taoismo
Indirizzo filosofico e religione soteriologica della Cina; il dao («via, retto cammino»), concetto centrale di tutto il pensiero cinese, è però articolato dai cinesi in dao jia e dao jiao. Il dao jia («scuola del dao») indica la filosofia taoista legata ai nomi di Yang Zhu, Lao Zi (probabilmente inizio 4° sec. a.C.), Zhuang Zi (369-286 a.C.) e Lie Zi (3° sec. a.C.) ed espressa soprattutto nel Daodejing, prima scrittura taoista da noi conosciuta e tradizionalmente attribuita a Lao Zi, nel Zhuangzi (attribuite non solo al maestro, ma anche ai suoi discepoli e forse a due commentatori dell’età Han) e nel Liezi (che prende nome dal semileggendario filosofo e il cui cap. 17 è dedicato a Yang Zhu); il t. filosofico è collocato all’ultimo posto nella rassegna delle sei scuole (jia) contenuta nelle Shiji («Memorie storiche») di Sima Qian (2°-1° sec. a.C.). Il dao jiao («dottrina del dao») è il t. religioso che, così come è noto soprattutto nell’era degli Han (206 a.C.-220 d.C.) e nel periodo che va dal 3° al 6° sec. (età delle Sei dinastie), si presenta innanzitutto (se non soltanto) come sistema di dottrina e prassi volto al conseguimento dell’immortalità individuale mediante una graduale presa di possesso del proprio organismo fino all’enucleazione interna di un «corpo alchemico» non soggetto a decadenza. Le tecniche ascetico-magiche impiegate a questo scopo e le basi dottrinarie che le sottendono ricollegano per più di un aspetto il t. religioso a quanto di magico e di occultistico vi è nello Yinyang jia («scuola dello yinyang»). L’essenziale della metafisica di Lao Zi e di Zhuang Zi è sostanzialmente identico nel concepire il dao come principio assoluto e indefinibile, che si sottrae alle stesse predicabilità primarie dell’«essere» e del «non essere» e che dà luogo al mondo delle esistenze mediante un processo inattivo consistente in un «agire (wei) del non agire (wuwei)», e il wei wuwei come norma del cosmo. Sul piano della prassi umana il wei wuwei è prescritto quale norma suprema del comportamento individuale e collettivo; gli individui che hanno in sé la «potenza» (de) del dao devono adeguare la loro vita operativa al de, al fine di essere totalmente immessi nel processo naturale dell’Assoluto. Di qui la posizione negativa del t. rispetto a tutto ciò che è «cultura», nel senso elementare di intervento e creatività umana sulla natura, e la riduzione della cultura ad artificio e che è all’origine della sofferenza. Colui che vive secondo il de non prende iniziative, non introduce novità, tende a ridurre la memoria storica che, comportando una strutturazione del tempo, ostacola il fluire all’unisono con il tempo vissuto ecc. Allo stesso modo, sul piano politico, il governare deve quanto più può limitarsi, tendendo costantemente al non governare, e con ciò la posizione taoista si manifesta come l’antitesi autenticamente cinese al confucianesimo, preparatoria dell’avvento e dell’accoglimento del buddhismo in Cina. Questo insieme di norme pratiche, che si risolve in un’indicazione generale a «fuggire la storia», costituisce l’aspetto che si può chiamare «vulgato» del t., valido per tutti, ma che nei suoi tratti, sia pure elementari, contiene le condizioni primarie degli aspetti che divengono manifesti nella dottrina propriamente mistica dei maestri taoisti, cioè l’insegnamento della via che conduce all’annullamento del «sé» nell’unione col dao, un’acquisizione dell’Assoluto che si ottiene direttamente e intuitivamente, senza il concorso di alcuna scienza (Zhuangzi, 12, 13, 22, 23). Il carattere di filosofia mistica connaturale al t. è stato talora messo in ombra rispetto al lato propriamente logico-metafisico e a quanto, come è detto sopra, veniva indicato quale norma di comportamento generale sul piano etico-pratico, come se all’origine il t. fosse consistito in una filosofia della «fuga dal mondo» e del «vivi nascosto». Di fatto, questa posizione rispecchia la teoria genetica del t., formulata non senza motivazione polemica dalla tradizione confuciana, che ha collocato alle sue origini coloro che si davano all’eremitaggio per sottrarsi alle dure condizioni della vita associata nei periodi più disastrosi della storia della Cina antica, e che pone quale primo filosofo del t. Yang Zhu, assertore di una condotta basata unicamente sulla tutela della persona fisica individuale. In realtà la concezione taoista così come appare dal Daodejing non solo non necessita, come è stato osservato, di un precedente quale la filosofia di Yang Zhu, ma non ne può essere in alcun modo nemmeno uno sviluppo, muovendo i propri interessi su un piano del tutto diverso. Il dao jiao, che secondo la distinzione cinese indica il t. come «religione», non nega implicitamente, secondo quanto si è detto, il carattere religioso al misticismo filosofico del dao jia, ma può essere accolto come espressione che sottolinea il fatto di avere gli aspetti di alcune religioni: costituzione in chiesa, un sacerdozio gerarchico, un calendario religioso ecc. Per lungo tempo però, e la cosa si può constatare ancora oggi in manuali e repertori di data attuale o recente, non solo questa distinzione è stata intesa in maniera radicale, ma la religione taoista è stata considerata quale scadimento e dissoluzione del t. filosofico nel piano della magia, dell’occultismo popolare, delle più rozze manipolazioni del sacro, subendo una vicenda analoga a quella avuta dagli indirizzi tantrici nella storia del buddhismo. In realtà, a un’indagine che abbia familiarità col piano generale della storia delle religioni e che quindi non annetta alcun significato negativo a fenomeni religiosi quali la magia, le pratiche occulte ed esoteriche, la valorizzazione delle esperienze «popolari» del divino, e che sia più attenta nella lettura delle testimonianze salienti del t. «filosofico», la presunta opposizione tra quest’ultimo e il t. come religione appare estremamente ridotta se non inesistente.