Terenzio: il Menandro latino
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Terenzio non è amato dai suoi contemporanei: troppo diverso il suo teatro pacato, centrato sul dialogo, da quello dinamico e scintillante di Plauto, troppo impegnative le sue trame e sottile il suo umorismo per un pubblico che chiede alla scena soprattutto una piacevole evasione. Eppure nelle appena sei commedie composte in una vita terminata prematuramente Terenzio inventa un mondo possibile fatto di solidarietà umana, di comprensione reciproca, di ricerca della soluzione migliore alle grandi questioni della vita comune, tra le quali rilievo centrale assume la relazione padri-figli e il problema della migliore forma di educazione.
Su Publio Terenzio grammatici ed eruditi antichi scrissero molto: il fatto di essere diventato presto un autore scolastico ha preservato integralmente la sua opera e fatto sì che sul suo conto ci restino una ricca biografia, un ampio commento e una miriade di note, finite a corredare i codici terenziani più antichi. Ciò nonostante, la vita di questo affascinante commediografo presenta più di una zona d’ombra e numerosi problemi irrisolti.
Terenzio viene dall’Africa, dove è nato nel 185 a.C. (ne resta traccia nel soprannome Afer); giunge a Roma come prigioniero di guerra, è affrancato per la sua eccezionale intelligenza e si lega ad alcuni personaggi di spicco dell’élite aristocratica, sulla cui precisa identificazione non è possibile pronunciarsi. Giovanissimo debutta in teatro: la prima commedia è del 166 a.C.; altre cinque seguono fino al 160 a.C. L’anno successivo Terenzio intraprende un viaggio in Grecia dal quale non fa più ritorno.
Le commedie di Terenzio sono tutte palliatae, cioè drammi di ambientazione greca; il modello preferito è l’ateniese Menandro, dal quale sono ricavate quattro trame su sei; le altre due risalgono ad Apollodoro di Caristo, un minore che a sua volta si ispirava alla lezione menandrea. A Roma la palliata significa essenzialmente Plauto, il geniale commediografo che domina le scene fra III e II secolo a.C. e i cui copioni continuano ancora per decenni a essere rappresentati con successo. È un modello ingombrante e inarrivabile, e Terenzio ha la saggezza di non sfidarlo, ma di cercare strade nuove; anche le difficoltà cui va incontro nel far accettare il proprio teatro al grande pubblico attestano il suo spiccato sperimentalismo.
Nell’Andria il giovane Panfilo è innamorato della straniera Glicerio (la “donna di Andro” del titolo), con la quale ha concepito un figlio; alla fine della commedia la donna si rivela di nascita libera e l’amore tra i due ragazzi, fortemente avversato dal padre di Panfilo, può realizzarsi. Nella commedia d’esordio Terenzio sperimenta già il “doppio intrigo”: alla vicenda principale si intreccia infatti quella dell’amore fra Carino, amico di Panfilo, e Filumena, in un primo tempo destinata in moglie allo stesso Panfilo.
L’Heautontimorumenos (“Il punitore di se stesso”) mette nuovamente in scena due figli, il bravo Clinia, innamorato di una ragazza povera, Antifila, e oggetto per questo dei continui rimproveri del padre Menedemo, e Clitifone, figlio di Cremete, legato all’esosa cortigiana Bacchide. Dopo una serie di colpi di scena è ancora l’agnizione a sciogliere la trama: Antifila è in realtà sorella di Clitifone; alla fine entrambi i giovani si sposeranno. L’Eunuchus è la pièce di Terenzio più apprezzata dai contemporanei: il soldato Trasone e il giovane Fedria sono entrambi innamorati dell’etera Taide e si contendono i suoi favori a colpi di doni; quando però Trasone regala alla cortigiana una schiava (che è in realtà sorella di Taide stessa), di lei si innamora perdutamente Cherea, fratello di Fedria, che, travestito da eunuco, si introduce in casa dell’etera e violenta la ragazza. Alla fine i due giovani potranno sposarsi, mentre Fedria e Trasone si accordano per dividersi le grazie di Taide.
Il Phormio ripropone il collaudato modello dei due amori paralleli: durante l’assenza dei rispettivi padri, Antifone sposa una ragazza di Lemno, sfruttando un cavillo legale, e suo cugino Fedria si innamora di una suonatrice di cetra. Il padre di Antifone, tornato in patria, va su tutte le furie; interviene il parassita Formione, che dà il titolo alla trama, promettendo di sposare lui stesso la ragazza di Lemno in cambio di una somma di denaro che impiega invece per liberare la citarista; alla fine la moglie di Antifone risulta essere figlia dell’altro padre, Cremete, e il giovane può tenersela.
L’Hecyra è la più bella e complessa fra le commedie di Terenzio, il quale solo al terzo tentativo, e grazie al talento del capocomico Ambivio Turpione, riesce a rappresentarla sino alla fine. Panfilo ha sposato Filumena, abbandonando per lei l’etera Bacchide; in sua assenza, la moglie ha però lasciato la casa della suocera (hecyra, in greco); col tempo si scopre che l’inopinato allontanamento si deve alla gravidanza ormai avanzata di Filumena, che è rimasta incinta in seguito alla violenza subita da uno sconosciuto. Al termine della commedia, grazie all’apporto determinante di Bacchide, l’ignoto violentatore è identificato in Panfilo stesso: il figlio di Filumena è dunque suo e il matrimonio può riprendere il proprio cammino. Gli Adelphoe (“I fratelli”) sono l’ultima e più controversa prova di Terenzio. Demea e Micione sono fratelli, ma hanno ben poco in comune: il primo è severo, intransigente, ama la campagna e l’educazione tradizionale; il secondo – che ha scelto di non sposarsi ma ha adottato uno dei due figli di Demea – è invece indulgente, generoso e cerca con il figlio un rapporto di confidenza. Per quasi tutta la commedia i fatti sembrano dare ragione al metodo educativo di Micione, ma in ultimo la situazione si ribalta: Demea ridicolizza il fratello e riconquista l’affetto di entrambi i figli, che promettono di rimettersi alla sua guida.
Nella conduzione dell’intreccio e nell’impianto complessivo della commedia Terenzio presenta novità significative rispetto a Plauto. La più vistosa è l’abolizione del prologo espositivo, destinato a informare gli spettatori sugli antefatti e spesso anche sulla conclusione della vicenda messa in scena: in Terenzio il prologo si trasforma invece in una tribuna dalla quale l’autore parla al suo pubblico, illustra le proprie scelte di poetica, si difende dall’accusa di plagio o da quella di essere il semplice prestanome dei suoi potenti protettori. Intravediamo così l’esistenza di un vivace dibattito letterario e di un pubblico interessato a seguirne lo svolgimento.
Ma l’eliminazione del prologo espositivo ha anche l’effetto di accrescere il coinvolgimento dello spettatore: questi perde la posizione di superiorità che gli proviene dal conoscere in anticipo i protagonisti e l’esito della vicenda e partecipa alle scoperte e alle delusioni dei personaggi. Ma non si tratta dell’unica novità: Terenzio evita le vistose incongruenze spesso presenti nelle trame plautine; pratica largamente la contaminatio, cioè l’impiego per una stessa commedia di due copioni greci, ma cura accortamente le suture fra le diverse trame, in modo che la composizione non sia visibile allo spettatore; la sua lingua è di gran lunga meno brillante e ricca di quella plautina, ma presenta in generale un tono medio di elegante sobrietà; i giochi di parole si riducono fortemente, le allusioni o i doppi sensi osceni scompaiono quasi del tutto, le parti cantate cedono il posto ai dialoghi.
Rientra in questa ricerca di verosimiglianza anche la parodia di alcune convenzioni teatrali: quasi tutte le commedie terenziane prevedono il riconoscimento come meccanismo di risoluzione dell’intreccio, ma i primi a trovare poco credibile questo meccanismo sono i personaggi stessi che ne beneficiano; oggetto di irrisione sono anche la concentrazione degli eventi in un’unica giornata, le inverosimili coincidenze, i ruoli fissi, per cui la cortigiana è invariabilmente avida e insensibile, il padre sempre severo, lo schiavo furbo e ribelle.
Il tema che più sta a cuore a Terenzio è però quello dei rapporti padri-figli, rilevante in tutte le commedie, centrale in Heautontimoroumenos e Adelphoe. È un tema chiave della cultura romana, società patriarcale quant’altre mai, nella quale l’eccezionale concentrazione di poteri e prerogative in capo ai padri determina facilmente tensioni o conflitti tra le generazioni; soprattutto è un tema importante nella cultura del II secolo a.C., che vede da un lato Lucio Emilio Paolo, vincitore della Macedonia nel 168 a.C., impartire per primo ai figli un’educazione fondata esclusivamente sul ricorso a maestri greci, dall’altro il suo contemporaneo Catone scrivere personalmente i libri sui quali il figlio deve formarsi e nei quali lo invita viceversa a diffidare dei Greci, genia corrotta e pronta a inquinare in modo irreversibile il costume romano tradizionale. È ingenuo identificare nei personaggi di Terenzio allusioni precise a questa o quella figura storica (non va però sottovalutata la circostanza per cui gli Adelphoe andarono in scena proprio ai funerali di Emilio Paolo); ma certo ponendo al centro dei propri interessi la questione educativa il commediografo sapeva di toccare un tema sensibile.
Nell’Heautontimoroumenos Menedemo ha educato il figlio secondo la “tradizionale durezza dei padri”: il risultato è stato che il giovane, pur di non dispiacergli, si è arruolato come mercenario in Asia; all’inizio della commedia il padre pentito punisce il proprio errore (donde il titolo della commedia) sottoponendosi spontaneamente ai lavori agricoli. Negli Adelphoe Micione, il padre indulgente, teorizza apertamente il proprio sistema educativo, in contrapposizione a quello del fratello: chi educa i figli con durezza ne ottiene un’obbedienza di facciata; chi ne ricerca la confidenza, ne scusa gli inevitabili errori, li sostiene nella formazione di un’autonoma coscienza morale, non solo se ne assicura la benevolenza, ma ne promuove anche una maturazione più adeguata.
Ma in Terenzio nessun personaggio è totalmente scevro da errori: e nella conclusione degli Adelphoe proprio il “moderno” Micione viene abbandonato da entrambi i figli di Demea. La commedia terenziana non è un teatro a tesi e le posizioni del drammaturgo non coincidono con quelle di questo o quel personaggio: lo spettatore è chiamato a cogliere quanto di unilaterale e dunque di potenzialmente intollerante si cela in qualsiasi posizione che pretenda di detenere in esclusiva la verità. Smascherare le certezze, anche quelle che meglio sembrano reggere alla prova dei fatti: in fondo, è quello che ogni esperienza teatrale è chiamata a fare.