Temistio
Città e dinastia
Costantino è, in Temistio, il creatore di Costantinopoli1. Non è l’uomo mandato dal Dio dei cristiani per la salvezza dell’Impero, come in Eusebio di Cesarea – pur a Temistio ideologicamente così vicino2. Né il traditore del mos maiorum, responsabile della rovina di Roma, come in Giuliano. Non è insomma un personaggio sul quale esprimere un giudizio storico. È invece colui che, riprogettando l’antica Bisanzio nel ruolo di città dell’imperatore e sede di un secondo Senato, ha offerto ai provinciali d’Oriente l’impareggiabile opportunità di avvicinarsi come mai prima ai vertici del potere. Costantinopoli è la vera ragione dell’immagine positiva che Temistio costruì e divulgò di Costantino. Giacché il retore figurò appunto tra quanti trassero beneficio dal piano di promozione istituzionale della città che, sulla falsariga del progetto del fondatore e con altrettanta incertezza, fu perseguito già dall’erede di costui, suo figlio Costanzo II, il quale volle l’ingresso del nostro tra i nuovi padri coscritti, eleggendolo strumento di quel piano di romanizzazione e controllo delle classi dirigenti orientali che era stato già dell’Augusto suo padre.
Eredità costantiniana e dedizione a Costantinopoli costituirono, per Temistio, il metro con cui misurare la qualità dei principi dopo Costantino: oltre a Costanzo II, il ‘difficile’ Giuliano – l’ultimo? della sua stirpe – e quindi Gioviano, Valente e Teodosio, nelle cui vene sfortunatamente non scorreva il sangue del fondatore della città, e per i quali il senatore si sforzò ogni volta di dimostrare l’aderenza ideale al modello di riferimento.
Il Costantino di Temistio è, in effetti, un mito. Che servì tanto a dar voce alle necessità proprie e del gruppo del quale egli, non sempre ricambiato, si considerava interprete – vale a dire il Senato costantinopolitano –, quanto a propagandare o criticare (raramente, e quasi sempre a posteriori) la bontà o i limiti della politica dell’imperatore di turno rispetto a quelle necessità.
Quasi sicuramente, Temistio non conobbe Costantino. Nato tra il primo e il secondo decennio del IV secolo – era coetaneo del figlio del principe, Costanzo II, il quale vide la luce il 7 agosto 3173 –, aveva circa vent’anni quando l’Augusto morì improvvisamente nei pressi di Nicomedia, il 22 maggio 337, in circostanze mai del tutto chiarite4. Tuttavia, anche se non conobbe Costantino, egli non poté che amarlo. Originario probabilmente di Cimiata, in Paflagonia5, Temistio apparteneva a una famiglia di intellettuali benestanti6, la quale, nella persona del padre Eugenio – professore di filosofia, come già il nonno7 –, non si risparmiò affinché il ragazzo avesse la migliore istruzione possibile. Il risultato fu all’altezza delle aspettative di un mondo abituato a mettere la paideia ellenica al primo posto nel proprio universo di valori. Non dal punto di vista di quanti però, nel IV secolo, consideravano l’ellenismo come una scelta non tanto di cultura quanto di fede e di tradizione, inconciliabile, perciò, con una vita vissuta al servizio di un Impero cristiano.
Ignaro di latino – la lingua degli apparati dello Stato, votati all’efficienza procedurale ma indifferenti alle appartenenze culturali e religiose8 –, dotto di retorica e filosofia – il prodotto più squisito della grecità –, pagano per lealtà verso una tradizione, anch’essa familiare, mai tradita, Temistio aveva i requisiti giusti per incarnare alla perfezione l’ideale ellenico così come l’avrebbe inteso presto colui che più di ogni altro, tra i suoi contemporanei, se ne considerò il custode e il difensore, l’imperatore apostata Giuliano. Ciononostante, egli fu ben lungi dall’essere l’elleno che Giuliano avrebbe voluto.
Giovanissimo, Temistio mise a frutto la propria paideia insegnando con successo in provincia: nella sua città natale certamente9, poi – tra il 343 e il 347 – a Nicomedia e, forse, ad Ancira10. Ma, a dispetto di quanto egli stesso ebbe a dichiarare una volta, agli inizi della sua carriera, circa la sciocca mania dei giovani di scegliere dove studiare non in base alla fama dei maestri, bensì della località11, il suo obiettivo era Costantinopoli.
Qui, a quanto pare, era vissuto e aveva insegnato sotto Diocleziano già l’avo che egli amava definire «il capostipite della mia casa», e che si crede fosse suo nonno12. Qui, a quanto pare, visse e insegnò a partire dal 330 suo padre Eugenio13. Qui Temistio si trasferì adolescente, raggiungendo il genitore, intorno al 332-333 – piuttosto che nel 337 –, costruendovi la propria carriera umana, professionale e politica14: qui si sposò in prime nozze con la figlia di un maestro di filosofia15; qui insegnò per una quarantina d’anni, dal 348 fin circa al 38416; qui visse tanto a lungo da sentirsi ἐγγενής, e cioè «nativo» della città17. Nativo, naturalmente, per adozione, visto il tempo che vi trascorse. Ma nativo soprattutto perché «nutrito e cresciuto» in mezzo agli uomini migliori di Costantinopoli, vale a dire i senatori18.
Temistio è in effetti l’esempio migliore di quel genere di provinciali che guardarono alla (auspicata) capitale d’Oriente come alla sede naturale dei loro sogni di progresso sociale. E la capitale – la «nuova Roma» che, grazie agli eredi del primo imperatore cristiano, era «regina al secondo posto»; la «seconda Roma» che, insieme alla Roma antica, era «città-madre» del mondo civilizzato19 –, esisteva grazie a Costantino.
Della seconda Roma, Costantino era il fondatore eponimo così come Romolo lo era della prima: paragone dal significato molto preciso20. Giacché Romolo non si era limitato a edificare una città, ma le aveva regalato una classe dirigente capace e privilegiata, l’antico Senato romano, che di Romolo era l’«illustre progenie» (πολυτίμητον θρέμμα ῾Ρωμύλου)21. Allo stesso modo Costantino non si era limitato ad abbellire architettonicamente la città che da lui prendeva il nome, ma era stato il padre del nuovo Senato (Κωνσταντίνου γέννημα καὶ θρέμμα, «creatura e progenie di Costantino» era il Senato costantinopolitano22), del quale Temistio entrò presto a far parte.
Pur figlio a pieno titolo dell’ellenismo – di un ellenismo diverso, è chiaro, da quello di Giuliano, diplomaticamente aperto al cristianesimo all’insegna della comune romanità23 –, Temistio vide perciò in Costantino non il traditore della tradizione, ma colui che, trasferendo la corte in Oriente – perché anche questo significava la rifondazione di Bisanzio, indipendentemente dal fatto che la città sorta dalle ceneri di questa sia stata pensata sin dal principio quale nuova capitale, destinata a sostituire l’antica, ovvero principalmente quale sede dinastica24 – aveva offerto ai ben nati di provincia l’opportunità di dialogare da presso con il potere e, all’occasione, di entrare a farne parte. Come e più di altri, prima e dopo di lui, e diversamente dai tradizionalisti, egli fu «un pagano flessibile»25, il quale non esitò ad anteporre alla propria appartenenza culturale e religiosa – qualunque sia stata l’intensità con la quale la visse – l’incalcolabile vantaggio di avere a portata di mano l’imperatore e, con esso, una città destinata a spostare più vicino a casa il baricentro dell’impero26.
Costantinopoli – la Costantinopoli senatoria – e il suo ecista diventarono presto, nel Temistio uomo dell’istituzione, la cifra alla luce della quale valutare la statura politica imperiale al momento in carica27. A cominciare da quello che più di tutti, in Oriente, costruì la propria immagine pubblica presentandosi come l’erede genuino di Costantino, il figlio di lui Costanzo II. Sotto Costanzo – imperatore unico a partire dal 350, anno della scomparsa del fratello Costante, caduto vittima dell’usurpatore Magnenzio – la carriera del professore compì, com’è noto, il salto di qualità decisivo.
Temistio aveva avvicinato la corte sin dalla fine degli anni Quaranta, grazie alla mediazione di personaggi influenti28. Non è chiaro esattamente quando, se nel marzo 34729 o, come sembra più probabile, nella seconda metà del 350 – dopo l’annuncio dell’usurpazione, avvenuta il 18 gennaio di quell’anno30 –, o meglio ancora nell’autunno 35131, egli rivolse ad Ancira di Galazia il suo primo discorso ufficiale a Costanzo32. In quell’occasione, Temistio offrì all’imperatore la sua totale collaborazione: accennando risolutamente al diritto dinastico del principe, per natura superiore al tiranno – Magnenzio o chiunque altro questi sia stato –, ma, soprattutto, esortando l’Augusto a scegliere amici sinceri in grado di assisterlo nel governo e di tenerlo al corrente degli umori dell’Impero33.
L’Augusto apprezzò. In quel giovane suo coetaneo, campione dell’ellenismo, il colto Costanzo II vide lo strumento ideale per creare il consenso intorno alla sua persona, selezionando e cementando una classe dirigente disposta ad assecondare le priorità della corona34. Avanti il 1° settembre 355 o il 1° settembre stesso – giorno nel quale, tra l’entusiasmo dei presenti, fu letta in Senato la lettera imperiale che ufficializzava l’evento, la cosiddetta Demegoria o Epistula Constantii –, nominò dunque il filosofo senatore35: incarico che Temistio – il quale con l’adlectio ricevette verosimilmente anche la cittadinanza costantinopolitana36 – prese molto sul serio, spendendosi per il resto della vita a difesa degli interessi della città e della dirigenza della quale era entrato a far parte – o, almeno, fingendo di farlo37. «La mia voce deve essere considerata la voce del Senato», dichiarava ancora trent’anni più tardi38: a buon diritto, dal momento che, sino almeno dal 357 – quando esso lo scelse come ambasciatore presso il principe, allora in visita a Roma – di quel consesso egli assunse la «tutela» (προστασία39).
Che questo abbia significato una sua promozione a proconsole nello stesso 357, carica che comportava la presidenza del Senato, è dubbio40. Forse, egli divenne princeps senatus, ruolo che a parere di alcuni avrebbe mantenuto ininterrottamente fino a Teodosio41. Comunque sia, su mandato del principe, Temistio fu tra i protagonisti del piano di reclutamento che, vero atto di fondazione di Costantinopoli capitale, sottraendo risorse umane e finanziarie alle province e alle poleis portò l’ordo costantinopolitano – proprio ora, a quanto, pare, distinto dal suo equivalente romano, e dotato di una propria competenza territoriale – da trecento a duemila membri: un ordo fatto per larga parte di parvenus affezionati all’imperatore quale era Temistio stesso, uomo nuovo appartenente a una aristocrazia nuova, legata a filo doppio al principe e alla sua capitale42.
Mantenendo la promessa fatta nel 350, il senatore ricambiò tanta fiducia con un’ammirazione incondizionata e una dedizione totale alla causa dell’Augusto, che gli valse una statua di bronzo nella curia43, e che si espresse nel propagandare ossessivamente, ogni volta che egli ne ebbe l’occasione, l’immagine che l’Augusto intendeva dare di sé. Raramente, perciò, Costanzo II è chiamato col suo nome – e questo non solo in ossequio alla consuetudine retorica che prescriveva di evitare i nomi propri. Sin dal novembre/dicembre 355 – data del discorso di ringraziamento per la nomina senatoria – egli è, di regola, «il figlio di Costantino»44: non perché ne risultasse sminuita la statura – ché la cosa non sarebbe certo piaciuta –, ma al contrario perché essa ne uscisse accresciuta. Giacché di Costantino, il figlio di Costantino era il vero erede45: filiazione significava insomma eredità.
Non si trattava solo di gratitudine. Né il motivo era dettato soltanto dalle necessità propagandistiche di un principe che, dopo la scomparsa di Costante, proprio come un tempo era accaduto al padre si ritrovava da solo alla guida dell’Impero – e di un Impero minacciato da un rivale deciso a imporre sul trono una dinastia non priva di legittimazione costantiniana46. Battendo sul tasto dell’eredità paterna, Temistio era guidato da una particolare preoccupazione, strettamente legata al ruolo politico che egli si era guadagnato.
Essere erede di Costantino, comportava infatti portare a compimento il progetto che, dal punto di vista del senatore, costituiva il lascito più prezioso di quel sovrano: trasformare Costantinopoli nel baricentro nell’impero. Ma sul fatto che Costanzo avrebbe compiuto la volontà del padre, allorché Temistio entrò a far parte della classe dirigente della capitale non c’era affatto certezza. Dal 337 al 350 Costanzo risedette pressoché ininterrottamente ad Antiochia47, che era naturale considerare la civitas regalis per eccellenza ancora nel 35948. Fu solo nel corso dello stesso 359 che il principe decise di trasferirsi nella città del padre e di tradurre in atto il piano di lui: decisione ufficializzata attraverso la soppressione, l’11 dicembre di quell’anno, della carica di proconsole e la creazione di quella di praefectus urbi constantinopolitanae – necessaria dopo la trasformazione del Senato locale nell’equivalente di quello romano –, con la quale la Nuova Roma veniva trasformata nel doppio istituzionale dell’antica49. Perché tale decisione diventasse realtà c’era stato bisogno del contributo di sostenitori appassionati come Temistio, nei cui discorsi a Costanzo II pronunciati dopo la nomina senatoria – oltre all’Or. 2, restano le Or. 4 e 3, risalenti entrambe al 35750 – Costantinopoli occupa un posto centrale.
Anzitutto come città dalla cui salute dipende la salute della dinastia: giacché Costantino – rivelò il senatore nell’Or. 4, dapprima pronunciata proprio a Costantinopoli e poi trasmessa a Milano per l’inaugurazione del consolato di Costanzo II Augusto e di Giuliano Cesare, il 1° gennaio 357 – aveva legato indissolubilmente le sorti dell’una a quelle dell’altra, facendo coincidere la promozione al cesarato del figlio Costanzo con l’inizio dei lavori di fondazione. Ragion per cui «la città che è nata insieme all’impero giustamente cresce insieme all’imperatore»51. Dell’imperatore, la città è in effetti consanguinea: «figlia di Costantino, [essa è] sorella di Costanzo52 e madre del potere regale nato dalla legittimità costantiniana»53.
Costantinopoli, però, è al centro delle orazioni per Costanzo anche come città leale alla dinastia. In quanto creatura di Costantino, la Nuova Roma non può essere fedele ad altri, infatti, che al fondatore e alla sua stirpe. Fa parte del suo codice genetico. Cosa che rappresenta, per l’imperatore, una garanzia di stabilità e di successo.
Costantino l’aveva fondata dopo la vittoria su un altro usurpatore, Massenzio – affermò Temistio nel discorso tenuto a Roma dinanzi a Costanzo nella primavera del 357 e, forse, rimaneggiato in vista di una successiva lettura a Costantinopoli54 –, e le si era affezionato in modo del tutto speciale – dirà egli più tardi – perché di qui era partito per lo scontro vittorioso con l’ex collega e rivale Licinio55. Di qui era partito Costanzo II per la guerra contro Magnenzio56, durante la quale Costantinopoli era rimasta attanagliata dall’ansia, sapendo di essere «colei che è più intimamente legata ai signori contro i quali [quello] infuriava»57. Propiziare la città «alla quale più di ogni altra è dato essere partecipe alla sorte del principe»58 – preferendola a concorrenti come Antiochia, incapaci di accampare meriti altrettanto rassicuranti – voleva dire, dunque, per il principe, propiziare la propria causa.
Naturalmente, esaltando tali meriti, Temistio intendeva rafforzare agli occhi dell’Augusto i meriti del gruppo al quale egli apparteneva e a nome del quale parlava. Giacché la lealtà di Costantinopoli era, naturalmente, la lealtà del suo gruppo dirigente, vale a dire del Senato – o, almeno, della fazione senatoria che in Temistio aveva il suo leader59 –, del quale era «opportuno» che Costanzo II si prendesse cura in quanto degno figlio di un padre che quel Senato aveva creato, essendone ricambiato con una devozione esente da ogni sospetto: «tutti riconoscono – infatti – che noi più degli altri uomini siamo legati alla stirpe di Costantino: la nostra felicità e il nostro benessere ci provengono soltanto dal nostro vincolo con lui»60.
Costanzo – unico dei suoi fratelli a prendersi cura della creatura del padre e, perciò, unico tra loro a ereditarne l’Impero61– lo aveva capito. Arricchendo Costantinopoli con opere a tal punto degne del ruolo cui essa era stata destinata che la città, «pur avendo preso nome da tuo padre, in realtà è più tua che di tuo padre»62. Ma, soprattutto, instaurando un rapporto privilegiato col suo Senato.
Quel Senato che Costantino ha fatto nascere, il figlio di Costantino lo nutre e lo accresce63. Cosicché se prima accedere all’ordo «era considerato una costrizione e l’onore non appariva diverso da una punizione, ora invece volontariamente e senza nessuna imposizione i senatori accorrono da ogni parte»64. Del Senato, Costanzo è – anch’egli – «padre»65. Del coro dei senatori, è «corego […] capofila e corifeo». Il suo trono è posto «nel Senato paterno», che il principe volentieri presiede. Giacché dei senatori egli si considera «collega di uguale rango»66.
Pronunciate nel 357, simili dichiarazioni dovevano rassicurare l’Augusto sul clima che questi avrebbe trovato nella rinnovata Bisanzio qualora avesse deciso di farne la sua residenza, come Temistio e i suoi colleghi auspicavano, non senza averne avuto qualche sentore: in effetti, non era forse pura retorica quanto il senatore ebbe a dire nella primavera di quell’anno nel discorso tenuto a Roma, e cioè che Costanzo, «nonostante un’opinione diffusa, [non avrebbe permesso] che la fortuna della nostra città finisse con [suo] padre»67. Al contrario, è assai probabile che egli non solo fosse al corrente dell’imminente cambiamento, con tutto ciò che esso avrebbe comportato – anzitutto, l’equiparazione dell’ordo costantinopolitano a quello romano –, ma che tentasse di preavvisarne l’élite dirigente tanto d’Occidente quanto d’Oriente, allo scopo di smorzare le possibili resistenze68.
Come che sia, Temistio fu certamente tra i protagonisti della svolta decisa da Costanzo II. Circa l’ipotesi secondo la quale questi lo avrebbe proposto per la prefettura urbi neocostituita, è difficile prendere posizione tra quanti ritengono che il senatore abbia declinato l’offerta, quanti che l’abbia accettata e quanti invece pospongono l’episodio al tempo di Giuliano69. Viceversa, non c’è dubbio sul fatto che, ancora nel 36170, a sei mesi esatti dalla morte di Costanzo, Temistio è oggetto di una menzione speciale della corona quale membro della commissione senatoria incaricata della designazione dei pretori di Costantinopoli: dimostrazione evidente dell’intesa perfetta tra il settore della città, di cui egli era espressione, e il figlio del fondatore.
La causa per la quale Temistio lottava era strettamente legata alla tutela e alla promozione di una memoria – quella del fondatore di Costantinopoli – che, presto, diventò scomoda. Ciò non accadde durante il breve impero del successore di Costanzo II, suo cugino Giuliano. Sopravvissuto miracolosamente al massacro del 337 – con il quale quel principe aveva eliminato gran parte dei membri adulti del ramo nobile della famiglia del padre, il ramo cioè che discendeva da Costanzo Cloro e dalla legittima sposa di questi, Teodora71 –, trattato come un usurpatore da Costanzo allorché costui, nel 360, si era rifiutato di approvarne l’irregolare acclamazione augustea, quindi tornato al paganesimo dopo aver abbandonato la religione dello zio, Giuliano aveva diversi buoni motivi per odiare Costantino e tutta la sua genìa. Costantino, ma non Costantinopoli, cui l’Apostata era al contrario molto legato.
Nel messaggio inviato nel 357 a Milano per il consolato di Costanzo Augusto e Giuliano Cesare, Temistio aveva insistito su questo legame, che era anzitutto affettivo. Giacché «qui i suoi genitori – Giulio Costanzo e Basilina – si sono uniti in matrimonio, qui egli è stato concepito e generato, e la città è stata la sua levatrice; la città lo ha allevato ed educato»72. Oltre che affettivo, il vincolo che legava Giuliano alla sua città natale era però, per il senatore, anche un vincolo dinastico. Nelle vene del Cesare scorreva infatti lo stesso sangue di Costantino, del quale quegli era nipote e, dal 357, pure genero, poiché, per volere di Costanzo II, di Costantino aveva sposato la figlia Elena, sorella di Costanzo stesso. Tale matrimonio lo aveva «unito alla capitale con uno stretto legame, rendendo ancora più stretta la parentela col fondatore della città»73.
Né l’atteggiamento di Giuliano Augusto verso Costantinopoli e la sua casa regnante, né quello di Costantinopoli verso colui che poteva fregiarsi dell’invidiabile titolo di erede di quella casa smentirono le parole di Temistio. Nonostante la sua avversione personale per Costantino e per Costanzo II, infatti, l’Apostata non fece nulla che potesse far sorgere dubbi circa il proprio diritto di sangue, che anzi in più occasioni ribadì in forme sia ufficiali sia ufficiose – per esempio, volentieri richiamandosi al nonno Costanzo Cloro, o lasciando che circolasse la voce secondo la quale il cugino in persona lo avesse designato quale suo successore in punto di morte74. Né fece nulla che potesse deludere le aspettative della città di Costantino e della sua classe dirigente, le quali si prodigarono al meglio per rendersi gradite al nuovo imperatore, nella fondata speranza che costui portasse a compimento il processo messo in moto nel 360 dal suo predecessore. Giuliano amava Costantinopoli e la sua dirigenza – molti dei cui elementi egli conosceva sin da quando, ragazzo, aveva vissuto e studiato colà –, e Costantinopoli lo amò a sua volta: come da giovane, promettente candidato al trono, così da Augusto, confidando di averne in cambio quel primato cui essa ambiva75.
Non sappiamo se Temistio, il quale sotto Costanzo tanto egregiamente aveva dato voce a siffatte ambizioni, abbia fatto altrettanto sotto l’erede di lui. Durante l’impero dell’Apostata, infatti, il senatore restò in disparte, contro ogni previsione.
In effetti, quando, nel 348, era stato richiamato da Costanzo II a Costantinopoli, il giovane Giuliano aveva studiato proprio con Temistio, dal quale aveva appreso «i fondamenti della filosofia»76. Nei primi anni Cinquanta, avanti la promozione di quello a Cesare, i due avevano poi corrisposto regolarmente77. Nel 355, in occasione di tale promozione, il professore aveva spedito infine a Giuliano una lettera di congratulazioni abbastanza importante da meritare una replica di pari spessore78. Dopo il 361, però – nonostante la sua fede pagana, che teoricamente avrebbe dovuto renderlo a maggior ragione gradito all’Apostata –, Temistio perse il ruolo di primo piano ricoperto sotto Costanzo, per ragioni – si crede – più ideologiche che strettamente politiche79. O, almeno, questo fu ciò che egli tentò di far credere a posteriori.
Difatti, l’anonimo imperatore che lo avrebbe proposto per la poltrona di prefetto della città, ricordato in Or. 34, 13-14, anziché Costanzo potrebbe ben esser stato Giuliano80, al quale non è affatto certo che il senatore abbia detto no81. È vero che tale possibilità mal si accorda con la nota esternazione di Or. 5, 63C-64D, pronunciata all’indomani dell’ascesa al trono di Gioviano, ove Temistio si dice felice di poter tornare a collaborare con la corona dopo un periodo di forzata inattività82. Tuttavia, non è da escludere che sia stato, questo, un abile tentativo di camuffare una realtà sostanzialmente diversa.
Anche se non si è disposti ad ammettere che il padre coscritto sia stato tra i beniamini del principe apostata83, è infatti probabile che l’influenza come opinion leader, nella capitale e fuori, di colui che aveva contribuito a selezionare un largo settore della classe dirigente costantinopolitana, e che perciò ne controllava gli umori, abbia imposto a Giuliano di non ferirne troppo l’amor proprio, men che meno di emarginarlo, di qualunque tipo fossero i sospetti che l’Augusto nutriva sul conto di un uomo che era stato tra i più stretti collaboratori di Costanzo II84.
Sia pur rimasto fuori dal giro dei confidenti del nuovo imperatore (un ulteriore cenno, forse, in Or. 7,99CD, ove però non è chiaro di chi si tratti, se di Giuliano o invece di Gioviano oppure di Procopio), Temistio né subì la stessa sorte toccata ai funzionari di Costanzo che Giuliano estromise o perseguì legalmente, né sparì del tutto dalla scena pubblica, dal momento che nell’inverno 363 pronunciò ad Antiochia un’orazione panegirica per il principe, forse in occasione del suo quarto consolato85.
Se in questo discorso Temistio, come probabile, abbia toccato il tema a lui caro di Costantinopoli culla della dinastia costantiniana non sappiamo86. Ciò che sappiamo è che, dopo Giuliano, quel tema diventò invece un problema, che si fece sentire in tutta la sua gravità sin dai primi mesi di governo del successore dell’Apostata, il suo primicerius domesticorum Gioviano.
Eletto in fretta, per rispondere all’emergenza in cui, morto Giuliano nel pieno della sfortunata campagna persiana, si era trovato l’Impero, Gioviano mancava di un requisito fondamentale: l’appartenenza alla stirpe del fondatore della città. Apparentemente, questa poteva sembrare una pecca di poco conto.
Giuliano non aveva avuto figli. Costanzo II, invece, un figlio alla fine l’aveva avuto – dalla terza moglie, Faustina –, ma si trattava di una femmina, che poteva servire – ed eventualmente diventare rischiosa – solo per via di strategie matrimoniali87. Ciononostante, la pecca di Gioviano di poco conto non era. Perché qualcuno in grado di vantare le credenziali che il nuovo imperatore non aveva, suscitando in costui preoccupazioni assai più serie di quelle che poteva destare la piccola Costanza, effettivamente c’era.
Procopio era parente di Giuliano, e un parente molto speciale. Diversamente da quanto di solito creduto, infatti, non è certo che fosse suo cugino materno88. Forse, egli apparteneva recta via alla linea dinastica che da Costantino passava per Costanzo II, essendo dunque più costantiniano dello stesso Giuliano89. Nell’un caso e nell’altro, egli era comunque a pieno titolo un costantinide. Mentre Gioviano firmava la pace con la Persia, guidando la faticosa ritirata in territorio romano di un esercito decimato, Procopio si ritrovò a capo di un contingente – intatto – di circa quindicimila uomini, che proprio Giuliano gli aveva affidato nelle fasi iniziali di quella campagna90. Se solo l’avesse voluto, quest’uomo avrebbe avuto carte e mezzi sufficienti per trarre vantaggio dalla situazione. Invece, piuttosto sorprendentemente si fece da parte, riconsegnando le sue legioni.
Gioviano rispose, dapprima, con pari fair play. Lungi dall’ignorare il potenziale di rischio rappresentato dal personaggio, ne riconobbe il diritto a ricoprire un posto d’onore nell’impero consentendogli di fare ciò che già Giuliano aveva consentito di fare a lui: nel dicembre del 361, a Gioviano, all’epoca protector domesticus, era stato concesso l’onore di occuparsi della tumulazione di Costanzo II91; lo stesso onore il principe lo concesse, adesso, al parente e fedele servitore del suo defunto predecessore, la cui salma Procopio scortò fino a Tarso92.
Gioviano, però, non lo fece con l’animo sereno. Nel suo entourage c’era stato chi sin dall’inizio lo aveva messo in guardia dal pericolo Procopio. Spaventandolo tanto con l’argomento dell’esercito93, quanto con quello delle promesse che Giuliano avrebbe fatto al cugino prima della campagna persiana, e che avevano a che fare precisamente con l’eredità dinastica. Secondo voci che Ammiano Marcellino giudicava infondate, all’atto di affidargli parte del suo esercito l’Apostata aveva infatti consegnato segretamente al parente un paludamentum purpureo, «esortandolo ad impadronirsi coraggiosamente dell’impero se avesse appreso ch’egli era perito fra i Parti»94. Si diceva inoltre che quel principe avesse ordinato al congiunto «di prendere le misure necessarie per farsi subito proclamare imperatore, se avesse appreso che la potenza romana in Persia stesse vacillando», e che «Giuliano in persona, negli ultimi istanti di vita, avesse detto che desiderava che il timone dello Stato fosse affidato a Procopio»95.
Se tali argomenti siano circolati davvero nei giorni concitati seguiti alla morte dell’Apostata, o invece, come altri ritengono, sotto i Valentiniani, quando Procopio divenne davvero un problema, non è chiaro96. Quel che è certo è che Gioviano, messa definitivamente da parte ogni cautela, emise ben presto un mandato di cattura per l’ex generale, vinto dalla preoccupazione di quanto costui avrebbe potuto fare. L’Augusto fece inoltre del proprio meglio per arginare la portata eversiva delle voci messe in giro sul conto del suo rivale promuovendo, o almeno tollerando, una propaganda di segno contrario, che batteva sul medesimo tasto della continuità dinastica e che presentava lui, anziché Procopio, quale erede genuino di Costantino. Di queste esigenze propagandistiche si fece portavoce, tra gli altri, pure Temistio.
Glissando sui propri trascorsi giulianei – qualunque ne fosse stata la reale consistenza –, ed evitando accuratamente ogni contatto con i nostalgici del principe apostata, Temistio visse l’ascesa al trono del successore di quello alla stregua di una seconda giovinezza politica. Lo dichiarò sfacciatamente egli stesso nel discorso pronunciato il 1° gennaio 364 ad Ancira per il consolato di Gioviano – a quanto pare, dietro espressa richiesta di costui97 –, e riletto poi a Costantinopoli dinanzi al Senato98. Non è escluso che tale sensazione sia stata l’effetto della sua disponibilità a sostenere la causa del sovrano, circostanza che contribuirebbe a spiegare il picco di autorevolezza raggiunto dall’oratore nel periodo99. Disponibilità tanto più benvenuta dal momento che proveniva dall’esponente di un ambiente nel quale Gioviano non godeva minimamente della popolarità sulla quale aveva potuto contare, invece, il predecessore di lui.
Costantinopoli, infatti – la Costantinopoli senatoria –, non reagì con entusiasmo unanime alla notizia di una nomina che era stata pronunciata in fretta e furia sul campo di battaglia100: lo dimostra la circostanza per cui, quando Gioviano spiccò il mandato di cattura ai danni di Procopio, dopo un lungo vagabondare il fuggiasco trovò infine ospitalità, a Calcedonia, in casa del «fedelissimo amico» Strategio, il quale, all’epoca, sedeva appunto nel Senato della capitale101. Dal suo nascondiglio, inoltre, Procopio «si recava spesso, nella massima segretezza, a Costantinopoli»102: segno che – lo conferma Zosimo103– l’ancora potenziale tiranno faceva affidamento, in città, su una rete di amicizie non trascurabile, sia civili che militari. Legate – queste ultime certamente – alla memoria di Costantino e alla sua dinastia104.
Proprio Temistio, d’altronde, in tempi non sospetti aveva dichiarato che la capitale era per sua natura leale tanto al fondatore quanto alla sua stirpe: un argomento che, adesso, suonava come un campanello di allarme per quei principi che con quella stirpe non avevano nulla a che fare. Forse non a caso Gioviano, siglata la pace con la Persia, dopo una breve sosta ad Antiochia e quindi a Tarso – ove rese omaggio alla tomba di Giuliano, rivendicando in tal modo anche per sé quel legame con la linea costantiniana di cui Procopio pretendeva, o si temeva che pretendesse di avere l’esclusiva105–, si affrettò a raggiungere la Nuova Roma (nimium properans dice Ammiano106), affinché il Senato ratificasse l’elezione nella città che incoronava, appunto, solo i principi legittimi: quasi che temesse che qualcun altro potesse, con successo, anticiparlo.
Ora, nel discorso del 364 Temistio parlò col tono risoluto di chi approvava senza esitazione, come i timori di Gioviano («Muoviamoci, o beato, facciamo presto [a raggiungere a Costantinopoli]!»107), così la fondatezza delle sue rivendicazioni. Gioviano – sostenne infatti nell’occasione l’oratore – aveva sempre rispettato le precedenze. Alla morte di Costanzo II – rivelò – egli avrebbe potuto puntare alla corona, ma, pur tentato di farlo, alla fine aveva rinunciato, «per non sembrare di voler[si] anteporre all’ultimo discendente di Costantino» – cioè appunto Giuliano108: come dire che il principe neoeletto non aveva mai pensato di prevaricare la dinastia che lo aveva preceduto e di negarne i diritti, nemmeno quando ne avrebbe avute tutte le ragioni. Giacché, stando a Temistio, Gioviano aveva anch’egli i suoi diritti. Che aveva maturato addirittura al tempo della morte di Costanzo, quando l’Impero – mancando un’indicazione esplicita da parte del defunto: questo sembra insinuare il senatore, contraddicendo quanto a suo tempo sostenuto da Giuliano – sarebbe dovuto passare appunto a Gioviano, a motivo delle benemerenze del padre di lui, Varroniano109. Il senso esatto di questa indiscrezione, che non ha riscontro altrove, è oscuro110. Nondimeno, essa costituisce uno dei primi esempi di quella propaganda di regime che presentava il nuovo Augusto come un erede al trono del tutto legittimo, e anzi più legittimo di chiunque altro.
Lasciando campo libero alla nomina di un successore, infatti, Costanzo II aveva messo autorevolmente – anche se forse involontariamente – la parola fine a tutta la linea di sangue costantiniana – macchiata, asseriva adesso Temistio sfruttando un argomento che era stato proprio di Giuliano, dalla colpa dell’eccidio del 337 –, autorizzando l’avvento di una nuova dinastia incontaminata111, legata a quella costantiniana tramite vincoli non più familiari, ma spirituali, la quale soppiantava e al contempo esautorava la vecchia: perché «i nostri soldati al momento del voto hanno stimato l’affinità spirituale più di quella del sangue»112. Morto Giuliano, insomma, i soldati avevano creduto giunto il momento di ridar corso a quell’evento che l’ascesa dell’Apostata aveva provvisoriamente interrotto. In tal modo sconfessando – con una decisione che una tradizione di matrice certamente propagandistica avrebbe presto attribuito all’Apostata stesso: secondo Giovanni Lido113, sul letto di morte Giuliano avrebbe indicato quale suo erede non Procopio, ma appunto Gioviano – le pretese di chi ambiva alla successione col pensare che ereditare un impero non fosse diverso da ereditare i beni di un congiunto114.
Frutto di una meditata opera di (contro) propaganda, la riflessione, mentre archiviava quel diritto di sangue cui Temistio stesso, fino a non molto tempo prima, aveva dato tanto risalto, pubblicizzava la promozione di una nuova genealogia regale. Gioviano, infatti, non soltanto è l’unico vero erede di Costantino e il legittimo successore del nipote e del figlio di quello. Di più – osò l’oratore in un discorso profondamente imbevuto di argomenti costantiniani –, è Costantino redivivo, tanto assomiglia al capostipite dell’ormai vecchia dinastia115. E un nuovo Costantino – questo il messaggio implicito – poteva dare inizio a una dinastia pur’essa nuova.
Prendendo una posizione così netta, il senatore intendeva rassicurare il principe neoeletto circa le buone intenzioni di una dirigenza i cui reali orientamenti politici – come il caso di Strategio suggerisce – erano assai meno uniformi di quanto egli era pronto a giurare, descrivendola in febbrile attesa dell’adventus imperiale e dei benefici che l’Augusto avrebbe certamente concesso a una città che, essendo egli un nuovo Costantino, era ormai anche la sua città116. I suoi sforzi, però, non sortirono il risultato sperato: prima ancora di mettere piede nella capitale, infatti, Gioviano morì – in circostanze tutt’altro che chiare, come già quel Costantino di cui egli era l’immagine esatta117 –, tormentato dall’incubo di Procopio.
Scomparso Gioviano, Temistio trovò che il modello appena nato del ‘nuovo Costantino’ non fosse affatto da buttare. Chi succedette a Gioviano, infatti, dovette vedersela da subito con il medesimo problema che aveva portato all’ideazione di quel modello: il 26 febbraio 364 la corona passò a Valentiniano, cui il 28 marzo fu associato il fratello Valente, parimenti privi di sangue costantiniano, e sui quali «l’ombra lunga di Costantino»118, proiettata dallo stesso uomo che aveva agitato i sonni del loro predecessore, calò non meno minacciosa. Allorché salirono al trono, i Valentiniani nutrivano sospetti su Procopio «da tempo»119. Forse, essi erano stati tra quanti, alla morte di Giuliano, avevano convinto Gioviano a siglare la pace ignominiosa con la Persia rammentandogli il pericolo rappresentato da un costantinide al comando un esercito numeroso e intatto. Come che sia, uno dei primi provvedimenti firmati dai nuovi Augusti – probabilmente, tra l’aprile e il maggio 364 – fu precisamente un secondo ordine di arresto ai danni del parente di Giuliano, le cui credenziali dinastiche erano tali da suscitare nei principi timori identici a quelli che avevano afflitto chi li aveva preceduti120.
Anch’essi del resto avevano rischiato di fare la fine di Gioviano, quando, a Costantinopoli, erano stati colti entrambi da una malattia della quale si disse che fosse opera dei nostalgici dell’Apostata. Già Ammiano, cui si deve la notizia, la riteneva il risultato della propaganda del nuovo regime121. La quale, evidentemente, aveva di mira un fronte di oppositori, fedeli al vecchio sistema, che si temeva potesse coagularsi, o si fosse già coagulata, intorno a un leader ben preciso. Molti, infatti, nella capitale, «accusavano Valente di ardere dal desiderio di rubare la roba d’altri»: precisamente la stessa colpa che Procopio in persona imputò più tardi al «Pannone degener» – ossia «bastardo»122. Non è escluso che proprio per chiudere la bocca a siffatti mormoratori quel principe abbia pensato di crearsi al più presto una legittimità costantiniana sposando (sin dal 364?) una donna, Domnica, la quale, forse, apparteneva alla stirpe del fondatore della città123.
Come già prima, sotto Gioviano, Temistio era certamente al corrente tanto delle accuse che circolavano, nella capitale, sul conto dei Valentiniani quanto dei loro timori. Timori che egli si sforzò immediatamente di arginare con gli stessi argomenti e la stessa determinazione dimostrata in precedenza.
La dinastia costantiniana – disse il senatore nel discorso pronunciato nella curia nel dicembre 364 al cospetto di Valente – era, ormai, un male per l’Impero, perché, versando il sangue dei propri membri – nuova allusione alla strage ordinata dal sovrano un tempo amato, Costanzo II –, si era inimicata dio124. La dinastia costantiniana, inoltre – e cioè di nuovo Costanzo –, aveva fallito politicamente, perché aveva sì conservato il potere entro la famiglia, ma umiliando coloro con i quali lo aveva diviso – leggi Giuliano –, trattati da meri esecutori125. Largo dunque ai fratelli che, reggendo congiuntamente l’Impero in armonia, dimostravano il loro amore reciproco, e, amandosi l’un l’altro, dell’Impero facevano il bene126.
L’argomento intendeva dare dignità politica a una situazione nuova, dopo il cinquantennio costantiniano: quella di uno Stato diviso e condiviso tra due imperatori, creatasi allorché, nel luglio 364, l’Augusto maggiore e l’Augusto minore si erano spartiti, a Sirmio, le due partes imperii127. Tale situazione rilanciava Costantinopoli e la sua dirigenza, alla quale, disponendo di un principe tutto suo, dotato di un potere pressoché autonomo, si offriva l’opportunità di assumere un ruolo anch’esso autonomo nella gestione della parte su cui la capitale d’Oriente vigilava128. Tuttavia le parole del senatore tradivano una preoccupazione assai più urgente, che ben spiega la sua ansia di essere compreso correttamente dal sovrano – il quale, ignaro di greco come Temistio lo era di latino, lo ascoltava tramite un interprete129: esse, infatti, da un lato intendevano tranquillizzare Valente – come già Gioviano – sulla lealtà della capitale, la quale voleva bene agli Augusti, di cui perciò meritava l’attenzione e la benevolenza130; dall’altro, miravano a recuperare all’imperatore il consenso di una città che si temeva potesse essere sedotta dalla propaganda di Procopio (la tirannide di Or. 6,72CD), o che lo fosse già stata.
Si trattava di una preoccupazione più che fondata. Giacché, nonostante le rassicurazioni dell’oratore, e nonostante gli atti compiuti dai principi «bastardi» per azzerare i pericoli insiti nel loro difetto di sangue regale – tra i quali, oltre al presunto, precoce matrimonio dinastico di Valente, i ripetuti interventi di manutenzione della tomba di Giuliano131 –, alla fine la crisi esplose.
Ignorando l’invito a restare a Costantinopoli «ombelico del mondo», che Temistio gli aveva rivolto nel discorso del 364132, al principio dell’anno seguente Valente lasciò la capitale per Antiochia. Procopio ne approfittò, puntando tutto, con successo, sul vantaggio che il senatore aveva cercato invano di neutralizzare. Assicuratosi l’appoggio dell’esercito, ottenne infatti un’ovazione di popolo quando, rivolgendosi alla folla, sfoderò l’argomento della «sua parentela con la famiglia imperiale»133. Si sia trattato di claques ben addestrate, come sostiene Ammiano, o di genuino entusiasmo popolare, l’episodio prova che il motivo dell’appartenenza alla stirpe del fondatore di Costantinopoli – un’appartenenza di maggior peso di quella che si era procurato Valente sposandosi? – era ancora decisivo, nella città di Costantino. Tra l’opinione pubblica, tra i militari134, ma anche in quel Senato che di Costantino si considerava figlio, e del quale Temistio pretendeva di essere l’unica voce: lo dimostra il fatto che, subito dopo l’acclamazione dei soldati e quella del popolo, Procopio si diresse alla curia, ove ricevette la ratifica senatoria135.
La circostanza, passato il pericolo, nocque gravemente non solo alla città, ma anche a quel settore della classe dirigente costantinopolitana che, pure, aveva scommesso su Valente. La sconfitta del tiranno, giustiziato il 27 maggio 366, non fece tirare esattamente un respiro di sollievo a costoro. I quali dovettero invece fare del proprio meglio per limitare i danni, ridimensionando il ruolo giocato nell’occasione dalla capitale e sforzandosi di minimizzare il peso avuto nella circostanza da quell’argomento dinastico dal quale la città era stata conquistata. Nel discorso pronunciato nell’inverno 366-367, noto come Or. 7, Temistio fece precisamente questo.
Colleghi come Strategio – uno di quei senatori «ignobili» che soli, secondo Ammiano, avevano appoggiato il tiranno, convalidandone l’acclamazione imperiale –, finirono nelle panie dell’inchiesta punitiva avviata, a conclusione della crisi, dal regime136. Temistio no. Cosa gli sia accaduto durante i mesi dell’usurpazione non sappiamo. Forse, egli fu tra quei padri coscritti buoni e blasonati che, sempre a dire di Ammiano, non si erano fatti trovare nella curia quando Procopio vi si era diretto, riparando segretamente fuori città (come ancora Amm., XXVI 7,1) ovvero restando a Costantinopoli, ma resistendo in qualche modo all’usurpatore. La circostanza per cui, dopo la fine di Procopio, gli fu concesso di parlare è a ogni modo un segno piuttosto eloquente del fatto che egli non solo non si era compromesso, ma nemmeno esposto137.
Nella sua orazione, Temistio si prodigò come per demonizzare il tiranno, così per perorare e insieme lodare, quasi fosse già stata ottenuta, la clemenza imperiale su coloro che, al contrario di lui, si erano lasciati coinvolgere138. Soprattutto, però, insistette sull’estraneità alla faccenda del «venerando Senato», vittima più che fautore della rivolta139 – la rivolta essendo stata fomentata dalla «feccia del popolo», vale a dire dai ceti urbani di bassa estrazione sociale140. Tale insistenza era necessaria, dal momento che, nonostante Ammiano e nonostante certe scelte di facciata – come quella di votare la dedica di una statua per il padre di Valente, Graziano, inaugurata a Costantinopoli il 1° gennaio 365, in occasione del primo consolato dell’imperatore141 –, i membri del «grande consiglio» che si erano compromessi a dire dello stesso Temistio si potevano «contare a tribù»142. Anche a beneficio di costoro – per i quali, nel bel mezzo del terrore seguito al fallimento dell’usurpazione, egli intercedeva, allo scopo di attirarli nella propria sfera di influenza143 –, il senatore lealista ribadiva quale dovesse essere ormai la linea politica da adottare.
La dinastia costantiniana – perlomeno, quella che, passando per Costanzo II e Giuliano, arrivava a Procopio – aveva chiuso il suo ciclo. Il suo ultimo discendente, quand’anche fosse stato legittimo, aveva perso ogni diritto allorché, oltre ad aver preso ciò che non gli era stato dato, aveva umiliato anzitutto il Senato di Costantinopoli coll’aumentare la pressione fiscale, quindi il popolo della capitale – cioè quanti del popolo ne avevano diritto, primi tra tutti, di nuovo, i senatori – revocando a costoro il simbolo più emblematico della loro appartenenza a una città che ambiva a essere la seconda Roma, vale a dire l’annona144. La nuova dinastia valentiniana, al contrario, aveva ricevuto l’impero e il popolo di Costantinopoli «in eredità dai discendenti del fondatore» – allusione al legame non solo morale, ma reale con la linea costantiniana, stretto da Valente per via matrimoniale? – senza nessuna ripercussione né sulle sorti dell’uno né su quelle dell’altro145. Essa, perciò, aveva sostituito definitivamente la vecchia: lo dimostrava – in modo quasi numinoso, osservò Temistio qualche anno dopo – la circostanza per cui la nascita del figlio di Valente (e della costantiniana? Domnica), Valentiniano Galata – il primo della famiglia a essere stato «fasciato nella porpora», diversamente dal padre, dallo zio Valentiniano e dal figlio di questi, Graziano, essendo nato quando il genitore era già sul trono –, era coincisa con la vittoria del principe su Procopio146.
Il messaggio era forte e chiaro, come inevitabile, vista la posta in gioco: in gioco, infatti, c’era il destino stesso della capitale e della sua dirigenza, destino che l’appoggio sconsiderato prestato al tiranno da ampi settori della stessa aveva messo in seria discussione. Altrove, città meno condizionate dall’ingombrante memoria di Costantino, rimaste fuori dal controllo dell’usurpatore, avevano saputo dare ben altra prova di sé147. Nei dieci anni successivi, perciò, Temistio lo ripeté, quel messaggio, con inesauribile energia.
Grazie alla sua fedina penale immacolata e al suo lealismo indefesso, il senatore godette fino al 378, anno della morte di Valente, del privilegio di essere ascoltato e persino citato dall’imperatore148, il quale – si spinse a dire una volta, evidentemente senza tema di offendere – lo considerava suo «maestro e guida»149. A giudicare dalle confidenze temistiane, il principe lo tenne in effetti in grande stima, al punto da dedicargli una statua di bronzo in Senato – la seconda, dopo quella di Costanzo II150 –, e da incaricarlo di importanti missioni politiche, prima fra tutte quella che nella primavera o nell’estate 376 lo portò a Treviri ambasciatore presso Graziano e quindi a Roma151. A quanto pare, lo volle persino prefetto dell’Urbe: dapprima nel 368 – il secondo mandato del professore, dopo quello del 362 –, e poi di nuovo in un momento non meglio precisabile degli anni Settanta, stavolta però ottenendo come risposta un rifiuto – il celebre rifiuto ricordato in Or. 17,213CD e soprattutto in Or. 34,13-14, che andrebbe datato appunto agli anni di Valente, anziché a quelli di Costanzo o di Giuliano152.
Per questa ragione, il Senato lo scelse a sua volta quale proprio portavoce in molte occasioni importanti del decennio valentiniano: il 28 marzo 368, in occasione del quinquennale di Valente, su delega senatoria Temistio o si recò a Marcianopoli latore dell’aurum coronarium e incaricato del discorso di rito, ovvero inviò questo da leggere153; il 1° gennaio 369, per conto «del popolo e del grande consiglio»154, tenne sempre a Marcianopoli, ovvero inviò da leggere, l’orazione celebrativa per il consolato di Valentiniano Galata e di Vittore155; al principio del 370, invece, alla presenza dell’imperatore pronunciò in Senato il discorso che celebrava il trattato di pace concluso da Valente con i Goti a Noviodunum nell’estate dell’anno precedente156; il 28 marzo 373, infine, fu la volta, ad Antiochia, del decennale di Valente (Or. 11). In queste, e certo anche in altre occasioni157, Temistio non smise di lavorare al suo piano di ricalibratura della memoria costantiniana, nel tentativo di ricucire i rapporti tra il principe e Costantinopoli.
In effetti, ciò che il senatore tentò di fare in quel decennio non fu rimuovere Costantino, il quale – non poteva essere diversamente – era destinato a rimanere sempre «beato e felice», nella sua città158. Piuttosto, egli cercò di dimostrare come Valente fosse un successore più degno di Costantino di quanto non lo fossero stati il figlio e il nipote di quello, e colui che di costoro si considerava il vero erede. Anche Valente, insomma, come già Gioviano, era un nuovo Costantino. Forse, anzi, a maggior ragione di Gioviano, perché, diversamente da Gioviano, legato alla famiglia costantiniana: se non lui personalmente (via Domnica), suo fratello e suo nipote di certo.
Tra il 368 e il 369, infatti, Valentiniano – seguendo l’esempio di Valente? – ripudiò l’Augusta Marina Severa sposando la costantinide Giustina, già moglie – non a caso – dell’usurpatore Magnenzio159. Nel 374, invece, il figlio di Valentiniano, Graziano, convolò a sua volta a nozze con Costanza, figlia postuma di Costanzo II e di Faustina160: con il consueto scrupolo, proprio Temistio tenne a sottolineare due anni dopo la portata politica dell’operazione, grazie alla quale il più giovane dei Valentiniani si era unito «[a] Costantino e [al] figlio di Costantino col vincolo del sangue»161. Alla fine, la decisione di procurarsi un’adeguata legittimità dinastica aveva prevalso, nei nuovi regnanti, sul desiderio di sfuggire all’ombra lunga del fondatore. Se tra il 366 e il 378 un tentativo di ridimensionamento dei meriti di Costantino ci fu, da parte di Temistio, esso si spiega con la volontà di riconquistare, dopo Procopio, il favore di Valente nei confronti del gruppo di potere ai vertici del quale il padre coscritto si trovava presentando il principe come colui che aveva completato ciò che Costantino aveva lasciato in sospeso, senza tuttavia intaccare l’immagine del capostipite di una stirpe rispetto alla quale quella valentiniana si collocava, ormai, in perfetta continuità.
Così si spiega il rilievo secondo il quale, mentre Costantino ha lasciato «un abbozzo» di città, Valente, ha portato a compimento opere pubbliche da Costantino e Costanzo II solo avviate, rendendo Costantinopoli una città vera162. Mentre Costantino, Costanzo e Giuliano, acclamati altrove, nel tentativo di dare a Costantinopoli la dignità di capitale imperiale non sono andati oltre le buone intenzioni, Valente, acclamato a Costantinopoli, l’ha resa invece – parole del principe in persona – «madre della porpora», «madre del potere regale» e, ancora, «madre della [mia] elezione»163, espressioni che Costantino non avrebbe potuto usare nemmeno se lo avesse voluto. Costantinopoli, perciò, è «il santuario che da Costantino prende il nome ma [che] in realtà è ormai di Valente, perché è giusto che di ogni iniziativa il merito sia attribuito non a chi la intraprende, ma a chi la porta a termine»164.
Tanti sforzi, tuttavia, portarono a poco. Malgrado Temistio, le cose tra Valente da un lato, la capitale e la sua classe dirigente dall’altro, non andarono mai come quello avrebbe desiderato. L’incubo Procopio, infatti, impedì al principe di recuperare la fiducia nella città. A quanto pare, la cosiddetta prima Guerra gotica condotta dall’imperatore (367-369), conseguenza della circostanza per cui il tiranno aveva ricevuto appoggi da quei barbari e conclusasi col già citato trattato di Noviodunum, di cui Temistio si considerò l’artefice165, non fu affatto disapprovata dal settore lealista dell’ordo gravitante intorno al senatore, settore che invece sarebbe stato favorevole a una politica estera forte, seppur difensiva, sul fronte settentrionale e che avrebbe parimenti avallato il progetto valentiniano di imporre al mondo il diritto a governare della nuova dinastia tramite una campagna militare pensata per rinnovare – e sminuire – gli analoghi successi di Costantino sul quel fronte166.
Tale convergenza di interessi, tuttavia – che coinvolgeva non tutto il Senato, ma una parte di esso, non sappiamo quanto numerosa e potente –, non dovette sembrare all’Augusto abbastanza rassicurante. Invano Temistio, nel 369, chiese a Valente che Valentiniano Galata fosse inviato a Costantinopoli per essere festeggiato console e Augusto in pectore167. Invano domandò al principe, nel 376, di tornare a risiedere nella ‘sua città’168. Dopo la repressione della rivolta, salvo passaggi sporadici169 Valente lasciò definitivamente Costantinopoli, preferendole sedi come Antiochia170, ove Temistio fu costretto a recarsi, nel 373, se volle celebrarne i decennialia: segno di una freddezza che non sarebbe mai venuta meno, come Temistio stesso ebbe presto ad ammettere.
Nel 368 questi aveva dichiarato che il Senato, malgrado il sostegno dato al tiranno, non aveva subito epurazioni171. Quando ebbe la possibilità di farlo senza rischi, tuttavia, il senatore gettò la maschera, ammettendo che, fosse stato pure clemente quanto si voleva, Valente non aveva mai smesso di nutrire sospetti verso l’ordo, ai cui membri aveva lesinato riconoscimenti e incarichi politici importanti172, così come riconoscimenti e incarichi politici importanti aveva lesinati a lui – quelli ricevuti essendo stati solo ambascerie173.
Tali affermazioni, pronunciate sotto Teodosio e dunque sospette, non distorcevano troppo la verità174. Che anzi, c’è persino chi ritiene che l’ostentato rifiuto dell’incarico prefettizio, menzionato in Or. 34,13-14, sarebbe stato in realtà una sconfitta elettorale camuffata. A Temistio, in qualche punto del decennio 370-378, non sarebbe riuscito di imporre la propria candidatura (per la seconda volta sotto lo stesso imperatore, la terza della sua carriera), evidentemente per le pressioni di un’opposizione senatoria ostile – fatta di uomini più giovani, meno legati ai precedenti rapporti di potere –, più convincente agli occhi del principe175. Se questo è vero, il giudizio a posteriori circa la limitata benevolenza di Valente non solo aveva una sua fondatezza, ma serviva a presentare il senatore e il suo gruppo nella luce favorevole di leali collaboratori la cui recente e ingiusta estromissione aveva comportato, per la corona, il venir meno di quelle garanzie di stabilità che, fino ad allora, della corona avevano assicurato il successo. A beneficio, naturalmente, della nuova casa regnante.
L’ascesa al trono di Teodosio, associato da Graziano a Sirmio il 19 gennaio 379, nei mesi concitati seguiti al disastro di Adrianopoli, fu accolta da Temistio e dal suo entourage con estrema circospezione. Diversamente da tutti i suoi predecessori, da Costanzo II in poi, dopo l’incoronazione il principe non mosse subito verso Costantinopoli ma verso Tessalonica, strategicamente più adatta alla conduzione delle operazioni militari: alla delegazione senatoria che prontamente gli si recò incontro, a Sirmio o proprio a Tessalonica, per felicitarsi con lui, Temistio, allora poco oltre la sessantina, non prese parte, accampando più tardi un’indisposizione176.
Poi, però, Teodosio cambiò idea, concentrando i suoi interessi sulla capitale, ove entrò solennemente il 24 novembre 380. Difficilmente una simile decisione fu presa senza previo accertamento dell’estensione e della consistenza del sostegno che il sovrano vi avrebbe trovato. E Temistio, quale leader del gruppo di potere che aveva spadroneggiato nell’ultimo quindicennio, facendo da tramite tra Costantinopoli e i Valentiniani, fu certamente tra gli interlocutori contattati a tal riguardo dalla rinnovata diplomazia imperiale177.
Tra la primavera e l’estate del 379, infatti, il padre coscritto, improvvisamente dimentico dei suoi acciacchi senili, si affrettò a Tessalonica per portare all’Augusto quel saluto di cui aveva mancato di fargli omaggio pochi mesi prima, chiedendo insistentemente che costui facesse ciò che effettivamente fece: che risiedesse nella Nuova Roma e che confermasse ai suoi notabili i privilegi attribuiti loro da Costantino e Costanzo178. Poteva essere l’inizio di un nuovo periodo d’oro, nel già fulgido cursus honorum del nostro, come la (prima e unica, oppure terza?) nomina, quattro anni più tardi, a prefetto della città – alla fine di maggio o di dicembre 383 – parve confermare179. Che questo idillio fosse fatto per durare, tuttavia, è molto meno sicuro di quanto abitualmente ammesso.
In effetti, è possibile che, lungi dal rappresentare il coronamento di una carriera spesa a vantaggio di Costantinopoli e di una classe dirigente descritta come unanime nel guardare a lui come al proprio portavoce, gli onori ricevuti da Temistio sotto Teodosio altro non siano stati che quanto rimaneva del prestigio raggiunto dal senatore sotto Valente, passato in eredità a un principe costretto inizialmente ad agire con cautela, in una città sconosciuta, retta da equilibri di poteri altrettanto oscuri. Nella corsa a conquistare il favore del nuovo Augusto, Temistio avrebbe giocato – bene come al solito – quelle che erano in realtà le sue ultime carte. Le sue rapide dimissioni, a pochi mesi dall’assunzione dell’incarico prefettizio, causate dalle contestazioni sorte in seno allo stesso Senato, dimostrerebbero come, a distanza di tre anni dall’ingresso di Teodosio in città, altre forze fossero ormai emerse, capaci di interpretare più efficacemente le esigenze della corona180.
Temistio, tuttavia, non lasciò la scena senza lottare: lo dimostrò, tra l’altro, collaborando attivamente con la propaganda imperiale alla soluzione di quel difetto dinastico che, nella città di Costantino, aveva creato problemi a tutti, da Gioviano in poi, e della cui pericolosità Teodosio era ben cosciente.
Rispetto ai suoi predecessori, in teoria il principe neoeletto aveva a questo riguardo meno da temere. Giacché il patto matrimoniale stretto con la figlia di Costanzo II e Faustina nel 376 da Graziano – ‘padre’ di Teodosio, secondo la pubblicistica politica e non solo politica dell’epoca, ben rappresentata proprio da Temistio181 – gli aveva garantito la parentela con la casa di Costantino. Eppure, tale condizione non deve esser sembrata sufficiente alla corona, se è vero che questa si dimostrò dapprincipio risoluta nel voler marcare la differenza rispetto al sistema di potere dinastico costantiniano, tanto quanto nell’imporne uno del tutto nuovo182. Temistio, in un momento in cui soggetti politici numerosi e diversi si proponevano all’Augusto quali interlocutori di fiducia, fu assai zelante nell’assecondare anche questa volontà.
Costantinopoli, infatti – dichiarò il senatore nel discorso di saluto pronunciato a Tessalonica –, era diventata «compagna della capitale dell’Impero, cioè dell’antica Roma, non per parentela con la stirpe dei dominatori, ma per virtù»: così anche il principe della Nuova Roma era stato promosso «alla porpora non dal diritto dinastico, ma dall’eccellenza appunto nella virtù, non dal vincolo familiare, ma dalle prove di forza e di valore»183. «Quel giovane – ripeté poi, alludendo a Graziano, nell’orazione tenuta il 19 gennaio 381, per l’anniversario dell’incoronazione di Teodosio – mi è parso mirabile e attento osservatore dei suoi simili: egli ha tenuto conto della parentela fondata non sul vincolo del sangue, ma sul carattere amante della verità»184.
Naturalmente, tanta disponibilità a collaborare presupponeva delle condizioni. Temistio le dettò subito: un principe che volesse evitare di vedersi messo in competizione con Costantino, in una città da sempre affezionata alla memoria di costui – osservò nel 379 –, doveva esser pronto a dimostrarsi migliore di Costantino curando ciò che Costantino non aveva curato a sufficienza. La città di Costantino, naturalmente185. Ma, soprattutto, la sua classe dirigente, o meglio il settore della classe dirigente per cui Temistio parlava e che si aspettava qualcosa da Teodosio in cambio del proprio sostegno. Perché «certo non apparirai inferiore a Costantino se avrai reso la città più splendida tu con gli onori [concessi al Senato] che Costantino con le costruzioni!»186.
Tale reimpiego della figura del «padre» del Senato orientale – vagamente minatorio: l’usurpazione di Magno Massimo, il quale non era privo di simpatizzanti nella capitale d’Oriente, avrebbe presto dimostrato quanto bisogno avesse, il nuovo occupante il trono costantinopolitano, di amici fidati187 – era suscettibile, come sempre, di adattamenti e variazioni, la cui entità tuttavia non siamo in grado di valutare. Finché rimase in gioco, Temistio diede prova di saper fare buon uso di Costantino, gratificando Teodosio con l’equipararlo a quello – se serviva a giustificare la bontà delle decisioni del principe –, ovvero accrescendone rispetto a quello i meriti. Come quando, nel 381, si trattò di plaudire alla linea pacifista e inclusiva teodosiana che condusse, nel 382, al foedus con Atanarico – entusiasticamente accolto a Costantinopoli l’11 gennaio 381, come già il padre di quel barbaro era stato accolto dal «grande Costantino»188. Oppure quando, nell’estate 384, all’indomani del colpo di mano di Massimo, Temistio credette opportuno magnificare il suo imperatore ricordando come le benemerenze, non solo architettoniche, verso la città avrebbero certamente suscitato l’ammirazione dello stesso fondatore189.
Presumibilmente, assecondando le esigenze del regime, egli sarebbe andato ancora oltre. Tra la fine del 387 e l’inizio del 388, Teodosio accettò la proposta della costantinide Giustina, vedova di Valentiniano e madre dell’imperatore Valentiniano II, di unirsi in seconde nozze con la figlia Galla, costantinide anch’essa, in tal modo consolidando il proprio diritto al trono con la creazione di una parentela genuinamente costantiniana190. Non c’è alcun dubbio che il vecchio professore non avrebbe mancato di intervenire opportunamente a riguardo, magari rispolverando il modello, per lui usuale, del ‘nuovo Costantino’.
A quell’altezza, però, Temistio è ormai scomparso da quasi un lustro dalla scena politica. Quattro anni di silenzio totale trascorrono infatti tra il suo ‘discorso d’addio’ alla politica – l’Or. 34, databile all’inverno 384-385 –, e Lib., Ep. 18, il quale, ultimo a parlare di lui, lo dà ancora in vita tra l’aprile e il maggio 388191. Ad altri spetterà d’ora in poi lavorare sulla memoria del padre di Costantinopoli, della quale la città non si libererà mai. Nemmeno nei giorni dolorosi della sua fine192.
Temistio non conobbe Costantino, né si preoccupò di valutarne la figura storica controversa e per molti aspetti rivoluzionaria. Fu però acutamente consapevole del fatto che, senza Costantino, il suo destino politico, professionale e persino privato sarebbe stato profondamente diverso. Senza Costantino non ci sarebbe stato Temistio. Né ci sarebbero stati tutti coloro che, come Temistio, scommisero il proprio futuro sulla città che Costantino aveva sognato di trasformare nel nuovo cardine della romanità, e che tale sogno contribuirono a realizzare. Con Temistio prende slancio il mito ‘laico’ di Costantino: il «padre beato»193 di un mondo nuovo, illuminato non dalla croce, ma da un nuovo faro di civiltà.
1 Sul Temistio politico, che qui interessa, si vedano soprattutto G. Dagron, L’empire romain d’Orient au IVe siècle et les traditions politiques de l’Hellénisme. Le témoignage de Thémistios, in Travaux et mémoires du Centre de recherche d’histoire et civilisation de Byzance, III, s.l. 1968, pp. 1-242; L. Cracco Ruggini, Simboli di battaglia ideologica nel tardo ellenismo (Roma, Atene, Costantinopoli; Numa, Empedocle, Cristo), in Studi Storici in onore di Ottorino Bertolini, I, Pisa 1972, pp. 177-300, partic. 177-251; G. Dagron, Naissance d’une capitale. Constantinople et ses institutions de 330 à 451 Paris 1974 (trad. it. Costantinopoli. Nascita di una capitale (330-451), Torino 1991), passim; R. Maisano, Discorsi di Temistio, Torino 1995 (con traduzione italiana di tutte le orazioni); J. Vanderspoel, Themistius and the Imperial Court. Oratory, Civic Duty and Paideia from Constantius to Theodosius, Ann Arbor 1995; P. Heather, Themistius: a political philosopher, in The Propaganda of Power. The Role of Panegyric in Late Antiquity, ed by M. Whitby, Leiden-Boston 1998, pp. 125-150; H. Leppin, W. Portmann, Themistios. Staatsreden, Stuttgart 1998 (con trad. tedesca delle orazioni 1-19); R.M. Errington, Themistius and His Emperors, in Chiron, 30 (2000), pp. 861-904; J.R. Ponce, Temistio. Discursos políticos, Madrid 2000 (con trad. spagnola delle orazioni 1-19, e della demeg. Const.); P. Heather, D. Moncur, Politics, Philosophy, and Empire in the Fourth Century. Select Orations of Themistius, Liverpool 2001 (con trad. inglese delle orazioni 1; 3; 5-6; 14-17; 34, e della demeg. Const.). Molto materiale anche in R.J. Penella, The Private Orations of Themistius, Berkeley-Los Angeles-London 2000 (con trad. inglese delle orazioni 17; 20-34, e della demeg. Const.). Rettificano dati tradizionalmente accolti della carriera del senatore L.J. Daly, Themistius refusal of a magistracy (Or. 34, cc. XIII-XIV), in Byzantion, 53 (1983), pp. 164-212; T. Brauch, The prefect of Constantinople for 362 A.D.: Themistius, in Byzantion, 63 (1993), pp. 37-78; Id., Patristic and Byzantine witness to an urban prefectship of Themistius under Valens, in Byzantion, 71 (2001), pp. 325-382; Id., Notes on the prefects of Constantinople AD 366-369, in Byzantion, 72 (2002), pp. 42-104. Se non altrimenti specificato, la datazione dei discorsi di Temistio spetta a J. Vanderspoel, Themistius and the Imperial Court, cit.; la traduzione a R. Maisano, Discorsi di Temistio, cit..
2 G. Dagron, L’empire romain, cit., pp. 88; 135-138; 145-146; 176; 199; L. Cracco Ruggini, Simboli, cit., p. 196 e nota 40.
3 Them., Or. 1,18A. J. Vanderspoel, Themistius and the Imperial Court, cit., p. 31 e note 1-2; P. Heather, D. Moncur, Select Orations of Themistius, cit., p. 96 nota 151.
4 R.W. Burgess, Studies in Eusebian and Post-Eusebian Chronography, Stuttgart 1999, pp. 221-232 e note 132,135; Id., The Summer of Blood: The “Great Massacre” of 337 and the Promotion of the Sons of Constantine, in Dumbarton Oaks Papers, 6 (2008), pp. 5-51 (rist. in Id., Chronicles, Consuls, and Coins: Historiography and History in the Later Roman Empire, Farnham 2011, X), in partic. p. 20 e note 64-66; F. Fatti, Giuliano a Cesarea. La politica ecclesiastica del principe apostata, Roma 2009, p. 26 e nota 31.
5 Them., Or. 2,28D; 27,333CD. J. Vanderspoel, Themistius and the Imperial Court, cit., p. 31 e nota 3.
6 demeg. Const. 22AB: ὑπὸ πενίας οὐ θλίβεται; e inoltre Or. 23, 288D.291C; l’affermazione in senso contrario di Or. 2,28D è iperbolica.
7 demeg. Const. 22D-23B; Them., Or. 20,234C-236B; 21,244A; 27,333B; per il nonno demeg. Const. 22D; Them., Or. 5,63D; forse pure Or. 11,145B, ove però potrebbe trattarsi dello stesso Temistio.
8 Them., Or. 6,71C. G. Dagron, Aux origines de la civilisation byzantine: langue del culture et langue d’état, in Revue historique, 489 (1969), pp. 23-56; L. Cracco Ruggini, Simboli, cit., pp. 200-203. Si veda tuttavia R.M. Errington, Themistius and His Emperors, cit., pp. 867 nota 23; 879-880 e nota 9.
9 Them., Or. 27,333CD.
10 J. Vanderspoel, Themistius and the Imperial Court, cit., pp. 43-49.
11 Them., Or. 27,331D-332C.
12 Them., Or. 5,63D; e inoltre Or. 11,145B, a meno che, come già detto, non si tratti di Temistio stesso.
13 demeg. Const. 22D.
14 Them., Or. 23,298B; 31,352C; 34,12.
15 demeg. Const. 22A; Them., Or. 21,244B.
16 Them., Or. 31,352C.
17 Them., Or. 17,214C; e inoltre Or. 31,12; cfr. demeg. Const. 21D. J. Vanderspoel, Themistius and the Imperial Court, cit., pp. 32-36; 40-41; 48-49; R.J. Penella, The Private Orations of Themistius, cit., p. 232 nota 3; e inoltre G. Dagron, L’empire romain, cit., p. 46 e nota 65.
18 Them., Or. 17,214C; e inoltre Or. 34,16.
19 Them., Or. 3,42C.41C; 14,183D,182A. cfr. G. Dagron, L’empire romain, cit., pp. 89-90; J. Vanderspoel, Themistius and the Imperial Court, cit., pp. 55-57.
20 Them., Or. 14,182A.
21 Them., Or. 13,178D; 179C.
22 Them., Or. 4,55B.
23 G. Dagron, L’empire romain, cit., pp. 150-163, con le precisazioni di L. Cracco Ruggini, Simboli, cit., pp. 189-197; 221-250 (Empedocle metafora non di Cristo, ma appunto del tradizionalista Giuliano).
24 Rispettivamente S. Calderone, Costantinopoli: la «seconda Roma», in Storia di Roma, III/1, a cura di A. Carandini, L. Cracco Ruggini, A. Giardina, Torino 1993, pp. 723-749; e di recente J. Vanderspoel, A Tale of Two Cities: Themistius on Rome and Constantinople, in Two Romes. Rome and Constantinople in Late Antiquity, ed. by L. Grig, G. Kelly, Oxford 2012, pp. 223-240, in partic. 224-225 e nota 5. Di «capitale dynastique» parla G. Dagron, Naissance, cit., pp. 19-29. Si veda inoltre T.D. Barnes, Constantine. Dynasty, Religion and Power in the Later Roman Empire, Chichester, West Sussex (UK)-Malden (MA) 2011, pp. 111-112.
25 R.J. Penella, The Private Orations of Themistius, cit., p. 3: «a flexible pagan». Altri esempi in G. Dagron, L’empire romain, cit., p. 179 e nota 180; L. Cracco Ruggini, Simboli, cit., pp. 193-194 e nota 36.
26 «[Constantin est] le symbole d’un hellénisme rénové […] [il est] le fondateur de Constantinople et de l’Empire d’Orient; il inaugure une tradizione nouvelle, à laquelle son nom se trouve associé» (G. Dagron, L’empire romain, cit., pp. 81; 180).
27 L. De Salvo, Temistio e Costantinopoli, in Omaggio a Rosario Soraci. Politica, retorica e simbolismo del primato: Roma e Costantinopol (secoli IV-VII), Atti del Convegno internazionale (Catania, 4-7 ottobre 2001), a cura di F. Elia, Catania 2004, pp. 131-154.
28 Them., Or. 16,200B.201A. R. Maisano, Discorsi di Temistio, cit., pp. 44; 582 nota 3; J. Vanderspoel, Themistius and the Imperial Court, cit., p. 87; R.M. Errington, Themistius and His Emperors, cit., p. 866 e nota 21; P. Heather, D. Moncur, Select Orations of Themistius, cit., pp. 73; 266 nota 192.
29 J. Vanderspoel, Themistius and the Imperial Court, cit., pp. 48; 73-77; 250-251; O. Ballériaux, La Date du ΠΕΡΙ ΦΙΛΑΝΘΡΩΠΟΣ ΄Η ΚΩΝΣΤΑΝΤΙΟΣ (Discours 1) de Thémistios, in Byzantion, 66 (1996), pp. 319-334; J.R. Ponce, Temistio. Discursos políticos, cit., pp. 101-104; P. Heather, D. Moncur, Select Orations of Themistius, cit., pp. 69-71.
30 R. Maisano, Discorsi di Temistio, cit., p. 113; R.M. Errington, The date of Themistius’ first speech, in Klio, 83 (2001), pp. 161-166.
31 W. Portmann, Zum Datum der ersten Rede des Themistius, in Klio, 74 (1992), pp. 411-421; H. Leppin, W. Portmann, Themistios. Staatsreden, cit., pp. 27-28; 313.
32 Them., Or. 1.
33 Them., Or. 1,2B.
34 Cfr. Or. 3, 45B.46C; 4, 54AD e passim.
35 demeg. Const.; Them., Or. 2,26BD. R.J. Penella, The Private Orations of Themistius, cit., p. 237 nota 1; P. Heather, D. Moncur, Select Orations of Themistius, cit., p. 97. Sul progetto culturale e politico del figlio di Costantino, L. Cracco Ruggini, «Felix Temporum Reparatio». Realtà socio-economiche in movimento durante un ventennio di regno (Costanzo II Augusto, 337-361 D.C.), L’Église et l’empire au IVe siècle, éd. par A. Dihle, Vandoeuvre-Genève 1989, pp. 179-243; N. Henck, Constantius’ «paideia», intellectual milieu and promotion of the liberal arts, in Proceedings of the Cambridge Philological Society, 47 (2001), pp. 172-186.
36 R.J. Penella, The Private Orations of Themistius, cit., pp. 1 e nota 4; 240 nota 7.
37 Si veda infatti P. Heather, D. Moncur, Select Orations of Themistius, cit., pp. 35; 38: «Themistius’ orations were about publicing and justifying [imperial] policy, not formulating it, and, in particular, about using the Senate of Costantinople as a conduit to manipulate elite opinion across the eastern Mediterranean […] his career was based on manipulating opinion on behalf of the emperors he served, within a body wich rapidly became a central focus of political life in the eastern Mediterranean: the Senate of Costantinople».
38 Them., Or. 16,200C: 1° gen. 383; e inoltre Or. 17,214B; 31,352D; 34,28.
39 Them., Or. 34,13.
40 Lo negano G. Dagron, L’empire romain, cit., pp. 9 e note 35, 39; 41 e nota 30; 46-48; 54; 55 nota 123; 57-58 e note 136; 62; 64; 213-217; Id., Naissance, cit., p. 129 e nota 3, secondo cui Temistio avrebbe rifiutato la carica e le connesse dotazioni annonarie offertagli da Costanzo II (essendo questo il famoso rifiuto per cui infra nota 69), pur ricoprendo effettivamente il ruolo di presidente dell’assemblea senatoria proprio del proconsole o prefetto; J. Vanderspoel, Themistius and the Imperial Court, cit., pp. 67-68; 106-108 e nota 64; P. Heather, D. Moncur, Select Orations of Themistius, cit., pp. 44-46 e note 8-9; 320 nota 117. Tornano ad affermarlo L.J. Daly, Themistius refusal, cit., pp. 171-189; T. Brauch, The prefect of Constantinople, cit., pp. 40-41 e nota 13; 47; Id., Themistius and the emperor Julian, in Byzantion, 63 (1993), pp. 79-115, in partic. 83; R.M. Errington, Themistius and His Emperors, cit., pp. 872 e nota 57; 900 nota 206; R.J. Penella, The Private Orations of Themistius, cit., pp. 1-2 e nota 5; 35; 219 note 19-20; T. Brauch, Notes on the prefects, cit., pp. 74; 85-87; 101.
41 Così J. Vanderspoel, Themistius and the Imperial Court, cit., pp. 68-69; 105-106; 209; T. Brauch, Notes on the prefects, cit., pp. 83-84. Contra R.J. Penella, The Private Orations of Themistius, cit., pp. 2, 37, secondo cui Temistio avrebbe ricoperto genericamente «a position of leadership»; P. Heather, D. Moncur, Select Orations of Themistius, cit., pp. 46-47. G. Dagron, L’empire romain, cit., p. 50 nota 88, mentre si diceva convinto che προστασία indicasse la presidenza del Senato, era propenso a credere che al principatus senatus alludesse piuttosto il termine προεδρία di Or. 31. Sul titolo G. Dagron, Naissance, cit., pp. 143-144; L. Cracco Ruggini, Il Senato fra due crisi (III-VI secolo), in Il senato nella storia, I, a cura di E. Gabba, Roma 1998, pp. 223-375, in partic. 264 e nota 99; 286 nota 165; 352 e nota 342.
42 Them., Or. 34,13. J. Vanderspoel, Themistius and the Imperial Court, cit., pp. 57-66; R.J. Penella, The Private Orations of Themistius, cit., p. 219 nota 19; P. Heather, D. Moncur, Select Orations of Themistius, cit., pp. 29-38; 122. Si vedano inoltre G. Dagron, Naissance, cit., pp. 119-146; A. Chastagnol, Le sénat romaine à l’époque impériale. Recherches sur la composition de l’Assemblée et le statut de ses membres, Paris 1992, pp. 261-266; L. Cracco Ruggini, Il Senato fra due crisi, cit., pp. 268-289; P. Heather, Senators and Senates, in The Cambridge Ancient History XIII: The Late Empire, A.D. 337-425, ed. by Av. Cameron, P. Garnsey, Cambridge 1998, pp. 184-210, in partic. 187-188. Sull’aspro dibattito che ne seguì, al cui cuore stava appunto Costantinopoli capitale, col suo carico ambiguo di novitas politica e culturale, G. Dagron, L’empire romain, cit., pp. 9 e nota 37; 39-41; 45-46; 51-54; 61-62; 79 e nota 264; 81-82; 233 e nota 18; L. Cracco Ruggini, Simboli, cit., pp. 199-221.
43 Them., Or. 4,54B; 11,146B; 18,214B; 31,353A; 34,13; Lib., Ep. 66. G. Dagron, L’empire romain, cit., pp. 9 e nota 34; 56 nota 128; J. Vanderspoel, Themistius and the Imperial Court, cit., p. 96.
44 Them., Or. 2,26A; e inoltre Or. 4,53A; 13,165C.167C.
45 Them., Or. 2,38C-39A.
46 Circostanza della quale proprio Temistio costituirebbe l’unica prova positiva, secondo D. Woods, The Constantinian origin of Justina (Themistius, Or. 3.43b), in Classical Quarterly, n.s., 54 (2004), pp. 325-327, in relazione a Them., Or. 3,43B. Diversamente H. Leppin, W. Portmann, Themistios. Staatsreden, cit., p. 73 nota 29. Si vedano inoltre R. Lizzi Testa, Senatori, popolo, papi. Il governo di Roma al tempo dei Valentiniani, Bari 2004, p. 313; M. Raimondi, Modello costantiniano e regionalismo gallico nell’usurpazione di Magnenzio, in Mediterraneo Antico, 9 (2006), pp. 267-292; F. Chausson, Stemmata aurea: Constantin, Justine, Théodose. Revendications généalogiques et idéologie impériale au IVe siècle ap. J.-C., Roma 2007, pp. 97-105; 160-163; J. Szidat, Usurpator tanti nominis: Kaiser und Usurpator in der Spätantike (337-476 n. Chr.), Stuttgart 2010, pp. 259-260 e nota 1038.
47 G. Dagron, Naissance, cit., pp. 80-81; T.D. Barnes, Athanasius and Constantius. Theology and Politics in the Constantinian Empire, Cambridge (MA)-London 1993, p. 219.
48 Cfr. Expositio totius mundi et gentium, ed. J. Rougé, Paris 1966, 23,4-6.
49 G. Dagron, Naissance, cit., pp. 213-239; J. Vanderspoel, Themistius and the Imperial Court, cit., p. 67.
50 Da ultimo J. Wintjes, Zur Datierung von Themistius Or. 4, in Byzantinische Zeitschrift, 96 (2003), pp. 703-708.
51 Them., Or. 4,58B.
52 Them., Or. 3,47D; 4,53A.
53 R. Maisano, Discorsi di Temistio, cit., p. 210 nota 3, che dipende da G. Dagron, Naissance, cit., p. 27.
54 Them., Or. 3,44AB. J. Vanderspoel, A Tale of Two Cities, cit., pp. 225-231.
55 Them., Or. 6,82D: dic. 364. P. Heather, D. Moncur, Select Orations of Themistius, cit., pp. 173-174.
56 Them., Or. 3,42D.43AC.
57 Them., Or. 4,56C.
58 Them., Or. 4,56D.
59 P. Heather, D. Moncur, Select Orations of Themistius, cit., pp. 38-42.
60 Them., Or. 4,55C; e inoltre 52C.53B.
61 Them., Or. 3,48CD.
62 Them., Or. 3,40C; per le opere Or. 3,47CD; 4,58BD.59B-61D.
63 Them., Or. 4,53A.
64 Them., Or. 3,48A.
65 Them., Or. 3,43D.
66 Them., Or. 4,53B.
67 Them., Or. 3,47A.
68 P. Heather, D. Moncur, Select Orations of Themistius, cit., pp. 114-124. Contra J. Vanderspoel, A Tale of Two Cities, cit., p. 226 n. 14.
69 Rispettivamente R. Maisano, Discorsi di Temistio, cit., p. 46, J. Vanderspoel, Themistius and the Imperial Court, cit., pp. 67-68; 111-113; 123, secondo cui Temistio sarebbe stato designato, ma avrebbe rassegnato le dimissioni prima di entrare in carica, R.M. Errington, Themistius and His Emperors, cit., pp. 900 e nota 206, R.J. Penella, The Private Orations of Themistius, cit., p. 219 nota 20; e G. Dagron, L’empire romain, cit., pp. 215; 217 e note 30-31 («la préfecture, ou plus exactement le proconsulat»), H. Leppin, W. Portmann, Themistios. Staatsreden, cit., p. 3 nota 6. Per Giuliano infra note 80, 81.
70 Cfr. Cod. Theod. VI 14,12, datata al 3 maggio di quell’anno.
71 F. Chausson, Stemmata aurea, cit., pp. 134-136; R.W. Burgess, The Summer of Blood, cit.
72 Them., Or. 4,59A.
73 Them., Or. 4,59AB.
74 Amm., XXI 15,2,5; XXII 2,1. «Invenzione della propaganda giulianea?» (A. Lippold, Julianus I (Kaiser), in Reallexikon für Antike und Christentum, 19, hrsg. von E. Dassmann, Stuttgart 2001, cc. 442-483, in partic. 452: «Erfindung iulianischer Propaganda?»); e inoltre I. Tantillo, “Come un bene ereditario”. Costantino e la retorica dell’impero patrimonio, in Antiquité Tardive, 6 (1998), pp. 251-264.
75 F. Fatti, Giuliano a Cesarea, cit., pp. 21; 36; 58-59.
76 Them., Or. 31,354D; e inoltre Iul., ad Them. 257D; 259BD.
77 Iul., ad Them. 253C; 259D-260A; 266A.
78 La famosa Lettera a Temistio, sul cui significato e sulla cui vessata cronologia ora J. Bouffartigue, La lettre de Julien à Thémistios: histoire d’une fausse manoeuvre et d’un désaccord essentiel, in Á. Gonzáles Gálvez, P.L. Malosse, Mélanges A.F. Norman = Topoi, Supplément 7, Lyon 2006, pp. 113-138.
79 In tal senso, emblematico G. Dagron, L’empire romain, cit., pp. 62-63; 230-235.
80 Come suggerito, contro l’opinione comune, da L.J. Daly, Themistius refusal, cit., pp. 164-166; 189-204.
81 Contro L.J. Daly, così T. Brauch, The prefect of Constantinople, cit., pp. 58-76, ribadito in Id., Themistius and the emperor Julian, cit., pp. 93-97; Id., Patristic and Byzantine witness, cit., pp. 326-328; Id., Notes on the prefects, cit., pp. 70-71; 74; 87; 101: Temistio avrebbe ricoperto la carica nel 362. Scettici R.M. Errington, Themistius and His Emperors, cit., 899-902; P. Heather, D. Moncur, Select Orations of Themistius, cit., pp. 141-143.
82 G. Dagron, L’empire romain, cit., p. 167 e nota 104; R.J. Penella, The Private Orations of Themistius, cit., p. 4 e nota 15; P. Heather, D. Moncur, Select Orations of Themistius, cit., p. 142.
83 Come invece T. Brauch, Themistius and the emperor Julian, cit.
84 Lo ammettono P. Heather, D. Moncur, Select Orations of Themistius, cit., p. 142; e inoltre R.M. Errington, Themistius and His Emperors, cit., pp. 867-868; 873. Torna invece a insistere sulla distanza tra il principe e il senatore C.P. Jones, Themistius after the death of Julian, in Historia, 59 (2010), pp. 501-506.
85 Or. 13,165C; 31, 354D; e inoltre Lib., Ep. 818; 1430; 1452. J. Vanderspoel, Themistius and the Imperial Court, cit., p. 130-131.
86 Non lo fa nella Risâlat, sia che in questo testo si debba riconoscere una lettera-trattato a Giuliano (come crede T. Brauch, The prefect of Constantinople, cit., pp. 63-64; 74-75 e nota 182; Id., Themistius and the emperor Julian, cit., pp. 88-92), sia invece il panegirico del 363 (come sostenuto da J. Vanderspoel, Themistius and the Imperial Court, cit., pp. 127-130). La cronologia giulianea non è tuttavia certa, al pari della paternità temistiana: vedi G. Dagron, L’empire romain, cit., pp. 222-224; R.M. Errington, Themistius and His Emperors, cit., pp. 897-899; E. Amato, I. Ramelli, L’inedito ΠΡΟΣ ΒΑΣΙΛΕΑ di Temistio, in Byzantinische Zeitschrift, 99 (2006), pp. 1-67, in partic. 45-65. In Or. 5, 65B.70D, del 364, Giuliano è a ogni modo «ciò che resta – ovvero l’ultimo – della linea di Costantino», «il nipote di Costantino»; in Or. 13,165C, del 376, è invece il «fratello – cioè il cugino – del figlio di Costantino» (da confrontare con Amm., XXI 15,4): vedi G. Dagron, L’empire romain, cit., pp. 65-67 e note 178.186.
87 Amm., XXI 15,6; XXVI 7,10.
88 N. Lenski, Failure of Empire: Valens and the Roman State in the Fourth Century A.D., Berkeley-Los Angeles 2002, p. 69 e note 3-4.
89 Secondo F. Chausson, Stemmata aurea, cit., pp. 147-150, seguito per es. da J. Szidat, Usurpator, cit., p. 259 e nota 1036. Stando ad Amm., XXVI 10,3; 7,10; 9,3, infatti, Procopio Constantianam praetend[ebat] necessitudinem, sosteneva di essere legato appunto a Costanzo, con la cui moglie Faustina e la cui figlioletta Costanza amava farsi vedere in giro.
90 J. den Boeft et al., Philological and Historical Commentary on Ammianus Marcellinus XXIII, Groningen 1998, p. 42 triginta milia.
91 J. Szidat, Historischer Kommentar zu Ammianus Marcellinus Buch XX-XXI. Teil III: Die Konfrontation, Stuttgart 1996, pp. 237-238 Iovianus; T.D. Barnes, Ammianus Marcellinus and the Representation of Historical Reality, Ithaca 1998, pp. 138-139.
92 Amm., XXV 9,12.
93 Amm., XXV 7,10-11; 9,8; confermato proprio da Them., Or. 9,124D.
94 Amm., XXIII 3,2.
95 Amm., XXVI 6,2,3.
96 Rispettivamente R. Soraci, L’imperatore Gioviano, Catania 1968, p. 18; J. Béranger, Julien l’Apostat et l’hérédité du pouvoir impérial, in Bonner Historia Augusta Colloquium 1970, hrsg. von A. Alföldi, Bonn 1972, 75-93, in partic. 88-92; V. Neri, Ammiano Marcellino e l’elezione di Valentiniano, in Rivista di Storia Antica, 15 (1985), pp. 153-182, in partic. 157-163; e F.J. Wiebe, Kaiser Valens und die Heidnische Opposition, Bonn 1995, pp. 9-20; N. Lenski, Failure of Empire, cit., pp. 69-70 e note 7-8; J. den Boeft et al., Philological and Historical Commentary on Ammianus Marcellinus XXVI, Leiden-Boston 2008, p. 128 mandaratque.
97 H. Leppin, W. Portmann, Themistios. Staatsreden, cit., p. 101 nota 6.
98 Them., Or. 5,63C-64A; Socr., h.e. III 26,3.
99 P. Heather, D. Moncur, Select Orations of Themistius, cit., p. 143 e nota 16; e inoltre R.M. Errington, Themistius and His Emperors, cit., pp. 873-878.
100 Cfr. Them., Or. 5,65CD.
101 Amm., XXVI 6,5.
102 Amm., XXVI 6,5.
103 Zos., IV 5,3.
104 N. Lenski, Failure of Empire, cit., p. 99; e inoltre G. Dagron, Naissance, cit., pp. 195; 197; P. Grattarola, L’usurpazione di Procopio e la fine dei costantinidi, in Aevum, 40 (1986), pp. 82-105, in partic. 92.
105 Amm., XXV 10,5; Socr., h.e. III 26,1-2.
106 Amm., XXV 10,5.
107 Them., Or. 5,71A.
108 Them., Or. 5, 65B.
109 Them., Or. 5, 65B, da confrontare con supra, nota 74.
110 G. Dagron, L’empire romain, cit., pp. 166-167, seguito da R. Maisano, Discorsi di Temistio, cit., p. 272 nota 23, e da H. Leppin, W. Portmann, Themistios. Staatsreden, cit., p. 104 nota 21, non ne esclude la storicità, al pari di P. Heather, D. Moncur, Select Orations of Themistius, cit., p. 162 nota 68. Si veda pure N. Lenski, The Election of Jovian and the Role of the Late Imperial Guards, in Klio, 82 (2000), pp. 492–515, in partic. 506 e nota 87. Contra per es. G. Wirth, Jovian, Kaiser und Karikatur, in Vivarium. Festschrift Theodor Klauser zum 90. Geburtstag (Jahrbuch für Antike und Christentum, Ergänzungsband 11), hrsg. von E. Dassmann, K. Thraede, Münster 1984, pp. 353-384, in partic. 355 nota 7.
111 Them., Or. 5,66D; cfr. Iul., ad Ath. 270CD; e di nuovo Them., Or. 7,228B.
112 Them., Or. 5,65C.
113 Lyd., mens. 4,118.
114 Them., Or. 5,65C.
115 Them., Or. 5,70D. H.A. Drake, Constantinian Echoes in Themistius, in Studia Patristica, 34 (2001), ed. by M.F. Wiles, E.J. Yarnold, P.M. Parvis, pp. 44-50.
116 Them., Or. 5,71A. Per G. Dagron, L’empire romain, cit., p. 175 e nota 156, invece, l’evocazione del fondatore dell’Impero cristiano, in un discorso largamente dedicato al tema della tolleranza religiosa, sarebbe servita a raccomandare a Gioviano il ritorno, a quel riguardo, all’equilibrio costantiniano, nel clima assai teso del dopo Giuliano.
117 Vedi Amm., XXV 10,12-13. P. Heather, D. Moncur, Select Orations of Themistius, cit., p. 149 nota 28; J. den Boeft et al., Philological and Historical Commentary on Ammianus Marcellinus XXV, Leiden-Boston 2005, pp. 333-334 fertur enim; aut certe.
118 N. Lenski, Failure of Empire, cit., p. 97: «the long shadow of Constantine».
119 Zos., IV 5,1.
120 Zos., IV 5,1. F. Fatti, Giuliano a Cesarea, cit., p. 201 nota 17.
121 Amm., XXVI 4,4; confermato da Zos., IV 1,1.
122 Amm., XXVI 6,6; 7,16.
123 Così ipoteticamente F. Chausson, Stemmata aurea, cit., pp. 165-169.
124 Them., Or. 6,74BC.
125 Them., Or. 6,76A.
126 Them., Or. 6,73D-74B; 75AD; 76CD e passim.
127 N. Lenski, Failure of Empire, cit., p. 26.
128 Them., Or. 6,75CD,83CD.
129 Them., Or. 6,71CD; e inoltre Or. 8, 105C-106A; 9,126B; 11,129C.
130 Them., Or. 6,72BD.82BC.83.
131 Lib., Or. 24,10; N. Lenski, Failure of Empire, cit., p. 98 e note 183-185.
132 Them., Or. 6,83CD.
133 Amm., XXVI 6,18; da confrontare con quanto, passato il pericolo, ebbe a dire proprio Temistio in Or. 7,92B, a conferma del fatto che Procopio davvero pretendeva di discendere direttamente da Costantino. Si veda N. Lenski, Failure of Empire, cit., pp. 98-99 e note 186-189; F. Chausson, Stemmata aurea, cit., p. 148 nota 121.
134 Cfr. Amm., XXVI 7,10,16; Zos., IV 7,1; e lo stesso Them., Or. 7,90A.92B.
135 Amm., XXVI 6,18. J. Szidat, Usurpator, cit., p. 250 e nota 997.
136 Amm., XXVI 6,5.
137 In tal senso M. Raimondi, Temistio e la prima guerra gotica di Valente, in Mediterraneo antico, 3 (2000), pp. 633-683, in partic. 671-672; 675-676; T. Brauch, Notes on the prefects, cit., pp. 73-74.
138 Them., Or. 7,87D-88A; 92C-93C; 97C-98A e passim.
139 Them., Or. 7,92AB; e inoltre 91A-B.
140 Them., Or. 7, 86C; cfr. Amm., XXVI 7,7: «emergebant ex vulgari foece non nulli […] contraque quidam orti splendide». I. Hahn, Zur Frage der Sozialen Grundlagen der Usurpation Procopius, in Acta Antiqua Academiae Scientiarum Hungaricae, 6 (1958), pp. 199-211; inoltre F.J. Wiebe, Kaiser Valens, cit., pp. 53-54; 62-63; R. Delmaire, Les usurpateurs du Bas-Empire et le recrutement des fonctionnaires, in Usurpationen in der Spätantike, hrsg. von F. Paschoud, J. Szidat, Stuttgart 1997, pp. 111-126, in partic. 118-120; T. Brauch, Notes on the prefects, cit., p. 74, secondo cui «there is no evidence that […] the eastern senate actively collaborated with the rebel».
141 Them., Or. 6,81D. N. Lenski, Failure of Empire, cit., p. 89 e nota 134.
142 Them., Or. 7,97D.
143 Amm., XXVI 10,6-14; Zos., IV 8,4-5.
144 Introdotta, come ognun sapeva, da Costantino sul modello della Roma antica, e che proprio Temistio, nel corso della missione a Roma del 357, si era battuto con successo presso Costanzo II perché fosse reintegrata nella misura stabilita dal padre: G. Dagron, L’empire romain, cit., pp. 46 e nota 64; 55 nota 126; 208-209 e nota 23; 210 e nota 35; 216 e nota 26; Id., Naissance, cit., pp. 530-541; R.J. Penella, The Private Orations of Themistius, cit., p. 219 nota 19.
145 Them., Or. 7,92B; e inoltre Or. 34,13.
146 Them., Or. 9,120C; 121A; 122C; 124BC; 127B-128A.
147 Si veda il caso di Cesarea di Cappadocia in F. Fatti, Giuliano a Cesarea, cit., pp. 210-211.
148 Them., Or. 8,105C; 107A; e inoltre Or. 11,144BC.
149 Them., Or. 9,123B; si vedano pure Or. 10,129AB.130A; 11,144A.
150 Them., Or. 11,146B, a meno che non si tratti di Giuliano, come crede L.J. Daly, Themistius refusal, cit., p. 191; diversamente J. Vanderspoel, Themistius and the Imperial Court, cit., pp. 177. Si veda inoltre Or. 11,143B-144D.
151 Them., Or. 13,168C.
152 Così ripetutamente T. Brauch, The prefect of Constantinople, cit., pp. 44-58; Id., Themistius and the emperor Julian, cit., p. 96 e nota 76; Id., Patristic and Byzantine witness, cit., pp. 328-329; 334-343; 381; Id., Notes on the prefects, cit., pp. 47-48; 64-65; 81; 90-91; 101-102. Analogamente P. Heather, Themistius: a political philosopher, cit., p. 131; Id., D. Moncur, Select Orations of Themistius, cit., pp. 307-310, che però negano l’esercizio sotto l’Apostata. Secondo T. Brauch, Notes on the prefects, cit., p. 101 e nota 258 (ma già Id., The prefect of Constantinople, cit., pp. 48-49), «If any “high points” are evident during Themistius’ ascendency, these would be the reigns of Julian and Valens […] In terms of his political activities and influence, however, the reign of Valens represents the apex of Themistius’ public career». Cfr. pure G. Dagron, L’empire romain, cit., p. 10; R.M. Errington, Themistius and His Emperors, cit., p. 878.
153 Them., Or. 8,115B. Rispettivamente R. Maisano, Discorsi di Temistio, cit., p. 363; J. Vanderspoel, Themistius and the Imperial Court, cit., pp. 168; 251; H. Leppin, W. Portmann, Themistios. Staatsreden, cit., pp. 150; 313; J.R. Ponce, Temistio. Discursos políticos, cit., p. 295; e T. Brauch, Notes on the prefects, cit., pp. 61-63.
154 Them., Or. 9,128A.
155 Them., Or. 9. Rispettivamente R. Maisano, Discorsi di Temistio, cit., p. 407; H. Leppin, W. Portmann, Themistios. Staatsreden, cit., pp. 173 e nota 4; 313; e J. Vanderspoel, Themistius and the Imperial Court, cit., pp. 171-172; 251; J.R. Ponce, Temistio. Discursos políticos, cit., p. 329; T. Brauch, Notes on the prefects, cit., pp. 63-64.
156 Them., Or. 10,132D-133A; e inoltre Or. 11,144A; 146AB; 13,166AB.
157 Si vedano infatti Them., Or. 11,129A; e inoltre Socr., h.e. IV 32,2; Soz., h.e. VI 36,6. R.M. Errington, Themistius and His Emperors, cit., p. 879 nota 94; T. Brauch, Notes on the prefects, cit., pp. 81-82.
158 Them., Or. 11,151A.
159 Socr., h.e. IV 31,11-13; Io. Ant., fr. 187 (FHG IV 187, ed. Müller, p. 609). R. Lizzi Testa, Senatori, cit., pp. 312-314; F. Chausson, Stemmata aurea, cit., pp. 101-102; 163-164; J. Szidat, Usurpator, cit., pp. 177; 200.
160 Amm., XXI 15,6.
161 Them., Or. 13,167C.
162 Them., Or. 11,151A-152B; e inoltre Or. 13,167CD.
163 Rispettivamente Them., Or. 13,168A; e Or. 6,82D.83A.
164 Them., Or. 11,152A.
165 Cfr. Or. 8,102AC; 110D-111B; 9,121A; 122C; 10,133A.
166 M. Raimondi, Temistio, cit.; e inoltre U. Roberto, βασιλεὺς φιλάνϑρωπος. Temistio sulla politica gotica dell’imperatore Valente, in Annali dell’Istituto italiano per gli Studi storici, 14 (1997), pp. 137-203; N. Lenski, Failure of Empire, cit., p. 99 e nota 191.
167 Them., Or. 9,128BC.
168 Them., Or. 13,179D.
169 Cfr. Them., Or. 10,130A.
170 G. Dagron, Naissance, cit., p. 83; T.D. Barnes, Ammianus Marcellinus, cit., pp. 250-253.
171 Them., Or. 8,111A.
172 Così in Them., Or. 14,183D: mag./giu. 379; e inoltre Or. 15,196C; un cenno forse già in Or. 8,117A.
173 Them., Or. 17,213CD: feb./mar. 384.
174 G. Dagron, Naissance, cit., p. 355; J. Vanderspoel, Themistius and the Imperial Court, cit., pp. 154-155; J. Vanderspoel, A Tale of Two Cities, cit.
175 T. Brauch, Notes on the prefects, cit., pp. 99-101. Diversamente G. Dagron, L’empire romain, cit., p. 56 nota 130, che minimizza l’evidenza testuale.
176 Them., Or. 14, 180C.
177 R.M. Errington, Themistius and His Emperors, cit., pp. 893-897; P. Heather, Liar in winter: Themistius and Theodosius, in From the Tetrarchs to the Theodosians. Late Roman History and Culture, 284-450 CE, ed. by S. McGill, C. Sogno, E. Watts, Cambridge 2010, pp. 185-214.
178 Them., Or. 14,182AB; 183B-184A.
179 Them., Or. 17,213CD; 31,355A; 18, 224B; Or. 34,7.
180 T. Brauch, The prefect of Constantinople, cit., p. 58; Id., Notes on the prefects, cit., pp. 91-101, in partic. 100-101. Cfr. anche J. Stengen, Themistius und Palladas, in Byzantion, 77 (2007), pp. 399-415, e K.W. Wilkinson, Palladas and the Age of Constantine, in Journal of Roman Studies, 99 (2009), pp. 36-60, partic. 56-60, su Anth. Gr. 11, 292. Si veda però G. Dagron, L’empire romain, cit., p. 49 e nota 82bis.
181 F. Fatti, Tra Peterson e Schmitt: Gregorio Nazianzeno e la “liquidazione di ogni teologia politica”, in Teologie politiche. Modelli a confronto, a cura di G. Filoramo, Brescia 2005, pp. 61-101, in partic. 85-99.
182 L. Faedo, Teodosio, Temistio e la regalità erculea nella nea Rome, in Mitteilungen des Deutschen Archaeologischen Instituts. Römische Abteilung, 105 (1998), pp. 315-328, in partic. 322-328.
183 Them., Or. 14,182B.
184 Them., Or. 15,198B. F. Chausson, Stemmata aurea, cit., pp. 202-232.
185 Cfr. Them., Or. 18,222D-223B.
186 Them., Or. 14,183C.
187 F. Fatti, Trame mediterranee: Teofilo, Roma, Costantinopoli, in Adamantius, 12 (2006), pp. 105-139, in partic. 120-121.
188 Them., Or. 15,191A.
189 Them., Or. 18,221B-223B.
190 R. Lizzi Testa, Senatori, cit., p. 315; F. Chausson, Stemmata aurea, cit., pp. 102-104; 189.
191 G. Dagron, L’empire romain, cit., pp. 12 e nota 66; 38 e nota 13; J. Vanderspoel, Themistius and the Imperial Court, cit., pp. 215-216.
192 Si veda N. Barbaro, Giornale dell’assedio di Costantinopoli 1453. Corredato per E Cornet, s.l. 2010, pp. 263-265; 472-480; 582-588; 671-687, con il commento dell’editore in La caduta di Costantinopoli. Le testimonianze dei contemporanei, a cura di A. Pertusi, I, Milano 2006, p. 357 nota 89.
193 Them., Or. 18,222D.