1. Console nel 238 a. C., combatté vittoriosamente contro i Liguri; occupò inoltre la Sardegna. 2. Suo figlio, magister equitum dopo la battaglia di Canne, console nel 215, difese Cuma da un assalto di Annibale. Nel 214, prorogatogli il comando, sconfisse Annone presso Benevento. Fu console nel 213; morì nel 212 in un'imboscata ordita da Magone. 3. Padre (n. circa 220 - m. 154 a. C.) dei famosi tribuni; partecipò con gli Scipioni alla spedizione contro Antioco III; tribuno della plebe nel 187 a. C. pose il veto all'arresto di Lucio Scipione. Sposò Cornelia, figlia di Scipione l'Africano. Pretore nel 180, condusse a termine la campagna contro i Celtiberi e nel 178 celebrò il trionfo. Console nel 177, sbarcò con due legioni in Sardegna dov'era scoppiata una ribellione che egli sedò spietatamente. Fu censore nel 169 e console per la seconda volta nel 163. 4. Tribuno della plebe (162-133 a. C.), figlio dell'omonimo console del 177 e del 163, fratello maggiore di Gaio. Fu presente con il cognato Scipione Emiliano alla caduta di Cartagine e si distinse nell'attacco finale. Nel 137 fu questore del console Ostilio Mancino nella guerra numantina, e quando l'esercito cadde nelle mani del nemico si dovette a G. se si giunse alla liberazione con un trattato che fu però rinnegato dal senato. Quando (133) fu eletto tribuno della plebe, egli aveva un preciso programma politico, mirante a risolvere la crisi di cui soffriva lo stato romano dopo la sua rapida espansione mediterranea. G. propose, con alcune attenuazioni, il rinnovamento di una delle leggi attribuite dalla tradizione a Gaio Licinio Stolone e L. Sestio (aggiornata, probabilmente, nella prima metà del 2º sec. a. C.), per cui le parti di ager publicus in possesso di privati eccedenti i 500 iugeri (750 per chi avesse un figlio, 1000 per chi ne avesse due o più) venivano rivendicate dallo stato (che ne era il proprietario) e di stribuite in lotti ai cittadini poveri. L'aristocrazia si servì del collega di Tiberio, Ottavio, per porre il veto alla discussione della proposta. Tiberio, dopo aver inutilmente cercato di venire a un accordo, propose ai comizî tributi la destituzione del collega, accusandolo di abusare della carica. Destituito Ottavio, fu votata la legge agraria e l'esecuzione fu affidata ai triumviri agris iudicandis adsignandis (Tiberio e Caio Gracco, e il suocero Appio Claudio): Tiberio propose che con le ricchezze lasciate da Attalo III di Pergamo in eredità al popolo romano si finanziasse l'attuazione della legge. Quando egli, per assicurare tale attuazione, aspirò al tribunato per l'anno seguente, ne nacque l'accusa che volesse stabilire un regime tirannico. Alle elezioni, Tiberio, ostacolato in più modi dagli impedimenti giuridici sollevatigli contro dagli avversarî, finì con lo scatenare i suoi seguaci. Rimase padrone dell'area del tempio di Giove Capitolino, ma i senatori adunati in quello di Fides, accusandolo di aspirare alla corona, guidati da Publio Scipione Nasica, seguiti da cavalieri, schiavi e clienti, piombarono nel Foro e sgominarono i partigiani di Gracco. Questi fu ucciso a bastonate e gettato nel Tevere.