Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La tendenziosità autocelebrativa delle corti signorili si prodiga nella creazione di apparati coreografici, balletti allegorici, spettacoli pantomimici che culminano nelle “favole” mitologico-pastorali. L’Orfeo del Poliziano promuove l’istituzionalizzazione del genere e solo sul finire del Quattrocento si registra il risveglio della commedia plautina, che dà segno di prenotarsi il futuro, verso un teatro rinascimentale orientato sulla prospettiva del Principe.
La teatralità autocelebrativa delle corti
Angelo Ambrogini, detto Poliziano
Prologo - Mercurio annunziatore della festa
Fabula di Orfeo
Mercurio annunziatore della festa.
Silenzio. Udite. E’ fu già un pastore
figliuol d’Apollo, chiamato Aristeo.
Costui amò con sì sfrenato ardore
Euridice, che moglie fu di Orfeo,
che sequendola un giorno per amore
fu cagion del suo caso acerbo e reo:
perché, fuggendo lei vicina all’acque,
una biscia la punse; e morta giacque.
Orfeo cantando all’Inferno la tolse,
ma non poté servar la legge data,
ché ’l poverel tra via drieto si volse
sì che di nuovo ella gli fu rubata:
però ma’ più amar donna non volse,
e dalle donne gli fu morte data.
La corte signorile svolge un controllo preminente su molti aspetti del costume culturale e collettivo, pertanto la teatralità quattrocentesca trova nelle feste di corte un’ampiezza di rispondenze che dalla seconda metà del secolo consolida i luoghi e la tecnica degli spettacoli, delle rappresentazioni, delle recite.
Il gusto cortigiano per figurazioni coreografiche, allegorie celebrative, balletti mitologici riflette con sempre maggiore insistenza la natura tendenzialmente teatrale delle corti: le feste, mentre ospitano la commedia, l’accompagnano con banchetti, danze, intermezzi musicali. Il pubblico cortigiano è attratto e gratificato proprio dalla spettacolarità di quegli apparati coreografici le cui allusioni mitologiche o allegoriche consentono al signore e alla sua cerchia un’eroica identificazione simbolica.
A Venezia il prestigio della Serenissima e delle grandi famiglie dogali viene rinnovato con fastose rappresentazioni, le momarie o pantomime mitologiche, rutilanti di sfarzosi costumi e accompagnate da musiche e canti. La signoria fiorentina nel 1467 provvede agli apparati che per l’Ascensione del Cristo visualizzano, con una cupola mobile, il monte e il Santo Sepolcro.
Fra le corti padane quella bolognese dei Pepoli nel 1475 allestisce a palazzo, in occasione d’una festa nuziale, la rappresentazione della Fabula di Cefalo e Procris, con tre personaggi parlanti a declamare la vicenda ovidiana della gelosa ninfa trafitta dallo stesso marito; l’infelice cacciatore Cefalo, da un palco sopraelevato – la selva – lamenta: “Se lassi me, convien che teco perra…”.
L’Orfeo di Poliziano: verso un modello drammaturgico in volgare
Nel 1480 la Fabula di Poliziano (1454-1494), inscenata a Mantova per il cardinale legato Francesco Gonzaga (1444-1483), conferisce dignità letteraria al pathos di queste occasionali azioni allegorico-mitologiche. Un’iniziale sequenza bucolica dialogizza tra i pastori l’amore di Aristeo per la ninfa Euridice; alla sua canzone Udite selve replica la supplica di Aristeo Ascolta o ninfa bella e mentre lei fugge per essere punta da una serpe appare Orfeo a celebrare il mecenatismo dei Gonzaga.
La sequenza eroica riprende il mito ovidiano della discesa agli inferi, alternando alle ottave liriche del cantore che lamenta la morte dell’amata quelle dialogiche fra Plutone e Minosse. Al volgersi dell’eroe, per guardare la donna prima d’aver raggiunto la luce, s’intrecciano le brevi strofe della Furia che li ostacola e quelle degli amanti disperati. L’esoterico proposito d’Orfeo di ripudiare il “femminil consorzio” scatena la sequenza bacchica che vede il banditore dell’omofilia straziato dalle menadi al suono di cimbali e tamburelli. Contemperando la tradizione del dramma satirico con i temi dell’egloga pastorale, l’Orfeo determina una svolta nella storia del teatro in volgare e crea un modello drammaturgico ove scenografia, musica, danza e recitazione sperimentano nuovi equilibri.
Verso il 1483 un anonimo manipolatore suddivide la favola di Orfeo nei cinque atti d’una Orphei tragoedia sottolineando i moduli tematici degli episodi con didascalie latine (I pastoricus, II nynphas habet, III heroicus, VI necromanticus, V bachanalis): è l’attestato d’una volontà di regolamentazione classica che opera anche con l’eliminazione d’ogni elemento comico dall’iniziale sequenza dei pastori. La tendenza prevalente va però in direzione contraria, giacché nella Ferrara di Ercole I (1431-1505), dove il cortile di palazzo viene attrezzato con un palcoscenico chiuso da “case merlate”, s’avvicenda l’allestimento dei Menaechmi in volgare con una riproposta in cinque atti della Fabula de Cefalo (1487). Ne è autore il gentiluomo Niccolò da Correggio, che nel prologo avverte d’aver aggiunto un lieto fine in cui Diana richiama Procri in vita “mutando in riso la plorata sorte”; e in aggiunta Cefalo, travestitosi da mercante, corrompe prima una servetta disponibile e tenta poi la fedeltà della moglie con una ciarlatanesca profferta di doni.
Il teatro delle corti padane: favole mitologiche e spettacoli plautini
A Firenze, nel maggio del 1488, la passione filologica di Poliziano consente un’accurata recita dei Menaechmi, ma sono soprattutto i signori delle corti padane a mettere ormai in gioco il loro prestigio politico-culturale affidandolo allo sfarzo, alle musiche e alla spettacolarità delle rappresentazioni: se nel 1493 il duca Ercole d’Este manda in trasferta a Pavia i suoi commedianti con gli spettacoli plautini di cui mena vanto, a Milano, nel gennaio del 1496, Ludovico il Moro assiste alla Danae di Baldassar Taccone; la favola mitologica della bella vergine sedotta da Giove nella sua torre irraggiungibile sbalordisce il pubblico con le prodigiose macchine sceniche e gli effetti luminosi escogitati da Leonardo da Vinci. Quasi a vanto di un’autonoma tradizione milanese Gasparo Visconti, consigliere del Moro, propone con i cinque atti della sua Pasitea un’ibridazione della favola mitologica con la commedia classica, sviluppando il tema ovidiano della coppia innamorata Piramo-Tisbe sul motivo comico del padre avaro e sui miracolosi interventi di Apollo.
A compiacere il duca estense provvede invece Matteo Maria Boiardo con una Comedìa di Timone estrapolata dai dialoghi di Luciano (120 ca. - ?). Come nelle sacre rappresentazioni l’azione, tutta dialogizzata in terzine, si sposta alternativamente dal proscenio, ove Timone zappa la terra sterile lamentando gli eccessi di prodigalità o di avarizia degli uomini, su in cielo, dove Giove appare fra cortine di nuvole a commentare le vicende con Mercurio. La favola mitologica si trasforma così in ironica allegoria umanistica, la cui matrice celebrativa si carica d’allusioni a un ethos cortese e gentilizio della ricchezza.
Sullo scorcio del secolo, nella cerchia cittadina e signorile della corte, il teatro in volgare delle favole mitologiche provoca una crisi progressiva della commedia latina, nonostante la cultura umanistica avesse assunto il modulo classico e il suo registro stilistico a cifra della propria dignità. Questa volontà d’autocelebrazione da una parte configura la corte come teatro – spazio dell’etichetta cortigiana e luogo d’un potere trionfante o ominoso –, dall’altra assegna al suo teatro profano la funzione d’un ideologico instrumentum regni. Ma proprio il consistente fantasma dello schema plautino-terenziano avrebbe garantito il futuro della commedia cinquecentesca con la sua capacità di accogliere nel gioco comico-avventuroso sia le suggestioni di vicende allegorico-morali, sia le situazioni topiche della novellistica, sia le velate allusioni all’attualità.
Lo sguardo del principe, la prospettiva, lo spazio teatrale
Elevando il mito della classicità a paradigma perfetto in tutte le forme artistiche, lo spirito di competitiva emulazione della cultura rinascimentale e della civiltà di corte si confronta con l’allestimento dei testi e comincia a identificare nei cortili e nei grandi saloni signorili i luoghi designati allo spettacolo profano, luoghi ove modulare anche architettonicamente una zona riservata al pubblico di contro a una zona della finzione circoscritta al palcoscenico.
Nella fase ancora pragmatica degli allestimenti scenici, che precede il ripristino del teatro come edificio monumentale all’interno del tessuto urbano, le tipologie strutturali vengono messe a punto dal vitruviano De re aedificatoria (1452) di Leon Battista Alberti e dal trattatello Spectacula, composto negli ultimi decenni del secolo da Pellegrino Prisciani, astrologo e bibliotecario della corte ferrarese.
Se nella dimensione teatrale della corte i cortigiani devono muoversi e agire assecondando lo sguardo del principe, analogamente l’architettura teatrale imposta la visione prospettica sull’occhio del principe: al suo sguardo sovrano – al suo interessato o ironico benestare ideologico – sottomette le vicende comiche o tragiche d’un compiuto microcosmo a lui soggetto.
Ma il teatro, momento e luogo d’illusione, può pretendere anche da lui, in virtù della sua fantastica o utopica coerenza/incoerenza, un sovrappiù di verità rispetto al mondo empirico. Attraverso l’illusione predisposta dal signore a se stesso e alla sua corte, tornano a filtrare, a dispetto di ogni strettoia ideologica, le originarie motivazioni e pulsioni, le istanze esistenziali, del fare/fruire lo spettacolo teatrale. Il dispositivo di rappresentazione che la Rinascenza recupererà nel corso del Cinquecento, riedificando lo stesso edificio materiale del teatro, comporterà il lascito complesso – e mai definitivamente consumato – di recitare un empirico soggetto umano diviso tra l’arrabattarsi della realtà e le istanze ideologiche, tra le utopie dell’ordine simbolico/gerarchico e le incongruenze del quotidiano.