Tenzone con Forese
I sei sonetti della T., tre di D. (LXXIII, LXXV, LXXVII) e tre, responsivi, di Forese Donati (LXXIV, LXXVI, LXXVIII), ci sono giunti smembrati in due gruppi di codici (cfr. Contini, Rime 294-295) comprendenti, l'uno i due primi e i due ultimi della serie (LXXIII-LXXIV e LXXVII-LXXVIII), l'altro (Laurenziano Rediano 184 e Chigiano L IV 131) i due mediani (LXXV-LXXVI) riuniti al primo troncone solo in un tardo testimone secentesco (Vaticano Barberiniano 3999): lo zibaldone di Federico Ubaldini. Il primo gruppo si articola, a sua volta, in due famiglie, costituite, l'una dal Palatino 180 e dal Trivulziano 1058, l'altra dal Chigiano L VIII 305 - più vicino alla metà che alla fine del Trecento - e dalla raccolta Bartoliniana che lo ricavò da un testo del Bembo.
L'ordine di successione in alternanza di botta e risposta stabilito dal Barbi a specchio dell'Ubaldini, è il seguente (v. qui le singole voci): Chi udisse tossir la mal fatata (o, corregge il Contini, malfatata), proposta di D.: ritrae la moglie di Forese in una cornice di domestico squallore, come perpetuamente infreddata e tossicolosa per... vacanza maritale; L'altra notte mi venne una gran tosse, risposta di Forese: " Eh sì, son povero, ma l'altrieri, all'alba, uscito di casa per rimediar qualcosa, sapete chi incontro? l'ombra errante di papà Alighiero, stretta nel nodo di Salomone [usura da restituire?], a supplicar me, squattrinato, di far le veci del figlio insolvente ! "; Ben ti faranno il nodo Salamone, replica di D.: rinfaccia a Forese, col nodo fisiologico della sua insaziata ghiottoneria, quello metaforico dei debiti contratti per soddisfarla senz'altre vie di uscita che la fuga, la prigione o... l'amica arte del furto; Va, rivesti San Gal prima che dichi, seconda risposta di Forese: eludendo, come nella prima, il mordente dell'accusa, ribatte il tasto della miserabilità di D., cui il prestigio donatesco ha motivo di irridere; Bicci novel, figliuol di non so cui, ultimo di D.: sequela d'incalzanti vituperi, diretti a coinvolgere con Forese bastardo scialacquatore e ladro, l'intera genia donatesca dei ‛ malefami '; Ben so che fosti figliuol d'Alaghieri, ultima replica di Forese: che D. sia figlio legittimo di Alighiero garentiscono... la sua vigliaccheria nel farne le vendette e la sua ben nota pusillanimità.
Contestarono quest'ordine il Massèra e pochi altri, che, per la parte di Forese, preferirono uno scambio del primo (L'altra notte) col secondo (Va, rivesti); ma si vedano, alla voce L'ALTRA NOTTE, i folti, evidenti rinvii di questo sonetto di replica, al primo di D.; o il non meno evidente rimbalzo del ‛ nodo salomonico ' escogitato da Forese al v. 10, nella successiva ripresa dantesca (Ben ti faranno il nodo Salamone): anche a non tener conto dell'impianto parallelo dei due sonetti introduttivi (della serie Barbi) rivolti, narrativamente, a una cerchia di uditori, più che intesi, come i quattro seguenti, allo scontro diretto; fermo restando che il discorso di Forese non offre tratti apprezzabili di pertinenza e di sviluppo.
Contro l'autenticità della T. si pronunciarono, fra altri, il Witte e il Fraticelli e, circa un quarantennio fa, il Guerri, che, intento a " liberare - son parole sue - il nome di Dante da questa brutta lebbra ", finì a riconoscervi i segni (le oscenità) di un'anonima contraffazione burchiellesca del primo Quattrocento (cfr., oltre La corrente popolare nel Rinascimento..., Firenze 1931, gli articoli pubblicati successivamente su " La Nuova Italia " dal 1931 al 1934). La tesi, per molti versi suggestiva, fu subito confutata dal Barbi e non ebbe seguito fino a un capitolo di Antonio Lanza, inteso a riproporla come la sola plausibile. Per parte nostra, dando atto della brillantezza di cotesto assunto esegetico, dissentiamo anche a prescindere dal peso dei dati paleografici (trecentesco, secondo la stima più probabile, è il Chigiano L VIII 305; trecentesco l'Anonimo fiorentino che reca quattro versi del son. Ben ti faranno) su un punto primario, in certo senso pregiudiziale. I sonetti della terna per noi dantesca non sono, sotto il rispetto dell'arte, suppergiù equivalenti, come mostran di credere il Guerri e il Lanza, a quelli della terna donatesca: si colgono in essi un'animazione ritmica, una densità immaginativa, una perentorietà formale che presagiscono certo D. maggiore e non si ritrovano in qualsivoglia rimatore dell'età burchiellesca; " Da questi versi, ammoniva il Carducci, per chi abbia il gusto e l'orecchio alla vecchia poesia e al fare di Dante, apparrà, spero, la ‛ granfia ' del leone ". E l'angiolieresco Dante Alighier, s'i' son buon begolardo, replicativo di un perduto non meno ingiurioso sonetto dantesco, basterebbe a garantirci che la T. non fu un episodio isolato né estraneo alla complessa temperie psicologica ed estetica del poeta. Né ci sembra opinabile un rapporto fra i canti purgatoriali di Forese e la T. giovanile, che alla ghiottoneria di Forese offre uno spicco così evidente e compiaciuto. È altresì da rilevare che le parole-rima Cristo, tristo, malacquisto del terzo sonetto di D. si specchiano identiche proprio in un sonetto angiolieresco d'invettiva contro il padre (Sed i' credesse vivar un dì solo): un aggancio, questo, che può forse legittimamente far fronte al " gagno " (altra cosa dal guadagno di Forese, piuvico ladron, o dalle ruberie del padre di Cecco, " ladro di Salvagno "), alla Buca di Montemorello (ma le " piagge di Monte Morello " sono già nel Boccaccio), all'" Acquettino " dell'ingegnosa ricostruzione del Guerri.
Controversa è pure, nell'ambito della biografia dantesca, la data presumibile da assegnare alla T.: tra i due termini, post e ante quem, del 1283, anno in cui Alighiero risulta già morto, e del 1296, morte di Forese. Scriveva già il Carducci: " non so fermare se avanti la morte di Beatrice o dopo, se nella gioventù prima o circa i trent'anni ". Il Torraca, V. Rossi, G.A. Venturi, il Cosmo, il Chimenz propendono per una data alta, di poco più tarda del 1283; il Barbi, richiamandosi a Pg XXIII 116 e 118 e XXX 121-141, la spostò con sicurezza, " per confessione - scrive - dello stesso Dante ", a dopo la morte di Beatrice, e con lui si accorda la maggior parte degli studiosi (Sapegno, Contini, Mattalia, Marti, Vitali, Foster) che, per vie e motivazioni diverse (la ‛ matura arte ' di D., la sua più viva e realistica attenzione al clima cittadinesco, ecc.), la situa negli anni 1293-1296. Il Pernicone insiste sul mero valore ipotetico di questa, come di ogni altra designazione cronologica a partire dall'83; e non si scandalizzerebbe, scrive, " se [la T.] fosse contemporanea alle rime della lode o alla stesura della Vita Nuova ". E lo stesso Contini: " Ormai la pluralità di stili assodata per tanti anche minori consente di considerare senza allarme la comunque flagrante contemporaneità alle così remote poesie raccolte nella Vita Nuova ".
Non meno oscillanti furono e in parte sono, come si è già accennato, nonché l'esegesi letterale condotta dal Barbi a un grado forse insuperabile di approssimazione, ma pur sempre irta di quesiti insoluti, il modo di approccio a questi testi e la loro valutazione etica ed estetica. Si va, secondo una gamma amplissima che sarebbe lungo descrivere, dal drastico rifiuto del Guerri o dalle ipotesi di sodomia, risalenti alla chiosa del Serravalle a Pg XXIII 116 (" Nam ipsi fuerunt sotii in rebus aliquibus lascivis, quas fecerunt invicem et insimul ") rinverdite dal Gilson e dal Guidubaldi, alla ben diversa messa a punto di G. Contini: " Non contesto il traviamento morale, ma nella fattispecie [del predetto canto XXIII] troverei che tutto tornerebbe piano se quella vergogna fosse semplicemente condanna d'un'esperienza stilistica esercitata a comune (e qual io teco fui) e vinta sull'esempio ‛ tragico ': il triviale prezioso allo stato isolato, il trobar clus sulla feccia di Sinone e mastro Adamo, le rime care nel virtuosismo dell'ingiuria, della pornografia e della coprolalia che si segrega in un genere da sé, rompendo la tradizione di parallelismo e contrappunto satiresco al tragico che va, per tacere dei provenzali, dal Notaio e da Guittone a qualche spruzzo stilnovistico, fra il Guinizelli e Cino ". Che è, ci sembra, giudizio e storico ed estetico incontrovertibile, da accogliere con la sola postilla che la " vergogna " di cui sopra, ipotizzata " semplicemente come condanna di un'esperienza stilistica ", non comporterebbe per D., giunto all'altezza del Purgatorio, nessuna diminuzione di mordente etico-religioso: in codesto D. letteratura ed ethos si identificano. Tant'è vero che l'allusione del v. 116 - inscindibile in ogni caso da una memoria dei sonetti giovanili - subito si risolve, al v. 118, in quella vita. Né l'esercizio stilistico giovanile in sé e per sé considerato, sarà da confinare " in assoluto " nel grembo della letteratura.
Resta comunque ben fermo che le analisi del Contini o quelle, non meno pertinenti, di M. Apollonio mostrano in D. (diremo con quest'ultimo) al di sopra di tutti i condizionamenti propri del genere, " specie a confronto dei sonetti dilettanteschi di Forese, un'eleganza di modi, un'abilità di scuola, e sia pur di scuola antistilnovistica, con cui, mentre capovolge la sua poetica verso il basso e il volgare, capovolge la stessa poetica dei realisti, li sospinge... verso la continenza stilistica ". Ne è riflesso e conferma il tessuto metrico, che, privo di peculiarità nei sonetti di forese, obbedisce nei sonetti danteschi a un disegno: aperto al dialogo (o all'urto) nei due primi, a rime alternate (abab abab; cde cde); perentoriamente chiuso nel terzo, non meno nelle terzine che nelle quartine (abba abba; cdc dcd).
Segnaliamo, fra gli studi intesi a sondare l'animus della T. con piglio e prospettive in parte nuovi, l'agguerrito saggio di L. Russo, che serve a dovere la schermaglia ingiuriosa di Forese, ma preme, ci sembra, un po' troppo il tasto della " genesi morale e castigatrice del primo sonetto " e, in genere, della " prepotente vocazione moralistica e giudiziaria " di D. (su questa linea anche E. Bartlett e A. Illiano); l'ingegnoso, ma poco plausibile, tentativo d'interpretazione antifrastica (la T. come vituperatio iocosa) condotto di recente da F. Chiappelli; e le pagine del Marti, che incentrano il realismo comico dei sonetti in un arco forse troppo ampio e accentuato d'interessi, se non di esperienze, civili e politici.
Occorre, infine, sottolineare l'importanza della T., oltre che in sé e nell'ambito delle Rime (il rapporto con le ‛ petrose ' è tuttora vivacemente dibattuto), come spunto germinale di soluzioni stilistiche e poetiche maturate in simbiosi con il corpo stesso della Commedia. Se, infatti, è ormai quasi di prammatica avvertire in codesti versi un preannuncio del ritmo, del martellamento sintattico della terzina dantesca, dello " stile comico in senso aristotelico dei canti dell'Inferno " (Russo), non è meno rilevabile che, quali che fossero l'entità e i modi effettivi del ‛ traviamento ', di cui è menzione nei canti di Forese (quella vita), come agli inizi del poema e nei rimproveri di Pg XXX e XXXI, una ‛ memoria ' della remota T. trascorre, da cantica a cantica, in una serie di echi o sviluppi che danno misura di un impegno redentivo e trasfigurativo, etico insieme e fantastico, d'inusitata potenza.
Per l'esame di taluni di essi si vedano le ‛ letture ' dei canti XXIII e XXIV del Purgatorio, che della T. sono palinsesto, palinodia e puntuale riscatto. Qui offriamo qualche supporto alla verifica di un altro dato, ritenuto da molti - dopo le segnalazioni del d'Ovidio, del Pascoli, del Barbi - incontrovertibile: da altri, come una curiosità marginale seppur suggestiva: ed è che Cristo, in rima non pia al v. 11 del terzo sonetto dantesco (che gli appartien quanto Giosepp'a Cristo, detto del padre... putativo di Forese) con tristo e male acquisto (o malacquisto), non si ritrova poi in rima nel poema se non con sé stesso e nella sola terza cantica (Pd XII 71, 73, 75; XIV 104, 106, 108; XIX 104, 106, 108; XXXII 83, 85, 87): in contrasto troppo evidente e ineludibile - si pensi alla palinodia, segmento per segmento, di Pg XXIII e XXIV - per non risultare intenzionale e non valere di consapevole ammenda. A convalida, si noti: Cristo non ricorre in rima in nessun altro luogo del canzoniere dantesco; ricorre nel milieu stilnovistico una sola volta, in un passo guinizzelliano (v. 55 di Donna, l'amor mi sforza), in rima con acquisto, tristo, visto, quisto; mentre ricorre a più riprese, in rima dissacrante con ‛ ipocristo ' e ‛ Antecristo ' (e con ‛ tristo ' e ‛ acquisto '), nei sonetti del Fiore e un'unica volta, ma con le stesse parole-rima dantesche (‛ tristo ' e ‛ malacquisto ') nel già citato sonetto angiolieresco (Sed i' credesse vivar un di solo) probabilmente anteriore alla T., diretto in tono di grossa irriverenza ed empietà contro il padre tirannico, avaro, ladro (" borrato " di " malacquisto "), insopportabilmente longevo. Per questo inedito episodio dei rapporti di D. con l'Angiolieri, v. alla voce BICCI NOVEL, FIGLIUOL DI NON SO CUI.
Ebbene, all'impertinenza irreligiosa di codeste rime giovanili la liturgia numerica della Commedia risponde come segue: tristo ha una sola eco in cor tristo di If XXXII 38; malacquisto, redento in di bene acquisto e inarcato con Subsisto, riecheggia una sola volta in Pd XXIX 13; e i ‛ dodici ' ritorni del nome di Cristo nell'alto Paradiso, in armonia con una precisa definizione di Ugo da San Vittore (De Scripturis et scriptoribus sacris, Patrol. Lat. CLXXV 21-22), celebrano una sorta di trionfo all'Archetipo dell'Essere universo, e ridicono, nei modi cifrati cari al poeta, lo slancio vertiginoso di elevazione che lievitò il suo canto, dall'ombra della terra all'estrema folgorazione dell'Empireo.
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