, la mancanza di un'adeguata documentazione fotografica rende difficile una valutazione di questo sempre più vasto insieme di materiali; si può tuttavia notare che gli elementi non figurativi (come le monumentali sculture a tutto tondo) sembrano derivare da modelli cinesi, mentre il repertorio iconografico buddhista è ispirato alla tradizione dell'India settentrionale. Anche la lavorazione a incisione del legno, attestata nei più antichi monumenti buddhisti di Lhasa (Liu Yisi, 1957,tavv. III-VI), è basata sull'arte post-gupta dell'India settentrionale. Nonostante la mancanza di una documentazione sistematica e di analisi comparative, gli storici dell'arte concordano nel datare i più antichi capitelli lignei incisi nel Jo khaṅ al VII sec. (Trésors du Tibet, 1987, tav. XXVI).
La pittura tibetana in Asia centrale. - Non esiste alcuna prova certa dell'esistenza in T. di pitture risalenti a questo periodo, sebbene in templi dell'antica monarchia vi possano essere frammenti murali inediti. Ne sopravvivono esempî in Asia centrale, che ci permettono di comprendere almeno parzialmente la pittura buddhista commissionata o dipinta dai Tibetani occupanti, specialmente a Dunhuang. Le cronache tibetane e altri documenti hanno rappresentato la base su cui gli studiosi hanno lavorato per decenni per ricostruire la storia e la cultura del T. fino al X secolo. Sorprende che i documenti artistici, alcuni dei quali contenenti iscrizioni in tibetano, siano stati trascurati nello studio dell'evoluzione dell'arte tibetana.
Vi è una grande varietà di immagini dipinte, dalle sofisticate pitture su seta ai semplici abbozzi su carta grezza, provenienti dalla collezione di Sir Aurel Stein, divisa tra il Museo Nazionale di Nuova Delhi e il British Museum di Londra. Vi sono anche manoscritti contenenti illustrazioni, come quelli della Bibliothèque Nationale di Parigi, provenienti dall'area di Dunhuang. Le iconografie più frequenti sono il ciclo degli otto Bodhisattva (Amitābha, Vairocana, Maitreya, Mañjusrī, Kṣitigarbha, Avalokiteśvara e Uṣnlṣavijaya) e diversi maṇḍala come, p.es., quello dedicato a Uṣnlṣavijaya. È interessante notare che gli stessi temi iconografici prevalgono nei monasteri del T. occidentale costruiti all'epoca della Seconda diffusione del buddhismo. I due gruppi di dipinti condividono alcune caratteristiche stilistiche.
Committenza. - Scopo della committenza era il conseguimento del merito, che contribuiva allo scopo ultimo dell'Illuminazione, sia per se stessi, sia per la persona in memoria della quale l'opera d'arte era commissionata (p.es. i genitori). Il committente, di qualunque livello sociale, poteva commissionare oggetti religiosi, da quelli monumentali a quelli votivi in argilla, a basso costo, ottenuti a stampo (tsha tsha). La possibilità di commissionare opere architettoniche e le relative decorazioni era solo dell'élite, che possedeva i mezzi economici, ma ottenevano «merito» religioso anche contadini che costruivano i monumenti attraverso il sistema delle corvée.
Fino a poco tempo fa il T. era una società feudale teocratica dominata dalle istituzioni buddhiste, dove la committenza era indirizzata soprattutto alla costruzione di grandi complessi monastici. Una parte secondaria avevano l'arte e l'architettura. Opere d'arte o architettoniche di grandi dimensioni dipendevano esclusivamente dal privilegio economico e dal potere politico. Non disponiamo di documenti particolareggiati sull'economia di un solo monastero, e dunque sui modi in cui venivano finanziati i varî edifici, le arti e i rituali. Tuttavia il modello generale è chiaro, con differenze di tempo e di luogo. Sin dall'epoca più antica il ruolo politico e culturale svolto dalle istituzioni monastiche fu importante. Politicamente il monastero era legato alla nobiltà e agli alti funzionari. La mobilità sociale possibile all'interno della complessa gerarchia monastica introdusse col tempo un fattore sociale indipendente dalla gerarchia feudale civile. I monasteri possedevano terre e avevano una complessa economia specializzata che toccava settori diversi come l'educazione, l'attività bancaria e la produzione artigianale. Poiché i monasteri erano esenti da tasse, potevano accumulare un surplus di ricchezza che in tempo di bisogno poteva essere ridistribuito fra la popolazione civile o altrimenti destinato a spese «improduttive», quali i rituali, gli oggetti liturgici e la decorazione dei monasteri. Dalle informazioni che abbiamo non sembra tuttavia che i progetti di edilizia monumentale fossero a carico della tesoreria monastica. La costruzione e l'ubicazione di nuovi monasteri dipendevano piuttosto da finalità geopolitiche più generali. Dal periodo della Prima diffusione del buddhismo e fino alla Seconda diffusione nel T. occidentale, la committenza dell'edilizia monumentale fu appannaggio prevalente dell'aristocrazia. Nel T. centrale, a partire dall'XI sec., essa dipese dai monasteri in collegamento con le famiglie nobili. In tutto il T. l'aristocrazia civile e quella religiosa spesso si fusero, dato che molti nobili prendevano i voti e divenivano abati.
Committenza di oggetti artistici mobili. - Il capitale e i lavori necessari alla realizzazione dei progetti monumentali dipendevano dal rapporto tra esigenze politiche ed economiche. A causa del minore investimento richiesto, la produzione di oggetti artistici mobili richiedeva committenti motivati da preoccupazioni più strettamente personali, anche se essi sono in genere anonimi e solo raramente recano iscrizioni dell'artista o del donatore. Talvolta, comunque, era ricordato il Lama che aveva consacrato l'opera; le sue impronte a inchiostro rosso possono altrimenti apparire sul retro dei dipinti. L'esecuzione di un'opera d'arte richiedeva uno sforzo collettivo. Erano necessarie tre, e talvolta quattro persone per completarla: il committente, l'artista, un Lama che dava le indicazioni iconografiche, quando i primi due non avevano le conoscenze necessarie, e un Lama incaricato della consacrazione dell'immagine. Era responsabilità del committente procurare i materiali e, spesso, scegliere il tema da rappresentare.
La «Seconda diffusione del buddhismo». - Le personalità chiave della rinascita del buddhismo furono il monaco Rin chen bzaṅ po (985-1055) e il suo protettore, il Lama-re Ye śes 'od, che abdicò per dedicarsi alla vita religiosa. A loro si attribuisce la costruzione di molti monasteri con le relative opere d'arte del T. occidentale. Le fonti letterarie e archeologiche indicano che il più importante fu quello di mTho gliṅ. Quello meglio conservato è il monastero di Ta pho, nella valle dello Spiti (Himachal Pradesh, India), che attualmente consiste di 9 cappelle risalenti al periodo fra il X e il XVI secolo. Nella più antica, la sala delle assemblee ('du khaṅ), vi è un'iscrizione con la data di fondazione (996) e quella di un radicale rifacimento (1042).
Le immagini in argilla di dimensioni naturali che formano il vajradhatu maṇḍala, così com'è descritto da alcuni tantra della serie degli Yogatantra, sono contemporanee alla prima fase edilizia, mentre molte pitture murali, e in particolare gli importanti dipinti narrativi, possono essere datati al 1042. Klimburg-Salter ha proposto che questi dipinti, come quelli di Maṅ naṅ nel T. occidentale, siano stati commissionati da Byaṅ chub 'od per onorare l'arrivo del grande studioso indiano Atiśa (morto nel 1054), che nel 1042 si stabilì per tre anni nel regno. Il ciclo iconografico riflette le preoccupazioni di almeno tre generazioni di committenti regali e dei loro famosi ospiti indiani, i quali predicavano una stretta adesione al severo codice morale del buddhismo monastico Mahāyāna. Entrambe le fasi artistiche riflettono l'impatto dell'arte più antica del Nord-Ovest dell'India, in particolare del Kashmir.
Sia Rin chen bzaṅ po, sia Atiśa vissero nel monastero reale di mTho gliṅ. Fondato verso la fine del X sec. dai re di Gu ge, il monastero rispondeva a un complesso programma architettonico, interpretabile sulla base del simbolismo del maṇḍala. Al centro del monastero si trova il grande tempio di Ye śes 'od, la cui pianta si basa anch'essa sul maṇḍala. All'epoca della visita di G. Tucci, numerose pitture murali, basate su diversi cicli tantrici dedicati a Vairocana, Guhyasamāja e Samvara, erano ancora in buono stato di conservazione. Nel tempio dei sedici Arhat vi erano frammenti della prima fase pittorica rappresentanti i re del T. e di Gu ge e scene narrative raffiguranti Nor bzañ. Il tempio a tre piani identificato come il gSer khaṅ aveva come modello un tempio indiano, forse del complesso monastico di Odantapuri. Le pareti di ciascun piano erano ricoperte da dipinti, per lo più maṇḍala.
Nel Ladakh e nello Zangskar vi sono altri templi dove ancora si conservano statue di argilla di dimensioni naturali e dipinti parietali databili alla seconda metà dell'XI secolo. Questi templi più antichi, come quello di Ta pho, erano generalmente piccoli, a pianta rettangolare, costruiti con mattoni crudi e legno, talvolta dotati di un portico ligneo. L'altare, con l'immagine di culto principale, si trova in prossimità della parete di fondo, ma non vi è accostato, in modo da permettere al fedele di compiere la circumambulazione dell'immagine volgendo sempre verso di questa il fianco destro. In alcuni casi, come p.es. a Ta pho, vi è un passaggio intorno a una camera interna, destinato a questo rituale. Una forma di Vairocana a quattro facce (rNam par snaṅ mdzad) è solitamente la figura principale della sala delle assemblee. Il più celebre di questi complessi monastici è Alchi, con due templi e la sala principale delle riunioni (gSum tsek), che sulla base delle iscrizioni e dei confronti stilistici possono essere datati alla seconda metà dell'XI secolo. Infatti, da un punto di vista stilistico, i dipinti murali di questi templi possono essere paragonati a quelli del secondo e del terzo stile di Ta pho, e derivano dall'arte patrocinata dai re di Gu ge della fine del X secolo. Il programma iconografico di Alchi, contrariamente all'arte di Ta pho, è caratterizzato da grandi e complessi maṇḍala basati sul sistema dello Yogatantra. In altri templi del Ladakh (Lamayuru, Samada, Maṅ gyu e Phugtal) si conservano resti pittorici stilisticamente riconducibili a una delle maniere di Alchi.
Anche nelle regioni dello gTsaṅ e del dBus vi sono resti di cappelle buddhiste del X e XI secolo. Possono essere paragonate ai monasteri coevi del T. occidentale, meglio conservati. Si trovano tutti nella piana, hanno dimensioni modeste, pianta rettangolare, un unico piano e sono orientati lungo un asse E-O. Talvolta vi è un altare isolato nei pressi di una cella, con un corridoio per la circumambulazione. Ricordiamo Samada e gNas gsan nello gTsaṅ oltre a gSas mkhar e sÑe than nello dBus. I pregevoli capitelli e mensole intorno al cortile mostrano affinità con quelli dei templi dei secoli precedenti nel T. centrale.
Nel corso delle sue ricerche, Tucci rinvenne un'iscrizione che attribuiva la fondazione di Samada a Chos bla gros, discepolo di Rin chen bzaṅ po, e la faceva risalire all'XI secolo. Secondo la stessa iscrizione, la decorazione scultorea e pittorica del monumento era opera di artisti provenienti da varie regioni. Il maestro era un artista indiano, si chiamava Mati e veniva da Pan tsho ra.
Il piccolo tempio di Iwang aveva una pianta cruciforme; i dipinti sono di grande importanza, poiché le iscrizioni trovate da Tucci ne identificano alcuni in stile indiano (rgya lugs) e uno in stile khotanese (li lugs). Sfortunatamente è difficile mettere quest'ultimo in relazione con le pitture superstiti dall'oasi di Khotan. Tucci non disponeva di elementi per stabilire la data del tempio, ma ipotizzò che fosse la stessa di una cappella a gYe dmar di cui fanno menzione le cronache di Gyantse (Myaṅ chuṅ).
A partire dall'XI sec. è possibile identificare fondazioni Bon. Secondo la tradizione Bon po, il primo monastero (g Yas ru dben sa) fu fondato nello gTsaṅ, a O di Shigatse, da gYuṅ drun bla ma. Alla stessa epoca risalgono le istituzioni rÑiṅ ma pa, anche dette «antiche istituzioni» ovvero «la vecchia scuola di traduzioni», che facevano risalire la loro origine a Padmasaṃbhava e ai suoi discepoli, i quali fecero ritorno nello dBus e fondarono centri religiosi a Yer pa. Dalla fine del X sec. si registrò ancora una volta un intenso scambio fra i maestri indiani e quelli tibetani, che durò fino all'inizio del XIII sec., quando il buddhismo fu definitivamente annientato in India dalla conquista musulmana. In questo periodo furono fondate le maggiori scuole tibetane che si consideravano discendenti dei maestri tantrici indiani (Mahāsiddha) e basavano le loro dottrine sui testi tradotti durante la Seconda diffusione (donde il nome di «nuova scuola di traduzioni»), Le caratteristiche distintive di queste scuole e la loro importanza per la vita politica del T. emersero soltanto nel XIII secolo.
Bibl.: E. Schlagintweit, Atlas of Objects of Buddhist Worship, Lipsia 1863; E. Pander, Das Pantheon des Tschangtscha Hutuktu, Berlino, I, 1890; A. Foucher, Catalogue des peintures népalaises et tibétaines de la Collection B.-H. Hodgson, à la Bibliothèque de l'Institut de France, Parigi 1897; A. Grünwedel, Mythologie des Buddhismus in Tibet und der Mongolei, Berlino 1900; id., Obzor sobra- nija predmetov lamajskago kulta kn. E. E. Ukhtomskago («Rassegna della collezione di oggetti di culto lamaista del principe E. E. Ukhtomskij») (Bibliotheca Buddhica, VI), Pietroburgo 1905; J. Hackin, L'art tibétain, collection de J. Bacot exposée au Musée Guimet, Parigi 1911; Α. Grünwedel, Der Weg nach Sambhala (sambalai lam yig), Monaco 1915; id. (ed.), The 5th Dalai Lama, dKar chag sel dkar me Ion, Heidelberg 1919; J. Hackin, Guide-Catalogue du Musée Guimet. Les collections bouddhiques, Parigi-Bruxelles 1923; E. Obermiller (trad.), History of Buddhism by Bu-ston, 1, Heidelberg 1931; G. Tucci, Indo-Tibetica, 7 voll., Roma 1932-41; G. Tucci, E. Ghersi, Cronaca della missione scientifica Tucci nel Tibet Occidentale (1933), Roma 1934; G. Tucci, Santi e briganti nel Tibet ignoto, Milano 1937 (2° ed. Roma 1978); L. Petech, A Study on the Chronicles of Ladakh, Calcutta 1939; M.-T. de Mailman, Introduction à l'étude d'Avalokitešvara, Parigi 1948; G. Tucci, Tibetan Painted Scrolls, 3 voll., Roma 1949; id., The Tombs of the Tibetan Kings (Serie Orientale Roma, I), Roma 1950; id., A Lhasa e oltre, Roma 1950 (2a ed. 1980); P. H. Pott, Introduction to the Tibetan Collection of the National Museum of Ethnology, Leida 1951; H. Richardson, Ancient Historical Edicts at Lhasa, Londra 1952; A. W. Macdonald, Une note sur les megalithes tibétains, m Journal Asiatique, CCXLI, 1953, pp. 63-76; W. J. G. van Meurs, Tibetan Temple Paintings. Tibetanische Tempelschilderingen, Leida 1953; G. Tucci, The Secret Characters of the Kings of Ancient Tibet, in EastWest, VI, 1955, 3, pp. 197-205; Liu Yisi (ed.), Xizang Fojiao yishu (Tibetan Buddhist Art), Pechino 1957; H. Richardson, A Tibetan Inscription from Rgyal Lha-khang and Note on Tibetan Chronology from A.D. 1042, in JRAS, 1957, pp. 55-78; A. Ferrari, mK'yen brtse's Guide to the Holy Places of Central Tibet (Serie Orientale Roma, XVI), Roma 1958; G. Uray, The Four Horns of Tibet according to the Royal Annals, in Acta Orientalia Hungarica, X, 1960, pp. 31-57; Y. Wang, Xizang wenwu jianwen ji («Raccolta di testimonianze sui Beni Culturali in Tibet»), in Wenwu, 1960, 6, pp. 43, 8-9, pp. 52-65 e 10, pp. 39-46; Lokesh Chandra (ed.), The Samye Monastry (Sata Pitaka Series), Nuova Delhi, 1961; Tshal pa kun dga' rdo rje, Deb ther dmar po: The Red Annals (Tibetan), Gangtok 1961; H. Richardson, Tibet and Its History, Londra 1962; T. V. Wylie, The Geography of Tibet according to the 'dzam gling rgyas bshad (Serie Orientale Roma, XXV), Roma 1962; H. Richardson, Early Burial Grounds in Tibet and Tibetan Decorative Art of the VHIth and IXth Centuries, in Central Asiatic Journal, VIII, 1963, 2, pp. 73-92; id., A New Inscription of Khri srong lde brtsan, in JRAS, 1964, pp. 1-13; T. Schmid, Saviours of Mankind, II. Panchen Lamas and Former Incarnations of Amitayus, Stoccolma 1964; W. E. Clark, Two Lamaistic Pantheons, New York 1965; Tibetan Art (cat.), Nuova Delhi, 1965-66; O. Monod, Le Musée Guimet, Parigi 1966; E. Haarh, The Yar-lung Dynasty, Copenaghen 1969; P. Pal, The Art of Tibet (cat.), New York 1969; H. Richardson, The Inscription at the Tomb of Khri lde srong brtsan, in JRAS, 1969, pp. 29-38; G. Uray, L'annalistique et la pratique bureaucratique au Tibet ancien, in Journal Asiatique, 1975, pp. 157-170; G. Tucci, Die Religionen Tibets, Stoccarda 1970 (trad. it. Roma 1976); R. A. Stein, La civilisation tibétaine, Parigi 1962 (trad. it. Torino 1986); G. Tucci, Tibet, Ginevra 1973; H. Karmay, Early Sino-Tibetan Art, Warminster 1975; M.-T. de Mailman, Introduction â l'iconographie du Tan- tristne Bouddhique, Parigi 1975; R. de Nebesky-Wojkowitz, Oracles and Demons of Tibet, Graz 1975; A. Neven, L'art lamaïque, Bruxelles 1975; C. Trungpa, Visual Dharma: the Buddhist Art of Tibet, Berkeley 1975; G. Beguin, Dieux et Demons de l'Himalaya, Art du Bouddhisme lamaïque (cat.), Parigi 1977; bsTan 'dzin rgya mtsho (14th Dalai Lama), Essence of Tantra, in Tsong kha pa, Tantra in Tibet, Londra 1977, pp. 13-78 (trad. J. Hopkins); H. Richardson, The Jo-khang 'Cathedral' of Lhasa, in Essais sur l'art du Tibet, Parigi 1977; D. Snellgrove, T. Skorupski, The Cultural Heritage of Ladakh, I, Boulder 1977; M. Aris, Bhutan, the Early History of a Himalaya Kingdom, Warminster 1979; D. J. Taring, Lhasa gtsug-lag-khang gi sa-bkra dang dkar-chag («Pianta e catalogo del gTsug lag khan di Lhasa»), Rayput 1979; L. Petech, Ya-ts'e, Gu-ge, Pu-rah: a New Study, in Central Asiatic Journal, XXIV, 1980, pp. 85-111 (rist. in Selected Paper on Asian History - Serie Orientale Roma, LX - Roma 1988, pp. 369-394); D. Snellgrove, H. Richardson, A Cultural History of Tibet, Boulder 1980; M. Henss, Tibet. Die Kulturdenkmäler, Zurigo 1981; S. Zhang, Le Tibet préhistorique, in La Chine en construction, gennaio 1981, pp. 64-66; D. Klimburg-Salter, The Silk Route and the Diamond Path, Esoteric Buddhist Art on the Trans-Himalayan Trade Routes (cat.), Los Angeles 1982; C. C. Müller, W. Raunig, Der Weg zum Dach der Welt (cat.), Monaco-Innsbruck 1982; bSod nams rGya mtsho, Tibetan mandatas. The Ngor Collection, Tokyo 1983; B. Chayet, F. Meyer, La chapelle de Srong-btsan sgam-po au Potala, in Arts Asiatiques, XXXVIII, 1983, pp. 82-85; P. Pal, Art of Tibet, a Catalogue of the Los Angeles Country Museum of Art Collection, Berkeley 1983; T. W. D. Shakabpa, Tibet. A Political History, New York 1984; D. Klimburg-Salter, The Tucci Archives Preliminary Study, I. Notes on the Chronology of Ta-pho 'Du khang, in East West, XXXV, 1985, 1-3, pp. 11-41; H. Richardson, A Corpus of Early Tibetan Inscriptions (James G. Forlong Series, XXIX, Royal Asiatic Society), Londra 1985; V. Reynolds, A. Heller, J. Gyatso, Catalogue of the Newark Museum, Tibetan Collection, I, New Jersey 1983, e III, New Jersey 1986; K. Jettmar, V. Thewalt, Zwischen Gandhära und den Seidenstrassen, Felsbilder am Karako- rum Highway, Magonza 1985; Lokesh Chandra, Buddhist Iconography of Tibet, Kyoto 1986; P. Kvaerne, Peintures tibétaines de la vie de sTon-pa-gçen-rab, in Arts Asiatiques, XLI, 1986, pp. 36-81; G. Béguin, P. Mortari Vergara, Dimore umane, sahtuari divini - Demeures des Hommes, Sanctuaires des Dieux (cat.), Roma 1987; D. Klimburg-Salter, Reformation and Renaissance: a Study of Indo-Tibetan Monasteries in the Eleventh Century, in Gh. Gnoli, L. Lanciotti (ed.), Orientalia Iosephi Tucci Memoriae Dicata, II (Serie Orientale Roma, LVI.2), Roma 1987, pp. 683-702; Trésors du Tibet (cat.), Parigi 1987; H. E. Richardson, Early Tibetan Inscriptions: Some Recent Discoveries, in The Tibet Journal, XII, 1987, 2, pp. 3-15; H. Uebach, Nel-Pa Panditas Chronik Me-Tog Phren-Ba, Monaco 1987; A. Chayet, Le monastère de bSam-yas: sources architecturales, in Arts Asiatiques, XLIII, 1988, pp. 19-29; K. Dowman, The Power Places of Tibet. The Pilgrim's Guide, Londra 1988; D. Klimburg- Salter, The Tucci Archives Preliminary Study, 2: The Life of the Buddha in Western Himalayan Monastic Art and Its Indian Origins: Act One, in East- West, XXXVIII, 1988, pp. 189-214; S. Mémet, Le monastère de bSam-yas: essai de restitution, in Arts Asiatiques, XLIII, 1988, pp. 30-32; J. L. Panglung, Die metrischen Berichte über die Grabmäler der tibetischen Könige, in H. Uebach, J. L. Panglung (ed.), Tibetan Studies, Monaco 1988, pp. 321-368; H. Uebach, Königliche Residenzen und Orte der Reichsversammlung im 7. und 8. Jahrhundert, ibid., pp. 504-514; Α. Chayet, Art et archéologie du Tibet, Parigi 1994; Namkhai Norbu, Drung, Deu and Bön, Dharamsala 1995 (trad, it. Arcidosso 1996). - Vedi inoltre nella serie Ikonographie und Symbolik des tibetischen Buddhismus (ed. K. Sagaster): AI-AII: L. Sherab Dagyab, Die Sädhanas der Sammlung Ba-ri Brgya-rtsa, Wiesbaden 1983-1986; B: U. Toy ka-Fuong, Die Kultplastiken der Sammlung Werner Schulemann im Museum für ostasiatische Kunst, Köln, Wiesbaden 1983; D: L. Sherab Dagyab, Die Sädhanas der Sammlung sNar-thah Brgya-Rtsa, Wiesbaden 1986.