Territori
La parola chiave di questo volume è territori: termine dai molteplici significati disciplinari, qui viene utilizzato come sinonimo di spazio limitato da confini, socializzato, vissuto; di luogo fisico e simbolico, interfaccia di natura e cultura, prodotto e allo stesso tempo supporto delle attività umane. È con queste entità colme di storia (tanto da coincidere nella scienza politica con il concetto stesso di cittadinanza e di nazione) che si confrontano le neonate regioni, misurando tutta la difficoltà di dialogare con sedimentazioni di lunga durata.
Come già nel saggio d’apertura di Istituzioni, i paragrafi che seguono rispecchiano la struttura di questo secondo volume e di esso scandiscono i temi, offrendo al lettore una proposta di lettura.
Al cuore di questo prima sezione si trovano temi come l’industrializzazione dell’Italia e le culture del lavoro e dell’impresa che ne hanno caratterizzato il processo di insediamento nelle varie aree del territorio, nonché le trasformazioni che le une e le altre hanno subito come conseguenza della crisi industriale globale tuttora in corso.
Rovesciando lo schema narrativo tradizionale (in storia come in geografia) abbiamo scelto di collocare in apertura e in chiusura i saggi incentrati sul Mezzogiorno: ciò consente al lettore di muoversi in uno spazio e in un tempo caratterizzati da una dimensione che potremmo anche chiamare di ‘contemporaneità del non contemporaneo’. Al Sud, per es., il sindacalismo bracciantile, che anima nel dopoguerra le lotte per la trasformazione della struttura della proprietà agraria, si colloca in continuità con l’eccezionale espansione dell’unionismo nelle campagne, che aveva già caratterizzato l’Italia a cavallo tra Ottocento e Novecento, rispetto agli altri Paesi capitalistici (dove i lavoratori della terra restavano estranei all’organizzazione): esso rappresenta anche la risposta al gap tra le regioni del Nord e quelle meridionali che era cresciuto considerevolmente tra le due guerre mondiali. Tuttavia, non è dalla tradizione del sindacalismo bracciantile che proviene il contributo alla nascita di moderne culture sindacali, bensì dal sostegno che a queste diedero le politiche pubbliche di intervento straordinario, iniziate nella seconda metà degli anni Cinquanta. Le analisi confermano che il cambiamento prodotto nel lungo periodo dalla ‘politica dei poli industriali’ è stato significativo, sia dal punto di vista della ridefinizione della mappa della geografia industriale del Paese, sia per l’ingresso in massa dei lavoratori industriali del Sud nelle due principali confederazioni sindacali nazionali, la CGIL (Confederazione Generale Italiana del Lavoro) e la CISL (Confederazione Italiana Sindacati Lavoratori).
Una precisazione si rende necessaria: per questa fase si parla molto di intervento pubblico, ma qui ‘pubblico’ raramente si identifica con ‘regionale’ (le regioni entrarono in gioco semmai in una fase successiva, quella della ‘contrattazione programmata’). Nel secondo dopoguerra il processo di industrializzazione del Mezzogiorno fu fortemente voluto da correnti riformatrici nazionali ascrivibili a quella che si potrebbe chiamare la cultura IRI (Istituto per la Ricostruzione Industriale) di quegli anni, nella quale progresso industriale e questione meridionale erano strettamente intrecciati. Come conseguenza, gli anni Sessanta e i primi anni Settanta furono il periodo della massima espansione dell’apparato dell’impresa pubblica del Paese: particolare enfasi veniva posta allora sulla sua funzione anticiclica e sullo sforzo di difendere l’occupazione, specialmente al Sud.
Guardando indietro, al tempo dell’industrializzazione dei territori italiani, emerge il caso dell’area veneta. Due disastri ambientali si collocano all’origine, da un lato, della fine del mondo bracciantile e, dall’altro, del circolo virtuoso legato a investimenti pubblici straordinari per la ricostruzione e l’industrializzazione nel Bellunese: rispettivamente, l’alluvione del Polesine nel 1951, allorché migliaia di ex braccianti e manovali emigrarono verso le fabbriche lombarde e piemontesi, e la tragedia del Vajont nel 1963. È comunque nel processo di trasformazione della società rurale che, secondo un’affermata scuola storica (Lanaro 1984), trova le sue radici culturali e le sue premesse strutturali la ‘nuova’ classe operaia del Nord-Est. L’industrialismo connota sia la CGIL sia la CISL, anche se il segno è diverso. Alla CISL – per una serie di innesti culturali molto interessanti ‒ spetta il merito di avere più rapidamente metabolizzato la scoperta della classe operaia com’è (e non come dovrebbe essere), ma sarà merito della CGIL, dopo il 1980, la scelta di rimodulare l’organizzazione territoriale secondo le linee dei comprensori, riuscendo spesso a portare una prima presenza sindacale nella piccola e media azienda. Quanto alla regione, essa ha rappresentato, specialmente per il sindacato cattolico, una controparte in tema sia di sviluppo sia di riforme sociali, anche se, in assenza di un livello negoziale formalizzato, il nuovo ente finirà per essere soprattutto l’interlocutore di una domanda politica e il teatro simbolico dei conflitti aziendali e territoriali.
Il dibattito sul ‘modello veneto’ di boom industriale (ritardato? o variante dello stesso processo con una morfologia diversa?) ci porta così a chiamare in causa il nostro archetipo nazionale: il Nord-Ovest. Questo territorio, dove si è concentrato il grosso delle iniziative imprenditoriali fino alla fine degli anni Settanta del Novecento, ha plasmato a lungo la storia italiana della cultura d’impresa, delle culture sindacali e delle relazioni industriali secondo un modello che, nella fase di industrializzazione urbana novecentesca, ha visto una crescita parallela tra grandi imprese e capoluoghi del triangolo industriale. Anche il Nord-Ovest, anzi soprattutto il Nord-Ovest, è stato a lungo protagonista dello scontro tra le due diverse culture sindacali nazionali. Quanto alle regioni, queste hanno acquisito importanza soprattutto negli anni in cui entrava in crisi il modello fordista e andavano affrontati i processi di deindustrializzazione: l’attuazione dell’ordinamento regionale e le successive attribuzioni di competenze alle regioni hanno moltiplicato le occasioni per l’avvio di tavoli di concertazione locale, anche e soprattutto in relazione all’utilizzazione dei fondi europei.
Mentre nella dinamica centro-periferia la Confindustria entra a pieno titolo, il livello regionale appare fortemente sottovalutato nella storia di questa organizzazione. E non soltanto perché le attribuzioni delle regioni in materia di politica economica e industriale erano, soprattutto all’inizio, estremamente ridotte, ma anche perché le rappresentanze degli imprenditori, come le confederazioni dei lavoratori, non individuarono da subito nello spazio regionale un’arena di confronto decisionale. L’attenzione della Confindustria e dei sindacati si mantenne a lungo focalizzata sul livello nazionale (e governativo), identificato come l’unico possibile per mettere a fuoco e affrontare le grandi politiche di riforma, mentre il livello locale era semmai identificato con la sfera della fabbrica, delle relazioni industriali di base e quindi anche del conflitto. È interessante rilevare che, a seguito della fioritura di una nuova economia periferica e diffusa, si è creato nella dinamica confindustriale un diverso dualismo territoriale, non più legato al rapporto fra Nord e Sud: è questo, si constata, un dualismo fra il centro e una ‘periferia’ che non è più tale, ma dove le vere detentrici della rappresentanza locale sono ancora le grandi Unioni provinciali, ben risolute a non delegare le loro prerogative a un livello intermedio superiore.
Se guardiamo ora alla rimodulazione del territorio nazionale in corso da più di due decenni, come conseguenza della globalizzazione dei mercati e della crisi mondiale della produzione industriale di massa, si osserva un netto cambiamento – a livello sia di culture del lavoro sia di culture dell’impresa – rispetto non solo alla fase espansiva del modello della grande industria nel primo trentennio repubblicano, ma rispetto anche al modello del capitalismo molecolare che, ancora negli anni Ottanta e Novanta del Novecento, caratterizzava il territorio della Terza Italia. La geografia si sta ridislocando in grandi piattaforme di produzione nelle quali si assiste all’intreccio tra funzioni metropolitane e ristrutturazioni del tessuto produttivo sul territorio. Tuttavia, contro la tesi della ‘fine della geografia’ (l’irrilevanza della localizzazione) ‒ diffusa negli anni Novanta tra i teorici della globalizzazione – gli studiosi italiani (Bagnasco 1999) hanno sottolineato l’importanza dell’organizzazione spaziale dei fenomeni sociali ed economici nel senso che la crescita sociale ed economica sempre più appare come l’esito di scelte e azioni che hanno per oggetto l’intero territorio, con la sua dotazione di infrastrutture. Le imprese, specialmente quelle industriali, si addensano in luoghi specifici, dove trovano altre aziende simili a loro, servizi adeguati e una manodopera qualificata.
È in queste sedi, cioè in luoghi ricchi di risorse strettamente legate al contesto socioistituzionale, che tende ad agglomerarsi l’innovazione, il processo su cui anche un Paese come l’Italia può scommettere per il futuro. È il caso del settore dell’alta tecnologia, la cui geografia disegna sia il ruolo dell’eredità storica sia l’iniziativa degli attori locali. Si parla infatti di sistemi settoriali e territoriali dell’innovazione che, per l’Italia, dopo l’uscita dai settori emergenti in cui era riuscita a collocarsi tra gli anni Cinquanta e Settanta, sono riconducibili a due ambiti: il ‘sistema della meccanica’ (in particolare della meccanica strumentale), più radicato nelle città della Terza Italia; e il ‘sistema dell’alta tecnologia’, più presente nel Nord-Ovest e nelle grandi città metropolitane. Nel primo, l’innovazione vede come protagonista ancora la piccola impresa, che è però il settore in cui si avverte maggiormente oggi la debolezza delle interazioni tra sistema di istruzione e sistema produttivo, che pure si erano sostenuti a vicenda per moltissimi anni. Solo nell’ultimo decennio (e in pochissimi casi) le politiche regionali si stanno orientando verso strategie a sostegno di una migliore e più mirata formazione tecnica e professionale, secondaria e terziaria.
Così, storia e geografia si intrecciano strettamente nel raccontarci un Paese dove futuro e passato sono saldamente connessi. I nostri numerosi ‘territori’ si affermano e si differenziano anche se li si osserva dal punto di vista di una peculiare forma di impresa quale è quella cooperativa, che in Italia ha avuto e ancora ha un’importanza storica di prim’ordine. L’eterogeneità del radicamento territoriale del movimento cooperativo è un fatto acclarato: in particolare, due regioni – l’Emilia-Romagna e il Trentino-Alto Adige – si sono storicamente mostrate più sensibili verso questo fenomeno (la Lombardia, forte di un’importante tradizione cooperativa, ha mostrato un andamento calante in termini di massa critica negli ultimi decenni). Sullo sfondo di questo quadro storico, risalta il fatto che il Lazio, il Mezzogiorno continentale e le Isole hanno espresso un trend di crescita, in particolare dagli anni Novanta, abbastanza omogeneo e soprattutto con dati di importanza percentuale che in Basilicata e in Sicilia superano la media nazionale.
Per tornare infine sul territorio meridionale (anzi sui territori meridionali), gli studi più recenti rivelano la presenza ancora molto modesta di imprese e concentrazioni produttive nella meccanica specializzata (distretti che invece costituiscono, come si è visto, uno dei fattori caratterizzanti del modello di specializzazione internazionale dell’Italia). Dai primi anni Duemila, infatti, si assiste nel Mezzogiorno a un rallentamento di quei processi di ampliamento della base imprenditoriale che invece si erano verificati negli anni Novanta in alcuni distretti (dai beni di consumo al manifatturiero); a partire dal 2009 tale rallentamento si è aggravato in misura ancora più intensa rispetto a quanto registrato per la media nazionale. In sintesi, la reazione all’aumento della competizione internazionale e all’affievolirsi delle politiche di industrializzazione del Mezzogiorno è stata molto differenziata tra i territori e le imprese meridionali. In certi casi questi fattori hanno costretto alcune imprese a uscire dal mercato; in altri, invece, le imprese hanno mostrato una buona capacità di reazione, cogliendo le sfide poste dal mutamento del quadro politico-economico come stimolo a innovare e ampliare la gamma produttiva.
Il termine spazi urbani vuole segnalare che il fuoco dell’attenzione non sono tanto i comuni in quanto entità amministrative (a cui la Costituzione fa riferimento), ma le città come aree urbane che individuano una popolazione di dimensioni più o meno estese, senza confini predefiniti, le quali, soprattutto dalla metà del secolo scorso, si sono dilatate fino a comprendere molti comuni, decine o perfino centinaia. Si è quindi interrotta l’antica corrispondenza della città con i confini del singolo comune.
La città ‒ il cui significato geografico moderno ha sostituito quello antico di tipo politico, civitas, da cui il termine deriva, inteso come insieme dei cittadini, ossia la comunità di coloro che godono dei diritti e doveri della cittadinanza ‒ nella storia italiana ha rappresentato il legame territoriale più importante per la definizione dell’identità e del senso di appartenenza. È stata la città, secondo Carlo Cattaneo (La città considerata come principio ideale delle istorie italiane, 1858), la sola patria riconosciuta e intensamente amata nel nostro Paese. La città era inseparabile dal territorio circostante, dalla popolazione della campagna che dalla città prendeva il nome. La definizione di Paese delle cento città indica ancora oggi che in nessun altro Paese vi è una trama di realtà urbane tanto diffusa e così stratificata nel tempo.
Il modo in cui viene considerata l’importanza delle ‘cento città’ nel processo di costituzione della nazione, tuttavia, non è mai stato unanime. Vi è chi vi ha visto un costante elemento di debolezza e di freno al costituirsi di uno Stato moderno e di una coscienza nazionale, come Antonio Gramsci, fino a chi, come Robert H. Putnam (1993), ha addirittura ricondotto il contemporaneo divario Nord-Sud, in termini di civismo e di funzionamento istituzionale (in particolare dei nuovi enti regionali) alla presenza storica di un’Italia dei comuni nella parte centrosettentrionale del Paese, assente invece nel Meridione.
Le considerazioni analitiche dei contributi presenti in questa sezione, mentre ribadiscono l’estrema rilevanza delle città sul territorio, ne mettono in luce i profondi processi di cambiamento che, con l’industrializzazione, hanno prima disarticolato e poi riarticolato la trama cittadina, fatta di cellule giustapposte e storicamente in competizione reciproca. Dopo la forte urbanizzazione della seconda metà del 19° sec. e del periodo fordista, negli anni Settanta del secolo scorso la transizione industriale dal fordismo al postfordismo, con i connessi processi di decentramento della produzione,
lo sviluppo dei sistemi locali e dei distretti industriali, ha generato un processo di ‘contro-urbanizzazione’, una sorta di rivincita delle ‘cento città’, dei centri urbani dove erano insediati i servizi a sostegno della produzione locale. Perdura in questa fase, quasi a portare acqua al mulino della tesi di Putnam, l’arretratezza della rete urbana del Mezzogiorno. Tra il 1970 e il 1990 la rete urbana è diventata sempre più interconnessa, travalicando i confini delle regioni politico-amministrative che si sono in questo periodo consolidate.
Le città, diventate ‘attori collettivi’ operanti in un vasto sistema territoriale metropolitano in continua evoluzione, hanno cambiato il loro ruolo: da quello di creare condizioni di vita accettabili per i lavoratori dell’età fordista a quello di rispondere alle sfide della globalizzazione, rendendo il proprio spazio attrattivo per imprese che operano a livello mondiale. Le città si sono trasformate in snodi importanti a livello locale di dinamiche che si pongono su una scala superiore, nazionale e globale, capaci di attivare forme di collaborazione tra diversi soggetti pubblici e privati. Esaurito il loro ruolo di luoghi della produzione industriale, diventano sistemi di riproduzione della conoscenza oltreché ideali centri di produzione di cultura e milieux intellettuali-artistici. Attraverso il concepimento di nuove idee e la loro realizzazione, la produzione di cultura si estende a un mondo produttivo in enorme crescita a livello mondiale. Vi è, tuttavia, su questo piano, una grande diversificazione a livello regionale per quanto riguarda l’inserimento delle città nei flussi internazionali, il capitale infrastrutturale e i trasporti di cui esse riescono a disporre, la loro capacità di cooperare alla fornitura di beni collettivi locali e di attivare la dotazione di conoscenze scientifiche per lo sviluppo economico. Questa diversità regionale, ancora una volta, si cristallizza in un forte divario tra Nord e Sud. In definitiva, per sintetizzare il rapporto con le regioni istituzionali, le città – soprattutto le grandi città – sono ‘sopra’ le regioni in quanto parti di reti globali (global city-regions), ma anche ‘sotto’ in quanto localizzate in un territorio che sfugge ai confini amministrativi, ma che – suggeriscono alcuni contributi – potrebbero rappresentare l’armatura della trama di regioni funzionali e di aree metropolitane. In una parola, esse sono nello stesso tempo nodi di reti globali e attori di coesione territoriale.
Le città sono anche state osservate come spazi in cui, secondo i diversi periodi storici, avvengono significative trasformazioni nella popolazione, nelle classi, e nelle disuguaglianze sociali, dovute soprattutto a profondi mutamenti strutturali. Nel periodo della grande industrializzazione (1951-1971) assistiamo a un fenomeno di ‘urbanizzazione concentrata’ in una sola parte del territorio italiano, là dove si è realizzata la maggiore crescita industriale, nel cosiddetto triangolo industriale, i cui vertici erano rappresentati da Torino, Milano e Genova. È in particolare nel primo dei due decenni che vi fu un forte sviluppo demografico, dovuto soprattutto al movimento migratorio (l’eccesso degli immigrati rispetto agli emigrati), e che, nelle maggiori città italiane, il peso della classe operaia industriale raggiunse il suo apice per poi cominciare il suo declino. Processo di industrializzazione e migrazioni interne favorirono il fenomeno della ‘segregazione residenziale’, pur non costituendone i soli fattori rilevanti. Alla segregazione contribuì anche la scelta dei ceti sociali agiati di distinguersi socialmente riservando per sé il centro cittadino, con alcune importanti differenze tra città e città.
Fu comunque la periferia urbana, divenuta luogo di residenza della classe operaia, la protagonista di questa fase dell’industrializzazione, e la disuguaglianza centro-periferia la più importante connotazione di classe delle città.
Dopo gli anni Settanta, negli ultimi trent’anni del Novecento, con la crisi del fordismo, le grandi città hanno perduto popolazione a favore della provincia. Le profonde trasformazioni strutturali di questo periodo, tra loro collegate, sono la deindustrializzazione e la terziarizzazione dell’economia. Dal punto di vista della composizione sociale si assiste a uno spostamento verso l’alto della composizione sociale, con una forte espansione della borghesia e della classe media impiegatizia. Tale trasformazione ha prodotto, in tutte le città italiane, anche se con modalità diverse, quel fenomeno che va sotto il nome di gentrification, ossia di imborghesimento di quartieri centrali degradati, generato da una sostituzione sociale degli abitanti e da una riqualificazione edilizia.
Nell’ultimo decennio del secolo scorso si è affermato tra gli urbanisti il termine città diffusa per indicare la tendenza all’espansione dell’area urbanizzata, a un «uso urbano del territorio» (DAEST 1990) che produce elevato consumo di suolo agricolo e forte perdita della coerenza paesaggistica. Questo salto di scala dalla città a un più complesso spazio metropolitano ha anche reso più articolata la struttura spaziale delle ineguaglianze sociali, rendendo obsoleta ogni rappresentazione della geografia sociale semplicemente basata sulla contrapposizione tra centro e periferia.
All’Italia ‘Paese delle cento città’ corrisponde – questa è la premessa della sezione – l’Italia dei ‘cento paesaggi’: si tratta solo di un’iperbole? No, i cento paesaggi sono stati effettivamente elencati solo sessant’anni fa (Sestini 1963) e, del resto, è del tutto comprensibile che la pluralità degli assetti urbani si sia storicamente intrecciata in un mutuo scambio con sintesi paesistiche differenti. Non vi è dubbio che nelle sue molteplici componenti il paesaggio italiano esprima una varietà territoriale che non ha paragoni in nessun altro Paese europeo. Così come è indubbio che proprio la cultura del paesaggio – quella trama indissolubile fra la qualità del patrimonio storico-culturale e le forme dei territori che lo ospitano ‒, più di altri elementi, sia stata fondamento dell’unità nazionale e di una tradizione legislativa importante già da parte dello Stato unitario in materia di tutela del patrimonio storico-artistico e del paesaggio. Si tratta di una tradizione che viene in qualche modo ‘costituzionalizzata’ con l’art. 9 della nostra legge fondamentale (Settis 2010), nella quale trova spazio anche l’istanza regionalista, proiezione della speranza di un’attenzione e una tutela ravvicinata ai nostri cento paesaggi: che poi paesaggio e regioni si siano concretamente incontrati in un circuito virtuoso viene, almeno per i decenni passati, negato dalla gran parte degli analisti. La spiegazione del mancato incontro viene qui ricercata sia nelle modalità del ‘farsi’ del paesaggio sia, anche, nell’evoluzione della cultura che vi ha presieduto.
Nel momento in cui si svolgeva il dibattito nella Costituente, il paesaggio italiano non era ancora stato radicalmente trasformato dall’urbanizzazione e dagli effetti della rivoluzione industriale. Entro questo quadro – relativamente stabile e coeso – trovano espressione i non pochi segni del nuovo, che si manifestano con sempre maggior forza: persino negli anni del boom del dopoguerra il motivo di fondo del divenire del paesaggio italiano è quello della contrapposizione tra un’espansione della città compatta e una campagna quasi immobile, mentre ancora tiene l’Italia della fitta trama di piccole e medie città diffuse nelle campagne (l’Italia ‘borghigiana’ di molte analisi di Giuseppe De Rita).
È soprattutto negli anni Settanta che prende avvio la rivoluzione territoriale e paesistica, spostandosi in un territorio regionale che non era stato interessato dal modello urbano-fordista di modernizzazione: l’elemento di novità è ora costituito dall’esplosione dei processi di urbanizzazione e di industrializzazione diffusa dominati dal cosiddetto dinamismo privato. Più di recente, dalla metà degli anni Novanta, si registra uno dei cicli di produzione edilizia più consistenti del dopoguerra, la terza fase di intensa trasformazione del paesaggio italiano, che è anche la più problematica, poiché mostra una più radicale dissociazione tra crescita edilizia e sviluppo socioeconomico. Abbandono e degrado coinvolgono a questo punto anche quella minuta filigrana di infrastrutture e manufatti, espressione delle comunità locali; nelle campagne la monocoltura investe anche aree e paesaggi che non avevano conosciuto il latifondo e quindi neppure l’uniformità. A livello politico, una cultura impegnata a sostenere il ritiro dell’azione pubblica dalla pianificazione del territorio e a difendere la legittimità del soggetto privato si afferma proprio mentre il nostro Paese sigla (2006) la celebrata Convenzione europea del paesaggio, dove si dichiara che tutto il territorio è un bene a cui estendere la tutela, inclusi i territori antropizzati, richiamando espressamente sia «i paesaggi della vita quotidiana sia i paesaggi degradati».
Del resto, tutto il paesaggio – ogni paesaggio – deriva la sua sostanza dall’agire sociale. Anche i paesaggi cosiddetti naturali sono una costruzione sociale: l’umanizzazione dello spazio geografico, il processo di territorializzazione, hanno riguardato, in una fase storica o in un’altra, praticamente tutta la regione italiana. Certo, nella percezione comune, molto spesso, aree coperte da boschi o da praterie montane vengono immediatamente associate al concetto, appunto, di naturalità, anche se si tratta di spazi artificializzati (aree rimboschite, pascoli d’altura, bacini lacustri, ecc.). Eppure, si ricorda, proprio per il carattere evolutivo del paesaggio, limitarsi a tutelare l’esito (il paesaggio) anziché intervenire sui processi che l’hanno originato, potrebbe risultare perlomeno contraddittorio. Comunque, un ambito in cui la società civile ha prodotto con le sue iniziative risultati importanti fin dagli anni Sessanta è quello delle aree protette e della creazione di nuovi parchi di grandi dimensioni. Il risultato finale di questo lungo processo è notevole anche dal punto di vista quantitativo (la superficie terrestre nazionale tutelata mediante parchi e riserve naturali si aggira ufficialmente attorno al 10,5%): un risultato a cui le regioni hanno contribuito in modo determinante. La fioritura di comitati spontanei, un po’ ovunque in Italia, esplicitamente orientati al controllo e alla valutazione nell’ambito della gestione del territorio, dimostra non solo l’attenzione della società civile, ma anche l’insoddisfazione per le condizioni attuali e l’intenzione di premere sui livelli politici al fine di ottenere che quelle condizioni siano modificate.
D’altro canto, la scala locale sembra presentarsi come quella forse meglio in grado di ottenere risultati e di incidere nella prassi paesistica. Ma cosa si intende per scala locale? Ricordiamo che nell’ordinamento italiano si è venuto a creare un dualismo, secondo il quale il paesaggio è materia dello Stato mentre il territorio pertiene alla regione. Tuttavia, pochissime regioni hanno adottato piani paesistici, poche altre hanno optato per soluzioni di massima, scaricando sui livelli amministrativi di base (comuni) l’onere della vera e propria pianificazione, ma nella pratica rinunciando a verificarne l’attuazione. Un’ultima valenza di tale politica riguarda il paesaggio come bene comune, la cui costruzione e i cui usi non possono essere l’esito dell’azione individuale e privata, ma neppure di un’azione dall’alto puramente statuale: se è a livello nazionale che è necessario trovare punti di riferimento comuni, non è a quel livello che essa può farsi politica attiva. È questo un quadro che ci riporta al problema storico del ritaglio amministrativo regionale, là dove l’articolazione spaziale tende a muoversi tra due differenti scale: una scala macroregionale e una scala di riscoperta vicinanza alla dimensione locale.
Paesaggi e consumo di territorio costituiscono il tema di un altro capitolo della nostra storia. La ‘questione ambientale’, intesa come la necessità di contenere gli effetti distruttivi di un’urbanizzazione che non ha tenuto conto degli equilibri naturali e dei valori del paesaggio, entra a partire dagli anni Sessanta del Novecento all’interno di un filone di studi urbanistici che veniva elaborando un nuovo approccio alle politiche di pianificazione e che avrebbe rappresentato un profondo cambiamento nel modo di concepire lo sviluppo urbano e il modo di governarlo e gestirlo. Qui se ne sottolinea in particolare la ricaduta sul Mezzogiorno: la questione meridionale si è infatti venuta configurando in questa cultura riformista come ‘questione territoriale’, e cioè come insieme di problematiche economiche, sociali e ambientali legate alla crisi di un sistema secolare di relazioni tra la società rurale e quella urbana, tra la città e la campagna. Il degrado ambientale delle grandi aree urbane è precocemente visto come uno dei principali problemi dell’Italia meridionale. È nella seconda metà degli anni Settanta che diventano di competenza regionale funzioni amministrative su materie che riguardavano la regolamentazione dei rapporti tra contesti urbani e ambiente. Con la legge Galasso le competenze si sono accresciute: nel Mezzogiorno le «disposizioni urgenti per la tutela delle zone di particolare interesse ambientale» (d.l. 27 giugno 1985 nr. 312), frutto dell’osservazione dei tragici effetti del sisma del 1980, hanno favorito l’adozione di nuovi piani di assetto territoriale sia da parte della Regione Campania sia da parte del Comune di Napoli.
Vulnerabilità del territorio e prevenzione costituiscono infine un altro ambito in cui la natura del suolo e l’agire dell’uomo si intrecciano strettamente. Il nostro è un Paese ad altissimo rischio a causa della sua natura geologica (dissesto idrogeologico, sismicità, vulcanesimo), ma anche delle attività umane, che agiscono da acceleratore delle dinamiche temporali (per es. per frane e smottamenti) e amplificatori dei rischi (terremoti ed eruzioni vulcaniche). Soprattutto l’avere privilegiato un modello di sviluppo prevalentemente di pianura e preferibilmente di pianura costiera (impianti siderurgici, centrali termoelettriche, grandi infrastrutture lineari di trasporto in senso longitudinale) ha sovraccaricato di attività residenziali e produttive la costa. Negli ultimi decenni le autorità, sollecitate dalla comunità scientifica, hanno preso atto che la pericolosità degli eventi deve essere attentamente valutata e che devono essere pianificate azioni tendenti alla mitigazione del rischio. Pertanto sono state incoraggiate ricerche da parte degli organismi scientifici nazionali (si tenga conto che solo dal 1980, cioè dal terremoto dell’Irpinia, esiste una precisa mappa del rischio sismico in Italia), istituite nuove autorità (le autorità di bacino), e sono stati elaborati piani di emergenza da parte della Protezione civile. In tutto questo si è anche cercata – e tuttora si cerca – un’efficace divisione dei compiti tra Stato, regioni e comuni.
Parlando di territorio come spazio a un tempo fisico e simbolico, interfaccia di natura e cultura, incontriamo quella ricchissima varietà agronomica, gastronomica, culturale che caratterizza storicamente il nostro Paese, finendo per contraddistinguere l’identità italiana nel mondo. Basti pensare all’espressione made in Italy, entrata nell’uso comune dagli anni Ottanta del Novecento, che indica diversi settori manifatturieri italiani (per es., l’abbigliamento, il design), tra cui spicca l’agroalimentare. Qualità, tecniche di produzione innovative, forte radicamento nel contesto locale territoriale, nei suoi saperi pratici, nelle lavorazioni tradizionali e tipiche sono altrettanti elementi che hanno reso tale espressione rinomata nel mondo, benché sia solo del 2009 il riconoscimento legislativo (l. 20 nov. 2009 nr. 166) che ne ha specificato i requisiti. Si tratta di una rappresentazione recente, utile a fini commerciali, che diffonde l’eccellenza dei prodotti regionali, unendo locale e globale, ma che cela – a uno sguardo analitico e storicamente avvertito – percorsi assai complessi, distinguibili affrontandone tutte le molteplici sfaccettature e comprensibili solo nelle dinamiche di lungo periodo.
I diversi contributi di questa sezione mettono in luce alcuni importanti processi sociali che, nel corso del tempo, hanno articolato l’intenso rapporto tra il patrimonio gastronomico del nostro Paese e le ‘regioni’, intese sia come contesti territoriali indefiniti, con qualche comun denominatore (in questo caso regione coincide con territorio), sia come entità politico-amministrative dai confini definiti e stabili. Un primo processo risale addirittura al Medioevo, quando le particolarità locali, attraverso una vasta rete di scambi che misero in circolazione prodotti e ricette, dando vita a saperi, pratiche e gusti condivisi, furono inserite in un disegno comune che costituì la base sociale e culturale del Paese Italia, quando ancora gli aspetti istituzionali erano di là da venire. Da questo punto di vista, l’enorme varietà di prodotti, ricette, conoscenze, pratiche alimentari si è tradotta da tempi remoti in una vocazione nazionale, italiana, non regionale, i cui centri di irradiazione e di scambio erano costituiti dalle città, insieme al territorio da esse controllato e rappresentato. Ritorna in mente, ancora una volta, l’immagine del ‘Paese delle cento città’ che, con il loro contado, definiscono il tratto tipico del nostro carattere nazionale. L’Italia poteva essere divisa amministrativamente, ma aveva già una sua identità culturale – si potrebbe dire prepolitica – nella cultura ‘alta’ dell’arte e della letteratura e in quella ‘bassa’ della cucina e dei saperi culinari. E questa compresenza, solo apparentemente contraddittoria, di forte radicamento locale della cultura gastronomica, e la sua ampia circolazione e condivisione nazionale che riduce l’ambito regionale a una mera estensione della città sul territorio circostante, durerà fino al 19° secolo. In questa nazionalizzazione culinaria bisogna ricordare il ruolo di primo piano di Pellegrino Artusi, la cui opera La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene (1891), assai diffusa ancora oggi, fu considerata il primo trattato gastronomico dell’Italia unita. A lui va il merito di avere tradotto piatti familiari locali in ricette riproducibili in ogni parte d’Italia.
Nel Novecento si afferma un secondo processo sociale, che si presenta come un vero mutamento culturale, teso a valorizzare le cucine locali in sé, con una nuova attenzione al territorio regionale, una sorta di regionalizzazione della cucina incoraggiata in un primo tempo dal fascismo attraverso le fiere e le manifestazioni pubbliche, ma presto interrotta.
Dopo la grave crisi alimentare della Seconda guerra mondiale e la disperata lotta per il cibo ch’essa comportò, negli anni del miracolo economico fino a tutti gli anni Sessanta, la forte spinta all’industrializzazione attraverso produzioni standardizzate e omogenee fece passare in secondo piano la cucina tipica locale, i suoi metodi tradizionali di lavorazione, i suoi saperi tramandati localmente. La nascita della moderna industria alimentare, legata al consumo di massa, si accompagnò, infatti, alla crisi del mondo rurale e alla scarsa integrazione con la produzione agricola. Eppure è proprio tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta che compare e si diffonde l’espressione dieta mediterranea. Nata in riferimento alla situazione alimentare del Mezzogiorno d’Italia e di alcune aree del Mediterraneo in ambito medico-nutrizionista, veniva proposta come un modello di alimentazione con cui combattere le malattie del benessere che in quegli anni si stavano affermando negli Stati Uniti (affezioni cardiovascolari, diabete, cancro). La dieta mediterranea, con i suoi ingredienti di frugalità, sobrietà, equilibrio – ricca di cereali, frutta e verdure, pesce e pasta, ma povera di grassi saturi –, non corrispondeva, in realtà, a una pratica del passato, rappresentando piuttosto un mito in buona parte alimentato dalla reazione all’obesità e al consumismo dei Paesi avanzati. Si trattava, inoltre, di un paradosso storico: essa, infatti, si afferma proprio nei decenni in cui le popolazioni cominciano ad abbandonare le antiche abitudini alimentari alquanto diverse da quelle idealizzate.
Fino agli anni Sessanta la diversità dei consumi, trascurata dal modello omologato della dieta mediterranea, rifletteva forti differenze di ordine sociale (ceti poveri «mangiatori di pane nero» e ricchi «mangiatori di pane bianco»; ceti popolari «mangiatori di erbe» e ceti benestanti «mangiatori di carne»; la penuria di cibo dei poveri e l’abbondanza dei ricchi) e territoriale (V. Teti, Il colore del cibo. Geografia, mito e realtà dell’alimentazione mediterranea, 1999, 20072). Le inchieste degli anni Cinquanta collocavano il Mezzogiorno d’Italia in quella ‘geografia della fame’ in cui lo scarso consumo di carne, latte, uova, formaggio, pane di grano e vino era vissuto come dato d’inferiorità ed emarginazione. Ma anche una certa retorica e mitizzazione della tradizione, implicita nella dieta mediterranea, ha contribuito alla riproposta successiva delle cucine regionali.
Il riferimento ai prodotti tipici locali rinasce negli anni Ottanta, con la ristrutturazione dell’industria alimentare, che si allinea a quella dei Paesi più sviluppati, e con le certificazioni di qualità. Gran parte della tipicità è assorbita dal caso del formaggio duro (Grana padano e Parmigiano reggiano). Vi sono anche le tipicità nate per imitazione: il vino marsala, il formaggio gorgonzola, i vini spumanti del Piemonte. Si sottolinea che i meccanismi che sottostanno all’affermazione di una produzione tipica sono altri rispetto all’adeguatezza con i sapori e le tecniche di preparazione del passato, maggiormente legati al suo riconoscimento dall’esterno. Paradossalmente è stata proprio l’imitazione il principale motore della crescita, né va sottovalutato il ruolo cruciale del fenomeno migratorio nell’affermazione internazionale delle ‘tipicità’ italiane.
A partire dagli anni Ottanta anche in Italia, dunque, si afferma quel processo, già in atto in altri Paesi, di rivitalizzazione, recupero e valorizzazione delle specialità culinarie del passato, le tipicità locali, spesso circondate da un’aura nostalgica per le proprie radici rurali, a cui si attribuiscono valori di autenticità e di spontaneità più desiderati che reali. L’editoria risponde alle nuove richieste con una produzione sempre più ampia di ricettari regionali, indicatore di consumismo e di nuove aspirazioni.
Negli anni Novanta si compie infine il passaggio più emblematico di questa dinamica con l’introduzione delle certificazioni di qualità europee, le Denominazioni di origine protetta (DOP) e l’Indicazione geografica protetta (IGP), corrispondenti a una cultura sempre più diffusa nella popolazione di valorizzazione delle tipicità e qualità alimentari, promosse da associazioni quali l’Accademia italiana della cucina e soprattutto Slow food. Certo sono prioritari gli interessi economico-commerciali, ma non bisogna sottovalutare il nuovo approccio che ne sta alla base: una particolare attenzione al rapporto tra la qualità del prodotto e l’ambiente umano e paesaggistico da cui proviene. La convinzione diffusa è che in un ecosistema degradato non si possano produrre alimenti di qualità. Riannodare le fila del passato non è un’operazione di mera scoperta, ma implica il più delle volte una sorta di invenzione della tradizione se non altro nel senso che i prodotti antichi sono ora sottoposti a regolamenti stringenti di produzione, a norme igieniche sconosciute in passato, mentre la grande distribuzione continua a sfornare prodotti copiati in milioni di esemplari.
In questo quadro, dopo decenni di attività amministrativa, anche le regioni istituzionali hanno contribuito, per ragioni identitarie ed economiche, a promuovere i prodotti locali tradizionali, tutelando l’industria agroalimentare, finanziando fiere gastronomiche, sagre, mercatini, secondo modelli spesso idealizzati, che finiscono per configurare una diversa geografia delle culture alimentari. In fondo, le regioni attuali non fanno altro che capitalizzare la qualità locale, aprendo nuove opportunità di lavoro, recuperando e rinnovando saperi e pratiche sconosciute ai giovani, arrivando, forse, in futuro, a definire in senso propriamente regionale una cultura alimentare insieme più locale e più globale. Non tutte le regioni, tuttavia, presentano la stessa efficienza nel promuovere le politiche di valorizzazione. Quelle con il maggior numero di denominazioni sono anche le regioni tradizionalmente più dinamiche e conosciute per la capacità di aver saputo valorizzare non solo l’immagine dei loro territori ma tutta l’economia delle loro produzioni, agroalimentari e non. Non troviamo, però, in questo ambito, la consueta distinzione tra Nord e Sud del Paese, ma sia l’efficienza sia l’inefficienza regionale si riscontrano in tutto il territorio nazionale, a macchia di leopardo. Resta il fatto che il numero più elevato di denominazioni comunitarie, così come la gestione in proprio dei fondi comunitari, attraverso apposite Agenzie regionali, si ritrova nel Centro-Nord del Paese, fatta eccezione per la meridionale Calabria.
I livelli e i tipi di consumo in Italia e nelle regioni sono in generale connessi all’andamento e alla distribuzione del reddito, senza esserne, tuttavia, un mero riflesso. Innanzitutto i consumi, oltre a indicare il grado di benessere raggiunto dalla popolazione entro uno specifico territorio, si connettono anche a più complesse trasformazioni, negli stili di vita, nei modelli culturali, nei dispositivi di comunicazione e di distinzione sociale. S’intrecciano, inoltre, con specifiche forme di legittimazione politica e di pedagogia pubblica. Per esemplificare quest’ultimo punto, basti pensare a quanto il fascismo fece, pur entro un quadro di generale ristagno, favorendo i consumi e le pratiche sportive come miglior impiego del tempo libero, con la finalità di ‘educazione del cittadino’ e di controllo del tempo pubblico e privato delle masse. Anche nel periodo repubblicano, quando alla propaganda fascista si sostituì l’influenza soft di “Carosello” (1957-77), la televisione pubblica promosse, attraverso una rigida selezione dei marchi, una italianizzazione delle culture del consumo piuttosto che un’americanizzazione dello stile di vita (come comunemente si pensa), contribuendo alla creazione di uno spazio simbolico nazionale del consumo e promuovendo su scala di massa prodotti che spesso avevano già una lunga storia locale o regionale.
Quanto l’andamento dei consumi dalla Ricostruzione a oggi si leghi alla crescita generale del benessere economico, dando conto anche della profonda trasformazione negli stili di vita degli italiani, è evidente seguendo il trend generale dei livelli di consumo, delle singole tipologie in cui si articola, e del parallelo cambiamento del sistema distributivo. Negli anni dell’immediato dopoguerra dominava ancora una situazione di grave penuria, che si rifletteva nel fatto che i bilanci delle famiglie erano per il 70-80% impegnati nell’acquisto di generi alimentari. Ai consumi molto bassi si accompagnava un marcato ritardo dell’Italia nell’avviare la grande distribuzione. La storia dei consumi in Italia ha conosciuto la sua vera svolta negli anni Cinquanta e Sessanta quando si è affermata una crescita economica prolungata e sostenuta che ha avviato anche un processo di parziale riequilibrio delle notevoli differenze territoriali che caratterizzano la geografia dei consumi della penisola. Tale convergenza riguarda sia la storica frattura tra Nord e Sud del Paese, sia quella tra le regioni del Nord-Ovest, che avevano beneficiato maggiormente dei processi d’industrializzazione e urbanizzazione, e quelle del Centro e del Nord-Est. Rispetto agli anni del miracolo economico, infatti, le regioni del Centro, in particolare le Marche, e del Nord-Est, in particolare Emilia-Romagna e Veneto, continuano a crescere, mentre quelle nord-occidentali, che avevano raggiunto livelli comparabili con quelli dei più avanzati Paesi europei, subiscono un rallentamento considerevole.
Tale incremento si traduce in una modificazione interna della spesa: si riduce la quota dei consumi alimentari sul totale, mentre crescono altri tipi di spese, soprattutto quelle per abitazione, combustibili ed energia elettrica, che indicano un miglioramento di una situazione abitativa ancora molto povera; aumentano le case in proprietà che raggiungono quasi quelle in affitto, raddoppiano le spese per arredamento ed elettrodomestici. I capitoli di spesa che fanno registrare l’incremento più alto sono quelli riguardanti igiene e salute e trasporti e comunicazione. Sono questi gli anni in cui salgono le spese telefoniche, in corrispondenza all’estensione della rete, ma soprattutto l’automobile comincia a diventare un bene di consumo di massa.
I maggiori consumi negli anni Cinquanta e Sessanta furono accompagnati da una lenta trasformazione del sistema distributivo. I supermercati dovettero fare i conti con la resistenza dei dettaglianti, molto influenti a livello politico. Si raggiunse il compromesso in base al quale si limitò il loro ingresso nei centri storici, favorendone l’impianto nelle periferie e nelle zone di nuova urbanizzazione. La loro diffusione rimase, inoltre, molto limitata al Sud. La grande distribuzione attraverso i supermercati non modificò solo l’accesso ai beni di consumo alimentari, allestendo uno spazio interclassista, ma modificò in maniera radicale il rapporto con il cibo attraverso un circuito di packaging e pubblicità che, affrancando il consumatore dalla mediazione con il negoziante di quartiere, contribuì alla nazionalizzazione del consumo alimentare. Lo stesso processo si realizzò con la cultura del vestire attraverso l’introduzione dei grandi magazzini nel settore dell’abbigliamento, che indebolì le differenze geografiche, le usanze regionali, ormai confinate a particolari feste popolari. Per le grandi superfici commerciali diventava responsabile l’ente regionale, appena costituito, che, con lo strumento del nulla osta, acquisiva un importante potere di regolazione attuando politiche diverse: più aperte alla grande distribuzione al Nord e più restrittive al Sud.
È proprio con la diffusione della grande distribuzione che si affermò il ruolo cruciale della pubblicità televisiva, come canale diretto di comunicazione tra il consumatore e il marchio propagandato. “Carosello”, come si è detto, è stato, da tale punto di vista, rappresentativo di questo nuovo spazio simbolico nazionale dei consumi.
Se negli anni Settanta prosegue, in generale, la tendenza evidenziata nel periodo precedente, gli anni Ottanta presentano un andamento in due fasi: la prima metà di decrescita dei consumi e la seconda di un breve quanto intenso boom. Soprattutto essi costituiscono uno spartiacque nei rapporti fra Nord e Sud perché la pluridecennale tendenza al riequilibrio tra le due aree del Paese si arresta. Con gli anni Novanta si verifica addirittura un’inversione di tendenza, quando la crescita dei consumi rallenta vistosamente, seguendo una tendenza generale dell’economia italiana, e riappare la storica frattura tra il Nord Italia e il Mezzogiorno. Nel nuovo secolo si apre una fase di ristagno prima e di diminuzione dei consumi poi che colpisce, con la crisi, tutte le aree geografiche.
Entro questo quadro generale sono stati approfonditi separatamente tre ambiti per la loro specificità e rilevanza nel contesto italiano, nonostante siano ancora scarsamente esplorati nella letteratura sui consumi. Il primo riguarda le spese per la cultura, il cui trend rispecchia quello generale. La loro incidenza comincia a crescere dagli anni Sessanta, quelli della maggiore crescita economica del Paese, e continua, anche se rallentata, per tutti gli anni Settanta, per poi tornare lentamente ai valori precedenti nel corso dei tre decenni successivi. La differenziazione regionale della spesa familiare per consumi culturali persiste nel tempo, riproducendo la tradizionale dicotomia tra Centro-Nord (sopra la media nazionale, a esclusione di Valle d’Aosta, Umbria e Lazio) e Sud (tutte le regioni sotto la media).
I consumi culturali sono un insieme assai vasto, riferito a pratiche e beni diversi e complessi che si collocano raramente a livello del singolo individuo, ma più spesso in contesti di relazioni ampie, coinvolgendo anche l’identità del soggetto e il suo riconoscimento da parte degli altri. Si va dalla lettura di libri, al cinema, alla fruizione di programmi televisivi e radiofonici, all’ascolto di musica, al teatro, alla visita a musei e mostre, agli spettacoli dal vivo fino all’uso d’internet, tutti aspetti su cui è possibile disporre di dati affidabili. Se il trend generale è quello appena sottolineato, bisogna dire che i diversi settori in cui si articola presentano marcate specificità. Per es., il consumo di libri e il rapporto delle persone con la lettura hanno subito una vera e propria rivoluzione nell’arco di cinquant’anni. I libri sono passati dall’essere un oggetto raro nelle case delle famiglie italiane (ancora a metà degli anni Sessanta solo una famiglia su tre possedeva in casa almeno un libro e solo il 16,6% della popolazione con più di 11 anni aveva letto almeno un libro non scolastico, o comunque non legato al lavoro, nel corso dell’anno passato) a divenire una presenza diffusa sia come bene culturale sia come pratica culturale abituale.
Questa piccola rivoluzione, legata al successo dell’alfabetizzazione degli anni Sessanta e Settanta, era però destinata a fermarsi sotto la soglia del 50%, se pensiamo che nel 2010 meno di un italiano su due (46,6%) legge un libro all’anno, dando all’Italia un triste primato negativo tra i Paesi europei più avanzati. Inoltre ciò rispecchia forti differenze geografiche, tra Nord e Sud, e d’istruzione, mentre – diversamente da altri consumi culturali – si assiste a una netta inversione di genere nella lettura, con le lettrici in testa rispetto ai lettori. Non succede la stessa cosa per altri importanti settori, come quello degli spettacoli dal vivo, che, raggiunto l’apice negli anni Trenta, comincia a diminuire subendo la concorrenza del cinema.
Anche quest’ultimo, che raggiunge il momento di maggior successo negli anni Cinquanta, successivamente e fino a oggi ci proietta un’immagine di costante e netto declino. In questo caso è la concorrenza con la televisione che conta. Quest’ultima, dalla sua introduzione nel 1954 in poi, non ha mai smesso di diffondersi fino a raggiungere la quasi totalità della popolazione. La televisione non genera la tanto deprecata ‘omologazione culturale’, ma certo, irrompendo nelle campagne e nelle zone più arretrate, trasmette modelli culturali urbani, indebolendo antiche barriere che segmentavano il nostro Paese e contribuendo a diffondere l’italiano come lingua standard. In una parola, come succede anche per gli altri consumi e per la grande distribuzione, si tratta di formidabili fattori di unificazione culturale, sulla cui base (e non in opposizione a essa) si affermano e, in certi casi, rinascono, le molteplicità e i secolari pluralismi territoriali tipici del nostro Paese.
Il secondo ambito riguarda l’industria del vestiario e il consumo di abbigliamento che sono un caso esemplare sia perché è questo un aspetto per il quale l’Italia eccelle nel mondo sia perché consiste in un sistema di produzione e consumo che affonda le sue radici in diverse tradizioni regionali. Esso ha contribuito all’industrializzazione del Paese nei due decenni successivi alla Seconda guerra mondiale, favorendo nel contempo la modernizzazione degli stili di vita della popolazione. La moda, essendo un fenomeno prevalentemente urbano, che tuttavia utilizza la rete di eccellenze regionali come le sue peculiarità, si definisce attraverso poli insieme complementari e concorrenti collocati, per tutto il secondo dopoguerra, a Firenze e a Roma, prima dell’ascesa accentratrice di Milano negli anni Settanta.
Il terzo concerne, infine, i consumi, le associazioni e le pratiche sportive in generale che rappresentano un tipico caso di trasformazione nel tempo di modelli culturali consolidati e di campo d’intervento delle regioni cui sono via via state trasferite dallo Stato sempre maggiori funzioni amministrative, prima con il d.p.r. 24 luglio 1977 nr. 616 e poi con la riforma del titolo V della Costituzione. Le regioni si sarebbero mosse in due direzioni: da una parte, implementando iniziative legislative finalizzate ad accrescere la dotazione infrastrutturale e il sovvenzionamento di attività finalizzate alla realizzazione di impianti e attrezzature per l’attività sportiva, dall’altra, verso la promozione finalizzata alla crescita della domanda di pratica sportiva nel tempo libero. Se il regime fascista – come si è detto – pone lo sport al centro delle attività ricreative del dopolavoro, con una precisa finalità di controllo, bisognerà aspettare il miracolo economico e la motorizzazione di massa per assistere a un cambiamento delle abitudini quotidiane degli italiani e del loro modo di consumare il tempo libero. Negli anni del boom si riduce il tempo dedicato ai lavori domestici, si comincia a disporre di un discreto benessere, aumentano dunque le risorse da destinare al tempo ‘liberato’ dal lavoro. Le differenze regionali riguardano innanzitutto l’impiantistica sportiva, ambito in cui si segnala il forte dualismo Nord/Sud che rappresenta una costante dal dopoguerra a oggi. Il dato più interessante è però quello della pratica sportiva che risultava estremamente ridotta, riguardando solo il 2,6% della popolazione italiana, ed era costituita per il 90% da maschi (ISTAT, Indagine speciale su alcuni aspetti delle vacanze e degli sports della popolazione, 1960). Inoltre il 33% degli sportivi di allora praticava la caccia, uno sport poco assimilabile a quelli che oggi si considerano tali. Dalla fine degli anni Settanta e nei decenni successivi la dinamica del cambiamento riguarda tre aspetti principali. Innanzitutto il numero dei praticanti cresce in tutte le regioni, con una diminuzione al Sud solo dagli anni Duemila. In secondo luogo, cresce la partecipazione femminile. Crescono infine nuovi tipi di pratiche come la ginnastica, l’attrezzistica e la danza, diffuse in tutte le regioni italiane, insieme a jogging, footing e podismo, più diffuse nelle regioni settentrionali. Questa dinamica illustra bene come il rapporto tra consumatori e sport sia cambiato. Ha subito un processo di individualizzazione, in sintonia con più ampie dinamiche culturali della società tardomoderna, finalizzato più che all’agonismo, all’interesse crescente per la cura di sé e del proprio corpo, in grado di favorire un benessere psicofisico generale.
Il turismo è stato per alcuni territori d’Italia, dal punto di vista economico e sociale, un fondamentale veicolo di trasformazione: ha modificato paesaggi e mentalità, ha aperto nuove opportunità di iniziativa imprenditoriale e di impiego, ha mobilitato l’intervento pubblico e l’iniziativa imprenditoriale privata. Dal punto di vista simbolico, esso ha contribuito a plasmare l’immagine stessa di alcuni luoghi della penisola, mediante l’azione dei media o di specifiche campagne di marketing territoriale. I pochi esempi che sono qui trattati (selezionati con lo scopo di fornire una sufficiente copertura geografica del territorio nazionale) consentono di ripercorrere il ciclo complessivo di trasformazione turistica del Paese attraverso alcuni luoghi altamente simbolici, all’interno e all’estero.
Dall’Europa provenivano già dalla fine dell’Ottocento i visitatori di Napoli, seguendo i circuiti costruiti dai primi tour operator britannici, così come nella stessa epoca affezionati ospiti mitteleuropei soggiornavano nelle valli alpine, mentre una clientela selezionata, italiana ed europea, aveva individuato nelle spiagge della Versilia una meta privilegiata per i soggiorni balneari. Questi aspetti del mondo dell’Ottocento (e, già prima, il grand tour culturale) finiscono con la Prima guerra mondiale. Ma la scena turistica non muta radicalmente: semmai si allarga e cresce per accogliere una classe agiata più estesa (in Versilia) o quella classe operaia che per la prima volta, grazie alle ferie pagate, si recava in vacanza sulle Alpi o nella riviera romagnola; da Napoli, oppressa da problemi di igiene, il turismo di élite si espande verso la penisola sorrentina e le isole del golfo, mentre nelle valli alpine si scopre e si investe sulla diffusione della ‘stagione invernale’.
La novità degli anni fra le due guerre è la nascita di strutture di coordinamento pubbliche locali, come le Aziende autonome di soggiorno, poi sostituite dagli Enti provinciali per il turismo, ma sono anche alcuni importanti investimenti da parte di grandi imprenditori (a Capri, Sorrento, Sestriere), per non citare il nascente ruolo della piccola e media imprenditoria privata in aree come la Romagna e anche la Versilia. Dopo la Seconda guerra mondiale il trend crescente del ciclo demografico e di quello economico (alimentato anche dagli aiuti del piano Marshall che favoriscono al Sud l’estendersi delle infrastrutture dei servizi e del trasporto) sostiene il modello del turismo ‘facile’ e di massa, che arriva fino agli anni Sessanta-Settanta: in quella fase l’offerta nel suo complesso si modifica, stimolata dall’allargamento della base sociale dei vacanzieri. La città di Napoli continuò invece a soffrire dei suoi cronici problemi e, a causa di una distanza geografica alla quale non venne posto rimedio con un adeguato sviluppo dei mezzi di trasporto ferroviario e aereo, non seppe approfittare dell’espansione del mercato turistico di massa: l’epidemia di colera del 1973 fu il drammatico evento che andò a consolidare questa immagine negativa.
Un capitolo a sé è quello rappresentato dalle istituzioni locali: nelle valli alpine un ruolo cruciale per la promozione e il coordinamento del turismo è svolto dagli interventi normativi delle regioni a statuto speciale (Trentino-Alto Adige e Valle d’Aosta, e più tardi anche Friuli Venezia Giulia e le Province autonome di Trento e Bolzano), ma il trasferimento nel 1972 alle neonate regioni a statuto ordinario di servizi, strutture e attività inerenti al turismo (lo Stato si riserva alcune rilevanti funzioni) ha generato non poca confusione e conflitti di competenza: ciò accade non solo nei territori alpini, ma ovunque nei casi qui considerati. È avvenuto in Campania, dove aziende autonome ed enti provinciali hanno tentato di sopravvivere fino agli anni Settanta, mentre la regione non ha poi mostrato la dinamicità necessaria nel promuovere il turismo, tanto che nel golfo finiscono per operare soprattutto imprese straniere. Avviene in Romagna, dove, prima del 1972, le Aziende di soggiorno costituivano il luogo in cui le diverse componenti del prodotto turistico trovavano una loro composizione in termini di sviluppo comune, poi sostituite da aziende di promozione turistica formate esclusivamente da funzionari della regione distanti dal territorio.
Sintomatica di questa incertezza nella concezione del turismo è la vicenda stessa del Ministero del Turismo, dello Sport e dello Spettacolo che, nato nel 1959, fu soppresso a seguito del referendum popolare del 1993, dando il via a un lungo ‘pellegrinaggio’ delle competenze residue del governo centrale, o almeno di quelle che non erano già state trasferite alle regioni: la delega a queste ultime in materia di turismo ha poi trovato ulteriore riscontro nella riforma del titolo V. È sullo sfondo di questo mancato rapporto con il ‘pubblico’ che dobbiamo collocare la fase di declino e trasformazione che tutto il settore si trovò ad affrontare negli anni Settanta-Ottanta. La storia delle agenzie di viaggio è, per es., un capitolo della vicenda del turismo in Campania ancora tutto da ricostruire: di certo questa indubbia capacità operativa assegna una rilevante autonomia a poche località turistiche, che funzionano come delle enclave nella geografia regionale. In questo quadro il colloquio con lo spazio pubblico è irrilevante e non va oltre la necessità di avere come interlocutori le amministrazioni locali alle quali si chiede solo di garantire i servizi necessari affinché gli operatori locali e stranieri operino con tranquillità.
Ritornando alla fine dell’epoca del ‘turismo facile’ e al suo legame con l’inefficienza del ‘pubblico’ ma anche con la devastazione ambientale, è la Versilia, non a caso, a risentire manifestamente di una crisi che vede il numero totale delle presenze complessive di quella clientela medio-alta, italiana ed europea, che ne aveva caratterizzato lo sviluppo per tutto il Novecento, ridursi nell’arco di un decennio in maniera molto sensibile. Si può ipotizzare che una parte di questa si sia trasferita sulle coste della Sardegna; la regione (che pure, in quanto Regione autonoma a statuto speciale aveva individuato nel turismo, fin dai primi anni Cinquanta, un sentiero di crescita per l’economia isolana) non ha poi sostenuto adeguatamente il turismo verso l’interno, accentuando così la frattura geografica con l’area costiera.
Anche l’arco alpino ha conosciuto una profonda trasformazione ambientale dovuta all’iniziativa turistica e anche qui, nella fase espansiva del dopoguerra, la moltiplicazione di iniziative imprenditoriali e di nuclei turistici ha a lungo andare ferito il paesaggio, con ricadute che si sono fatte sentire non solo sul piano ambientale, ma anche su quello economico. Pure in questo caso, più che le strutture alberghiere, è stato il fenomeno delle seconde case a creare maggiore devastazione, unitamente alla mobilità privata di massa e alla costruzione della relativa viabilità. Nel frattempo la riviera romagnola perdeva la sfida con la Spagna, dove il mix di compagnie aeree, grandi tour operator internazionali, catene alberghiere e ruolo dello Stato centrale risultò più adatto alla promozione sul mercato di massa internazionale. In riviera questa perdita di competitività internazionale venne temporaneamente compensata dall’espansione del mercato interno: l’epoca del turismo organizzato coincise per la costa romagnola con un ripiegamento verso la clientela italiana, all’insegna di un prodotto che spostava l’attenzione dalla spiaggia alla città e dal giorno alla notte, dalle famiglie ai giovani.
Sono tuttavia gli anni Novanta quelli che segnano la fine del turismo di massa e della continua crescita della domanda di soggiorni balneari nel Mediterraneo, costringendo queste aree a inventarsi un turismo e un’identità inediti. A partire dal nuovo millennio inizia a farsi spazio il turismo individuale, e con esso un mutamento di immaginari, di culture e di pratiche turistiche: molto presto sul golfo di Napoli si rende palese lo slittamento del modello di consumo turistico, in particolare di quello europeo, verso un turismo individuale, che chiede trasparenza su prezzi e servizi e che manifesta uno spostamento della domanda dalle ‘destinazioni’ ai ‘territori’. Nelle valli alpine, la presa di coscienza rispetto ai rischi ambientali connessi alle nuove dimensioni della domanda viene dagli stessi operatori turistici, mentre diversi interventi di programmazione adottati dalle amministrazioni regionali si sforzano di favorire un uso della montagna meno intensivo nel tempo. L’obiettivo della multistagionalità mira a combinarsi con la capacità di offrire elementi attrattivi diversificati (eventi culturali, itinerari enogastronomici) in linea con una più articolata domanda dei turisti.
Due novità importanti emergono in questa fase: da un lato la comparsa sulla scena di destinazioni sino ad allora considerate periferiche nella geografia turistica, dall’altro la diffusione di modelli di vacanza alternativi al mare e alla spiaggia, come quelli legati al turismo culturale; nel nuovo secolo il territorio della riviera romagnola sembra chiamato a una nuova reinvenzione della sua offerta attraverso l’acquisizione di una dimensione regionale che valorizzi il patrimonio storico-artistico dell’interno attraverso una integrata strategia di marketing. Anche l’attuale identità dell’area versiliese, seppure plasmata in larga parte dalle vicende attraversate dal settore turistico nel corso dei decenni, si sforza di combinare, accanto a elementi peculiari legati alla storia locale, i segni di quel respiro culturale internazionale che ne aveva caratterizzato la crescita nel Novecento.
Così, rispetto a un andamento del comparto turistico in generale altalenante negli ultimi anni, la domanda di turismo culturale ha dimostrato di essere in assoluto la più dinamica. È stato il tradizionale turismo culturale nelle città d’arte (erede del grand tour) a trarre nuova linfa, per necessità, dalla crisi dell’industria fordista (proprio quella che aveva dato avvio alle grandi stagioni del turismo di massa), con progetti di riqualificazione urbana che hanno mirato a cambiare immagine, funzioni e vocazione economica di alcune storiche città industriali (per es. Torino e Genova). Negli ultimi anni il turismo culturale si è retto inoltre sul protagonismo di molti centri minori sui quali vi sono stati grandi investimenti anche da parte degli enti locali: il patrimonio artistico di una città, infatti, non è solo un insieme di beni materiali collocati in un luogo geografico definito, ma è un bene capace di attirare visitatori, per un consumo di beni anche immateriali e unici, che si ricollegano all’immagine della città d’arte. Il nostro apparato territoriale è dunque un sistema che molto si basa sul passato, cioè sulla sua cultura e conoscenza, e dove la dimensione e le collettività si identificano soprattutto nel loro essere locali se pure in un contesto globale. È però anche il territorio in cui le peculiarità locali non sono riuscite a trovare un ombrello comune di promozione verso l’esterno e in cui la diversità degli itinerari di sviluppo seguiti dalle città, indipendentemente dal loro rango urbano, riflette sia la creatività delle singole destinazioni sia l’assenza di una politica pubblica unitaria.
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