Tanto gentile e tanto onesta pare
Sonetto della Vita Nuova (XXVI 5-7), su schema abba abba; cde edc, presente, oltre che nella tradizione ‛ organica ' del libro e delle sue rime (e nella Giuntina del 1527), anche in quella ‛ estravagante ' che fa capo all'Escorialense e III 23, con varianti (credo che sia, v. 7; che fier per gli occhi, v. 10, ecc.) probabilmente di autore, secondo D. De Robertis, e attestanti una " accentuazione più concitata " e più vicina al gusto cavalcantiano.
Altre concordanze con liriche del Cavalcanti sono state indicate dagl'interpreti, non tanto per stabilire precise influenze, quanto per sottolineare la comune ricerca tematico-espressiva dei due poeti; ad esempio con Posso degli occhi miei novella dire e Veggio negli occhi de la donna mia, ove si trovano immagini e stilemi affini a quelli del presente sonetto (" gentile ", " salute ", " dolcezza ", " piacere ", oltre all'ipostasi dello " spirito " d'amore e al motivo dell'ineffabilità e del " sospiro "); e anche con Chi è questa che vèn ch'ogn'om la mira, dove identica è la disposizione delle rime nelle terzine, segnanti come un ritorno della sirma su sé stessa.
Nella Vita Nuova il sonetto è posto (insieme con Vede perfettamente onne salute, XXVI 10-13) dopo la canzone Donna pietosa (XXIII), il sonetto Io mi senti' svegliar (XXIV) e la dichiarazione di poetica (XXV), con calcolata disposizione strategica. La ripresa, che è anche conclusione, della lode di Beatrice viva (volendo ripigliare lo stilo de la sua loda, XXV 4) avviene, infatti, a una svolta significativa del libro: e cioè dopo la canzone della morte e trasfigurazione dell'amata (che coglie il significato assoluto di una vita e, insieme, di un'esperienza di amore), dopo il confronto conclusivo con la poesia cavalcantiana, nel quale il ‛ tòpos ' cortese della gara e del superamento è approfondito in direzione gnoseologica e ontologica, e, infine, dopo il riconoscimento dell'uguale dignità di rimatori in volgare e poetae latini (XXV 4 e 6), congiunto con la liquidazione della prosopopea tradizionale d'Amore, che è riconoscimento implicito di una ritrovata fede, etica e conoscitiva prima ancora che estetica, nell'oggetto poetico.
La prosa accompagna la lirica con una vaga modulazione sacrale: Questa gentilissima donna... venne in tanta grazia de le genti, che quando passava per via, le persone correano per vedere lei... Ella coronata e vestita d'umilitade s'andava... Diceano molti... " Questa... è uno de li bellissimi angeli del cielo " (§§ 1-2). Qui, certo, si avvertono echi della contemporanea letteratura agiografica, ma come metafora, o meglio, come transumptio in laudem, consonanti con l'ispirazione del testo poetico in quanto ne sottolineano l'atmosfera di coralità e di compartecipazione, nella quale il sentimento individuale si esalta nella fruizione comune, nel comune riconoscimento di un valore oggettivo e beatificante.
Nel sonetto, espressione di un mito d'amore che da ‛ passione ' si sublima in ‛ visione ', il poeta non delinea un ritratto di Beatrice, ma si propone di raffigurare le sue mirabili ed eccellenti operazioni (§ 4): un agire attraverso il quale si delinea un'essenza. Da un lato è Beatrice che pare, ossia, come traduce giustamente il Contini, " appare evidentemente " o " si manifesta nella sua evidenza "; e questa parola tematica, ricorrente all'inizio di ciascuno dei quattro membri metrico-sintattici del sonetto, introduce un discorso inteso a " enunciare quasi teoricamente un'incarnazione di cose celesti " (e par che sia una cosa venuta / da cielo in terra a miracol mostrare, vv. 7-8); dall'altro il tremore, l'ineffabile dolcezza che pervade l'animo del contemplante dinanzi a quella apparizione-rivelazione. E l'ultima parola del sonetto - Sospira - esprime il senso d'indefinita e trepida nostalgia suscitata dal dispiegarsi di una creaturale bellezza sentita come manifestatio di un'altissima perfezione spirituale. Ma la bellezza fisica è figurativamente assente: nell'atmosfera di contemplazione assorta si stagliano, impalpabili e senza peso, i gesti di Beatrice (pare, saluta, si va, par, mostrasi, dà... dolcezza, par, va dicendo), in situazione anche sintatticamente privilegiata, posti, come sono, in una principale o coordinata di essa; mentre la reazione del contemplante è espressa in subordinate e, per così dire, in forma negativa: la lingua che diventa muta, gli occhi che non ardiscono di guardare, la dolcezza non esprimibile, il sospiro che è un confessarsi vinti, soverchiati. Anche il prevalente schema sintattico della consecutiva sottolinea il continuo raffronto fra una perfezione sovrumana e l'umiltà di chi la recepisce come un miracolo di vivo, immoto splendore, in una statica fissità di testimonianza.
Attributi dominanti di Beatrice sono gentilezza, onestà, umiltà: tre termini chiave, com'è noto, di tutta la poesia della lode. Il primo indica nobiltà interiore e spiritualità eletta; il secondo l'atteggiarsi sensibile di questa negli atti; il terzo la grazia serena dei modi e dell'animo, la mitezza e la benevolenza opposte a superbia e ira, culminanti nell'intima dolcezza che è anche dispo nibilità all'amore, inteso, di là dall'effimero incanto del senso, nella sua vera dimensione ontologica, cioè come compartecipazione della persona all'ordinata armonia dell'essere.
Al costituirsi dei significati contribuisce armonicamente la strutturazione melodica del testo. Essa si fonda sul perfetto bilanciarsi dei quattro periodi strofici, coincidenti ciascuno con un periodo sintattico concluso, sì che la contemplazione appare pausata su quattro tempi distinti e, insieme, fusi, con un pacato svolgersi di successive e cospiranti certezze. La linearità metrico-sintattica è ribadita dal fatto che anche ogni colon o verso è semanticamente concluso, ove si escludano gli enjambements dei vv. 1-2 e 7-8, denotanti, il primo, l'intima e raccolta dolcezza di un possesso che è, in realtà, fedeltà e dedizione (pare / la donna mia), il secondo, un movimento di climax nella direzione di un'affermazione estatica totale. Tra la fronte e la sirma un artificio simile a quello delle coblas capfinidas (mostrare / Mostrasi) stabilisce una continuità melodica che sottolinea la complementarità dei due momenti dello svolgimento metrico e discorsivo. Le rime, poco rilevate semanticamente, sono per lo più verbali; vi si può tuttavia intravedere la predilezione per i vocabula pexa, trisillabi o vicini alla misura trisillabica, privi di gruppi consonantici e di ogni asprezza di pronuncia (VE II VII 5). Un'ideale misura ternaria è evidente quasi in ogni verso, in quella che il Contini ha definito come " presenza di tre forti accenti logici ", ma che si potrebbe anche considerare come una triplice pausazione, prima melodica che semantica (anche se i due aspetti sono ovviamente interrelati). Essa determina una sorta di cadenza ritmica sospesa, che sembra congiungere alla parola nitidamente scandita l'eco di una sua intima risonanza meditativa e affettiva nell'animo.
In conclusione il sonetto è una delle attuazioni più felici dello stile ‛ dolce ' di D., intermedio fra la linearità protesa a un impeto d'inno di Donne ch'avete (Vn XIX) e la tenerezza struggente e un po' morbida di Sì lungiamente (Vn XXVII), che si prolunga in altre liriche posteriori, come, ad esempio, nella quarta stanza di Li occhi dolenti (Vn XXXI).
Bibl. - Oltre ai commenti alla Vita Nuova e a Barbi-Maggini, Rime 110-112, cfr. G. Salvadori, Sulla vita giovanile di D., Roma 1906, 61-81, 83-89; A. Marigo, Mistica e scienza nella Vita Nuova di D., Padova 1914, 59-60; E. Auerbach, D. als Dichter der irdischen Welt, Berlino-Lipsia 1929, traduz. ital. Studi su D., Milano 1963, 27-31; G. Contini, Esercizio d'interpretazione sopra un sonetto di D., in " L'immagine " V (1947) 289-295 (rist. in Varianti e altra linguistica, Torino 1970, 161-168); D. De Robertis, Il canzoniere Escorialense e la tradizione " veneziana " delle rime dello Stil novo, in " Giorn. stor. " suppl. 27, Torino 1954, 42; ID., Il libro della " Vita Nuova ", Firenze 1961 (1970²), 179-184; M. Fubini, Metrica e poesia, Milano 1962 (1970²), 139-147; V. Branca, Poetica del rinnovamento e tradizione agiografica nella Vita Nuova, in Studi in onore di I. Siciliano, I, Firenze 1966, 123-148 (cfr. 140-142); Dante's Lyric Poetry, a c. di K. Foster e P. Boyde, II, Oxford 1967, 123-125.