televisione e lingua
Tra tutti i tipi di comunicazione audiovisiva e trasmessa (➔ lingua e media), il più rappresentativo è quello televisivo, per la numerosità degli utenti, gli investimenti che comporta e la ricaduta sulla lingua comune. Come per gli altri mezzi, non esiste una lingua italiana della televisione, bensì tanti italiani televisivi, variabili a seconda della tipologia testuale (➔ testo, tipi di) e, in misura minore ormai, dell’età e del livello socioculturale del pubblico: telegiornali, intrattenimento, cultura, fiction, reality show, sport, pubblicità, ecc., pur tenendo conto delle varietà ibride, caratteristiche degli ultimi tempi, come l’infotainment (informazione e intrattenimento), lo sportainment e l’edutainment (Alfieri & Bonomi 2008). Al loro interno, poi, ciascun ambito andrebbe suddiviso secondo lo stile dell’emittente, degli autori, del conduttore principale, ecc.
La differenza fondamentale di cui occorre tenere conto è quella tra programmi interamente scritti e poi letti o recitati (dal telegiornale alle serie televisive) e programmi che si svolgono in diretta, sicuramente sulla base di una scaletta ma con indubbi elementi di improvvisazione. È ovvio che i secondi, più dei primi, sono sbilanciati verso il polo dell’oralità, i primi verso quello della scrittura.
L’italiano televisivo, nei primi vent’anni circa di trasmissioni (dal 1954 al 1976, fino al pieno sviluppo dell’emittenza privata), esercitò una indubbia funzione di modello, in un contesto culturale ampiamente dialettofono, in cui il nuovo mezzo funse da «scuola di lingua» (Simone 1987; De Mauro 1993: 437-443). L’adozione di una lingua di tono elevato (➔ registro), in linea con la funzione pedagogica allora assegnata alla televisione, si coglie sia nella pronuncia delle annunciatrici e degli speaker, che seguivano lo standard di base fiorentina appreso in appositi corsi di dizione (il modello fu sancito proprio dalla RAI con la pubblicazione, nel 1969, del DOP), sia nel lessico, che evitava rigorosamente voci ed espressioni colloquiali o regionali, ammesse solo negli spazi comici del varietà.
Vista in diacronia, la lingua televisiva ha indubbiamente subito il medesimo processo di svecchiamento comune ad altri media, caratterizzato da una crescente presenza di elementi propri del parlato informale e dello stile brillante, dei ➔ forestierismi e dei ➔ regionalismi riflessi (vale a dire usati consapevolmente da chi domina anche l’➔italiano standard): dapprima romani, poi anche milanesi e d’altra provenienza. Particolarmente significativa fu la presenza della diretta telefonica, a partire dagli anni Ottanta, che incoraggiò l’ingresso, nel piccolo schermo, di molte varietà regionali e stilistiche. Con la parziale eccezione del telegiornale (tra i contenitori televisivi, quello forse meno soggetto all’evoluzione linguistica, nonostante l’epocale passaggio dalla presenza dello speaker a quella del giornalista, quale lettore della notizia), la comunicazione televisiva recente mostra due caratteristiche innovative: la progressiva perdita del parlato monologico a favore di quello conversazionale e la tendenza all’autoreferenzialità.
È evidente come la gran parte dei programmi attuali sia costruita come una serie di dialoghi, non tanto nella forma dell’intervista tradizionalmente intesa, quanto della conversazione da salotto, in una sorta di dialogo a tre fra interlocutori sullo schermo e telespettatori, in un’esibizione esasperata dell’atto comunicativo. A parlare di sport o di politica non sono più soltanto giornalisti, atleti e politici, bensì attori, personaggi famosi, imprenditori, ecc. Le forme del talk show e del reality show, inoltre, portano all’esasperazione proprio l’aspetto del parlato-parlato e del dialogo, che talora è un (finto) dialogo a senso unico del protagonista che si confessa davanti agli occhi dello spettatore. Più che l’interpretazione di una canzone o il resoconto di un viaggio o di una scoperta scientifica, conta la messa in scena dei momenti preparatori, delle reazioni emotive e delle opinioni altrui su quegli eventi:
Nel dialogo televisivo tutte le domande o quasi hanno una risposta preconfezionata: la rappresentazione della comunicazione dialogica mira a coinvolgere anche lo spettatore e, ad un livello più macroscopico, quell’organismo variegato e astratto che è l’opinione pubblica, della quale si cerca di prevedere le possibili reazioni in termini di ascolto, gradimento, consenso, persuasione, interesse (Losi 2005: 269-270).
Quanto all’autoreferenzialità, basti pensare allo spazio sempre più esteso dedicato al lancio (talora addirittura come notizia del telegiornale) e al commento di trasmissioni della medesima emittente. In fondo, è autoreferenziale anche la riproposizione di trasmissioni del passato, che peraltro forniscono un valido strumento d’analisi diacronica del parlato trasmesso.
Gran parte degli spettacoli, non soltanto italiani, ha perso ormai il marcato intento pedagogico che caratterizzava la televisione delle origini. Parallelamente a questo, è venuta meno anche la tradizionale ripartizione in generi, sebbene la televisione tematica (satellitare e via cavo) d’ultima generazione sembri segnare un’inversione di tendenza (Centorrino 2006): «l’esigenza di coinvolgere un maggior numero di utenti porta alla creazione della cosiddetta televisione ‘generalista’, una televisione che vuole accontentare tutti e che, pertanto, privilegia le scelte distensive all’interno della programmazione, spettacolarizzando anche i settori informativi e culturali» (Nacci 2003: 69). La funzione di modello esercitata dall’italiano televisivo delle origini si è progressivamente perduta e anche alla televisione si è registrato, a poco a poco, il trionfo dell’italiano dell’uso medio. È peraltro indubbio il ruolo attuale della televisione italiana nell’apprendimento della nostra lingua da parte di molti immigrati.
Non poche sono le espressioni d’origine televisiva divenute proverbiali nell’italiano comune (➔ titoli), sebbene, rispetto ad altri media, l’influenza della televisione sulla lingua di tutti i giorni sia prevalentemente effimera, legata al successo di trasmissioni e personaggi del presente.
Tra i neologismi d’ultima generazione ricordiamo tronista e il nuovo significato di confessionale e nominare (dalla trasmissione Grande fratello). Altre forme particolarmente ricorrenti in televisione, e da lì passate nell’italiano comune, sono almeno audience, bucare lo schermo, prima o seconda serata, share e zapping (per quanto riguarda il lessico interno degli ambienti del medium stesso); formule introduttive o conclusive quali andrà in onda, potrete assistere, abbiamo trasmesso; da un celebre spot autopromozionale della RAI deriva la locuzione di tutto di più, che si è radicata nella lingua comune; altre espressioni sono invece tipiche dei telegiornali: voltiamo pagina; cambiamo decisamente argomento; ma sentiamo ora il nostro corrispondente (D’Achille 20062: 230-233).
Di là dall’origine propriamente televisiva delle singole forme, il piccolo schermo ha un enorme potere irradiante di parole e stilemi nati in altri ambiti e in altri media, dai giornali al cinema, dai linguaggi settoriali ai gerghi. Le levate di scudi contro l’imbarbarimento linguistico prodotto dalla televisione hanno accompagnato il mezzo fin dalla sua nascita. Sicuramente la riduzione della finalità pedagogica e il conseguente aumento della funzione di rispecchiamento della realtà, anche linguistica, del Paese (ma sarebbe riduttivo limitare le funzioni della comunicazione televisiva unicamente al rispecchiamento del parlato-parlato; Alfieri & Bonomi 2008: 9) hanno comportato un complessivo abbassamento stilistico e una maggiore tolleranza nei confronti di forme un tempo ritenute erronee. Anche il trionfo del parlato conversazionale e (fintamente) spontaneo ha avuto come conseguenza il declino dello stile cosiddetto proposizionale (Simone 2000: 128-135), cioè analitico e strutturato secondo le modalità della scrittura argomentativa, a favore di uno stile perlopiù vago, giustappositivo e frammentario. Talora si commette tuttavia l’errore, tipico dei non linguisti, di identificare il livello dei contenuti con quello della forma. Se si andassero a confrontare le infrazioni alle norme grammaticali (dall’indicativo al posto del congiuntivo agli errori lessicali, dalle desinenze verbali substandard all’erroneo uso del pronome relativo) presenti nelle fiction televisive e nei cartoni animati giapponesi, per es. (ma il discorso non sarebbe tanto diverso per i programmi di intrattenimento), con quelle presenti nella narrativa o nel teatro d’arte contemporanei (che tra l’altro guardano spesso, con sarcasmo, ai modelli televisivi), scopriremmo in questi ultimi una minore tenuta della grammatica tradizionale. E questo è in linea con il noto principio sociolinguistico della proporzionalità inversa tra livello culturale del pubblico di riferimento e rispetto delle norme linguistiche e delle convenzioni stilistiche. Anche i testi scritti che appaiono in televisione risultano sostanzialmente corretti (D’Achille 2008).
Quanto alla presenza di forme ➔ substandard, vanno senz’altro distinti gli errori, per dir così, incastonati e disseminati ad arte in un contesto sostanzialmente corretto, quando non formale, e gli errori inavvertiti. Questi ultimi, più che errori veri e propri, rientrano spesso nell’ambito della generale sciatteria, riassumibile in una pronuncia poco sorvegliata, in un lessico troppo generico o improprio e in una sintassi scarsamente controllata. Ne è un esempio un brano come il seguente, le cui caratteristiche rientrano nel parlato non progettato tout court (➔ lingua parlata), più che in quello specificamente televisivo:
(1) in ogni caso / ehh / io cioè / adesso io non sapevo che succedeva questa cosa / comunque per me è indifferente / perché / cioè / l’importante è quello che avevo già deciso io prima (dalla trasmissione televisiva Uomini e donne, citato in Nacci 2003: 91)
Quanto invece agli errori del primo tipo, inaugurati da Mike Bongiorno nei quiz televisivi degli anni Cinquanta (dal 1955, Lascia o raddoppia?), rientrano talora nell’ambito dell’espressionismo linguistico, con escursione plurilingue dall’italiano letterario al dialetto, dalla lingua burocratica a quella popolare, di personaggi quali Paolo Bonolis. Quella di quest’ultimo «è un perfetto esempio di lingua televisiva», nella sua ibridazione postmoderna, nella quale si alternano «il gusto della beffa e della performance [...] (nella ricerca di una lingua ‘alta’ e a volte pseudo-colta); il mimetismo (di una lingua popolare); la spietata ironia (nei confronti del concorrente/spalla)», in un’operazione fortemente debitrice nei confronti dei pastiche teatrali e filmici di attori quali Totò o Alberto Sordi (Martari 2005: 288, 292).
DOP (2008) = http://www.dizionario.rai.it (1a ed. Migliorini, Bruno, Tagliavini, Carlo & Fiorelli, Piero, DOP. Dizionario di ortografia e pronuncia, Torino, ERI, 1969).
Alfieri, Gabriella & Bonomi, Ilaria (2008) (a cura di), Gli italiani del piccolo schermo. Lingua e stili comunicativi nei generi televisivi, Firenze, Cesati.
Centorrino, Marco (2006), La rivoluzione satellitare. Come Sky ha cambiato la televisione italiana, Milano, Franco Angeli.
D’Achille, Paolo (20062), L’italiano contemporaneo, Bologna, il Mulino (1a ed. 2003).
D’Achille, Paolo (2008), La scrittura in televisione e l’italiano del televideo, «Rid. IT Rivista on line di Italianistica» 1 (http://www.scriptaweb.eu/).
De Mauro, Tullio (1993), Storia linguistica dell’Italia unita, Roma - Bari, Laterza (1a ed. 1963).
Losi, Simonetta (2005), La televisione buona maestra di italiano?, «Lingua italiana d’oggi» 2, pp. 269-279.
Martari, Yahis (2005), Tra pregio e dispregio. L’italiano di Paolo Bonolis, «Lingua italiana d’oggi» 2, pp. 281-294.
Nacci, Laura (2003), La lingua della televisione, in La lingua italiana e i mass media, a cura di I. Bonomi, A. Masini & S. Morgana, Roma, Carocci, pp. 67-92.
Simone, Raffaele (1987), Specchio delle mie lingue, «Italiano e oltre» 2, pp. 53-59.
Simone, Raffaele (2000), La terza fase. Forme di sapere che stiamo perdendo, Roma - Bari, Laterza.