CRISELEFANTINA, TECNICA
. Usata da scultori Greci: di una figura si eseguivano in avorio le carni e il resto in lamina d'oro.
L'uso di materiali di colori diversì ha i suoi precedenti nelle civiltà orientali: frammenti di statue policrome in pietra databili intorno al 1000 a. C., furono trovati a Babilonia (R. Koldewey, Die Tempel von Babylon u. Borsippa, Lipsia 1911, figure 78-79), dall'Egitto si ebbe una statua in basalto con la testa rivestita di lamina aurea (Egyptian sculptures in the British Museum, tav. 42). È invece lavoro di falsarî la statuetta minoica in avorio e oro del Museo di Boston. I più antichi esempî in Grecia erano forse alcune statue del tempio di Hera (Paus., VII, 17, 1) e le figurine in rilievo sul coíano di Cipselo, a Olimpia, ritenuto opera corinzia della prima metà del sec. VI. Analogie costruttive presentavano le statue dei Dioscuri ad Argo (v. avorio) attribuite a Dipeno e Scilli.
I processi di lavorazione restano prettamente arcaici: intaglio dell'avorio e sbalzo di lastre metalliche. Due frammenti d'una statua di Atena di stile fidiaco nella Biblioteca Vaticana (fig.1), e una mano femminile della Biblioteca Nazionale di Parigi, grandi un po' meno del vero, dànno modo d'intendere come fosse congegnato con pezzi di avorio massiccio un esemplare statuario di tipo medio, tale, cioè, da avere il viso senza giunture. Un frammento di testa arcaistica del British Museum (figura 2) rappresenta invece un esempio tardivo e di lavoro inferiore, con la faccia a tasselli. Nella statua vaticana la maschera era incassata nella capigliatura, o nel copricapo che aderiva alle vesti; in guisa analoga doveva essere collocato il collo, mentre le estremità erano connesse da perni quadrangolari e nelle loro singole parti e con il fusto di legno che faceva da supporto all'insieme. Quest'ultimo doveva essere una sorta di castello di travi negli esemplari colossali che richiedevano speciali adattamenti di tecnica: Luciano (Gall., 24) ne dà un'idea abbastanza chiara. Le parti eburnee, composte di pezzi molteplici, erano attaccate sul legno a mo' d'impiallacciatura. La rifinitura si eseguiva in opera per ottenere omogeneità di rilievo. Qualche scrittore greco di età romana (Plutarco, Dioscoride, Pausania) credette che l'avorio si potesse trattare come il corno di bue, allo scopo di stenderlo su larghe superficie, rendendolo plastico per mezzo del calore, ma l'esperienza lo nega. Per dar risalto alle varie porzioni auree si dovevano usare diversi modi di pulitura e forse anche di lega. Altre materie si aggiungevano nelle parti accessorie: lo scettro dello Zeus di Fidia era "colorato da ogni sorta di metalli" (Paus., V, 11, 1); nel trono l'oro e l'avorio erano arricchiti di pietre varie, di ebano e di pitture; dipinto, nella statua del Partenone, era l'interno dello scudo che, secondo l'uso d'allora, doveva imitare il fusto di legno foderato di cuoio. Gli occhi erano incassati con i peli delle ciglia in metallo, tecnica comune anche ai bronzi e ai marmi, che ha i suoi precedenti in Oriente; le sopracciglia erano dipinte, le labbra tinte con cinabro, di cui le tracce son chiare sull'avorio vaticano. I pezzi in oro erano scomponibih, e costituivano una riserva finanziaria dello stato e del santuario a cui il simulacro apparteneva, e se ne verificava periodicamente il peso. Il colosso di Atena, secondo Tucidide (II, conteneva di oro 40 talenti, poco più di una tonnellata, secondo il sistema euboico. Una statua com'era quella dei frammenti vaticani doveva approssimativamente costare 150 mila lire-oro, possibilità ben rara anche dopo l'arricchimento che seguì alle guerre persiane e che diede la spinta maggiore al lusso dei culti ellenici. Questo spiega l'uso di surrogati a minor prezzo. Anzitutto si fecero statue in cui l'avorio era completato da porzioni dorate, in legno o metallo; così era costruita una figura di Atena a Egina (Paus., VII, 26, 3): e tali si può creder che fossero il Bacco nel tesoro dei Selinuntini e l'Endimione in quello di Metaponto, a Olimpia, dei quali ci parla lo stesso scrittore (VI, 19, 10-11). In altre imitazioni le carni si fecero di marmo, patinato in modo da simulare la materia più costosa: una testa frammentaria del Museo Nazionale di Atene (fig. 3) ha conservato assai bene l'aspetto della superficie pseudo-eburnea, la preparazione dei capelli che erano dorati a foglia e gli occhi inseriti con la cornea in osso. Lavoro affine è quello delle figure di legno con parti coperte in oro, quali furono vedute da Pausania nel tesoro dei Megaresi. Nel periodo classico si fecero criselefantine soltanto statue di numi; eccezionalmente Filippo II di Macedonia dedicò in Olimpia cosiffatti ritratti statuarî di sé e della sua famiglia, opere di Leocare (Paus., V, 20,5). La tecnica fu praticata fino al periodo romano: Adriano dedicò lo Zeus nell'Olimpieo di Atene, di proporzioni colossali.
Con il progressivo decadere della Grecia, gl'imperatori devono aver trasferito a Roma una gran parte dei simulacri anche per sottrarli alle depredazioni degli abitanti immiseriti. Il Curiosum Urbis, compilato verso i tempi di Costantino, mostra che nella capitale c'era una settantina di dei eburnei. I due colossi di Fidia furono invece portati a Costantinopoli, dove andarono distrutti.
Si fecero anche sculture tutte in avorio, ben inteso su fusti lignei; Pausania ne menziona tre: un'Afrodite in Atene (I, 43,6), l'Atena Alea di Tegea, portata a Roma da Augusto (VIII, 46,2), e un'altra ad Alalcomene in Beozia (IX, 33,4). A questa produzione si può riferire il piede (fig. 6), che reca la figura del Nilo sulla linguetta del sandalo e sembra lavoro egizio del periodo tolemaico.
Bibl.: Quatremère de Quincy, Jupiter Olympien, Parigi 1815; C. Albizzati, Two ivory fragments of a statue of Athena, in Journal of hellenic studies, XXXVI (1916), p. 373 segg.; W. R. Lethaby, ibid., XXXVII (1917), p. 17; G. M. Richter, The sculpture and sculptors of the Greeks, New Haven 1929, p. 106.