Temi escatologici alla fine del millennio
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
I temi escatologici, relativi alle "ultime cose" e alla fine dei tempi, hanno accompagnato sempre la percezione che della Storia ha avuto la teologia medievale. In particolar modo, tra X e XI secolo, gli intellettuali più colti avvertono, come segno della fine delle età del mondo, la decadenza dei costumi e degli studi, mentre, in diverse opere cronachistiche, il mondo viene descritto come attraversato da terribili avvenimenti, presagi dell’imminente ritorno del diavolo, in coincidenza con l’avvento dell’anno Mille.
Rodolfo il Glabro
I diavoli travestiti da poeti
Cronache dell’anno mille, Libro II, parr. 22-23
In questo periodo [fine secolo X] un male non dissimile si manifestò a Ravenna. Un certo Vilgardo, cultore diligente, anzi appassionato, dello studio della grammatica […] cominciò a insuperbire per la conoscenza che aveva della sua arte, e a mostrarsi sempre più insensato. Un giorno certi diavoli presero l’aspetto dei poeti Virgilio, Orazio e Giovenale e, comparendogli innanzi, gli dimostrarono perfidamente grande riconoscenza perché con grande zelo e amore si dedicava ai libri contenenti le loro opere e se ne faceva fortunato annunziatore presso la posterità; gli promisero quindi che lo avrebbero reso partecipe della loro gloria. Corrotto dall’inganno dei diavoli, si mise allora presuntuosamente a sostenere […] che bisognava credere in tutto e per tutto alle parole dei poeti. Infine fu smascherato come eretico e venne condannato; […] furono scoperti in Italia altri sostenitori di queste perniciose teorie; ed essi pure vennero giustiziati con la spada o sul rogo. […] Tutto ciò costituisce un presagio che ben si accorda con la profezia di Giovanni, là dove dice che Satana verrà liberato, e al termine di mille anni.
Rodolfo il Glabro, Cronache dell’anno mille, a cura di G. Cavallo e G. Orlandi, Milano, Lorenzo Valla, 1989
Raterio da Verona
Ritorno al valore della conoscenza
Phrenesis, "Proemio"
Contro i costumi del tempo, egli non si è rifugiato nel denaro e nelle armi, non ha riposto la sua fiducia nell’appoggio degli amici, ma si è fondato sui libri, sugli armadi che li conservano, sulle sentenze degli scrittori antichi.
Raterio da Verona, Phrenesis, in Storia della Teologia nel Medioevo. I principi, a cura di G. d’Onofrio, Casale Monferrato, Piemme, 1996
Abbone di Fleury
Contro i timori sulla fine del mondo
Liber apologeticus, vol. 139, col. 461
A proposito della fine del mondo, sentii predicare al popolo in una chiesa di Parigi che l’Anticristo sarebbe venuto alla fine dell’anno mille e che il giudizio universale sarebbe seguito di poco. Contrastai energicamente questa opinione, basandomi sui Vangeli, sull’Apocalisse e sul libro di Daniele.
Abbone di Fleury, Liber apologeticus, in J.-P. Migne, Patrologia Latina
I temi relativi "alle ultime cose" (in greco éschata) hanno caratterizzato tutta la speculazione e la cultura medievali. La teologia cristiana, patristica prima e scolastica poi, ha infatti continuamente interpretato la storia, intesa come serie degli avvenimenti contingenti, alla luce della ierostoria, il piano metatemporale che trascende il normale susseguirsi cronologico delle età. Così, il tempo è stato descritto non come una semplice successione di accadimenti, ma come l’insieme delle tappe che avrebbero condotto alla realizzazione del progetto provvidenziale.
È Agostino che indica una divisione della storia del mondo in sei grandi età che descrivono l’evoluzione dell’umanità seguendo il modello delle epoche bibliche. In questa partizione, la sesta età, aperta dall’incarnazione di Cristo, ma per la quale non è indicato un tempo conclusivo se non la fine del tempo stesso, prospetta ai medievali il loro presente storico come una lunga attesa. Impegnata a illustrare ai credenti la via per la felicità eterna, tutta la teologia dell’età di mezzo è dunque orientata, in modi e forme di volta in volta differenti, a descrivere gli avvenimenti che concluderanno il ciclo di vita dell’umanità e di tutto il creato, e a indicare un modello esegetico e morale utile al cristiano per comprendere questa prospettiva e, in relazione a essa, orientare il proprio comportamento.
Questa componente strutturalmente escatologica della cultura cristiana impedisce di individuare, in un solo e preciso momento storico, il manifestarsi di una particolare attenzione per il problema della fine dei tempi; nella storia della storiografia relativa al Medioevo si è dunque impropriamente tentato di isolare, esclusivamente negli anni a ridosso della fine del primo millennio, una particolare tensione ai temi relativi alle "ultime cose".
Essa è invece presente lungo tutti i secoli della speculazione medievale, ben prima dell’anno Mille, se pur con esiti e forme diversi. Se infatti Beda o Isidoro di Siviglia riprendono la divisione agostiniana delle sei età del mondo, Giovanni Scoto Eriugena, nel IX secolo, indica una diversa prospettiva escatologica. La descrizione agostiniana di un tempo scandito da grandi età che condurranno il mondo alla senescenza e alla consunzione, viene descritta, da Giovanni Scoto, con il lessico neoplatonico tratto dalle opere dello Pseudo Dionigi, da lui tradotte dal greco; ne nasce una originale prospettiva teologica, nella quale il mondo non solo deriva da Dio e ne è manifestazione, ma a Dio ritornerà, nell’ultimo giorno, per ricostruire l’unità iniziale, perdutasi con il peccato di Adamo. Alla fine del secolo carolingio, ad Auxerre, dove si sviluppa una tradizione di glossatori e commentatori della ricchissima produzione teologica di Giovanni Scoto, Eirico, intriso del linguaggio e dei temi eriugeniani, nel descrivere in versi la vita del santo Germano narra della sua ascesa al cielo, e del suo confondersi con Dio (deificatio), al di sopra della natura creata, preludio di quella deificatio universale che, alla fine dei tempi, sussumerà in unità tutto il creato.
Se i temi escatologici non nascono dunque in prossimità della fine del primo millennio, ma si sviluppano, a partire da Agostino, in tutta la teologia altomedievale, è però innegabile quanto essi vengano avvertiti con più urgenza proprio tra il secolo X e l’XI, anni nei quali sulla già radicata sensibilità escatologica della cultura teologica latina si innestano le paure legate alla concreta sensazione che il saeculum senescens si avvii alla deflagrazione. Nel capitolo XX dell’Apocalisse si legge dell’angelo che, disceso dal cielo con la chiave dell’abisso, afferra il drago, simbolo di Satana, e l’incatena per mille anni. Era dunque inevitabile che un riferimento numerologico così evidente, presente nelle Scritture, suscitasse la convinzione che il numero mille portasse con sé il pericolo di un rivolgimento cosmico. L’anno Mille e, ovviamente, il 1033, millenario della Passione di Cristo, appare a molti la spiegazione di fenomeni di decadimento e rovina che, letti nella disomogenea prospettiva cronologica, appaiono slegati e tra di loro indipendenti, e ai quali, invece, l’approssimarsi della fine dei tempi sembra dare una più generale spiegazione.
Una particolare attenzione viene riservata, in tal senso, ai costumi della Chiesa, e alla sua moralità. La corruzione, in particolare la simonia, spinge, ad esempio, Attone e Raterio, vescovi rispettivamente di Vercelli e di Verona nel X secolo, a indicare rimedi per evitare che questa decadenza dei costumi faccia marcire, dalle fondamenta, la Chiesa stessa. Le indicazioni dei due prelati suonano come un monito a tornare all’antica spiritualità, ben rappresentata nella regula di san Benedetto; si avverte, nelle loro parole, il sentimento di un’epoca che, dopo il secolo della rinascita carolingia, rimpianta come modello di vitalità spirituale e sociale, appare legata a beni effimeri e lontani dalla condivisione e dalla spiritualità che vivificano una comunità: lo stesso Raterio preferisce, come compagni di strada, i libri e le sentenze dei Padri, piuttosto che gli uomini del suo tempo. La condanna dell’epoca presente si accompagna, dunque, alla riscoperta e alla idealizzazione, dopo appena un secolo, dei valori culturali dell’età di Carlo Magno e dei suoi eredi. Soprattutto, la grande sintesi tra saperi profani e sapienza cristiana, radicata in Alcuino e nei suoi successori, si mostra come la strada maestra per arginare la corruzione dei tempi, e appare in piena continuità con il sogno di quella renovatio politica che accompagna, nella storia delle istituzioni, il passaggio di millennio. Due tra le più rappresentative figure del periodo, Abbone di Fleury e Gerberto d’Aurillac, futuro papa Silvestro II, ben incarnano le ansie e le aspettative di quest’epoca. Educatori di personaggi rivelatisi poi centrali nella storia europea, come Ottone II e il figlio, il futuro Ottone III, Gerberto e Abbone non solo contribuirono alla creazione degli elementi utili alla realizzazione del sogno politico della rinascita ottoniana, ma si fecero in prima persona promotori di un recupero, anche testuale, della tradizione classica e patristica. Così, l’opera di Abbone e di Gerberto appare in tutto il suo valore soprattutto se confrontata con il fosco clima degli anni in cui operano.
La presenza di queste testimonianze, che rivelano l’esistenza, negli spiriti più sensibili, della sensazione di un’età (e di un mondo) che si avvia al termine, non esclude che, negli stessi anni, questi timori si manifestano in forme meno raffinate ma più virulente, spesso legate alla devozione popolare. Molteplici sono i testimoni di questo millenarismo che, oltre ad avvertire la decadenza di una cultura e di una spiritualità, illustrano anche una storia di avvenimenti fantastici e terribili, segni di una imminente e devastante conclusione della storia del mondo. Scrittori cronachistici come Ademaro di Chabannes, e Rodolfo detto il Glabro, descrivono l’esistenza di una percezione più immediata e meno elaborata di questi mutamenti. Convivono, dunque, nella cultura a cavallo della fine del millennio, il tentativo di preservare quanto di meglio avevano prodotto i primi mille anni di vita e cultura cristiane, e di esorcizzare i timori per la chiusura di un’epoca.
Nelle Cronache dell’anno mille di Rodolfo, queste preoccupazioni si concretizzano in letteratura; la sua narrazione sembrerebbe mostrare così, nei piccoli particolari, come nelle grandi scene di disgrazie e sventure, la percezione diffusa degli avvenimenti.
Nonostante questi contributi, non è però possibile escludere che quello descritto da Rodolfo e dai suoi contemporanei non sia il vero volto dell’anno Mille. Le cronache non sembrano infatti interessate alla narrazione di quello che oggettivamente accadde nella vita delle persone. Non è infatti l’ordinario che interessa allo storico, ma l’eccezionale, l’inconsueto. Così, nella sua narrazione, la cronaca elenca avvenimenti tipizzati, la cui paradigmaticità contribuisce a descrivere la compromissione di ogni ordine precostituito, affiancando, alla denuncia per la decadenza politica e morale, il racconto dei segni più eclatanti della imminente fine dei tempi. Rodolfo riporta e, implicitamente, condanna ogni pratica volta a turbare l’equilibrato ordinamento delle istituzioni, politiche e culturali.
L’approssimarsi del millennio della Passione di Cristo sembra infatti sovvertire la struttura stessa della convivenza, lasciando il potere in mano a uomini incapaci di tenere una condotta di vita irreprensibile, e indegni di dirsi eredi di una nobile tradizione di studi; è questo il caso, narrato da Rodolfo, di Vilgardo, un non meglio descritto ravennate insuperbitosi per le sue capacità di studioso di grammatica. Un giorno, alcuni demoni gli si presentano innanzi con le fattezze di Virgilio, Orazio e Giovenale, ringraziandolo dell’impegno profuso in quello studio e sui loro libri. Corrotto da questa visione, Vilgardo comincia a predicare che le parole veramente degne di fede siano soltanto quelle dei poeti, dando vita a una eresia che, agli occhi di Rodolfo, non può che essere un presagium dell’imminente liberazione di Satana, predetta dall’Apocalisse. All’approssimarsi del millennio, lamenta dunque Rodolfo, il mondo sembra svuotato di personaggi di spicco, che avrebbero potuto mostrare come le Scritture stesse, e la loro più corretta interpretazione, eviti di cadere negli inganni del male, cogliendo il senso degli avvenimenti che, nel resoconto cronachistico, testimoniano la pericolosità dell’epoca. Sono tutte immagini di rivolgimenti interni alla stessa Chiesa (crocefissi che versano lacrime e lupi che si impossessano delle cattedrali), di rivoluzioni cosmiche (eclissi, comete e astri in lotta tra di loro), ma anche di una struttura sociale non più regolata da norme e leggi; Rodolfo si fa così interprete di tutte le istanze dell’ansia millenarista, dalla brutalità degli uomini al disordine del cosmo: come gli astri sembrano non seguire più il loro corso, così gli uomini sembrano perdere ogni regola, e decadere, come i tempi. L’avidità, la simonia, già denunciata da Raterio, sono solo i peccati più evidenti di una generazione di uomini dediti alle rapine, agli incesti, alle violenze ed ai soprusi, culminanti, nel 1033, nel millenario della morte di Cristo, nelle violenze generate dalla grande carestia che rende gli uomini, affamati, simili a bestie.
Se dunque personaggi come Raterio, Abbone e Gerberto rappresentano la reazione degli intellettuali dinanzi al disfacimento di talune istituzioni, e contro il pericolo della decadenza dei costumi e dei saperi, l’opera di Rodolfo, pur sensibile a questi problemi, racconta anche un millenarismo parallelo, nel quale ritrovare, al fianco della denunzia per la corruzione dei tempi, la presenza di violenti ed eclatanti presagi, radicati nell’immaginario comune di un’epoca.